lunedì 16 marzo 2015

Il “parlar chiaro” di papa Francesco e il silenzio del card. Müller





Sul numero 6 de «Il Regno : Documenti» è stato pubblicato un interessantissimo documento del card. Gerhard Ludwig Müller.


Gerhard Ludwig card. Müller, Purificare il tempio : Criteri teologici per una riforma della Chiesa e della curia romana, in «Il Regno : Documenti», 60. (2005) 06, p. 4-6.


Questo, pubblicato dal prefetto della Sacra Congregazione per la dottrina della fede, è un testo di grande interesse, che merita di essere letto, analizzato e compreso in profondità. Esso si pone in diretta relazione con il Discorso di papa Francesco alla curia romana per la presentazione degli auguri natalizî: “Il corpo curiale e le sue malattie” del 22 dicembre 2014, nel quale erano state poste in evidenza con grande efficacia espressiva le esigenze pastorali e paterne di curare le più gravi “malattie” presenti nel corpo della curia romana (anche se non esclusivamente in questa). Non solo! Papa Francesco non aveva evitato di invitare paternamente a una chiara azione collegiale per guarire e superare tali malattie a prevenirle per il futuro. A questo discorso di papa Francesco, nelle scorse settimane ho avuto l’opportunità di dedicare qualche piccola riflessione (http://sergiosbragia.blogspot.it/2015/02/le-quindici-malattie-evidenziate-da.html).
Il card. Müller, infatti, tiene a porre in evidenza che:

«Nel discorso alla curia per gli auguri di Natale del 2014 il santo padre ha sottolineato l’assoluta prevalenza della finalità spirituale della Chiesa su ogni mezzo terreno, che non deve mai diventare fine a se stesso. Questo discorso rappresenta un’e­sortazione spirituale e un esame di coscienza per tutta la Chiesa. Non sono la grandezza dei beni della Chiesa o il numero di dipendenti nelle nostre strutture amministrative la bussola di orientamen­to del rinnovamento della Chiesa; lo è, invece, lo spirito di amore nella cui forza la Chiesa serve gli uomini attraverso la predicazione, i sacramenti e la carità» (G. L. Müller, Purificare il tempio… cit., p. 5).

L’appello natalizio di papa Francesco ci ha richiamato con un linguaggio di alta ispirazione e coinvolgente, ma allo stesso tempo decisamente chiaro, a inaugurare insieme un cammino di conversione e di adesione all’annuncio della buona notizia della vicinanza del Regno di Dio. Un cammino da condurre insieme, lasciandoci guidare dalla mano paterna e autorevole di papa Francesco, e che chiede a tutti e a ciascuno di compiere autentici passi di conversione.
Questo autorevole richiamo di papa Francesco chiede, tuttavia, di essere chiaramente declinato in una concreta riforma della curia romana, che è oggi all’ordine del giorno dei lavori degli organismi vaticani.
E il card. Müller, con la sua riflessione, ha inteso proprio fornire un contributo autorevole, quale titolare di uno più dei significativi dicasteri della Santa Sede: la Sacra Congregazione per la dottrina della fede. In vista dell’articolazione della riforma della struttura della Santa Sede ha tentato d’individuare i possibili criterî teologici che potrebbero presiedere alla sua realizzazione[1].


Purificare il tempio.

Premettendo che il riferimento primario della chiesa è il Vangelo, la verità e la salvezza, il card. Müller ha posto in evidenza come, lungo i secoli, ogni volta che la chiesa ha concretamente operato per liberarsi dalla mentalità mondana e da modelli terreni di esercizio del potere, ha potuto fare esperienza di nuove e inedite strade di rinnovamento spirituale in Gesù Cristo, suo capo e fonte di vita. E questo in virtù del dato, che il punto primario dell’insegnamento, della vita e della costituzione della chiesa, non è il dominium dei re, ma il ministerium degli apostoli, sulla scorta dell’insegnamento paolino, secondo il quale:

«Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia» (2Cor. 1,24).

Ciò è testimoniato da numerosi tentativi di riforma che, lungo i secoli sono stati avviati nella compagine ecclesiale, dalla riforma gregoriana del secolo 11°, a quella tridentina del 16° secolo, per addivenire a quella innescata dal Concilio Vaticano 2°, nella quale sono giunti a confluenza i movimenti di rinnovamento biblico, patristico, liturgico ed ecclesiologico del 19° e 20° secolo.
Il card. Müller prende atto che, in alcune circostanze storiche, il potere temporale si è talvolta sovrapposto alla missione spirituale, che nella relazione tra potere politico e servizio spirituale spesso è emerso l’influsso corruttore di criterî ispirati al potere e al prestigio. Addirittura devastanti sono definiti i sistemi delle chiese di stato, che si sono affermati in epoca moderna, così come si sono venuti configurando nel gallicanesimo[2], nel febronianésimo[3] e nel giuseppinismo[4], ma anche la sottomissione della chiesa alla ragion di stato, che si è registrata attraverso il patronato reale[5] negli imperi spagnolo e portoghese.
Il card. Müller tiene allora a rilevare che la chiesa trae coscienza della propria realtà e consapevolezza autentica del proprio significato non dal consenso sociale, né dalla funzione del cristianesimo quale religione civile, né dalle relazioni con il potere politico, ma dalla parola di salvezza rivolta agli uomini, specialmente ai poveri. Il Signore, infatti, ha istituito la chiesa come universale sacramento di salvezza, affinché «tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tim. 2,4). La chiesa dunque non può comprendere se stessa, né può rendere ragione al mondo della propria missione facendo ricorso a standard di potere, di ricchezza e di prestigio. Una riflessione sulla natura e sulla missione della chiesa – è questa la prima conclusione cui perviene il card. Müller – costituisce il fondamento e il presupposto di ogni vera riforma.
Il card. Müller tiene poi a porre in guardia da una possibile reazione riduttiva, che potrebbe indurre, in ragione della verificata fragilità umana, a un cedimento in direzione di una spiritualizzazione della chiesa, cioè di rinchiuderla in un àmbito di meri ideali e sogni, posto al di là della sfera della tentazione, del peccato, della morte e del diavolo, dimenticando che per giungere alla gloria della resurrezione è necessario fare esperienza della sofferenza e del dolore.
Secondo una certa analogia con il mistero dell’incarnazione, la chiesa sperimenta un’unità interiore di comunità spirituale e, allo stesso tempo, di assemblea visibile al servizio dello Spirito, come segno e strumento di salvezza, al fine di continuare l’opera di Cristo nella storia.
La chiesa – è la seconda conclusione del card. Müller – pur essendo santa e santificante in quanto santificata da Dio, comunque, in relazione al pellegrinaggio di fede degli uomini sulla terra, è «sempre bisognosa di purificazione» e «avanza continuamente per il cammino della penitenza e della purificazione» (Concilio ecumenico Vaticano 2°, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 8).

In questo paragrafo il card. Müller conduce in effetti una riflessione secondo gli schemi consolidati dell’ecclesiologia teologica, ponendo in evidenza la dimensione sacramentale della comunità ecclesiale che, nella storia e tra gli uomini, continua l’azione salvifica di Gesù. Una realtà, quella della chiesa, che lungi dal concretizzarsi in un’astrazione spiritualistica, la vede quotidianamente e permanentemente immersa nella vita terrena a misurarsi con la prova della tentazione, della sofferenza e del peccato. Il card. Müller, certamente pone in evidenza che ogni sforzo di liberazione dalla mentalità mondana e da forme terrene di esercizio del potere porta la comunità ecclesiale a vivere straordinarie esperienze di rinnovamento spirituale. E questo in ragione della connaturata disposizione al “servizio” in luogo del “dominio”, egli lo vede confermato in particolare in alcuni momenti forti della storia della chiesa (riforma gregoriana, riforma tridentina e Vaticano 2°).
Si tratta di un’argomentazione forte, fondata e condivisibile. Tuttavia non posso fare a meno di evidenziare in essa due limiti che cercherò di esplicitare nella forma più chiara possibile.
Il primo limite è, a mio avviso, riscontrabile in una non piena e compiuta declinazione della relazione chiesa-mondo. Di certo non è praticabile un isolamento della chiesa dal mondo, in una sorta limbo spirituale disincarnato. Allo stesso tempo è altrettanto certo che la logica della chiesa non può essere la logica del mondo. Ma è anche vero che rifiuto della fuga del mondo e  rifiuto della logica mondana non esauriscono la relazione della chiesa con il mondo. Sull’esempio di Gesù, noi suoi seguaci, non possiamo non seguirlo nel suo esempio concreto di maestro itinerante sui sentieri della Giudèa e della Galilèa, sentieri che percorse chinandosi solidale sulle sofferenze e sulle lacrime delle donne e degli uomini che incontrava sul suo cammino, ma anche prendendo parte alle gioie genuine del suo tempo, tanto da attribuirsi, sia pur con una punta di polemica, l’appellativo di “mangione” e “beone” (cf. Mt. 11,19). La comunità ecclesiale è dunque chiamata a vivere la lezione conciliare di condividere le gioie e le speranze, ma anche il dolore e le lacrime dell’umanità (cf. Concilio ecumenico Vaticano 2°, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 1). Non solo! La chiesa è invitata anche a raccogliere la sfida di mettere in moto la dovuta capacità di discernimento per riconoscere nella nostra realtà i numerosi semi del Verbo divino, che essa, nonostante tutto, contiene e che, a uno sguardo superficiale possono facilmente sfuggire.
Questo aspetto, a dire il vero, non sembra sufficientemente sviluppato nel contributo del card. Müller, mentre viene di continuo messo in luce dalle parole e dai gesti di papa Francesco.
L’altro punto problematico, a mio parere, sta nella declinazione della relazione tra “dominio” e “servizio”, che si esplicita nell’esigenza della comunità ecclesiale di essere sempre bisognosa di purificazione e di non trascurare mai la dimensione della penitenza e del rinnovamento, tensione che il card. Müller vede esemplificativamente, ma esemplarmente concretizzata in alcuni momenti topici della storia della chiesa (riforma gregoriana, riforma tridentina, Concilio Vaticano 2°). Di certo la tensione alla purificazione e al rinnovamento è una predisposizione connaturata e permanente della comunità ecclesiale, ma la presentazione che ne viene offerta rischia di proporla come un elemento abituale e, quindi, sostanzialmente statico e scontato, della vita della chiesa e mostra di soffrire di una non compiuta elaborazione dello stretto rapporto intercorrente, nella comprensione teologica della chiesa, tra i temi della “continuità” e della “novità” che, lungi dall’essere reciprocamente alternativi, sono in realtà strettamente connessi, nel senso che il primo e più fondato elemento di continuità con l’opera di Gesù è la capacità di annunciare alle donne e agli uomini di ogni luogo e di ogni epoca la “novità” del Regno di Dio, che fa nuove tutte le cose.
La permanente vocazione penitenziale della chiesa, implica allora una quotidiana pratica della conversione, che vuol dire una scelta di cambiare vita, di abbandonare sentieri rivelatisi ciechi, di sperimentare nuove strade. Il rinnovamento, l’innovazione, il coraggio di uscire in mare aperto divengono così i connotati decisivi di una genuina fedeltà alla tradizione della chiesa, che in definitiva è chiamata a invitare l’umanità a convertirsi e a credere alla buona notizia. La permanente ricerca lungo i secoli, della “novità” della conversione a Gesù, si rivela pertanto non un elemento statico e abituale ma una manifestazione straordinaria, dinamica, sconvolgente e sempre nuova della forza della fede in Gesù. È per questa ragione che ordinariamente non uso definire come “tradizionalisti” i cristiani “conservatori”, in quanto la conservazione del consueto, del conformismo alle abitudini consolidate, è l’esatto contrario della fedeltà alla tradizione della chiesa, che ci chiede di lasciarci coinvolgere dal nuovo, di porre mano all’aratro senza volgerci indietro, di rischiare i talenti ricevuti in dono da Dio. Sono infatti pienamente convinto che la fedeltà alla tradizione della chiesa chiama al coraggio di scelte decisive, invita a raccogliere le sfide dell’inedito e del rischioso e a uscire da rassicuranti recinti protettivi.
Il card. Müller ha poi formulato alcuni giudizî di ordine storico su alcune specifiche concrezioni dei rapporti tra la chiesa e il potere politico prodottesi nei secoli passati, formulando una valutazione fortemente negativa di alcuni sistemi di regolazione delle relazioni stato-chiesa individuate con le denominazioni di gallicanesimo, febronianésimo, giuseppinismo e patronato reale. Le critiche formulate dal card. Müller verso queste contaminazioni storiche tra trono e altare sono del tutto condivisibili, e inoltre mi sembra doveroso e legittimo poter trarre dalla storia e dall’esperienza passata le giuste lezioni. Questi giudizî, a mio avviso ineccepibili, sono tuttavia formulati in riferimento a contesti politico-sociali lontani nel tempo e sostanzialmente privi di ripercussioni sull’oggi. Risultano adottati, per così dire, con il “senno di poi”, e, per questo, si rivelano un po’ ingenerosi nei confronti dei fratelli che in quei contesti invece si sono ritrovati concretamente a incarnare e testimoniare la fede. La doverosa formulazione di giudizî storici diviene fruttuosa sul piano ecclesiale, a condizione che sia di ausilio per la conduzione di una conseguente riflessione sullo stato delle relazioni odierne tra “trono” e “altare”, nonché per imboccare l’arduo sentiero della formulazione di un giudizio in merito.
Quest’aspetto purtroppo non ho avuto modo d’incontrarlo nel documento del card. Müller, mentre è pane quotidiano delle prese di posizione di papa Francesco. Basti pensare alle citate malattie evocate in occasione dell’incontro per lo scambio degli auguri natalizî, alla condanna della cultura “dello scarto” pronunciata dinanzi alle rappresentanze del corpo diplomatico, alla denuncia formulata nel messaggio per la giornata mondiale della pace, della tragedia della schiavitù in piena epoca di universalizzazione dei rapporti, alla critica della finanziarizzazione dell’economia espressa nella visita alle istituzioni europee, alle ricorrenti prese di posizione sul valore del lavoro umano e sull’inumanità del trattamento riservato alle popolazioni migranti. Su questi argomenti scottanti, e su altri ancora, papa Francesco, per dirla in linguaggio corrente, non le manda certo a dire.


Non una struttura amministrativa ma un’istituzione spirituale.

Il card. Müller passa poi a presentare più pienamente i lavori finalizzati alla riforma della curia, ancorandoli sia all’esigenza, sentita da Benedetto 16°, di una liberazione da forme di mondanità, sia all’appello, formulato da papa Francesco, in favore di una chiesa povera e per i poveri e a non cedere a forme di auto-secolarizzazione e a una vita senza Dio.
Le parole pronunciate da papa Francesco nell’allocuzione natalizia del 22 dicembre sono poi definite un’esortazione spirituale a un esame di coscienza per tutta la chiesa, che indica, come bussola d’orientamento per un’azione di rinnovamento, non tanto la disponibilità di beni ed energie materiali, quanto la forza dell’amore con cui la chiesa si pone al servizio degli uomini.
A questo proposito il card Müller pone in rilievo come l’esigenza di porre mano a una riforma della curia sia stata avvertita già prima dell’elezione di papa Francesco, ma tiene anche a sottolineare come la stessa curia non sia una semplice struttura amministrativa, ma “un’istituzione spirituale radicata nella missione specifica della chiesa di Roma, santificata dal martirio degli apostoli Pietro e Paolo”. Nel formulare tale affermazione il prefetto della Sacra congregazione per la dottrina della fede ricorda inoltre come il ruolo della curia sia stato autorevolmente riconosciuto dal Concilio nel Decreto sulla missione pastorale dei vescovi nella chiesa Christus dominus:

«Nell'esercizio della sua suprema, piena e immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della curia romana, che perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori» (Concilio ecumenico Vaticano 2°, Decreto Christus dominus, 9).

Di conseguenza la curia, nella sua struttura organizzativa e nel suo funzionamento, si trova in relazione strettissima con la missione del vescovo di Roma che, quale successore di Pietro, costituisce – come insegna la Costituzione dogmatica Lumen gentium – il «perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli» (Concilio ecumenico Vaticano 2°, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 23).
E di questo carattere della missione di Pietro, la curia romana è pienamente partecipe. Di qui la deduzione di carattere ecclesiologico, che il card. Müller dichiara comprensibile solo alla luce della fede, che segna la distinzione tra la chiesa e altre comunità religiose d’indole meramente umana. Solo la piena comprensione nella fede del valore della potestà sacramentale e di mediazione della salvezza che informa il ministero papale ed episcopale può chiarire la distinzione tra i pastori della chiesa e le varie forme di autorità che altre comunità religiose si danno per ragioni sociologiche e organizzative.
È infatti nella visione della fede cristiana, propria della chiesa cattolica, che il ministero episcopale trae la propria linfa vitale da una specifica azione dello Spirito. Il vescovo allora non può essere inteso in sede locale quale un delegato o un semplice rappresentante del papa, ma è autentico vicario e legato di Gesù Cristo stesso e, per la chiesa a lui affidata, la sua persona è principio e fondamento di unità. A questo fondamento nell’azione dello Spirito, il card. Müller àncora la dottrina unitaria del primato papale e della collegialità episcopale, che esprime una sollecitudine comune e complessiva per l’intera chiesa, nella sua dimensione di communio ecclesiarum. Da questa specifica dimensione comunionale deriva la sostanziale differenza tra la natura del rapporto sussistente tra la chiesa universale e le chiese particolari e quella che caratterizza le relazione tra i livelli centrali e quelli decentrati delle organizzazioni profane.
Tra la chiesa universale e le chiese locali sussiste un legame profondo, reale e interiore che le rende una sola chiesa, pienamente parte del corpo di Cristo, sotto la guida dei vescovi cum Petro et sub Petro. Di conseguenza la chiesa universale non è la semplice somma delle chiese particolari, così come le chiese particolari non sono mere succursali della chiesa universale.

In questa presentazione proposta dal card. Müller si rivela davvero interessante la visione unitaria del primato petrino e della collegialità episcopale. Questi due contenuti non vengono compresi come due realtà distinte che esplicano in forma autonoma i loro effetti sulla compagine ecclesiale, ma come realtà unica, intrecciata, intercomunicante, ove i due poli del primato e della collegialità, distinguibili sul piano intellettuale, non si danno mai, nella vita della chiesa, allo stato puro, in forma esclusiva, distinta e autonoma. Ogni momento e ogni istanza della chiesa ha sempre e comunque sia una valenza universale e primaziale, sia un radicamento particolare e comunionale, profondamente interconnessi reciprocamente e inscindibili.
A questo elemento forte, fanno tuttavia da contraltare alcuni limiti che mi sembra giusto porre in evidenza con grande franchezza.
1° - Anche qui emerge, a mio avviso, una declinazione incerta della relazione dinamica sussistente, nella testimonianza della comunità ecclesiale, tra l’aspetto della “continuità” e quello della “novità”. In particolare là dove si tiene a sottolineare che l’esigenza di una riforma della curia romana si sia manifestata già prima del pontificato di papa Francesco. Questo è certamente vero. Ma è altrettanto vero che, in una prima fase, questa esigenza si è caratterizzata in una forma difensiva ed è venuta alla luce sotto la pressione di condizionamenti esterni innescati da gravi distorsioni determinatesi nella vita della chiesa. È, invece, solo con il pontificato di papa Francesco che la prospettiva di cambiamento ha acquistato spessore e consistenza di una scelta ecclesiale consapevole, che viene sempre più maturando e manifestando la sua connotazione in una modalità progressivamente più condivisa.
2° - Il riferimento al discorso di papa Francesco delle 15 malattie curiali, nonostante la sua indubbia attinenza con il tema della riforma della curia, appare, per certi versi, limitato al minimo indispensabile di alcune citazioni indirette e non testuali, dove, tranne un fugace cenno all’aspirazione per una chiesa povera e per i poveri, si è avuta cura di scegliere nel discorso del papa i riferimenti, in esso contenuti, inerenti la distinzione tra la logica del Regno e quella del mondo, senza alcun esplicito riferimento alla prospettiva ecclesiologica di una “chiesa in uscita”.
3° - Di certo il documento del card. Müller non si è riproposto di affrontare i temi del dialogo ecumenico e interreligioso. Tuttavia non posso fare a meno di notare una certa sottovalutazione di questi temi. Di certo l’autocomprensione che la chiesa ha della propria esperienza religiosa e delle caratteristiche uniche della relazione che, come comunità, sperimenta con le persone della SS. Trinità, è un connotato peculiare e singolare, che caratterizza la nostra comunità ecclesiale e la differenzia da altre comunità ed esperienze cristiane o da altre tradizioni religiose. Ciò tuttavia non giustifica, né la derubricazione delle altre comunità religiose a realtà d’“indole meramente umana”, né la riconduzione delle forme di autorità in esse costituite a sole motivazioni di ordine sociologico e organizzativo.
Queste posizioni stridono fortemente con contenuti decisivi della Parola di Dio e con acquisizioni autorevolissime dell’insegnamento della chiesa e della riflessione teologica maturate lungo i secoli. Sul piano delle relazioni con le religioni non cristiane, il Concilio Vaticano 2°, riprendendo l’antica intuizione della teologia patristica dei semi del Verbo di Dio disseminati nella creazione e nella storia, ha sottolineato che la chiesa riconosce quanto di vero e di santo è presente nelle altre esperienze religiose.

«La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Concilio ecumenico Vaticano 2°, Dichiarazione Nostra aetate, 2).

Allora mi chiedo come sia possibile definire come meramente umane delle comunità religiose che, sebbene solo parzialmente, ricomprendono elementi che la chiesa riconosce come buoni e santi. Questi elementi parziali e limitati non hanno comunque origine in Dio?
E sul piano dei rapporti ecumenici, se è vero che molte chiese non declinano nello stesso modo la comprensione della natura sacramentale della chiesa, mi chiedo se il ridurre le forme di autorità riconosciute al loro interno a soli motivi di ordine organizzativo e sociologico, non comporti un sostanziale travisamento della portata teologica delle parole di Gesù «perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt. 18,20). Ritengo che queste parole di Gesù conferiscono a tutte le chiese e a tutte le comunità cristiane uno statuto teologico di un certo spessore, che non può essere misconosciuto né tralasciato nel momento in cui si affronta un problema di consistente rilevanza quale quello della riforma della struttura della curia.


Insieme alla chiesa di Roma.

Il card. Müller passa poi a richiamare, sia pure per sommi capi, gli elementi teologici fondanti del ministero petrino, secondo il quale il papa rende visibile l'unità e l’indivisibilità dell’episcopato e della chiesa intera e, nello stesso tempo, presiede alla chiesa locale di Roma. In particolare passa in rassegna i fondamenti scritturistici e patristici che fondano sul piano teologico la comprensione cattolica del ministero petrino.
Il punto logico di partenza è la lezione paolina della comunità ecclesiale come corpo mistico (cf. 1Cor. 12,12-27), in forza della quale l’interdipendenza tra il capo (Gesù) e le membra (la chiesa) è strettissimo. Analogamente molto stretto, in analogia, è il legame tra il vescovo e la chiesa de questi presieduta.

«Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudèi o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. Se il piede dicesse: "Poiché non sono mano, non appartengo al corpo", non per questo non farebbe parte del corpo. E se l'orecchio dicesse: "Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo", non per questo non farebbe parte del corpo. Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l'udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l'odorato? Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. Non può l'occhio dire alla mano: "Non ho bisogno di te"; oppure la testa ai piedi: "Non ho bisogno di voi". Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra» (1Cor. 12,12-27).

È in forza di questo principio paolino che la tradizione afferma il primato della chiesa di Roma. Un primato che il papa esercita insieme con la chiesa di Roma.
A questo proposito, il card. Müller, cita Cipriano di Cartagine, il quale ebbe a sostenere che «il vescovo è nella chiesa e la chiesa è nel vescovo» (Cecilio Tescio Cipriano di Cartagine, Lettere, 66,8), per evidenziare la portata dell’interrelazione sussistente tra il pastore e la comunità presieduta. Di conseguenza – conclude il card. Müller – non si ha vera comprensione del significato della missione del vescovo di Roma quale pastore della chiesa universale, se non si tiene presente il suo legame con la chiesa di Roma.
In quanto capo visibile della chiesa di Roma, il papa è, nello steso tempo, capo visibile della chiesa universale. Qui il card. Müller passa poi in rassegna i due più significativi testi classici dell’antica letteratura cristiana che affermano il valore del primato della chiesa di Roma.
In primo luogo richiama la celebre espressione presente nell’Adversus haereses di Ireneo di Lione, secondo la quale ogni Chiesa ogni chiesa deve accordarsi con la chiesa di Roma, in ragione della sua origine più eccellente (propter potentiorem principalitatem, in greco probabilmente “διαη τηην ιωκανωτεαραν αςρχηην”, traducibile con “origine più eccellente”, oppure con “più potente autorità” – cf. Ireneo di Lione, Adversus haereses, III, 3, 3, 2). È per la particolare autorità derivante alla chiesa di Roma dal suo essere stata fondata per opera degli apostoli Pietro e Paolo che tutte le chiese, come sin dall’antichità testimoniato da padri come Ireneo di Lione, devono concordare con quella romana nella fede apostolica.
Così anche le note essenziali della chiesa di Roma (una, santa, cattolica e apostolica) – sostiene ancora il card. Müller – si trovano a fortiori realizzate nella chiesa romana. Lo stesso antichissimo titolo a essa riconosciuto di «santa romana chiesa», trova giustificazione, non nella santità personale del suo pastore o dei suoi componenti, quanto nel suo preservare fedelmente e nel trasmettere integralmente la tradizione degli apostoli, il depositum fidei.
La tradizione dei padri presenta tuttavia il primato romano non come un dominio sulle altre chiese. La comprensione che di esso aveva Ignazio di Antiochia lo caratterizza  un ministero di presidenza esercitato nella carità. Nella Lettera ai romani, la chiesa di Roma viene infatti salutata come quella che «presiede nella carità» (Ignazio di Antiochia, Lettera ai romani : saluto). Il primato è pertanto un ministero che si esercita nell’amore, a servizio dell’unità della fede e della comunione di tutte le Chiese, per il bene dell’uma­nità intera.
L’universale ministero petrino viene esercitato dal papa in forma personale e diretta, perché è il papa in prima persona a essere il successore di Pietro, sul quale Gesù ha fondato la chiesa. Il papa, tuttavia, conduce questa missione con l’ausilio della chiesa di Roma. Nel corso della storia, a partire dai vescovi delle diocesi suburbicarie e dai presbiteri e diaconi più importanti della chiesa di Roma, si venuto a formare il collegio cardinalizio. Così – conclude il card. Müller – come il presbiterio, rappresentato dal consiglio pre­sbiterale, aiuta il vescovo diocesano, il collegio car­dinalizio è similmente il consilium presbiterale del papa nel suo servizio pastorale universale.

Quelli qui richiamati dal card. Müller sono testi autorevolissimi, sui quali tanto si è scritto e approfondito, che sono alla base della comprensione che la tradizione cattolica ha nei secoli maturato del ministero della chiesa di Roma e del suo vescovo in rapporto alla chiesa universale. Ma è anche vero che, nell’àmbito della cristianità, la lettura e la comprensione di questi testi non è univoca e le posizioni risultano notevolmente differenziate. È certamente naturale che, in un contributo sulla riforma della curia, venga preso quale riferimento la comprensione che del ministero di Pietro possiede la chiesa cattolica, ma risulta sorprendente che non venga operato alcun cenno alle visioni che di questo aspetto centrale dell’ecclesiologia teologica hanno le altre tradizioni cristiane e che nessuna attenzione venga prestata all’impegno programmatico assunto su questo tema da papa Giovanni Paolo 2°, che, nella Ut unum sint (par. 95), allorché ebbe a esprimere l’esigenza di trovare una forma di esercizio del primato che, senza rinunciare in alcun modo all’essenziale della sua missione, possa aprirsi alla situazione nuova determinata dalla constatazione delle aspirazioni ecumeniche espresse dalla maggior parte delle comunità cristiane e dall’esigenza di porsi in ascolto delle sollecitazioni che in tal senso pervengono alla chiesa cattolica.

«Sono convinto di avere a questo riguardo una responsabilità particolare, soprattutto nel constatare l'aspirazione ecumenica della maggior parte delle Comunità cristiane e ascoltando la domanda che mi è rivolta di trovare una forma di esercizio del primato che, pur non rinunciando in nessun modo all'essenziale della sua missione, si apra ad una situazione nuova. Per un millennio i cristiani erano uniti "dalla fraterna comunione della fede e della vita sacramentale, intervenendo per comune consenso la sede romana, qualora fossero sorti fra loro dissensi circa la fede o la disciplina"» (Giovanni Paolo 2°, Lettera enciclica Ut unum sint, 95).

Mi sarei legittimamente aspettato che la prospettiva di una declinazione ecumenica del tema del ministero petrino fosse stata in qualche modo oggetto delle riflessioni del card. Müller.
Un altro elemento che mi ha sinceramente sorpreso è dato dalla concentrazione del riferimento scritturistico sul mistero della chiesa alla sola, per quanto decisiva e centrale,  immagine paolina della chiesa come “corpo di Cristo”, passando sotto silenzio le numerose altre immagini che la scrittura offre per rappresentare la chiesa e l’unità della comunità dei credenti in Cristo nostro Signore.
Gli esempî offerti dalla scrittura sono numerosi e tutti capaci di arricchire notevolmente la nostra comprensione della chiesa. È il caso, per esempio, dell’immagine della chiesa quale «popolo di Dio», che affonda le proprie radici nella tradizione primotestamentaria e che manifesta con forza come la chiesa sia l’esito di una straordinaria e universale manifestazione della misericordia di Dio (cf. 1Pt. 2,9-10).

«Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa. Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia» (1Pt. 2,9-10).

All’idea della chiesa «popolo di Dio» il Concilio Vaticano 2° ha poi dedicato l’intero capitolo 2° della Lumen gentium:

«Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l'intenzione della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle infine radunare insieme i suoi figlî dispersi (cf. Gv. 11,52). A questo scopo Dio mandò il Figlio suo, al quale conferì il dominio di tutte le cose (cf. Eb. 1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo del nuovo e universale popolo dei figlî di Dio. Per questo infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cf. At. 2,42)» (Concilio ecumenico Vaticano 2°, Costituzione dogmatica Lumen gentium,  13).

L’esigenza, giustamente richiamata dal card. Müller, di affrontare l’impegno per una riforma della curia alla luce di un’attenta riflessione sulla natura più autentica della chiesa, può ricevere da un approfondimento della nozione di «popolo di Dio», che pone in luce la dimensione universale della chiesa, la sua vocazione ad accogliere tutti gli uomini di ogni popolo e di ogni cultura.
Allo stesso tempo un richiamo all’idea, anch’essa fondata nella scrittura, che declina la chiesa prendendo come esempio il rapporto che intercorre tra il pastore e le proprie pecore (cf. Gv. 10,1-16).

«"In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei". Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse loro di nuovo: "In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv. 10,1-16).

La sollecitudine del buon pastore per le proprie pecore è un’idea guida fondamentale per integrare nella visione della chiesa che deve presiedere a un’autentica riforma l’attenzione decisiva per i peccatori, per chi sbaglia, per chi è lontano. È l’idea decisiva proposta dalla parabola della pecora smarrita (cf. Mt. 18,12-14), dove il pastore ha a cuore maggiormente il destino della pecora smarrita che quello delle novantanove pecore al sicuro nel recinto.

«Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda» (Mt. 18,12-14).

Destinazione universale della chiamata e attenzione prioritaria ai lontani e agli erranti costituiscono un complemento decisivo e irrinunciabile per configurare la struttura di una chiesa in “uscita”, che vuole declinare l’articolazione necessaria e ricchissima di potenzialità tra ministero petrino e collegialità nella prospettiva di annunciare a tutti gli uomini della nostra epoca la gioia e la novità del Regno di Dio.


Al servizio del primato petrino.

Dopo aver richiamato i connotati essenziali della comprensione cattolica del primato petrino, il card. Müller passa a sottolineare come tale ministero sia condotto personalmente dal sommo pontefice in forma diretta, in quanto egli è in prima persona il successore di Pietro.
Il papa svolge comunque questa missione con il sostegno della chiesa di Roma. Tale sostegno alla missione del primato petrino offerto dalla chiesa di Roma, nel corso della storia, si è venuto configurando attraverso il lento sedimentarsi del collegio cardinalizio a partire dai vescovi delle chiese suburbicarie e dai presbiteri e diaconi più importanti della chiesa di Roma, che, pian piano, analogamente alla funzione di ausilio che il consiglio presbiteriale assicura ai vescovi delle chiese particolari, è venuto ad acquisire il carattere di vero ’e proprio consilium presbiteriale del papa, per assisterlo nel suo servizio pastorale a beneficio della chiesa universale.
Il card. Müller avvia poi una serie di distinzioni, attraverso le quali tiene a chiarire che la curia non interferisce nel carattere immediato e diretto che, in forza del principio della collegialità, sussiste tra il papa e i vescovi. Funzione della curia è fornire un’assistenza diretta al papa nella sua missione pastorale e dottrinale, mettendo a sua disposizione mezzi e strumenti adeguati e utili, grazie all’opera di cardinali e vescovi, scelti dal papa e preposti a specifici àmbiti di competenza. Il papa, per contro, non è in alcun modo condizionato dalle funzioni sella curia e, tantomeno, subordinato a esse. Anzi è la curia ad avere come propria specifica peculiarità funzionale quella di sostenere il papa nel suo servizio per il bene della chiesa universale.
Allo stesso modo la curia non va confusa con le istituzioni civili dello stato vaticano ed è opportuno aver chiara la diversità di funzione tra la curia e, altre istituzioni, quali il sinodo dei vescovi e le conferenze episcopali. Si tratta di funzioni di certo connesse l’una alle altre, ma da tenere  chiaramente distinte. Mentre le istituzioni episcopali partecipano all’espressione della cattolicità della chiesa e interpretano la cura per tutta la chiesa, la curia si configura come un organismo operativo di servizio, articolato per competenze, che fa diretto riferimento all’azione del santo padre. Ciò tuttavia non riduce la sua attività a una funzione meramente esecutiva. Essa anzi detiene un carattere eminentemente spirituale, che trova espressione nello stile collegiale, dove il responsabile di un dicastero ha, sì, un ruolo di presidenza e rappresentanza, ma tutti i padri partecipano ai lavori e alle riunioni con pari responsabilità e sollecitudine nei confronti del bene della chiesa universale. Non solo! La curia si configura anche come un’autentica famiglia spirituale, con un conseguente orientamento pastorale, che si manifesta nella mutua cooperazione e nella carità, nella preghiera e nell’eucarestia, nella meditazione comune, nonché negli impegni di carattere pastorale e nella predicazione.

Anche su questa parte delle riflessioni proposte dal card. Müller mi sento di dover fare, a mia volta, delle mie personali riflessioni.
È certamente significativo l’accennato percorso storico che, nei secoli, ha portato alla costituzione e all’affermazione della struttura della curia come istituzione al servizio della missione del papa per il bene di tutta la chiesa. Ma proprio questo riferimento alla storia, che ha presieduto all’affermazione dell’istituzione curiale, è anche il segno che la fede si vive e s’incarna nella storia e che in questa occorre cogliere con autenticità le nuove esigenze d’incarnazione e testimonianza e comprendere le forme nuove che antiche, nobili e consolidate istituzioni devono assumere per meglio assolvere alla propria funzione di servizio.
Da qui la mia meraviglia, per l’assenza nel contributo del card. Müller di un qualsiasi riferimento alla 15 malattie denunciate da papa Francesco. Nei dicasteri della curia romana sono e sono stati presenti personalità di alto, altissimo profilo personale e spirituale. Non solo! Sono anche convinto che il papa, per meglio condurre la propria missione per il bene della chiesa universale, abbia la necessità di una struttura attiva, collaborativa, agile, efficiente, competente, ma soprattutto ricca di spiritualità, amore per la chiesa e spirito di servizio. Nell’epoca contemporanea, tuttavia, come già aveva intuito profeticamente l’assise conciliare, le coordinate delle relazioni tra la chiesa e il mondo sono profondamente mutate. Ha acquisito un profilo del tutto nuovo, per esempio, la sfera delle relazioni con le varie culture e l’esigenza d’incarnare la fede in contesti culturali diversi e, tuttavia, comunicanti, ma mai omologhi. Le chiese particolari sono cresciute, sono maturate, divenute adulte, capaci di esprimere modalità originali d’incarnare e testimoniare la fede. Tutto questo, e molto altro ancora, chiede a gran voce che si ricerchino e si trovino vie nuove per l’esercizio del ministero petrino e, allo stesso tempo s’individuino funzioni nuove e articolazioni alternative e più rispondenti alle nuove esigenze, delle strutture che cooperano per il miglior esercizio della missione universale del papa. Per fare questo, naturalmente, il punto di partenza è l’onesta considerazione degli errori compiuti, delle strade sbagliate intraprese, delle valutazioni ingenerose operate. Cosa questa che non esclude che vengano poi posti in luce i tesori di esperienza, di studio, di dedizione riversati negli anni a servizio della chiesa. In questo ci viene in ausilio la stessa pratica liturgica, che abitualmente apre le sante celebrazioni con l’ammissione delle nostre colpe e dei nostri peccati e il riconoscimento dell’umana piccolezza, per lasciare poi il passo all’offerta al Signore del frutto del nostro lavoro, sul quale s’invoca la sua paterna benedizione. È proprio questa pratica, consolidata nella vita ecclesiale, che rende francamente incomprensibile il silenzio del card. Müller. L’ammonizione paterna di papa Francesco, pur definita un’esortazione spirituale alla conversione, parla con chiarezza di “malattie” (malattie naturalmente non solo della curia romana, ma certamente “anche” della curia romana), per le quali è, dunque, necessario individuare le cure più adeguate ed efficaci. Il termine “malattia”, utilizzato da papa Francesco, è naturalmente un termine analogo, che caratterizza non fenomeni episodici e isolati, ma delle attività, delle prassi, dei costumi e degli atteggiamenti che hanno assunto una certa diffusione e che alterano la vita ordinaria dei singoli e delle strutture ecclesiali, analogamente a come una malattia altera la vita fisica e relazionale di una persona e degli ambienti in cui questa è inserita. Operare una giusta diagnosi dei mali, ricercare le cure più adeguate, individuare le più promettenti vie di guarigione, costituisce un autentico servizio agli ammalati e a quanti di tali mali soffrono, ma è anche un campo immenso aperto alla ricerca e alla riflessione teologica. Stupisce quindi che in un documento che, nel proprio complemento del titolo, si propone di ricercare criterî teologici per una riforma della chiesa e della curia romana, non abbia dedicato nessun pensiero a questo aspetto.


Per una vera riforma della curia.

L’invito formulato dal card. Müller è, in definitiva, quello di rivolgere le menti allo Spirito santo, che opera concretamente per la creazione della più opportuna armonia tra i poli dell’unità e della molteplicità, tra chiesa universale e  chiese particolari, ma anche all’in­terno di ciascuna comunità ecclesiale. In una tale logica favorire la decentralizzazione di funzioni alle conferenze episcopali non significa attribuire a esse più potere, ma porle solo in condizione di esercitare più pienamente la propria potestà episcopale di magistero e di governo nelle comunità locali, in piena comunione con il primato del papa e della chiesa romana.
In questo quadro un’autentica riforma della curia romana e della chiesa deve riproporsi lo scopo di render più luminosa la mis­sione del papa e della chiesa nel mondo di oggi e di domani. E tutto ciò assume particolare rilevanza se si tiene conto – sostiene il card. Müller – della sfida lanciata alla chiesa dal secolarismo globale, che, che in una forma del tutto inedita punta a definire l’uomo senza Dio, chiudendo la porta alla trascendenza e distruggendo i fondamenti comuni dell’umano.
La «dittatura del relativismo» (Benedetto 16°) e la «globaliz­zazione dell’indifferenza» (Francesco), conducono a confondere i confini tra verità e menzogna, tra bene e male. La sfida per la chiesa nel suo complesso (pastori e popolo di Dio) sta – è convinzione del card. Müller – nel resistere a queste infezioni mondane e nella cura delle malattie spirituali del nostro tempo.
In questo quadro papa Francesco sta perseguendo una spirituale purificazione del tempio. Un’operazione, che è allo stesso tempo dolorosa e liberatrice, che tuttavia può consentire di far meglio risplendere nella chiesa la gloria di Dio, luce per tutti gli uomini.
Uno sforzo, quello della riforma della curia e della chiesa, che può essere pienamente compreso – con quest’affermazione il card. Müller pone termine al suo contributo – se ricordiamo e facciamo nostre le parole di Giovanni: «lo zelo per la tua casa mi divora» (Gv. 2,17).

Il card. Müller conclude la sua riflessione invitando a rivolgere le menti allo Spirito santo, principio autentico di armonia, per ogni comunità, tra i poli, apparentemente contrapposti, ma in realtà complementari dell’unità e della molteplicità, del particolare e dell’universale, e mettendo in pratica le parole dell’evangelo di Giovanni: «lo zelo per la tua casa mi divora» (Gv. 2,17). Tuttavia il card. Müller non riesce a compiere il salto da una contrapposizione tra la chiesa e il mondo e una compromissione della chiesa nel mondo. La preoccupazione della distinzione tra verità e menzogna, tra bene e male, dimenticando che la prima preoccupazione della chiesa dev’essere la centesima pecorella smarrita, che la chiesa è chiamata a lasciare tutto per parlare con gli uomini e le donne concrete, per essere loro compagna di strada, certo per segnalare loro i pericoli disseminati lungo il loro cammino, ma per condividere le loro gioie e i loro dolori e per annunciare loro la gioia del Regno di Dio.
È in una chiesa compromessa con il mondo, che non teme di sedere a mensa con i pubblicani e con le prostitute, che la curia romana può esprimere la sua dimensione autenticamente spirituale solo se sceglie di eleggere il valore del “servizio” quale l’elemento primario della propria missione nella chiesa e nel mondo, mostrando la propria docilità allo Spirito che le chiede di cooperare alla sua azione di creare armonia tra i poli della molteplicità e dell’unità, della particolarità e dell’universalità. Una sfida affascinante che la curia, se accetta la nuova ventata primaverile di Francesco, può raccogliere con entusiasmo.

«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: "Signore, tu lavi i piedi a me?". Rispose Gesù: "Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo". Gli disse Pietro: "Tu non mi laverai i piedi in eterno!". Gli rispose Gesù: "Se non ti laverò, non avrai parte con me". Gli disse Simon Pietro: "Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!". Soggiunse Gesù: "Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti". Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: "Non tutti siete puri".
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: "Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv. 13,1-15).


Sergio Sbragia

Vico Equense, lunedì 16 marzo 2015



[1] - Nell’analisi del contributo del card. Müller cercherò di seguire i paragrafi redazionali in cui è articolato il suo lavoro nella presentazione che di esso propone la rivista «Il Regno - Documenti».
[2] - Ricordo che con il termine “gallicanesimo” si indica un insieme di tendenze dottrinali e di atteggiamenti politici, proprî della Francia monarchica, inerenti l’ampiezza e i limiti dell’estensione sul territorio francese dell’autorità spirituale e temporale del papato, sia alle relazioni di questo con l’autorità politica francese (cf. Enciclopedia Treccani on-line, voc.: Gallicanesimo).
[3] - Con il termine “febronianésimo” in genere ci si riferisce alla dottrina giurisdizionalista, messa a punto da Giustino Febronio (pseudonimo di Johann Nikolaus von Hontheim, 1701-1790) nella sua opera Dello stato della Chiesa (1763), il quale contestava il primato giurisdizionale del papa, attribuendolo al concilio. Il febronianésimo, che negava al papa il diritto di ingerenza nella condotta delle Chiese nazionali, influenzò la politica religiosa di Giuseppe 2° d'Austria e del granduca Pietro Leopoldo di Toscana, protagonisti dell'assolutismo illuminato nella seconda metà del 18° secolo  (cf. Enciclopedia Treccani on-line, voc.: Febronianésimo).
[4] - Il “giuseppinismo”, a sua volta,  è una forma di politica ecclesiastica, d'indirizzo giurisdizionalistico, attuata negli stati dell'Impero asburgico da Giuseppe 2°, volta a eliminare ogni giurisdizione papale sull'ordinamento ecclesiastico cattolico nei territori asburgici. Fu operante in Austria, in modo più o meno profondo, fino alla conclusione del Concordato del 1855 (cf. Enciclopedia Treccani on-line, voc.: Giuseppinismo).
[5] - Con la denominazione di “patronato reale” (o patronato regio) s’intende una particolare condizione di privilegio canonico, che sin dalle origini si riallaccia a un antichissimo istituto del diritto romano, che contrassegnava la relazione di dedizione e protezione che legava i clientes con il pater familias, che pertanto veniva definito patronus.
Tale istituto fu preso come riferimento nell’ordinamento canonico, sin dai secoli più antichi, per indicare alcune forme di privilegio ecclesiastico, che accordavano ai fondatori di chiese e istituti e ai loro successori il diritto di nominare gli amministratori al patrimonio destinato a tali scopi e anche di proporre gli ecclesiastici, purché essi stessi li mantenessero e il vescovo li avesse riconosciuti degni.
Il patronato reale (o regio), che pur si riallaccia antichissimo istituto del patronato canonico, in età moderna veniva concesso al sovrano, indipendentemente dal fatto che questi avesse fondato o dotato delle chiese. Al sovrano veniva  accordato il potere di proporre o presentare candidati per determinati beneficî ecclesiastici, per lo più alle sedi vescovili. È stato un privilegio che per secoli è stato elargito in sede concordataria. Non è più previsto nei concordati della Santa Sede con gli stati del nostro tempo, che sono ispirati a una maggiore preoccupazione d'indipendenza ecclesiastica dall'autorità laica (cf. Arturo Carlo Jemolo, Renato Karzolo, Emilio Albertario, voc. Patronato, in Enciclopedia Italiana 1935 on-line).

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