L'economia finanziaria globalizzata affama i popoli : la
risposta è: "globalizzare la protesta"!
La protesta dei
popoli del Brasile, della Grecia e della Turchia è anche la nostra protesta.
Solo se riempiremo le piazze di tutto il mondo, facendo sentire la voce e le ragioni di chi lavora e di chi è povero, sarà possibile sconfiggere il potere delle multinazionali e del capitalismo finanziario, e imporre un'economia solidale, sostenibile e rispettosa dei diritti umani.
Solo se riempiremo le piazze di tutto il mondo, facendo sentire la voce e le ragioni di chi lavora e di chi è povero, sarà possibile sconfiggere il potere delle multinazionali e del capitalismo finanziario, e imporre un'economia solidale, sostenibile e rispettosa dei diritti umani.
Alla globalizzazione finanziaria rispondiamo con la
globalizzazione della protesta.
In queste
ultime settimane giungono da più parti notizie del diffondersi di proteste, che
rivendicano il rispetto di fondamentali diritti umani e di libertà e affermano
l’aspirazione sacrosanta a condizioni di vita dignitosa.
In Turchia
tiene banco una protesta non violenta, ferma e dignitosa contro decisioni
antidemocratiche e autoritarie operate dal governo Erdogan. Una protesta che
possiede insospettabili ragioni di consenso e una grande capacità di resistenza
alle manovre d’intimidazione e repressione. Assume inoltre anche particolare
rilevo per il suo verificarsi in un paese appartenente al mondo islamico dove
non è certamente agevole promuovere una cultura dei diritti.
In Brasile si
afferma un vero ‘e proprio movimento di massa che contesta lo svolgimento di
manifestazioni sportive, mentre s’ignorano esigenze fondamentali delle
popolazioni. Di qui il moltiplicarsi di episodî di protesta in un paese immenso,
che non ha timore di puntare il dito su quello che in Brasile costituisce un autentico
mito, il calcio.
In Grecia i
lavoratori hanno posto in essere una lunga serie di iniziative di lotta contro
i provvedimenti finanziari, imposti dall’Europa, che esigono il pagamento del
“conto della spesa” esclusivamente dai ceti deboli e dalle forze del mondo del
lavoro.
Queste esperienze
di lotta si aggiungono ai moti popolari che hanno portato alla caduta di alcuni
regimi sulla sponda meridionale del Mediterraneo, basti pensare ai casi della
Tunisia e dell’Egitto. In quest’ultimo paese, per altro, sembra aprirsi un
nuovo scenario di lotta, che pone in discussione l’assetto di potere che si è
determinato nel post-Mubarak.
Il
moltiplicarsi di questi fenomeni di protesta popolare contro le politiche di
gestione del potere e dell’economia è, a mio avviso, uno degli elementi di
speranza che è oggi possibile rinvenire sullo scenario internazionale.
Potrebbe, in realtà, assurgere a vero ‘e proprio «segno dei tempi» se riuscirà
ad acquisire la consistenza e lo spessore necessarî per andare oltre il
carattere di episodio passeggero.
Non ignoro che
la moltiplicazione delle proteste contro l’ottusità politica dei poteri
costituiti, sia certamente anche il segnale dell’incrudelirsi della crisi
economica e delle pesanti conseguenze che essa sta avendo sulle concrete
condizioni di vita delle popolazioni in tutto il pianeta. I lineamenti
drammatici della crisi non devono tuttavia impedirci di guardarla in faccia con
realismo e coraggio, per capire le sue cause e per individuare le strade più
adatte per contrastarla e per far sì che le sue conseguenze non siano scaricate
sui poveri, sui lavoratori, e su quanti, in sintesi, sono senza potere.
Un primo
elemento di riflessione riguarda, senza dubbio, i fenomeni
d’internazionalizzazione dell’economia degli ultimi decennî, quelli che usiamo
definire come “globalizzazione”, che sono ampiamente caratterizzati da una
sempre maggiore prevalenza degli aspetti finanziarî rispetto a quelli
produttivi. Questo processo. sostanzialmente selvaggio, che nessun potere né
istituzione internazionale si propone nemmeno alla lontana di regolamentare, pone
quotidianamente in campo meccanismi automatici di concentrazione di ricchezza in
poche, pochissime mani, che alla fine distolgono masse sempre maggiori di risorse
da impieghi produttivi.
Di qui anche
la sperimentata e sostanziale impotenza delle lotte condotte in questi decennî
dai movimenti dei lavoratori e dalle organizzazioni sindacali nei varî paesi.
Iniziative, certamente nobili e programmate con le migliori intenzioni, che
tuttavia si sono dimostrate in genere perdenti, perché ritagliate di fatto
entro gli ormai ristretti àmbiti nazionali, àmbiti che i poteri delle
concentrazioni finanziarie, invece, travalicano senza colpo ferire. Questo ha
innescato processi di sfiducia e rassegnazione, che hanno finito per
contrassegnare con i colori dell’ineluttabilità i processi di concentrazione
finanziaria.
Eppure nel
lontano aprile 1972, all’11° Congresso nazionale delle ACLI, ebbi modo di
ascoltare un intervento profetico di
Emilio Màspero, allora segretario della Confederazione Latino Americana dei
Lavoratori, che operò una lucida analisi del potere capitalistico inteso come
un organismo ramificato con tentacoli in
tutto il mondo, ma con la testa nei centri del potere finanziario occidentale.
E che questa caratteristica del capitalismo finanziario richiedeva al movimento
dei lavoratori la capacità di dar vita a forme di lotta a dimensione mondiale,
costruendo concrete solidarietà tra i lavoratori e le classi povere del nord e
del sud del mondo. Questa prospettiva che già allora aveva un grande valore,
oggi è, a mio parere, la strada obbligata per ridare voce ai poveri e ai
lavoratori e per garantire al pianeta uno sviluppo solidale e sostenibile.
Da allora i
movimenti sindacali e dei lavoratori, al di là di alcune iniziative
sostanzialmente rituali, non sono riusciti a fare molto in questa direzione.
Anche gli stessi appuntamenti dei Social Forum Mondiali, che pur hanno
perseverato con forza in questa direzione, non sono sinora riusciti a operare
mobilitazioni di grandi dimensioni.
Penso che oggi,
il fiorire di tante iniziative di protesta possa essere l’alba di una nuova
stagione nella quale costruire concrete solidarietà transnazionali e
transcontinentali. Un’iniziativa democratica internazionale sarebbe per altro
un grande deterrente sul piano della promozione della pace: costruire reti di
solidarietà con le forze che sui varî scenarî sono impegnate a promuovere nuove
e più giuste condizioni di vita, significa contribuire a porre fuori gioco
possibili manovre delle lobbies delle armi che, in occasioni del genere (come
abbiamo visto in Libia e, purtroppo, probabilmente vedremo in Siria), ricoprendosi
con i paramenti del pacifismo, sono solerti nel proporre illusorie, quanto velleitarie,
scorciatoie militaristiche per la costruzione della democrazia.
Il problema
del modo di costruire la democrazia, c’interroga poi anche sulla grave crisi
che oggi investe la democrazia rappresentativa, che un po’ dappertutto sperimenta
una seria difficoltà a superare l’aspetto del mero funzionamento formale, per
attingere al piano concreto dell’affermazione e promozione dei diritti umani.
La stessa
Unione Europea, che pur affonda le sue radici nei grandi ideali di solidarietà
e libertà espressi dai popoli del continente all’indomani della tragedia
bellica, sembra aver smarrito quei grandi valori, che rivendicavano la libera
circolazione degli uomini e delle idee, per rintanarsi in una navigazione di
piccolo cabotaggio a tutela del capitale finanziario, disattendendo di fatto i
diritti di tutti i popoli europei e mettendo in forse le ulteriori prospettive
d’integrazione continentale.
E allora credo
sia proprio l’ora di un’iniziativa di lotta di dimensione europea, aperta a una
prospettiva planetaria, dove possano essere declinate all’unisono le ragioni
dei popoli della sponda europea del Mediterraneo, le aspirazioni dei popoli della
Primavera araba e quelle delle donne dell’Arabia Suadita e dell’Iran, il
desiderio palestinese di una patria, le richiesta di condizioni di vita degne che
erompono dall’Africa nera, dall’America latina e dall’Asia. Il tutto nella
convinzione della destinazione universale e della salvaguardia dei beni della
creazione.
E in questo
credo che abbiamo davvero tanto da imparare dai ripetuti inviti di papa
Francesco ad anteporre l’uomo alla tirannia del denaro.
Sergio Sbragia
30 giugno 2013
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