martedì 27 agosto 2013

Eppure la Storia (era) Maestra di vita.



Venti di guerra stanno di nuovo imperversando con violenza sul Mediterraneo. I più recenti sviluppi della tragica crisi siriana (a lungo colpevolmente ignorata dai mass media, ma anche dalle cancellerie dei potenti del mondo), culminati con il più che probabile uso di armi chimiche e, per di più, contro la popolazione civile, hanno innescato la ricerca spasmodica di una soluzione “rapida” ed “efficace”. E sùbito il complesso militare industriale occidentale fa circolare lo spot promozionale del proprio prodotto capace di risolvere rapidamente la “grana Assad”: un intervento militare per schiacciare il regime siriano e “aprire le porte alla democrazia”. La guerra presentata come un prodotto “panacea per tutti i mali”. Purtroppo di fronte ai problemi, anziché far appello alla ragione e alle risorse più nobili dell’animo umano, si cerca sempre la soluzione “scorciatoia”, quella che con la forza calpesta i problemi, anziché risolverli.

Eppure una sguardo alla storia, sia quella recente e sia quella meno recente, dovrebbe renderci più che accorti sull’effettiva utilità dello strumento “guerra” e farci percepire pienamente l’illusorietà delle sue pretese “risolutorie”, tanto nel breve periodo dell’impatto mediatico-emozionale, quanto sul tempo medio della politica, quanto ancora sui tempi lunghi della storia.

Le dolorose esperienze dell’Iraq, dell’Afghanistan, della Libia manifestano con tutta chiarezza come i problemi che si pretendeva risolvere “manu militari” sono ancora tutti là sul campo, semmai aggravati. E di progresso della democrazia in quei paesi, manco a parlarne. Risulta poi sorprendente che dopo oltre mezzo secolo, non sia stata ancora metabolizzata la tragedia dell’“avventura vietnamita” e ancora la società civile statunitense non sia stata in grado di produrre i necessarî anticorpi culturali all’ideologia della guerra come “farmaco antibiotico a largo spettro”. E che dire poi dell’immancabile ritornello pubblicitario, tanto per far digerire la pillola amara alla pubblica opinione, che sciorina la previsione “certa” di un “intervento militare lampo”, che in quattro ‘e quattr’otto sgombrerà il campo dal problema, per poi poter tornare con calma all’occupazione quotidiana ordinaria di come “succhiare il sangue” ai poveri e ai lavoratori.

È sorprendente poi constatare anche un altro strano fenomeno. Quando s’inizia a parlare di guerra, finiscono, come per incanto, le preoccupazioni finanziarie. Le risorse che fino a un momento prima non esistevano per il lavoro, le pensioni, la scuola, gli ospedali e la vita civile in genere, miracolosamente si concretizzano e sono disponibili per finanziare le sventure militari. Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, Banca centrale europea, Agenzie di rating, tutti concordemente tacciono. Misteri dell’economia!

Eppoi, facciamo attenzione! Non si deve parlare di “guerra”, ma di “intervento militare”. Si ha infatti un certo pudore a chiamare le cose con il loro nome: “GUERRA”. Non è “guerra”, perché il suo intento finale è stabilire la “pace”. Eppure è strano, si fa fatica a crederlo: le bombe lanciate a fin di pace uccidono lo stesso! Gli strateghi militari, a mio parere, hanno poi un diverso criterio di misurazione del tempo. “Guerra lampo”, nella vulgata corrente significa “breve”, nel cifrario militare deve avere con ogni probabilità un altro spessore semantico, sconosciuto ai comuni mortali. Ricordo l’atteggiamento di quasi derisione riservato dai vertici del Pentagono a mons. Pio Laghi, inviato da papa Giovanni Paolo 2°, nel tentativo di scongiurare l’avventura irakena. L’autorevole prelato fu subissato di rassicurazioni sul carattere rapido e poco invasivo delle operazioni, una sorta di effetto bisturi, con poche, pochissime conseguenze collaterali (solo il minimo inevitabile). L’effettivo e successivo decorso dei fatti è, purtroppo, ben noto. D’altronde sappiamo anche che l’illusione della guerra rapida (o lampo) non è nuova. Già Napoleone ne sperimentò rovinosamente l’ingannevolezza nella Campagna di Russia. Nel 20° secolo, non va dimenticato che il principale teorizzatore della “guerra lampo”, fu un certo signore che risponde al nome di Adolf Hitler.

Che l’opzione militare sia, alla prova dei fatti, del tutto inefficace è dimostrato oltre ogni modo anche dalla dolorosissima vicenda israeliano-palestinese. Sul piano strettamente militare, negli ultimi decennî, Israele ha liquidato la “grana” palestinese numerose volte, eppure, puntualmente, dopo ogni vittoria militare, Israele si è trovata di fronte la “Questione Palestinese” aggravata e ingigantita, con, in più, la prospettiva di una sua soluzione politica più lontana sull’orizzonte. La guerra non sostituisce la politica, né risolve i problemi. Sono figlio di un paese che, nel Rinascimento, ha visto il confronto tra la “Pax Viscontea” delle armi e la “Florentina libertas” contraddistinta dal gioco disordinato, e anche rissoso, delle forze presenti nella società civile. Dall’osservazione di quelle vicende, non facili anzi spesso tragiche e contraddittorie, ho maturato tuttavia la convinzione profonda che nessuna illusoria scorciatoia può esonerarci dalla fatica e dall’impegno di riallacciare, ad ogni nuovo sorgere del sole, l’ordito delle relazioni con i nostri vicini. E il nostro pianeta oggi, per gli effetti della globalizzazione, è a tutti gli effetti un minuscolo condominio. Che ha, disperatamente, bisogno di Sapienza Politica, che è cosa ben diversa dal piccolo cabotaggio della governabilità e dalla quotidiana guardianìa dello “spread”.

Da bambino fui molto impressionato dalla cosiddetta “crisi di Cuba”. All’epoca avevo poco meno di 10 anni e seguii la vicenda così come veniva presentata dalla tv, che allora era un oggetto del tutto nuovo in casa mia. Eppure ricordo ancora il conduttore del Telegiornale che, in un’edizione dedicata alla crisi, ebbe a esprimersi più o meno con questa frase: “la flotta americana ha praticamente completato il blocco dell’isola, le navi sovietiche si avvicinano, il messaggio di papa Giovanni 23° riecheggia in tutto il mondo”. Allora, in qualche modo, la politica seppe fare il suo mestiere. Saprà farlo anche oggi? Molto dipende anche da quanto sapremo far riecheggiare vere parole e autentici gesti di pace.

Vico Equense, martedì 27 agosto 2013

Sergio Sbragia

domenica 11 agosto 2013

Grazie Cécile!



Grazie Cécile!


Se si ha l’opportunità di recarsi nel reparto maternità di un nostro ospedale, può capitare di assistere a qualcosa, a dir poco, di autenticamente bizzarro e singolare. È possibile, infatti, essere testimonî dell’evento di due giovani mamme che diano alla luce due bei bimbi. Due bambini nati nello stesso giorno e nello stesso luogo, due motivi di felicità per i loro genitori, che strillano ugualmente la propria gioia di essere nati. Eppure questi due bambini, oggi nel nostro paese, possono vivere una paradossale e ingiustificata condizione di diversità e di discriminazione. Uno viene riconosciuto come cittadino italiano, all’altro tale riconoscimento è negato in nome della diversa nazionalità dei suoi genitori. In tal modo a questo secondo bambino, che in nulla si differenzia dal precedente, si nega l’accesso alla solenne tutela, in tema di uguaglianza, prevista dall’art. 2 della Costituzione, in riferimento a distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Le norme vigenti che permettono una tale assurdità, per altro palesemente in contrasto con lo spirito e la lettera della Costituzione, sono un classico esempio di diritto personale barbarico. In effetti non sarebbe l’evento (la nascita), né il luogo (il territorio italiano), bensì i requisiti “personali” dei genitori, a determinare la condizione giuridica del neonato. Il tutto in omaggio al “nobile” principio giuridico: “la legge non è uguale per tutti”.
In realtà la negazione del diritto di cittadinanza ai bambini, figlî d’immigrati, che nascono sul territorio italiano, ricorda in qualche modo la vicenda dell’evoluzione delle istituzioni giuridiche nell’Italia della tarda antichità e dell’alto medioevo.
L’antica Roma, veniva definita dai sapienti come mater legum, per aver dato vita al diritto romano, una cultura giuridica di altissimo valore, che ha poi esercitato una profonda influenza su tutte le successive culture giuridiche che si sono venute storicamente determinando. Quest’altissima e nobile scuola giuridica, con le invasioni barbariche, si ritrovò affiancata alle consuetudini germaniche e dovette fare i conti con un diritto del tutto diverso. L’unicità del diritto romano, universalmente valido su tutto il territorio dell’impero, ebbe fine. Nel tempo si venne ad affermare un sistema variegato di fonti giuridiche, al cui interno il diritto romano si ritrovò declassato e affiancato dai diritti germanici, costruiti intorno al principio della personalità del diritto.
Una delle differenze di maggiore rilevanza tra il diritto romano e quello germanico corre proprio intorno a quest’aspetto: l’ordinamento giuridico romano era imperniato intorno al principio della territorialità, gli ordinamenti consuetudinarî delle varie genti germaniche s’ispiravano invece al principio della personalità del diritto.  
Ma cosa distingue, in realtà, i due concetti di “territorialità” e “personalità” del diritto. Quando le popolazioni germaniche s’insediarono nei territorî dell’Impero romano d’occidente, dando vita ai cosiddetti regni romano-barbarici, disciplinarono la convivenza con i popoli che abitavano le regioni conquistate con norme ispirate al principio della personalità del diritto. In tal modo, in uno stesso regno i sudditi dovevano attenersi alle norme giuridiche e consuetudinarie della propria natio, determinando così la convivenza, su uno stesso territorio, di più culture giuridiche.
Del tutto opposta la visione della territorialità del diritto che concepisce un ordinamento giuridico che abbia un’applicazione definita sul piano territoriale: tutti quelli che vivono in un determinato regno sono soggetti a un unico diritto, cioè alla legge territoriale vigente in quel regno.
La fobìa razzista che da alcuni decennî, all’ombra dell’ipoteca berlusconiano-leghista, ha profondamente connotato la recente produzione legislativa nel nostro paese, nell’illusione di arginare il fenomeno dell’immigrazione con misure repressive e discriminatorie e rifuggendo da ogni prospettiva d’integrazione e di multiculturalità, ha così portato a rinnegare di fatto una delle conquiste fondamentali del nobile diritto romano.
D’altronde la rivendicazione di una sempre maggiore personalizzazione delle istituzioni giuridiche del paese è oramai una delle connotazioni principali dell’iniziativa politica del nostro centro-destra. In spregio anche ai più nobili valori ispiratori del liberalismo europeo le forze politiche di centro-destra sembrano concentrate esclusivamente sul modo di come garantire una legge “larga” per “uno” e una legge “stretta” per “tutti gli altri” e di come assicurare l’esenzione fiscale ai più ricchi e ai più potenti.
Oggi viviamo un momento particolare e davvero delicato della vita del nostro paese e sperimentiamo, allo stesso tempo, una sostanziale incapacità delle forze politiche ad assumere le proprie responsabilità. Il partito PDL appare impegnato solo a salvaguardare il proprio leader dalle possibili conseguenze delle vicende giudiziarie cui è interessato. Una parte consistente e influente dei gruppi dirigenti del Partito democratico (e lo dico da elettore e sostenitore di questa forza politica) si mostra più interessata alle vicende interne a alla suddivisione dei relativi spazî d’influenza che ai problemi del paese e alle aspirazioni ideali del proprio elettorato. Il Movimento 5 stelle si è, a sua volta, dimostrato incapace di assumersi le responsabilità di cui il mandato elettorale lo aveva investito, ritagliandosi un più comodo, ma sostanzialmente ininfluente, spazio declamatorio dove la politica finisce per cedere il passo allo spettacolo. La Lega, infine, appare chiusa in una logica fatta esclusivamente di insulti e di volgarità e mostra finanche l’incapacità d’interpretare, sia pur a suo modo, bisogni legittimi e problemi reali di quelle regioni del paese che pretende di rappresentare.
In questo quadro sostanzialmente sconfortante, un segno reale di speranza, un segnale concreto che il cambiamento è possibile è, a mio avviso, dato dall’iniziativa del ministro Cécile Kyenge per superare le norme che, nel nostro ordinamento, inibiscono il riconoscimento del diritto di cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati.
Un’iniziativa, condotta con semplicità, grande correttezza istituzionale, competenza, rigorosità e tenacia, che merita un sostegno convinto, ampio e operoso. All’interno della cosiddetta agenda del “fare” dell’attuale governo, mi sembra al momento proprio questa la principale voce positiva. Ma, al di là, dello schieramento favorevole o contrario all’iniziativa del governo, credo che il tema su cui si dispiega l’impegno del ministro Kyenge sia meritevole non solo del solidale coinvolgimento di tutte le forze di sinistra, non importa se al governo o all’opposizione, ma anche dell’apprezzamento più ampio delle comunità cristiane in nome del principio “ogni uomo è mio fratello”.
È importante far sentire con forza la nostra adesione al progetto d’integrazione portato avanti da Cécile Kyenge. È un contributo che, oltre al grande valore in termini di affermazione della dignità della persona umana, porta anche a riscoprire la grande ricchezza delle nostre radici storiche e culturali (che con leggerezza tendiamo a dimenticare).

Vico Equense, domenica 11 agosto 2013