domenica 8 settembre 2013

Un grave problema di “cultura” democratica.

Ritengo di non fare un’affermazione nuova sostenendo che nel nostro paese ci troviamo alle prese con un grande problema di “cultura” democratica. Quando parlo di “cultura” non mi riferisco a un dato intellettuale e di conoscenza ma alla nostra concreta e quotidiana pratica di vita. E il problema non si esaurisce nel, pur gravissimo, “affaire Berlusconi”, anche se questo ne è forse la più grave e patologica manifestazione.

In questi giorni gran parte della scena politica è “occupata”, non dal dibattito, ma dalla rissa intorno alla legittimità o meno di un eventuale provvedimento di decadenza del mandato parlamentare del Sig. Berlusconi. Questo è uno scenario che, in un contesto democratico, non dovrebbe essere oggetto della benché minima discussione. Eppure, occupa quotidianamente, ampio spazio della comunicazione pubblica.

Sono convinto che “democrazia” comporti l’eguale coinvolgimento di tutti i cittadini nell’attenzione alla “cosa pubblica” e, sono altrettanto convinto, che sta ai cittadini costruire quegli spazî necessarî di consenso per scegliere responsabilmente e legittimamente le linee di tendenza di fondo della politica nazionale.

Per fare ciò sono, a mio avviso, necessarie tre cose di base:

1. una chiara e consapevole distinzione tra le tre sfere, quella della persona, quella della parte politica e quella delle responsabilità istituzionali nella conduzione della “cosa pubblica”;

2. la consapevolezza che in una società aperta e complessa, quale quella occidentale dei nostri giorni, è quantomeno utopico pensare di raccogliere intorno a un programma politico articolato e definito un consenso di ampiezza tale da poter conseguire, in una competizione elettorale, la maggioranza;

3. la centralità rappresentata nel dibattito politico da una comunicazione fondata sull’autenticità dei contenuti.

Cercherò di esporre brevemente il mio personale pensiero su questi tre punti, premettendo, per dovuta chiarezza e rispetto nei confronti di quanti vorranno onorarmi della propria attenzione, che il mio orientamento politico è di sinistra democratica e pluralista e che sono un elettore e un sostenitore del Partito democratico, rispetto al quale non ho condiviso la scelta di dar vita al governo delle “larghe intese”, anche se sono convinto che un partito è una realtà plurale, al cui interno sono presenti con ragione più identità e che non necessariamente le scelte generali debbano sempre e comunque coincidere con quelle da me sostenute.

Ma veniamo ai tre punti in questione:

Una cultura della distinzione. A prima vista può sembrare una questione formalistica, ma mi permetto di sottolineare con forza che non è così. Le scelte personali, gli itinerarî di vita, gli interessi legittimi delle singole persone sono un àmbito al quale va riconosciuto il massimo rispetto sul terreno della comunicazione pubblica e anche la più piena tutela sul piano istituzionale e legale. Ma è altrettanto doveroso, per ciascuno di noi, non invadere con le nostre aspirazioni personali il dibattito politico e il lavoro degli organi deputati alla cura della “cosa pubblica”. Allora, ma qui naturalmente dovrei sfiorare l’ovvietà, risulta quantomeno incomprensibile che un personaggio politico, per proprie vicende personali di natura giudiziaria, scelga di difendersi non in tribunale ma in Parlamento, giungendo a minacciare la caduta del governo se non gli viene garantita una sorta d’immunità dal rispetto della legge, che finirebbe così de facto e de iure, per essere “non uguale per tutti”. Eppure il programma di governo liberamente sottoscritto e condiviso dalle parti contraenti non fa alcun riferimento alla questione (è sufficiente una lettura del programma per rendersene conto). Sorprende che si faccia polemica su un tema, per altro estraneo alla vita politica, che non è compreso nei programmi di governo.

Ma qui viene in gioco il problema della cultura della distinzione, quella cultura che si esprime nel profondo rispetto che le singole persone devono nutrire per la propria parte politica e, a maggior ragione, per le istituzioni pubbliche. È questo un problema che riguarda trasversalmente, sia pur in forma differenziata, tutte le forze politiche. Assistiamo infatti a una doppia invadenza: quella delle singole personalità nei confronti sia della propria parte politica sia delle istituzioni, e un’altra condotta dagli schieramenti contro la cosa pubblica.

È fuor di dubbio che il dovuto rispetto alla cosa pubblica imponga, da parte di chicchessia, che nel momento in cui una singola personalità dovesse percepire di essere d’imbarazzo per le sorti del Paese e, in subordine, per la propria parte politica sarebbe una scelta saggia e doverosa quella di lasciare il campo, favorendo l’individuazione di soluzioni alternative. La capacità e la lungimiranza di saper far un passo indietro per il bene del paese alla fine tradurrebbe in un vantaggio sul piano del prestigio personale e politico per la persona stessa.

Sono convinto che un leader o un segretario politico debbano essere al servizio del proprio partito e non configurarsi come il “padrone” del proprio schieramento politico. Lo stesso vale per i singoli partiti: sono essi a dover servire le istituzioni e il Paese e non il contrario.

Allora, a mio parere, sono del tutto fuori luogo degli usi che negli ultimi anni si sono diffusi nei comportamenti delle forze politiche. Faccio solo alcuni esempî. Nelle scorse settimane, per esempio, ha riscosso molta attenzione dai mass media un vertice del Pdl che si è svolto nella dimora privata del Sig. Berlusconi. Ritengo che sia una buona pratica (e non un fatto meramente formale) che le attività di un partito si svolgano in sedi proprie e non a casa del leader. Una parte politica è una cosa diversa che va oltre la persona del proprio leader. È doveroso nutrire un profondo rispetto per le attività di partito ed è bene che queste, a loro volta, non invadano la sfera privata e personale del leader stesso. In questa logica trovo, per altro, lesiva di questo principio anche la moda di personalizzare i simboli elettorali, penso ai varî rifermenti a singoli leader politici che abbiamo incontrato tra i simboli in lizza all’ultima tornata elettorale (Monti, Ingroia, Vendola, ecc.).

Quanto all’invadenza delle parti politiche sulla cosa pubblica, questa si manifesta addirittura nella stesse scelte che vengono operate nel denominare i singoli movimenti politici. Si sceglie con la massima disinvoltura d’inserire nel nome della propria parte politica riferimenti al “popolo”, alla “libertà”, all’“Italia”, alla “democrazia”, alla “responsabilità civica”, dimenticando che questi sono valori condivisi e patrimonio comune di tutti. Appropriarsene, mediante l’inserimento nella propria denominazione, è, per un verso, una mancanza di rispetto verso i cittadini, ma anche il segno di una sostanziale incapacità di meglio definire la piattaforma ideale intorno a cui la parte politica si è venuta aggregando. Testimonianza di una tale difficoltà è, per altro, anche l’uso di denominazioni fantasia, quali quelle, per esempio, che evocano una mera allusione alle “stelle”, e che esulano nel modo più assoluto dal dare indicazioni intorno alle ragioni ideali che hanno presieduto alla loro aggregazione. Sarebbe auspicabile che le denominazioni dei partiti esprimessero la sintesi delle ragioni ideali che presiedono alla loro aggregazione e che segnano la differenza e la peculiarità dei loro connotati ideali. Sono, legittimamente, partes, e, dunque, non possono essere tutto.

E che dire, poi, degli incarichi di governo a part-time? Oggi, in effetti, abbiamo un ministro degli interni a part-time. Il Sig. Angelino Alfano è contemporaneamente leader di partito e responsabile del dicastero forse più delicato. L’Italia, a mio avviso, ha diritto a un titolare del Viminale a tempo pieno e lo stesso Pdl ha diritto a un segretario politico, che non debba barcamenarsi anche con i mille impegni del dicastero presieduto. La recente vicenda delle relazioni con il Kazakistan e della connessa e gravissima offesa ai diritti umani insegna molte cose in proposito. Come direbbe il caro e compianto Michele Lubrano, una domanda mi sorge spontanea: “ma nel Pdl mancano personalità con il carisma e le capacità necessarie per guidare il partito?”.

Probabilmente un più sentito senso del limite nel comprendere quello che è sacra sfera personale, quello che è legittima pratica delle singole parti politiche e quello che invece è peculiare del ruolo istituzionale della cosa pubblica, sarebbe già una conquista ai fini di un più corretto e concreto confronto politico. E la cosa, ci tengo a ribadirlo, non riguarda solo il Pdl, ma un po’ tutte le forze politiche, anche lo stesso Pd (che pur incontra il mio personale sostegno). L’aspirazione, per esempio, di Matteo Renzi (che, per altro stimo) a sommare nella propria persona la funzione di sindaco di una grande città e quella di segretario del partito è segno anch’essa di un preoccupante deficit di rispetto per la città e per il partito. La libera adozione nella quotidiana e concreta pratica politica di un codice di comportamento rispettoso delle diverse sfere (personale, di parte e pubblica) si tradurrebbe, senza dubbio, in un beneficio per l’Italia e produrrebbe una sprovincializzazione e una crescita qualitativa del dibattito politico.

La complessità sociale. Il grande accrescimento delle possibilità di un autonomo e personale accesso all’informazione e alla conoscenza e alla conseguente opportunità di costruire personalizzati itinerarî di elaborazione e di proposta ha reso le nostre società, anche quella italiana, dei contesti culturalmente ricchi e variegati. Le identità culturali e politiche si sono moltiplicate, si sono differenziate e si sono anche contaminate. Appare pertanto, oggi, quanto mai irrealistico pensare che una singola forza politica, espressione di una specifica cultura e identità politica, possa conseguire grazie a un programma politico definito e articolato (espressione della propria visione ideale della vita pubblica) i consensi necessarî per poter governare il paese in forma monoprogrammatica. È la complessità stessa delle società odierne a impedire una tale evenienza. Là dove si dovesse verificare un successo elettorale, per cui una singola forza politica vada oltre il 50%, a mio parere, la cosa stessa sarebbe un forte indizio di una grave alterazione delle condizioni di agibilità democratica (e occorrerebbe comprenderne le cause). Né valgono le scorciatoie delle leggi elettorali che tentano artificiosamente cercano di esorcizzare la pluralità, che in nome del moloch della governabilità (per altro, mai conseguita), distribuiscono premi di maggioranza e determinano una pericolosa dicotomia tra la composizione delle aule parlamentari e l’articolazione culturale del paese, per cui alcune forze, pur significativamente presenti nel paese, sono del tutto assenti dal Parlamento e altre, pur essendo presenti in esso, vi risultano di gran lunga sotto rappresentate. Lo confesso, io sono un convinto sostenitore del proporzionale. Ritengo che il Parlamento debba, il più possibile, riprodurre fedelmente la ricchezza dell’articolazione politica e culturale presente nel paese. E nel Parlamento le singole identità hanno il dovere di fare “politica”, di rimboccarsi le maniche per cercare intese “alte”, individuando, attraverso una quotidiana pratica del dialogo, i denominatori comuni, rifuggendo dall’idea infantile di essere gli unici titolari delle giuste ricette di cambiamento. Non significa “fare politica” lo sbandierare striscioni in Parlamento (questo va bene ed è auspicabile avvenga sempre nelle piazze), né trasformare l’aula di Montecitorio nella curva di uno stadio, né gridare un giorno sì e l’altro pure “alle urne, alle urne!”. È necessario essere consapevoli che i cittadini sono andati alle urne solo alcuni mesi fa e si sono espressi, determinando l’attuale Parlamento. È un risultato che non mi piace, conseguito, per altro, con una legge elettorale molto, molto discutibile, ma è il risultato determinato dai cittadini, che abbiamo il dovere di rispettare. Un risultato al quale, quanti siedono in Parlamento, hanno il “dovere” di assicurare una sintesi di governo. È un dovere costituzionale ineludibile, e la Costituzione si afferma e si difende con la pratica politica del dialogo e dell’impegno, che è cosa molto diversa dal deresponsabilizzante e teatrale sbandierare striscioni. Oggi, in Parlamento, è possibile un governo diverso da quello delle “larghe intese”, basta volerlo sul serio impegnandosi in un dialogo concreto, senza infantili fughe dall’impegno del rimboccarsi le maniche, nella speranza di lucrare facili, quanto transeunti, vantaggî elettoralistici, beninteso a scapito dei cittadini.

Autenticità della comunicazione e dei contenuti. Anche questo è un aspetto non secondario, anzi di primaria importanza. La partecipazione alla vita politica da parte dei cittadini non può prescindere da una correttezza comunicativa da parte delle forze politiche e di quanti nella politica sono impegnati in primo piano. E invece assistiamo a uno spettacolo, a dir la verità, un po’ penoso dove in forma addirittura dilettantesca ci si diverte a manipolare e distorcere i fatti e a non rendere ragione pubblica delle evoluzioni delle posizioni politiche.

E così abbiamo chi si presenta come oggetto di persecuzioni e vessazioni, senza avere il minimo rispetto per chi di persecuzioni e vessazioni è stato o è tutt’ora vittima per davvero. Senza rendersi, per altro, conto che un tale status di “perseguitato” potrebbe, addirittura, essere invidiato da molti per la non modica quota di potere che un tal “perseguitato” detiene. Una persecuzione che agli occhî di tanti potrebbe senza dubbio apparire un attraente privilegio.

Qualche altro, dalla sera alla mattina, da personaggio di primo piano di una forza politica all’improvviso cambia partito, al quale aderisce non quale semplice cittadino, ma assurge contemporaneamente a un incarico di rilievo, scavalcando semmai molti che in quel partito sono impegnati da anni. È certo legittimo cambiare idea, ma sarebbe doveroso, per quanti hanno un ruolo pubblico, fornire ai cittadini le ragioni di una tale scelta.

Ma non sono solo le singole persone a sfuggire al dovere di autenticità nella comunicazione e nei contenuti. In questi ultimi anni abbiamo assistito più volte all’assunzione di posizioni politiche in contrasto con precedenti posizioni espresse e sostenute dalla stessa forza politica. È il caso, per citare solo l’esempio più recente, della vicenda relativa all’Imu. In pratica abbiamo assistito all’orchestrazione di una potente iniziativa politica e mediatica contro tale imposta sugli immobili (in sé anche discutibile), senza fare il benché minimo accenno al fatto (del tutto verificabile) che la stessa imposta è stata introdotta nel nostro sistema fiscale anche grazie all’iniziativa e al voto decisivo della stessa forza politica. Anche qui vale quanto è evidenziato in precedenza: ritengo legittimo che una forza politica rifletta sulle scelte fatte in precedenza e riconosca di aver sbagliato, ma sarebbe giusto rendere pubbliche le ragioni e le valutazioni che hanno presieduto a tali evoluzioni.

E ancora, mi sembra giusto segnalare come risulti poi particolarmente sgradevole la vecchia e, purtroppo, tutt’ora diffusa della pratica dei “franchi tiratori”. La vicenda che alcuni mesi fa ha visto circa un centinaio di parlamentari del Pd comportarsi, nel segreto dell’urna, in maniera opposta a quella dichiarata pubblicamente. Come ho già detto prima, da sostenitore del Pd, sono convinto che il carattere plurale del Partito sia una grande qualità, che lo distingue da altre formazioni politiche a conduzione monarchica. Il pluralismo, la convivenza nella stessa formazione di più identità impone una grande pratica del confronto interno, ma richiede a tutti una grande trasparenza e chiarezza nelle posizioni, che devono essere chiare e pubbliche. La meschinità di sotterfugî, giochetti sotto banco e sgambetti dovrebbe essere qualcosa di totalmente estraneo alla vita politica.


Le considerazioni, che ho fin qui condotto, sono in realtà delle ovvietà. Purtroppo però i comportamenti che ho descritto sono molto diffusi e rimuoverli dalla corrente pratica politica non è e non sarà per niente facile. Ma sono anche convinto che, se in ogni schieramento ci dovessero essere persone capaci di assumere, con dignità e liberamente, un impegno serio sui tre punti sui quali ho espresso le mie valutazioni, la vita politica del paese potrebbe sortire un indubbio influsso benefico.

Vico Equense, domenica 8 settembre 2013.

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