domenica 30 giugno 2013

L'economia finanziaria globalizzata affama i popoli : la risposta è: "globalizzare la protesta"!




L'economia finanziaria globalizzata affama i popoli : la risposta è: "globalizzare la protesta"!

La protesta dei popoli del Brasile, della Grecia e della Turchia è anche la nostra protesta.
Solo se riempiremo le piazze di tutto il mondo, facendo sentire la voce e le ragioni di chi lavora e di chi è povero, sarà possibile sconfiggere il potere delle multinazionali e del capitalismo finanziario, e imporre un'economia solidale, sostenibile e rispettosa dei diritti umani.
Alla globalizzazione finanziaria rispondiamo con la globalizzazione della protesta.

In queste ultime settimane giungono da più parti notizie del diffondersi di proteste, che rivendicano il rispetto di fondamentali diritti umani e di libertà e affermano l’aspirazione sacrosanta a condizioni di vita dignitosa.
In Turchia tiene banco una protesta non violenta, ferma e dignitosa contro decisioni antidemocratiche e autoritarie operate dal governo Erdogan. Una protesta che possiede insospettabili ragioni di consenso e una grande capacità di resistenza alle manovre d’intimidazione e repressione. Assume inoltre anche particolare rilevo per il suo verificarsi in un paese appartenente al mondo islamico dove non è certamente agevole promuovere una cultura dei diritti.
In Brasile si afferma un vero ‘e proprio movimento di massa che contesta lo svolgimento di manifestazioni sportive, mentre s’ignorano esigenze fondamentali delle popolazioni. Di qui il moltiplicarsi di episodî di protesta in un paese immenso, che non ha timore di puntare il dito su quello che in Brasile costituisce un autentico mito, il calcio.   
In Grecia i lavoratori hanno posto in essere una lunga serie di iniziative di lotta contro i provvedimenti finanziari, imposti dall’Europa, che esigono il pagamento del “conto della spesa” esclusivamente dai ceti deboli e dalle forze del mondo del lavoro.
Queste esperienze di lotta si aggiungono ai moti popolari che hanno portato alla caduta di alcuni regimi sulla sponda meridionale del Mediterraneo, basti pensare ai casi della Tunisia e dell’Egitto. In quest’ultimo paese, per altro, sembra aprirsi un nuovo scenario di lotta, che pone in discussione l’assetto di potere che si è determinato nel post-Mubarak.
Il moltiplicarsi di questi fenomeni di protesta popolare contro le politiche di gestione del potere e dell’economia è, a mio avviso, uno degli elementi di speranza che è oggi possibile rinvenire sullo scenario internazionale. Potrebbe, in realtà, assurgere a vero ‘e proprio «segno dei tempi» se riuscirà ad acquisire la consistenza e lo spessore necessarî per andare oltre il carattere di episodio passeggero.
Non ignoro che la moltiplicazione delle proteste contro l’ottusità politica dei poteri costituiti, sia certamente anche il segnale dell’incrudelirsi della crisi economica e delle pesanti conseguenze che essa sta avendo sulle concrete condizioni di vita delle popolazioni in tutto il pianeta. I lineamenti drammatici della crisi non devono tuttavia impedirci di guardarla in faccia con realismo e coraggio, per capire le sue cause e per individuare le strade più adatte per contrastarla e per far sì che le sue conseguenze non siano scaricate sui poveri, sui lavoratori, e su quanti, in sintesi, sono senza potere.
Un primo elemento di riflessione riguarda, senza dubbio, i fenomeni d’internazionalizzazione dell’economia degli ultimi decennî, quelli che usiamo definire come “globalizzazione”, che sono ampiamente caratterizzati da una sempre maggiore prevalenza degli aspetti finanziarî rispetto a quelli produttivi. Questo processo. sostanzialmente selvaggio, che nessun potere né istituzione internazionale si propone nemmeno alla lontana di regolamentare, pone quotidianamente in campo meccanismi automatici di concentrazione di ricchezza in poche, pochissime mani, che alla fine distolgono masse sempre maggiori di risorse da impieghi produttivi.
Di qui anche la sperimentata e sostanziale impotenza delle lotte condotte in questi decennî dai movimenti dei lavoratori e dalle organizzazioni sindacali nei varî paesi. Iniziative, certamente nobili e programmate con le migliori intenzioni, che tuttavia si sono dimostrate in genere perdenti, perché ritagliate di fatto entro gli ormai ristretti àmbiti nazionali, àmbiti che i poteri delle concentrazioni finanziarie, invece, travalicano senza colpo ferire. Questo ha innescato processi di sfiducia e rassegnazione, che hanno finito per contrassegnare con i colori dell’ineluttabilità i processi di concentrazione finanziaria.
Eppure nel lontano aprile 1972, all’11° Congresso nazionale delle ACLI, ebbi modo di ascoltare un  intervento profetico di Emilio Màspero, allora segretario della Confederazione Latino Americana dei Lavoratori, che operò una lucida analisi del potere capitalistico inteso come un organismo ramificato con  tentacoli in tutto il mondo, ma con la testa nei centri del potere finanziario occidentale. E che questa caratteristica del capitalismo finanziario richiedeva al movimento dei lavoratori la capacità di dar vita a forme di lotta a dimensione mondiale, costruendo concrete solidarietà tra i lavoratori e le classi povere del nord e del sud del mondo. Questa prospettiva che già allora aveva un grande valore, oggi è, a mio parere, la strada obbligata per ridare voce ai poveri e ai lavoratori e per garantire al pianeta uno sviluppo solidale e sostenibile.
Da allora i movimenti sindacali e dei lavoratori, al di là di alcune iniziative sostanzialmente rituali, non sono riusciti a fare molto in questa direzione. Anche gli stessi appuntamenti dei Social Forum Mondiali, che pur hanno perseverato con forza in questa direzione, non sono sinora riusciti a operare mobilitazioni di grandi dimensioni.
Penso che oggi, il fiorire di tante iniziative di protesta possa essere l’alba di una nuova stagione nella quale costruire concrete solidarietà transnazionali e transcontinentali. Un’iniziativa democratica internazionale sarebbe per altro un grande deterrente sul piano della promozione della pace: costruire reti di solidarietà con le forze che sui varî scenarî sono impegnate a promuovere nuove e più giuste condizioni di vita, significa contribuire a porre fuori gioco possibili manovre delle lobbies delle armi che, in occasioni del genere (come abbiamo visto in Libia e, purtroppo, probabilmente vedremo in Siria), ricoprendosi con i paramenti del pacifismo, sono solerti nel proporre illusorie, quanto velleitarie, scorciatoie militaristiche per la costruzione della democrazia.
Il problema del modo di costruire la democrazia, c’interroga poi anche sulla grave crisi che oggi investe la democrazia rappresentativa, che un po’ dappertutto sperimenta una seria difficoltà a superare l’aspetto del mero funzionamento formale, per attingere al piano concreto dell’affermazione e promozione dei diritti umani.
La stessa Unione Europea, che pur affonda le sue radici nei grandi ideali di solidarietà e libertà espressi dai popoli del continente all’indomani della tragedia bellica, sembra aver smarrito quei grandi valori, che rivendicavano la libera circolazione degli uomini e delle idee, per rintanarsi in una navigazione di piccolo cabotaggio a tutela del capitale finanziario, disattendendo di fatto i diritti di tutti i popoli europei e mettendo in forse le ulteriori prospettive d’integrazione continentale.
E allora credo sia proprio l’ora di un’iniziativa di lotta di dimensione europea, aperta a una prospettiva planetaria, dove possano essere declinate all’unisono le ragioni dei popoli della sponda europea del Mediterraneo, le aspirazioni dei popoli della Primavera araba e quelle delle donne dell’Arabia Suadita e dell’Iran, il desiderio palestinese di una patria, le richiesta di condizioni di vita degne che erompono dall’Africa nera, dall’America latina e dall’Asia. Il tutto nella convinzione della destinazione universale e della salvaguardia dei beni della creazione.
E in questo credo che abbiamo davvero tanto da imparare dai ripetuti inviti di papa Francesco ad anteporre l’uomo alla tirannia del denaro.

Sergio Sbragia
30 giugno 2013