sabato 27 settembre 2014

Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua





Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: "Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai". Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: "Va' dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!".

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? Perché il Figlio dell'uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni» (Mt. 16,21-27).



Questo bellissimo brano del Vangelo di Matteo a dir la verità si rivela una Parola di grandissima attualità.

L’episodio in questione riporta un fondamentale dialogo, anche molto forte, tra Gesù e Pietro, innescato da una spiegazione precauzionale fornita da Gesù stesso ai proprî discepoli in merito a eventi riguardanti la sua stessa persona. Egli li mette confidenzialmente a parte di ciò che, di li a poco, gli toccherà di subìre: cioè di dover soffrire per opera degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, di essere ucciso e successivamente di risorgere il terzo giorno. Una tale rivelazione coglie in contropiede Pietro, il quale nella più perfetta buona fede e con un atteggiamento immediato di dedizione al Signore, gli ribatte «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». La reazione di Gesù a questa affermazione di Pietro piena di sollecitudine è, a dir poco, sorprendente: «Va' dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». Gesù stigmatizza la presa di posizione di Pietro, rifiuta la sua preoccupazione pienamente umana per la propria sorte, anzi la definisce come un atteggiamento di origine demoniaca, perché espressione di un modo di pensare, tipico degli uomini, ma estraneo alla logica di Dio.

Il brano, a ben vedere, presenta una singolare analogia con un altro testo evangelico, che incontriamo nel racconto della passione del Vangelo di Giovanni (Gv. 18,11-12), dove Gesù ferma con decisione Pietro che con prontezza cerca di reagire con violenza all’ingiusto arresto di Gesù che il manipolo di armati, guidati da Giuda, tentavano di porre in atto.


«Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l'orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: "Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?"» (Gv. 18,11-12).


Sia nell’uno che nell’altro caso, Gesù interviene con decisione e fermezza per indicarci qual è il tipo di comportamento che reca i segni della logica di Dio. Nelle due occasioni viene con chiarezza escluso il comportamento che, secondo la logica umana, viene considerato il più giusto.

Nell’episodio dell’arresto, Gesù ferma immediatamente la reazione violenta di Pietro, perché sceglie di bere il calice datogli dal Padre e, dunque, opta per una condotta non-violenta. Nell’episodio che invece stiamo considerando, Gesù, che pur nutriva (come mostrato in tanti brani dei Vangeli) per Pietro un profondo affetto e una grande amicizia, non esita ad apostrofare Pietro con l’appellativo di “Satana”, espressione questa che nel linguaggio delle Scritture ebraiche e cristiane riveste un carattere di durezza estrema, che Gesù non utilizza di certo a caso. Anzi! Ne fornisce immediatamente la motivazione: l’atteggiamento proposto da Pietro costituisce un “pensare secondo gli uomini” e non un “pensare secondo Dio”. È questa l’indicazione che, nel suo dialogo con Pietro, Gesù ci fornisce: egli c’invita a “pensare secondo Dio” e a distinguerlo attentamente da ciò che non è altro che un pensare secondo gli uomini, che in apparenza può anche apparire legittimo e giusto. È necessario, perciò, un accorto discernimento.

E su quest’aspetto, dal canto suo, ha fornito un mirabile approfondimento anche l’apostolo Paolo che c’insegna porprio a discernere l’autentica sapienza cristiana che, secondo l’ordinario pensare umano può apparire “scandalo” o “stoltezza” (1Cor. 1,17-25).  


«Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli cha vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:

Distruggerò la sapienza dei sapienti

e annullerò l'intelligenza degli intelligenti.

Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1Cor. 1,17-25).


La “croce” è dunque l’autentica sapienza cristiana. Seguìre Gesù, vuol dire dunque per ciascuno di noi “rimettere la spada nel fodero” e scegliere “di prendere la propria croce e d’incamminarci sulle sue orme” e accettare di “bere il calice”. Certo, anche noi, come Gesù stesso, possiamo dire: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!» (Lc. 22,42a), ma dobbiamo essere seriamente consapevoli che la volontà da realizzare è quella di Dio e non la nostra («tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» - Lc. 22,42b).

Il brano, nel suo complesso, ci pone in guardia dalla “volontà” e dalla “sapienza” umane, che, in apparenza, possono apparire accattivanti e finanche “giuste”. La logica di Dio è diversa, dobbiamo imparare a riconoscerla, accettarla e presentarla agli uomini e alle donne del nostro tempo. La realtà  della vita e della storia su questo terreno rinnova a ogni piè sospinto la propria sfida, che si configura come una vera ‘e propria cartina di tornasole che testa l’autenticità del nostro seguìre Gesù.

In questi mesi è all’ordine del giorno la sfida proposta dalle brigate dell’Isis, che nell’area mediorientale dell’Iraq e della Siria, stanno ponendo in atto azioni drammaticamente violente anche contro le locali comunità cristiane. Azioni presentate, per altro, come iniziative esplicitamente contrapposte al messaggio cristiano.

Di fronte a sfide di tale drammaticità, può a prima vista apparire legittimo un “rendere pan per focaccia”, semmai ricorrendo a bombardamenti, a uso di truppe di terra e quant’altro utile a tale scopo. Ma, se rileggiamo con attenzione il brano che stiamo meditando, è proprio quest’atteggiamento che Gesù, in persona, definisce “demoniaco”, perché lontano dalla logica di Dio. Certo è necessario intervenire, e intervenire davvero e generosamente, in soccorso delle vittime e anche proclamare con chiarezza e forza le loro ragioni e le ragioni della pace. Ma questa è una missione da compiere rigorosamente “tenendo le spade nel fodero”, rifuggendo dalle lusinghe mediatiche dei “sottili ragionatori di questo mondo” che, in nome della pace e della difesa dei diritti umani, potrebbero in effetti avere a cuore solo gli interessi dei costruttori d’armi e delle loro lobbies di potere.



Vico Equense, sabato 27 settembre 2014

Sergio Sbragia

domenica 21 settembre 2014

La parabola del buon imprenditore





«In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: “Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella vigna. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”» (Mt. 20,1-16).

Nella liturgia domenicale di oggi abbiamo avuto il dono di ascoltare la Parola del Signore contenuta in questo brano del Vangelo di Matteo, che è tradizionalmente più conosciuto come la “Parabola degli operai inviati a lavorare nella vigna”. Tale denominazione, pur essendo rappresentativa del testo, in realtà, non pone in evidenza a sufficienza la centralità di una figura molto originale che incontriamo al suo interno, quella di un molto singolare “padrone di casa”, che in linguaggio odierno potremmo senz’altro definire un imprenditore.
Gesù per descrivere la realtà del Regno dei cieli, richiama l’immagine di un padrone di casa che per provvedere allo svolgimento dei lavori necessarî nella sua vigna, nel corso di una giornata esce ben cinque volte (all’alba, alle nove del mattino, intorno a mezzogiorno, alle tre e alle cinque del pomeriggio) per reclutare lavoratori. Il suo comportamento appare decisamente singolare: il compenso riconosciuto ai varî gruppi di lavoratori appare del tutto slegato da una valutazione quantitativa della prestazione lavorativa. Il compenso è infatti uguale per tutti, sia per quelli che hanno lavorato per l’intera giornata, sia per gli altri gruppi che hanno lavorato per un arco di tempo via via minore. Non solo! Il testo, nel riferire delle quattro azioni di reclutamento successive alla prima, attraverso la rappresentazione delle scene e la proposizione di dialoghi molto significativi, pone in evidenza degli aspetti, sui quali spesso non ci soffermiamo a sufficienza.
Alla sua uscita fatta intorno alle nove del mattino, il padrone di casa «vide altri [lavoratori] che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò».        
Nella descrizione di questo secondo momento di reclutamento è opportuno prestare attenzione a due elementi: il primo è la particolare enfasi posta dal narratore sulla condizione di “disoccupati” delle persone in attesa di essere reclutate per un lavoro; il secondo è la dichiarazione che il compenso loro spettante sarà stabilito sulla base di un criterio di giustizia («quello che è giusto ve lo darò»).
La terza e la quarta chiamata al lavoro sono riferite dal narratore in forma stringata e sintetica: «Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto».
Più circostanziata è la presentazione della quinta e ultima convocazione, avvenuta intorno alle cinque del pomeriggio «ne vide altri [lavoratori] che se ne stavano lì e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella vigna».
Anche in quest’ultima sequenza viene posta in evidenza la condizione delle persone non reclutate per alcun lavoro, prima in forma implicita da parte del narratore «se ne stavano lì», poi in forma esplicita nel successivo dialogo. Il padrone chiede loro «perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». Egli si meraviglia che a quell’ora tarda (le cinque del pomeriggio) quelle persone non siano riuscite a essere operative per una qualsiasi attività e se ne chiede la ragione. Gli uomini disoccupati ne dichiarano sùbito il motivo: «perché nessuno ci ha presi a giornata». Immediatamente il padrone di casa, fa proprio il dramma di quegli uomini, con generosità, ben sapendo che alle cinque del pomeriggio anche nella buona stagione le ore utili per il lavoro sarebbero state ben poche, formula il suo invito accogliente «andate anche voi nella vigna».
Dal resoconto delle cinque azioni di reclutamento emerge, a mio avviso, un elemento di fondo. Gesù per descrivere la logica del Regno dei cieli fa riferimento a una realtà quale quella del “lavoro”, che presenta come una prerogativa fondamentale della persona umana. Questo è rilevabile sia dalle manifestazione implicita ed esplicita di compassione, sollecitudine e solidarietà rivolta verso quanti, nonostante l’ora inoltrata del giorno, non erano riusciti ancora a trovare un’occupazione, sia dal comportamento materiale del padrone di casa, che evita accuratamente di considerare il “lavoro umano” alla stregua di una mera merce materiale e tiene a sottolineare che questa sua scelta è ispirata a un alto criterio di giustizia («quello che è giusto ve lo darò»). Eppure è alquanto realistico pensare che nella Palestina dell’epoca di Gesù i padroni di casa, ordinariamente, fossero persone attente all’economia della casa, alle spese, ai costi, alla quantità della produzione, ma anche alla “qualità” di quest’ultima. Questo buon padrone di casa rifugge da un atteggiamento di spilorceria, che poteva agevolmente tradursi in un compenso proporzionato alle ore effettivamente lavorate. Sceglie di non considerare il lavoro come una qualunque “merce”, preferisce considerarlo un valore, una ricchezza, una risorsa (oggi diremmo una “risorsa immateriale strategica”), un tesoro da far fruttare, indirizzando sapientemente le conoscenze, le capacità, le abilità, l’inventiva, la fantasia e anche l’attaccamento dei lavoratori verso il bene della propria casa (oggi diremmo della propria impresa).
Se proseguiamo poi nella lettura del brano scopriamo ancora altro. Al momento di erogare a tutti i lavoratori il compenso spettante, sceglie, sulla base di un criterio di giustizia, di riconoscere a tutti lo stesso importo della paga: quello pattuito con i lavoratori della prima ora. Non viene meno a quanto contrattualmente loro riconosciuto, non limita i loro diritti, ma estende il loro diritto anche agli altri, a quanti per molte ore erano rimaste escluse dal lavoro,  ai più deboli, ai precari, ai meno garantiti. E definisce con chiarezza che quest’ultimo è un comportamento “buono”. L’insegnamento è chiaro: l’uguaglianza si consegue non riducendo i diritti di alcuni, ma consentendo anche ad altri di poter godere degli stessi diritti.
Il testo evangelico della celebrazione eucaristica di oggi manifesta invero un’impressionante attualità, in questo momento in cui è di attualità parlare di “riforma del mercato del lavoro”. Prima di accingersi a un’iniziativa di tale portata che rischia di valutare la realtà del lavoro umano come una mera merce materiale, sarebbe opportuno leggere e meditare con serietà l’odierno brano evangelico, che oltre a costituire una pagina eccelsa di presentazione del piano della salvezza, è anche una sapiente lezione di management imprenditoriale e di politica economica.

Sergio Sbragia
Vico Equense, lì 21 settembre 2014