Sul
numero 6 de «Il Regno : Documenti» è stato pubblicato un interessantissimo
documento del card. Gerhard Ludwig Müller.
Gerhard Ludwig card. Müller, Purificare il tempio : Criteri teologici
per una riforma della Chiesa e della curia romana, in «Il Regno : Documenti»,
60. (2005) 06, p. 4-6.
Questo,
pubblicato dal prefetto della
Sacra Congregazione per la dottrina della fede, è un testo di grande interesse,
che merita di essere letto, analizzato e compreso in profondità. Esso si pone
in diretta relazione con il Discorso di papa Francesco alla curia romana per la
presentazione degli auguri natalizî: “Il corpo curiale e le sue malattie” del
22 dicembre 2014, nel quale erano state poste in evidenza con grande efficacia
espressiva le esigenze pastorali e paterne di curare le più gravi “malattie”
presenti nel corpo della curia romana (anche se non esclusivamente in questa).
Non solo! Papa Francesco non aveva evitato di invitare paternamente a una
chiara azione collegiale per guarire e superare tali malattie a prevenirle per
il futuro. A questo discorso di papa Francesco, nelle scorse settimane ho avuto
l’opportunità di dedicare qualche piccola riflessione (http://sergiosbragia.blogspot.it/2015/02/le-quindici-malattie-evidenziate-da.html).
Il card.
Müller, infatti, tiene a porre in evidenza che:
«Nel discorso alla curia per gli auguri di Natale del 2014 il santo
padre ha sottolineato l’assoluta prevalenza della finalità spirituale della
Chiesa su ogni mezzo terreno, che non deve mai diventare fine a se stesso.
Questo discorso rappresenta un’esortazione spirituale e un esame di coscienza
per tutta la Chiesa. Non sono la grandezza dei beni della Chiesa o il numero di
dipendenti nelle nostre strutture amministrative la bussola di orientamento
del rinnovamento della Chiesa; lo è, invece, lo spirito di amore nella cui
forza la Chiesa serve gli uomini attraverso la predicazione, i sacramenti e la
carità» (G. L. Müller, Purificare il tempio… cit., p. 5).
L’appello
natalizio di papa Francesco ci ha richiamato con un linguaggio di alta
ispirazione e coinvolgente, ma allo stesso tempo decisamente chiaro, a
inaugurare insieme un cammino di conversione e di adesione all’annuncio della
buona notizia della vicinanza del Regno di Dio. Un cammino da condurre insieme,
lasciandoci guidare dalla mano paterna e autorevole di papa Francesco, e che
chiede a tutti e a ciascuno di compiere autentici passi di conversione.
Questo autorevole richiamo di papa Francesco chiede,
tuttavia, di essere chiaramente declinato in una concreta riforma della curia
romana, che è oggi all’ordine del giorno dei lavori degli organismi vaticani.
E il card. Müller, con la sua riflessione, ha inteso
proprio fornire un contributo autorevole, quale titolare di uno più dei
significativi dicasteri della Santa Sede: la Sacra Congregazione per la
dottrina della fede. In vista dell’articolazione della riforma della struttura
della Santa Sede ha tentato d’individuare i possibili criterî teologici che
potrebbero presiedere alla sua realizzazione[1].
Purificare il tempio.
Premettendo che il riferimento primario della chiesa
è il Vangelo, la verità e la salvezza, il card. Müller ha posto in evidenza
come, lungo i secoli, ogni volta che la chiesa ha concretamente operato per
liberarsi dalla mentalità mondana e da modelli terreni di esercizio del potere,
ha potuto fare esperienza di nuove e inedite strade di rinnovamento spirituale
in Gesù Cristo, suo capo e fonte di vita. E questo in virtù del dato, che il
punto primario dell’insegnamento, della vita e della costituzione della chiesa,
non è il dominium dei re, ma il ministerium degli apostoli, sulla scorta
dell’insegnamento paolino, secondo il quale:
«Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i
collaboratori della vostra gioia» (2Cor. 1,24).
Ciò è testimoniato da numerosi tentativi di riforma
che, lungo i secoli sono stati avviati nella compagine ecclesiale, dalla
riforma gregoriana del secolo 11°, a quella tridentina del 16° secolo, per
addivenire a quella innescata dal Concilio Vaticano 2°, nella quale sono giunti
a confluenza i movimenti di rinnovamento biblico, patristico, liturgico ed
ecclesiologico del 19° e 20° secolo.
Il card. Müller prende atto che, in alcune
circostanze storiche, il potere temporale si è talvolta sovrapposto alla missione
spirituale, che nella relazione tra potere politico e servizio spirituale
spesso è emerso l’influsso corruttore di criterî ispirati al potere e al
prestigio. Addirittura devastanti sono definiti i sistemi delle chiese di
stato, che si sono affermati in epoca moderna, così come si sono venuti
configurando nel gallicanesimo[2], nel febronianésimo[3] e nel giuseppinismo[4], ma anche la sottomissione
della chiesa alla ragion di stato, che si è registrata attraverso il patronato
reale[5] negli imperi
spagnolo e portoghese.
Il card. Müller tiene allora a rilevare che la
chiesa trae coscienza della propria realtà e consapevolezza autentica del
proprio significato non dal consenso sociale, né dalla funzione del
cristianesimo quale religione civile, né dalle relazioni con il potere
politico, ma dalla parola di salvezza rivolta agli uomini, specialmente ai
poveri. Il Signore, infatti, ha istituito la chiesa come universale sacramento
di salvezza, affinché «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla
conoscenza della verità» (1Tim. 2,4). La chiesa dunque non può comprendere se
stessa, né può rendere ragione al mondo della propria missione facendo ricorso
a standard di potere, di ricchezza e di prestigio. Una riflessione sulla natura
e sulla missione della chiesa – è questa la prima conclusione cui perviene il
card. Müller – costituisce il fondamento e il presupposto di ogni vera riforma.
Il
card. Müller tiene poi a porre in guardia da una possibile reazione riduttiva,
che potrebbe indurre, in ragione della verificata fragilità umana, a un
cedimento in direzione di una spiritualizzazione della chiesa, cioè di
rinchiuderla in un àmbito di meri ideali e sogni, posto al di là della sfera
della tentazione, del peccato, della morte e del diavolo, dimenticando che per
giungere alla gloria della resurrezione è necessario fare esperienza della
sofferenza e del dolore.
Secondo
una certa analogia con il mistero dell’incarnazione, la chiesa sperimenta
un’unità interiore di comunità spirituale e, allo stesso tempo, di assemblea
visibile al servizio dello Spirito, come segno e strumento di salvezza, al fine
di continuare l’opera di Cristo nella storia.
La
chiesa – è la seconda conclusione del card. Müller – pur essendo santa e
santificante in quanto santificata da Dio, comunque, in relazione al
pellegrinaggio di fede degli uomini sulla terra, è «sempre bisognosa di
purificazione» e «avanza continuamente per il cammino della penitenza e della
purificazione» (Concilio ecumenico
Vaticano 2°, Costituzione dogmatica Lumen
gentium, 8).
In questo
paragrafo il card. Müller conduce in effetti una riflessione secondo gli schemi
consolidati dell’ecclesiologia teologica, ponendo in evidenza la dimensione
sacramentale della comunità ecclesiale che, nella storia e tra gli uomini,
continua l’azione salvifica di Gesù. Una realtà, quella della chiesa, che lungi
dal concretizzarsi in un’astrazione spiritualistica, la vede quotidianamente e
permanentemente immersa nella vita terrena a misurarsi con la prova della
tentazione, della sofferenza e del peccato. Il card. Müller, certamente pone in
evidenza che ogni sforzo di liberazione dalla mentalità mondana e da forme
terrene di esercizio del potere porta la comunità ecclesiale a vivere
straordinarie esperienze di rinnovamento spirituale. E questo in ragione della
connaturata disposizione al “servizio” in luogo del “dominio”, egli lo vede
confermato in particolare in alcuni momenti forti della storia della chiesa
(riforma gregoriana, riforma tridentina e Vaticano 2°).
Si tratta di
un’argomentazione forte, fondata e condivisibile. Tuttavia non posso fare a
meno di evidenziare in essa due limiti che cercherò di esplicitare nella forma
più chiara possibile.
Il primo limite
è, a mio avviso, riscontrabile in una non piena e compiuta declinazione della
relazione chiesa-mondo. Di certo non è praticabile un isolamento della chiesa
dal mondo, in una sorta limbo spirituale disincarnato. Allo stesso tempo è
altrettanto certo che la logica della chiesa non può essere la logica del mondo.
Ma è anche vero che rifiuto della fuga del mondo e rifiuto della logica mondana non esauriscono
la relazione della chiesa con il mondo. Sull’esempio di Gesù, noi suoi seguaci,
non possiamo non seguirlo nel suo esempio concreto di maestro itinerante sui
sentieri della Giudèa e della Galilèa, sentieri che percorse chinandosi
solidale sulle sofferenze e sulle lacrime delle donne e degli uomini che
incontrava sul suo cammino, ma anche prendendo parte alle gioie genuine del suo
tempo, tanto da attribuirsi, sia pur con una punta di polemica, l’appellativo
di “mangione” e “beone” (cf. Mt. 11,19). La comunità ecclesiale è dunque
chiamata a vivere la lezione conciliare di condividere le gioie e le speranze,
ma anche il dolore e le lacrime dell’umanità (cf. Concilio ecumenico Vaticano 2°, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 1). Non solo! La chiesa
è invitata anche a raccogliere la sfida di mettere in moto la dovuta capacità
di discernimento per riconoscere nella nostra realtà i numerosi semi del Verbo
divino, che essa, nonostante tutto, contiene e che, a uno sguardo superficiale
possono facilmente sfuggire.
Questo aspetto,
a dire il vero, non sembra sufficientemente sviluppato nel contributo del card.
Müller, mentre viene di continuo messo in luce dalle parole e dai gesti di papa
Francesco.
L’altro punto problematico,
a mio parere, sta nella declinazione della relazione tra “dominio” e
“servizio”, che si esplicita nell’esigenza della comunità ecclesiale di essere
sempre bisognosa di purificazione e di non trascurare mai la dimensione della
penitenza e del rinnovamento, tensione che il card. Müller vede
esemplificativamente, ma esemplarmente concretizzata in alcuni momenti topici
della storia della chiesa (riforma gregoriana, riforma tridentina, Concilio
Vaticano 2°). Di certo la tensione alla purificazione e al rinnovamento è una
predisposizione connaturata e permanente della comunità ecclesiale, ma la
presentazione che ne viene offerta rischia di proporla come un elemento
abituale e, quindi, sostanzialmente statico e scontato, della vita della chiesa
e mostra di soffrire di una non compiuta elaborazione dello stretto rapporto
intercorrente, nella comprensione teologica della chiesa, tra i temi della
“continuità” e della “novità” che, lungi dall’essere reciprocamente
alternativi, sono in realtà strettamente connessi, nel senso che il primo e più
fondato elemento di continuità con l’opera di Gesù è la capacità di annunciare
alle donne e agli uomini di ogni luogo e di ogni epoca la “novità” del Regno di
Dio, che fa nuove tutte le cose.
La permanente
vocazione penitenziale della chiesa, implica allora una quotidiana pratica
della conversione, che vuol dire una scelta di cambiare vita, di abbandonare
sentieri rivelatisi ciechi, di sperimentare nuove strade. Il rinnovamento,
l’innovazione, il coraggio di uscire in mare aperto divengono così i connotati
decisivi di una genuina fedeltà alla tradizione della chiesa, che in definitiva
è chiamata a invitare l’umanità a convertirsi e a credere alla buona notizia.
La permanente ricerca lungo i secoli, della “novità” della conversione a Gesù,
si rivela pertanto non un elemento statico e abituale ma una manifestazione
straordinaria, dinamica, sconvolgente e sempre nuova della forza della fede in
Gesù. È per questa ragione che ordinariamente non uso definire come “tradizionalisti”
i cristiani “conservatori”, in quanto la conservazione del consueto, del
conformismo alle abitudini consolidate, è l’esatto contrario della fedeltà alla
tradizione della chiesa, che ci chiede di lasciarci coinvolgere dal nuovo, di
porre mano all’aratro senza volgerci indietro, di rischiare i talenti ricevuti
in dono da Dio. Sono infatti pienamente convinto che la fedeltà alla tradizione
della chiesa chiama al coraggio di scelte decisive, invita a raccogliere le
sfide dell’inedito e del rischioso e a uscire da rassicuranti recinti
protettivi.
Il card. Müller
ha poi formulato alcuni giudizî di ordine storico su alcune specifiche
concrezioni dei rapporti tra la chiesa e il potere politico prodottesi nei
secoli passati, formulando una valutazione fortemente negativa di alcuni
sistemi di regolazione delle relazioni stato-chiesa individuate con le
denominazioni di gallicanesimo, febronianésimo, giuseppinismo e patronato
reale. Le critiche formulate dal card. Müller verso queste contaminazioni
storiche tra trono e altare sono del tutto condivisibili, e inoltre mi sembra
doveroso e legittimo poter trarre dalla storia e dall’esperienza passata le
giuste lezioni. Questi giudizî, a mio avviso ineccepibili, sono tuttavia
formulati in riferimento a contesti politico-sociali lontani nel tempo e
sostanzialmente privi di ripercussioni sull’oggi. Risultano adottati, per così
dire, con il “senno di poi”, e, per questo, si rivelano un po’ ingenerosi nei
confronti dei fratelli che in quei contesti invece si sono ritrovati
concretamente a incarnare e testimoniare la fede. La doverosa formulazione di
giudizî storici diviene fruttuosa sul piano ecclesiale, a condizione che sia di
ausilio per la conduzione di una conseguente riflessione sullo stato delle
relazioni odierne tra “trono” e “altare”, nonché per imboccare l’arduo sentiero
della formulazione di un giudizio in merito.
Quest’aspetto
purtroppo non ho avuto modo d’incontrarlo nel documento del card. Müller,
mentre è pane quotidiano delle prese di posizione di papa Francesco. Basti
pensare alle citate malattie evocate in occasione dell’incontro per lo scambio
degli auguri natalizî, alla condanna della cultura “dello scarto” pronunciata
dinanzi alle rappresentanze del corpo diplomatico, alla denuncia formulata nel
messaggio per la giornata mondiale della pace, della tragedia della schiavitù
in piena epoca di universalizzazione dei rapporti, alla critica della
finanziarizzazione dell’economia espressa nella visita alle istituzioni
europee, alle ricorrenti prese di posizione sul valore del lavoro umano e sull’inumanità
del trattamento riservato alle popolazioni migranti. Su questi argomenti
scottanti, e su altri ancora, papa Francesco, per dirla in linguaggio corrente,
non le manda certo a dire.
Non una struttura amministrativa ma un’istituzione
spirituale.
Il card. Müller passa poi a presentare più
pienamente i lavori finalizzati alla riforma della curia, ancorandoli sia
all’esigenza, sentita da Benedetto 16°, di una liberazione da forme di mondanità,
sia all’appello, formulato da papa Francesco, in favore di una chiesa povera e
per i poveri e a non cedere a forme di auto-secolarizzazione e a una vita senza
Dio.
Le parole pronunciate da papa Francesco
nell’allocuzione natalizia del 22 dicembre sono poi definite un’esortazione
spirituale a un esame di coscienza per tutta la chiesa, che indica, come
bussola d’orientamento per un’azione di rinnovamento, non tanto la
disponibilità di beni ed energie materiali, quanto la forza dell’amore con cui
la chiesa si pone al servizio degli uomini.
A questo proposito il card Müller pone in rilievo
come l’esigenza di porre mano a una riforma della curia sia stata avvertita già
prima dell’elezione di papa Francesco, ma tiene anche a sottolineare come la
stessa curia non sia una semplice struttura amministrativa, ma “un’istituzione
spirituale radicata nella missione specifica della chiesa di Roma, santificata
dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo”. Nel formulare tale affermazione il
prefetto della Sacra congregazione per la dottrina della fede ricorda inoltre
come il ruolo della curia sia stato autorevolmente riconosciuto dal Concilio
nel Decreto sulla missione pastorale dei vescovi nella chiesa Christus dominus:
«Nell'esercizio della sua suprema, piena e immediata potestà sopra
tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della curia
romana, che perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a
vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori» (Concilio ecumenico Vaticano 2°, Decreto Christus dominus, 9).
Di conseguenza la curia, nella sua struttura
organizzativa e nel suo funzionamento, si trova in relazione strettissima con
la missione del vescovo di Roma che, quale successore di Pietro, costituisce –
come insegna la Costituzione
dogmatica Lumen gentium
– il «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia
della moltitudine dei fedeli» (Concilio ecumenico Vaticano 2°,
Costituzione dogmatica Lumen gentium,
23).
E di questo carattere della missione di Pietro, la
curia romana è pienamente partecipe. Di qui la deduzione di carattere
ecclesiologico, che il card. Müller dichiara comprensibile solo alla luce
della fede, che segna la distinzione tra la chiesa e altre comunità religiose
d’indole meramente umana. Solo la piena comprensione nella fede del valore
della potestà sacramentale e di mediazione della salvezza che informa il
ministero papale ed episcopale può chiarire la distinzione tra i pastori della
chiesa e le varie forme di autorità che altre comunità religiose si danno per
ragioni sociologiche e organizzative.
È infatti
nella visione della fede cristiana, propria della chiesa cattolica, che il
ministero episcopale trae la propria linfa vitale da una specifica azione dello
Spirito. Il vescovo allora non può essere inteso in sede locale quale un
delegato o un semplice rappresentante del papa, ma è autentico vicario e legato
di Gesù Cristo stesso e, per la chiesa a lui affidata, la sua persona è
principio e fondamento di unità. A questo fondamento nell’azione dello Spirito,
il card. Müller àncora la dottrina unitaria del primato papale e della
collegialità episcopale, che esprime una sollecitudine comune e complessiva per l’intera chiesa, nella sua dimensione
di communio ecclesiarum. Da questa
specifica dimensione comunionale deriva la sostanziale differenza tra la natura
del rapporto sussistente tra la chiesa universale e le chiese particolari e
quella che caratterizza le relazione tra i livelli centrali e quelli decentrati
delle organizzazioni profane.
Tra la chiesa universale e le chiese locali sussiste
un legame profondo, reale e interiore che le rende una sola chiesa, pienamente
parte del corpo di Cristo, sotto la guida dei vescovi cum Petro et sub Petro. Di conseguenza la chiesa universale non è
la semplice somma delle chiese particolari, così come le chiese particolari non
sono mere succursali della chiesa universale.
In questa
presentazione proposta dal card. Müller si rivela davvero interessante la
visione unitaria del primato petrino e della collegialità episcopale. Questi
due contenuti non vengono compresi come due realtà distinte che esplicano in
forma autonoma i loro effetti sulla compagine ecclesiale, ma come realtà unica,
intrecciata, intercomunicante, ove i due poli del primato e della collegialità,
distinguibili sul piano intellettuale, non si danno mai, nella vita della
chiesa, allo stato puro, in forma esclusiva, distinta e autonoma. Ogni momento
e ogni istanza della chiesa ha sempre e comunque sia una valenza universale e
primaziale, sia un radicamento particolare e comunionale, profondamente
interconnessi reciprocamente e inscindibili.
A questo
elemento forte, fanno tuttavia da contraltare alcuni limiti che mi sembra
giusto porre in evidenza con grande franchezza.
1° - Anche qui
emerge, a mio avviso, una declinazione incerta della relazione dinamica
sussistente, nella testimonianza della comunità ecclesiale, tra l’aspetto della
“continuità” e quello della “novità”. In particolare là dove si tiene a
sottolineare che l’esigenza di una riforma della curia romana si sia
manifestata già prima del pontificato di papa Francesco. Questo è certamente
vero. Ma è altrettanto vero che, in una prima fase, questa esigenza si è
caratterizzata in una forma difensiva ed è venuta alla luce sotto la pressione
di condizionamenti esterni innescati da gravi distorsioni determinatesi nella
vita della chiesa. È, invece, solo con il pontificato di papa Francesco che la
prospettiva di cambiamento ha acquistato spessore e consistenza di una scelta
ecclesiale consapevole, che viene sempre più maturando e manifestando la sua
connotazione in una modalità progressivamente più condivisa.
2° - Il
riferimento al discorso di papa Francesco delle 15 malattie curiali, nonostante
la sua indubbia attinenza con il tema della riforma della curia, appare, per
certi versi, limitato al minimo indispensabile di alcune citazioni indirette e
non testuali, dove, tranne un fugace cenno all’aspirazione per una chiesa
povera e per i poveri, si è avuta cura di scegliere nel discorso del papa i
riferimenti, in esso contenuti, inerenti la distinzione tra la logica del Regno
e quella del mondo, senza alcun esplicito riferimento alla prospettiva
ecclesiologica di una “chiesa in uscita”.
3° - Di certo
il documento del card. Müller non si è riproposto di affrontare i temi del
dialogo ecumenico e interreligioso. Tuttavia non posso fare a meno di notare
una certa sottovalutazione di questi temi. Di certo l’autocomprensione che la
chiesa ha della propria esperienza religiosa e delle caratteristiche uniche
della relazione che, come comunità, sperimenta con le persone della SS.
Trinità, è un connotato peculiare e singolare, che caratterizza la nostra
comunità ecclesiale e la differenzia da altre comunità ed esperienze cristiane
o da altre tradizioni religiose. Ciò tuttavia non giustifica, né la
derubricazione delle altre comunità religiose a realtà d’“indole meramente
umana”, né la riconduzione delle forme di autorità in esse costituite a sole
motivazioni di ordine sociologico e organizzativo.
Queste
posizioni stridono fortemente con contenuti decisivi della Parola di Dio e con
acquisizioni autorevolissime dell’insegnamento della chiesa e della riflessione
teologica maturate lungo i secoli. Sul piano delle relazioni con le religioni
non cristiane, il Concilio Vaticano 2°, riprendendo l’antica intuizione della
teologia patristica dei semi del Verbo di Dio disseminati nella creazione e
nella storia, ha sottolineato che la chiesa riconosce quanto di vero e di santo
è presente nelle altre esperienze religiose.
«La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo
in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e
di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti
differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente
riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Concilio ecumenico Vaticano 2°,
Dichiarazione Nostra aetate,
2).
Allora mi
chiedo come sia possibile definire come meramente umane delle comunità
religiose che, sebbene solo parzialmente, ricomprendono elementi che la chiesa
riconosce come buoni e santi. Questi elementi parziali e limitati non hanno
comunque origine in Dio?
E sul piano dei
rapporti ecumenici, se è vero che molte chiese non declinano nello stesso modo
la comprensione della natura sacramentale della chiesa, mi chiedo se il ridurre
le forme di autorità riconosciute al loro interno a soli motivi di ordine
organizzativo e sociologico, non comporti un sostanziale travisamento della
portata teologica delle parole di Gesù «perché dove sono
due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt. 18,20).
Ritengo che queste parole di Gesù conferiscono a tutte le chiese e a tutte le
comunità cristiane uno statuto teologico di un certo spessore, che non può
essere misconosciuto né tralasciato nel momento in cui si affronta un problema
di consistente rilevanza quale quello della riforma della struttura della
curia.
Insieme
alla chiesa di Roma.
Il
card. Müller passa poi a richiamare, sia pure per sommi capi, gli elementi
teologici fondanti del ministero petrino, secondo il quale il papa rende
visibile l'unità e l’indivisibilità dell’episcopato e della chiesa intera e,
nello stesso tempo, presiede alla chiesa locale di Roma. In particolare passa
in rassegna i fondamenti scritturistici e patristici che fondano sul piano
teologico la comprensione cattolica del ministero petrino.
Il
punto logico di partenza è la lezione paolina della comunità ecclesiale come
corpo mistico (cf. 1Cor. 12,12-27), in forza della quale l’interdipendenza tra
il capo (Gesù) e le membra (la chiesa) è strettissimo. Analogamente molto
stretto, in analogia, è il legame tra il vescovo e la chiesa de questi
presieduta.
«Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le
membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo.
Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo
corpo, Giudèi o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un
solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte
membra. Se il piede dicesse: "Poiché non sono mano, non appartengo al
corpo", non per questo non farebbe parte del corpo. E se l'orecchio
dicesse: "Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo", non per
questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove
sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato? Ora, invece, Dio
ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi
tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra,
ma uno solo è il corpo. Non può l'occhio dire alla mano: "Non ho bisogno
di te"; oppure la testa ai piedi: "Non ho bisogno di voi". Anzi
proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e
le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore
rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle
decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore
onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le
varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte
le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono
con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue
membra» (1Cor. 12,12-27).
È
in forza di questo principio paolino che la tradizione afferma il primato della
chiesa di Roma. Un primato che il papa esercita insieme con la chiesa di Roma.
A
questo proposito, il card. Müller,
cita Cipriano di Cartagine, il quale ebbe a sostenere che «il vescovo è nella
chiesa e la chiesa è nel vescovo» (Cecilio
Tescio Cipriano di Cartagine, Lettere,
66,8), per evidenziare la portata dell’interrelazione sussistente tra il
pastore e la comunità presieduta. Di conseguenza – conclude il card. Müller –
non si ha vera comprensione del significato della missione del vescovo di Roma
quale pastore della chiesa universale, se non si tiene presente il suo legame
con la chiesa di Roma.
In
quanto capo visibile della chiesa di Roma, il papa è, nello steso tempo, capo
visibile della chiesa universale. Qui il card. Müller passa poi in rassegna i
due più significativi testi classici dell’antica letteratura cristiana che
affermano il valore del primato della chiesa di Roma.
In
primo luogo richiama la celebre espressione presente nell’Adversus haereses di Ireneo di Lione, secondo la quale ogni Chiesa
ogni chiesa deve accordarsi con la chiesa di Roma, in ragione della sua origine
più eccellente (propter potentiorem
principalitatem, in greco probabilmente “διαη τηην ιωκανωτεαραν αςρχηην”, traducibile con “origine più eccellente”, oppure con “più potente autorità” – cf. Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 3, 3, 2). È per la particolare autorità
derivante alla chiesa di Roma dal suo essere stata fondata per opera degli
apostoli Pietro e Paolo che tutte le chiese, come sin dall’antichità
testimoniato da padri come Ireneo di Lione, devono concordare con quella romana
nella fede apostolica.
Così
anche le note essenziali della chiesa di Roma (una, santa, cattolica e
apostolica) – sostiene ancora il card. Müller – si trovano a fortiori realizzate nella chiesa romana. Lo stesso antichissimo
titolo a essa riconosciuto di «santa romana chiesa», trova giustificazione, non
nella santità personale del suo pastore o dei suoi componenti, quanto nel suo
preservare fedelmente e nel trasmettere integralmente la tradizione degli
apostoli, il depositum fidei.
La
tradizione dei padri presenta tuttavia il primato romano non come un dominio
sulle altre chiese. La comprensione che di esso aveva Ignazio di Antiochia lo
caratterizza un ministero di presidenza
esercitato nella carità. Nella
Lettera ai romani, la chiesa di Roma
viene infatti salutata come quella che «presiede nella carità» (Ignazio di Antiochia, Lettera ai romani : saluto). Il primato
è pertanto un ministero che si esercita nell’amore, a servizio dell’unità della
fede e della comunione di tutte le Chiese, per il bene dell’umanità intera.
L’universale
ministero petrino viene esercitato dal papa in forma personale e diretta,
perché è il papa in prima persona a essere il successore di Pietro, sul quale
Gesù ha fondato la chiesa. Il papa, tuttavia, conduce questa missione con l’ausilio
della chiesa di Roma. Nel corso della storia, a partire dai vescovi delle
diocesi suburbicarie e dai presbiteri e diaconi più importanti della chiesa di
Roma, si venuto a formare il collegio cardinalizio. Così – conclude il card.
Müller – come il presbiterio, rappresentato dal consiglio presbiterale, aiuta
il vescovo diocesano, il collegio cardinalizio è similmente il consilium presbiterale del papa nel suo
servizio pastorale universale.
Quelli qui
richiamati dal card. Müller sono testi autorevolissimi, sui quali tanto si è
scritto e approfondito, che sono alla base della comprensione che la tradizione
cattolica ha nei secoli maturato del ministero della chiesa di Roma e del suo
vescovo in rapporto alla chiesa universale. Ma è anche vero che, nell’àmbito
della cristianità, la lettura e la comprensione di questi testi non è univoca e
le posizioni risultano notevolmente differenziate. È certamente naturale che,
in un contributo sulla riforma della curia, venga preso quale riferimento la
comprensione che del ministero di Pietro possiede la chiesa cattolica, ma
risulta sorprendente che non venga operato alcun cenno alle visioni che di
questo aspetto centrale dell’ecclesiologia teologica hanno le altre tradizioni
cristiane e che nessuna attenzione venga prestata all’impegno programmatico
assunto su questo tema da papa Giovanni Paolo 2°, che, nella Ut unum sint (par. 95), allorché ebbe a
esprimere l’esigenza di trovare una forma di esercizio del primato che, senza
rinunciare in alcun modo all’essenziale della sua missione, possa aprirsi alla
situazione nuova determinata dalla constatazione delle aspirazioni ecumeniche
espresse dalla maggior parte delle comunità cristiane e dall’esigenza di porsi
in ascolto delle sollecitazioni che in tal senso pervengono alla chiesa
cattolica.
«Sono convinto di avere a questo riguardo una
responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica
della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è
rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando
in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione
nuova. Per un millennio i cristiani erano uniti "dalla fraterna comunione
della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede
romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina"»
(Giovanni Paolo 2°, Lettera
enciclica Ut unum sint, 95).
Mi sarei
legittimamente aspettato che la prospettiva di una declinazione ecumenica del
tema del ministero petrino fosse stata in qualche modo oggetto delle
riflessioni del card. Müller.
Un altro
elemento che mi ha sinceramente sorpreso è dato dalla concentrazione del
riferimento scritturistico sul mistero della chiesa alla sola, per quanto
decisiva e centrale, immagine paolina
della chiesa come “corpo di Cristo”, passando sotto silenzio le numerose altre immagini
che la scrittura offre per rappresentare la chiesa e l’unità della comunità dei
credenti in Cristo nostro Signore.
Gli esempî
offerti dalla scrittura sono numerosi e tutti capaci di arricchire notevolmente
la nostra comprensione della chiesa. È il caso, per esempio, dell’immagine
della chiesa quale «popolo di Dio», che affonda le proprie radici nella
tradizione primotestamentaria e che manifesta con forza come la chiesa sia
l’esito di una straordinaria e universale manifestazione della misericordia di
Dio (cf. 1Pt. 2,9-10).
«Voi invece siete stirpe
eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha
chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di
Dio; un tempo eravate esclusi dalla
misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia» (1Pt. 2,9-10).
All’idea della
chiesa «popolo di Dio» il Concilio Vaticano 2° ha poi dedicato l’intero
capitolo 2° della Lumen gentium:
«Tutti gli uomini sono
chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e
unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si
adempia l'intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura
umana una e volle infine radunare insieme i suoi figlî dispersi (cf. Gv.
11,52). A questo scopo Dio mandò il Figlio suo, al quale conferì il dominio di
tutte le cose (cf. Eb. 1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti,
capo del nuovo e universale popolo dei figlî di Dio. Per questo infine Dio
mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la
Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di unità,
nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del
pane e nelle preghiere (cf. At. 2,42)» (Concilio ecumenico Vaticano 2°, Costituzione
dogmatica Lumen gentium, 13).
L’esigenza,
giustamente richiamata dal card. Müller, di affrontare l’impegno per una
riforma della curia alla luce di un’attenta riflessione sulla natura più
autentica della chiesa, può ricevere da un approfondimento della nozione di
«popolo di Dio», che pone in luce la dimensione universale della chiesa, la sua
vocazione ad accogliere tutti gli uomini di ogni popolo e di ogni cultura.
Allo stesso
tempo un richiamo all’idea, anch’essa fondata nella scrittura, che declina la
chiesa prendendo come
esempio il rapporto che intercorre tra il pastore e le proprie pecore (cf. Gv.
10,1-16).
«"In verità, in
verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi
sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta,
è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce:
egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha
spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo
seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma
fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei". Gesù
disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: "In verità, in verità io vi dico: io sono
la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e
briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra
attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro
non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano
la vita e l'abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà
la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le
pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e
il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa
delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore
conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia
vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto:
anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo
gregge, un solo pastore» (Gv. 10,1-16).
La
sollecitudine del buon pastore per le proprie pecore è un’idea guida
fondamentale per integrare nella visione della chiesa che deve presiedere a
un’autentica riforma l’attenzione decisiva per i peccatori, per chi sbaglia,
per chi è lontano. È l’idea decisiva proposta dalla parabola della pecora
smarrita (cf. Mt. 18,12-14), dove il pastore ha a cuore maggiormente il destino
della pecora smarrita che quello delle novantanove pecore al sicuro nel
recinto.
«Che cosa vi pare? Se un
uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui
monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se
riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non
si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche
uno di questi piccoli si perda» (Mt. 18,12-14).
Destinazione universale
della chiamata e attenzione prioritaria ai lontani e agli erranti costituiscono
un complemento decisivo e irrinunciabile per configurare la struttura di una
chiesa in “uscita”, che vuole declinare l’articolazione necessaria e
ricchissima di potenzialità tra ministero petrino e collegialità nella
prospettiva di annunciare a tutti gli uomini della nostra epoca la gioia e la
novità del Regno di Dio.
Al
servizio del primato petrino.
Dopo
aver richiamato i connotati essenziali della comprensione cattolica del primato
petrino, il card. Müller passa a sottolineare come tale ministero sia condotto
personalmente dal sommo pontefice in forma diretta, in quanto egli è in prima
persona il successore di Pietro.
Il
papa svolge comunque questa missione con il sostegno della chiesa di Roma. Tale
sostegno alla missione del primato petrino offerto dalla chiesa di Roma, nel
corso della storia, si è venuto configurando attraverso il lento sedimentarsi
del collegio cardinalizio a partire dai vescovi delle chiese suburbicarie e dai
presbiteri e diaconi più importanti della chiesa di Roma, che, pian piano,
analogamente alla funzione di ausilio che il consiglio presbiteriale assicura
ai vescovi delle chiese particolari, è venuto ad acquisire il carattere di vero
’e proprio consilium presbiteriale
del papa, per assisterlo nel suo servizio pastorale a beneficio della chiesa
universale.
Il card.
Müller avvia poi una serie di distinzioni, attraverso le quali tiene a chiarire
che la curia non interferisce nel carattere immediato e diretto che, in forza
del principio della collegialità, sussiste tra il papa e i vescovi. Funzione
della curia è fornire un’assistenza diretta al papa nella sua missione
pastorale e dottrinale, mettendo a sua disposizione mezzi e strumenti adeguati
e utili, grazie all’opera di cardinali e vescovi, scelti dal papa e preposti a
specifici àmbiti di competenza. Il papa, per contro, non è in alcun modo
condizionato dalle funzioni sella curia e, tantomeno, subordinato a esse. Anzi
è la curia ad avere come propria specifica peculiarità funzionale quella di
sostenere il papa nel suo servizio per il bene della chiesa universale.
Allo stesso modo la curia non va confusa
con le istituzioni civili dello stato vaticano ed è opportuno aver chiara la
diversità di funzione tra la curia e, altre istituzioni, quali il sinodo dei
vescovi e le conferenze episcopali. Si tratta di funzioni di certo connesse
l’una alle altre, ma da tenere
chiaramente distinte. Mentre le istituzioni episcopali partecipano
all’espressione della cattolicità della chiesa e interpretano la cura per tutta
la chiesa, la curia si configura come un organismo operativo di servizio,
articolato per competenze, che fa diretto riferimento all’azione del santo
padre. Ciò tuttavia non riduce la sua attività a una funzione meramente
esecutiva. Essa anzi detiene un carattere eminentemente spirituale, che trova
espressione nello stile collegiale, dove il responsabile di un dicastero ha,
sì, un ruolo di presidenza e rappresentanza, ma tutti i padri partecipano ai
lavori e alle riunioni con pari responsabilità e sollecitudine nei confronti
del bene della chiesa universale. Non solo! La curia si configura anche come
un’autentica famiglia spirituale, con un conseguente orientamento pastorale,
che si manifesta nella mutua cooperazione e nella carità, nella preghiera e
nell’eucarestia, nella meditazione comune, nonché negli impegni di carattere
pastorale e nella predicazione.
Anche su questa
parte delle riflessioni proposte dal card. Müller mi sento di dover fare, a mia
volta, delle mie personali riflessioni.
È certamente
significativo l’accennato percorso storico che, nei secoli, ha portato alla
costituzione e all’affermazione della struttura della curia come istituzione al
servizio della missione del papa per il bene di tutta la chiesa. Ma proprio
questo riferimento alla storia, che ha presieduto all’affermazione
dell’istituzione curiale, è anche il segno che la fede si vive e s’incarna
nella storia e che in questa occorre cogliere con autenticità le nuove esigenze
d’incarnazione e testimonianza e comprendere le forme nuove che antiche, nobili
e consolidate istituzioni devono assumere per meglio assolvere alla propria
funzione di servizio.
Da qui la mia
meraviglia, per l’assenza nel contributo del card. Müller di un qualsiasi
riferimento alla 15 malattie denunciate da papa Francesco. Nei dicasteri della
curia romana sono e sono stati presenti personalità di alto, altissimo profilo
personale e spirituale. Non solo! Sono anche convinto che il papa, per meglio
condurre la propria missione per il bene della chiesa universale, abbia la
necessità di una struttura attiva, collaborativa, agile, efficiente,
competente, ma soprattutto ricca di spiritualità, amore per la chiesa e spirito
di servizio. Nell’epoca contemporanea, tuttavia, come già aveva intuito
profeticamente l’assise conciliare, le coordinate delle relazioni tra la chiesa
e il mondo sono profondamente mutate. Ha acquisito un profilo del tutto nuovo,
per esempio, la sfera delle relazioni con le varie culture e l’esigenza
d’incarnare la fede in contesti culturali diversi e, tuttavia, comunicanti, ma
mai omologhi. Le chiese particolari sono cresciute, sono maturate, divenute
adulte, capaci di esprimere modalità originali d’incarnare e testimoniare la
fede. Tutto questo, e molto altro ancora, chiede a gran voce che si ricerchino
e si trovino vie nuove per l’esercizio del ministero petrino e, allo stesso
tempo s’individuino funzioni nuove e articolazioni alternative e più
rispondenti alle nuove esigenze, delle strutture che cooperano per il miglior
esercizio della missione universale del papa. Per fare questo, naturalmente, il
punto di partenza è l’onesta considerazione degli errori compiuti, delle strade
sbagliate intraprese, delle valutazioni ingenerose operate. Cosa questa che non
esclude che vengano poi posti in luce i tesori di esperienza, di studio, di
dedizione riversati negli anni a servizio della chiesa. In questo ci viene in
ausilio la stessa pratica liturgica, che abitualmente apre le sante
celebrazioni con l’ammissione delle nostre colpe e dei nostri peccati e il
riconoscimento dell’umana piccolezza, per lasciare poi il passo all’offerta al
Signore del frutto del nostro lavoro, sul quale s’invoca la sua paterna
benedizione. È proprio questa pratica, consolidata nella vita ecclesiale, che
rende francamente incomprensibile il silenzio del card. Müller. L’ammonizione
paterna di papa Francesco, pur definita un’esortazione spirituale alla
conversione, parla con chiarezza di “malattie” (malattie naturalmente non solo
della curia romana, ma certamente “anche” della curia romana), per le quali è,
dunque, necessario individuare le cure più adeguate ed efficaci. Il termine
“malattia”, utilizzato da papa Francesco, è naturalmente un termine analogo,
che caratterizza non fenomeni episodici e isolati, ma delle attività, delle
prassi, dei costumi e degli atteggiamenti che hanno assunto una certa
diffusione e che alterano la vita ordinaria dei singoli e delle strutture
ecclesiali, analogamente a come una malattia altera la vita fisica e
relazionale di una persona e degli ambienti in cui questa è inserita. Operare
una giusta diagnosi dei mali, ricercare le cure più adeguate, individuare le
più promettenti vie di guarigione, costituisce un autentico servizio agli
ammalati e a quanti di tali mali soffrono, ma è anche un campo immenso aperto
alla ricerca e alla riflessione teologica. Stupisce quindi che in un documento
che, nel proprio complemento del titolo, si propone di ricercare criterî
teologici per una riforma della chiesa e della curia romana, non abbia dedicato
nessun pensiero a questo aspetto.
Per
una vera riforma della curia.
L’invito
formulato dal card. Müller è, in definitiva, quello di rivolgere le menti allo
Spirito santo, che opera concretamente per la creazione della più opportuna
armonia tra i poli dell’unità e della molteplicità, tra chiesa universale
e chiese particolari, ma anche all’interno
di ciascuna comunità ecclesiale. In una tale logica favorire la
decentralizzazione di funzioni alle conferenze episcopali non significa
attribuire a esse più potere, ma porle solo in condizione di esercitare più
pienamente la propria potestà episcopale di magistero e di governo nelle
comunità locali, in piena comunione con il primato del papa e della chiesa
romana.
In
questo quadro un’autentica riforma della curia romana e della chiesa deve
riproporsi lo scopo di render più luminosa la missione del papa e della chiesa
nel mondo di oggi e di domani. E tutto ciò assume particolare rilevanza se si
tiene conto – sostiene il card. Müller – della sfida lanciata alla chiesa dal
secolarismo globale, che, che in una forma del tutto inedita punta a definire
l’uomo senza Dio, chiudendo la porta alla trascendenza e distruggendo i
fondamenti comuni dell’umano.
La
«dittatura del relativismo» (Benedetto 16°) e la «globalizzazione
dell’indifferenza» (Francesco), conducono a confondere i confini tra verità e
menzogna, tra bene e male. La sfida per la chiesa nel suo complesso (pastori e
popolo di Dio) sta – è convinzione del card. Müller – nel resistere a queste
infezioni mondane e nella cura delle malattie spirituali del nostro tempo.
In
questo quadro papa Francesco sta perseguendo una spirituale purificazione del
tempio. Un’operazione, che è allo stesso tempo dolorosa e liberatrice, che
tuttavia può consentire di far meglio risplendere nella chiesa la gloria di
Dio, luce per tutti gli uomini.
Uno
sforzo, quello della riforma della curia e della chiesa, che può essere
pienamente compreso – con quest’affermazione il card. Müller pone termine al
suo contributo – se ricordiamo e facciamo nostre le parole di Giovanni: «lo
zelo per la tua casa mi divora» (Gv. 2,17).
Il card. Müller conclude la sua riflessione invitando a rivolgere le menti
allo Spirito santo, principio autentico di armonia, per ogni comunità, tra i
poli, apparentemente contrapposti, ma in realtà complementari dell’unità e
della molteplicità, del particolare e dell’universale, e mettendo in pratica le
parole dell’evangelo di Giovanni: «lo zelo per la tua casa mi divora» (Gv.
2,17). Tuttavia il card. Müller non riesce a compiere il salto da una
contrapposizione tra la chiesa e il mondo e una compromissione della chiesa nel
mondo. La preoccupazione della distinzione tra verità e menzogna, tra bene e
male, dimenticando che la prima preoccupazione della chiesa dev’essere la
centesima pecorella smarrita, che la chiesa è chiamata a lasciare tutto per parlare
con gli uomini e le donne concrete, per essere loro compagna di strada, certo
per segnalare loro i pericoli disseminati lungo il loro cammino, ma per
condividere le loro gioie e i loro dolori e per annunciare loro la gioia del
Regno di Dio.
È in una chiesa compromessa con il mondo, che non teme di sedere a mensa
con i pubblicani e con le prostitute, che la curia romana può esprimere la sua
dimensione autenticamente spirituale solo se sceglie di eleggere il valore del
“servizio” quale l’elemento primario della propria missione nella chiesa e nel
mondo, mostrando la propria docilità allo Spirito che le chiede di cooperare
alla sua azione di creare armonia tra i poli della molteplicità e dell’unità,
della particolarità e dell’universalità. Una sfida affascinante che la curia,
se accetta la nuova ventata primaverile di Francesco, può raccogliere con
entusiasmo.
«Prima della festa di
Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al
Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante
la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone
Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle
mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le
vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò
dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli
con l'asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi
gli disse: "Signore, tu lavi i piedi a me?". Rispose Gesù:
"Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo". Gli
disse Pietro: "Tu non mi laverai i piedi in eterno!". Gli rispose
Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me". Gli disse Simon
Pietro: "Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il
capo!". Soggiunse Gesù: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di
lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti".
Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: "Non tutti siete
puri".
Quando ebbe lavato loro i
piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: "Capite quello
che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene,
perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi,
anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio,
infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv. 13,1-15).
Sergio Sbragia
Vico Equense, lunedì 16 marzo 2015
[1]
- Nell’analisi del contributo del card. Müller cercherò di seguire i paragrafi
redazionali in cui è articolato il suo lavoro nella presentazione che di esso
propone la rivista «Il Regno - Documenti».
[2]
- Ricordo che con il termine “gallicanesimo” si indica un insieme di tendenze
dottrinali e di atteggiamenti politici, proprî della Francia monarchica,
inerenti l’ampiezza e i limiti dell’estensione sul territorio francese
dell’autorità spirituale e temporale del papato, sia alle relazioni di questo
con l’autorità politica francese (cf. Enciclopedia
Treccani on-line, voc.: Gallicanesimo).
[3]
- Con il termine “febronianésimo”
in genere ci si riferisce alla dottrina giurisdizionalista, messa a punto da
Giustino Febronio (pseudonimo di Johann Nikolaus von Hontheim, 1701-1790) nella
sua opera Dello stato della Chiesa (1763), il
quale contestava il primato giurisdizionale del papa, attribuendolo al
concilio. Il febronianésimo,
che negava al papa il diritto di ingerenza nella condotta delle Chiese
nazionali, influenzò la politica religiosa di Giuseppe 2° d'Austria e del
granduca Pietro Leopoldo di Toscana, protagonisti dell'assolutismo illuminato
nella seconda metà del 18° secolo (cf. Enciclopedia Treccani on-line, voc.: Febronianésimo).
[4]
- Il “giuseppinismo”, a sua volta, è una forma di politica
ecclesiastica, d'indirizzo giurisdizionalistico, attuata negli stati
dell'Impero asburgico da Giuseppe 2°, volta a eliminare ogni giurisdizione
papale sull'ordinamento ecclesiastico cattolico nei territori asburgici. Fu
operante in Austria, in modo più o meno profondo, fino alla conclusione del
Concordato del 1855 (cf. Enciclopedia
Treccani on-line, voc.: Giuseppinismo).
[5]
- Con la denominazione di “patronato reale” (o patronato regio) s’intende una
particolare condizione di privilegio canonico, che sin dalle origini si
riallaccia a un antichissimo istituto del diritto romano, che contrassegnava la
relazione di dedizione e protezione che legava i clientes
con il pater familias, che pertanto veniva definito patronus.
Tale
istituto fu preso come riferimento nell’ordinamento canonico, sin dai secoli
più antichi, per indicare alcune forme di privilegio ecclesiastico, che accordavano
ai fondatori di chiese e istituti e ai loro successori il diritto di nominare
gli amministratori al patrimonio destinato a tali scopi e anche di proporre gli
ecclesiastici, purché essi stessi li mantenessero e il vescovo li avesse
riconosciuti degni.
Il patronato reale (o
regio), che pur si riallaccia antichissimo istituto del patronato canonico, in
età moderna veniva concesso al sovrano, indipendentemente dal fatto che questi
avesse fondato o dotato delle chiese. Al sovrano veniva accordato il potere di proporre o presentare
candidati per determinati beneficî ecclesiastici, per lo più alle sedi
vescovili. È stato un privilegio che per secoli è stato elargito in sede
concordataria. Non è più previsto nei concordati della Santa Sede con gli stati
del nostro tempo, che sono ispirati a una maggiore preoccupazione
d'indipendenza ecclesiastica dall'autorità laica (cf. Arturo Carlo Jemolo, Renato Karzolo, Emilio Albertario,
voc. Patronato, in Enciclopedia Italiana 1935
on-line).