In questi giorni ho avuto modo di trovare una grande
occasione di crescita spirituale dalla lettura dell’abituale contributo di
analisi esegetica sul “Vangelo di Matteo”
fornito da padre Ernesto Vavassori e apparso sull’ultimo numero di «Tempi di
fraternità»:
Kata Matthaion Euangelion = Vangelo secondo
Matteo : 30. [Mt. 7,15-29] / Ernesto Vavassori ; a
cura di Germana Pene. – in «Tempi di
fraternità : donne e uomini in ricerca e confronto comunitario», 44. (2014) 2,
pp. 10-13.
In questo numero, padre Vavassori conduce una
lettura attenta e davvero ispirata di una particolare sezione del “Discorso del
monte”, quella dedicata alla figura dei “falsi profeti”. Ne suggerisco davvero
la lettura a tutti gli amici. Penso che non si avrà motivo di pentirsene.
Sono stato, tra l’altro, particolarmente colpito da
due riflessioni condotte da padre Vavassori.
La prima è riferita ai vv. 17-18 (“Ogni albero
buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un
albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre
frutti buoni”), dove padre
Vavassori sottolinea che la traduzione più appropriata del termine greco “σαπρὸν” sarebbe “marcio” piuttosto che “cattivo”.
Di conseguenza la giustapposizione abituale tra “albero buono e albero marcio”.
Così intesi, sostiene padre Vavassori, i
falsi profeti, Gesù li paragona a spine e rovi, perché danneggiano la vita del
gruppo, così come un albero “marcio”. Non siamo di fronte a criterio morale,
non è questione di un albero cattivo o buono, nel senso che la bontà o meno del
frutto non dipende dalla buona volontà, ma dalla qualità dell’albero. “Una vite
non si sforzerà di fare uva: la fa spontaneamente. Un rovo, per quanto si
sforzi, non farà mai uva”.
Qui,
l’evangelista Matteo usa lo stesso termine “marcio” che userà più avanti, in
Mt. 13,48, parlando della cernita tra pesci buoni e pesci marci, cioè pesci che
hanno vita e pesci che sono in putrefazione.
Allora,
il criterio per distinguere il vero dal falso profeta è vedere se è una persona
che ha vita e ti trasmette vita, nel qual caso viene da Dio, altrimenti se è
marcio, guasto, senza linfa vitale, senza amore, attento, perché fa marcire anche
te!
L’altro
spunto che ho trovato di grande interesse riguarda la distinzione, operata da padre
Vavassori a proposito dei vv. 22-23 (“Molti mi diranno in quel giorno:
Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel
tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non
vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità”), tra le espressioni “col tuo nome” [come
sarebbe più giusto tradurre le tre ricorrenze dell’espressione in questi vv.] e
“nel tuo nome”. Anche in questo caso le traduzioni correnti non rendono
pienamente la profondità di questi due versetti e rendono la risposta di Gesù
non del tutto comprensibile.
Le
persone, delle quali Gesù sta parlando, hanno realmente profetato, cacciato demòni,
e compiuto prodigî, che sono appunto le cose che Gesù chiede di fare ai
componenti della sua comunità. Si tratta di persone che non si sono limitate a
dire “Signore, Signore”, ma per ben tre volte, come è qui sottolineato, “con il
tuo nome”, essi dicono che hanno compiuto segni.
Tutto
il problema sta in questa piccola affermazione “col tuo”. Gesù chiede di
compiere le azioni “nel suo nome”, che significa nella misura in cui uno lo rappresenta,
lo rende visibile (“Tutto ciò che
chiederete nel mio nome vi verrà concesso”).
Chiedere
“nel nome di Gesù” significa piuttosto: “nella misura in cui mi assomigliate
siate tranquilli che ciò che chiedete verrà dato.
Questa
è l’unica ricorrenza, nel “Vangelo di
Matteo”, e in tutto il Secondo Testamento, dove l’espressione è diversa,
perché mentre Gesù ha invitato a compiere le azioni “nel” suo nome, essi
l’hanno fatto “al” nome, che si può tradurre letteralmente “col tuo nome”.
«Nella
misura in cui una persona si identifica in Gesù, non spersonalizzandosi, ma
arricchendo la sua personalità, inondandosi di amore ed esprimendo questo amore,
compirà queste azioni “nel nome” di Gesù, come Gesù voleva. Questi personaggî,
invece, con enfasi, mettono al primo posto l’espressione “col tuo nome”, perché
hanno usato il nome di Gesù senza un coinvolgimento della propria persona.
Hanno adoperato Gesù e il suo messaggio, e la forza di Gesù e del Vangelo,
inevitabilmente causando il bene, liberando da demoni e facendo profezie, ma
non hanno coinvolto la loro vita. È questo di Matteo, un monito di grande
severità ai componenti della sua comunità, perché siano attenti a non diventare
dei mestieranti del Vangelo, proclamando la ricchezza del messaggio di Gesù, ma
senza lasciarsene trasformare. Essi, infatti, hanno usato il Vangelo, senza far
sì che esso si radicasse in loro. È come il seme che una volta gettato
germoglia, che tu ne sia consapevole o no. È questo, un monito severo, a tutta
la comunità cristiana di ogni tempo, perché essa non rischi di cadere nell’efficientismo
del Vangelo, strumentalizzando il messaggio di Gesù invece di cercare la
somiglianza col Maestro. Il rischio è diventare dei “funzionari di Dio”, ma senza
coinvolgimento personale non si diventa discepoli di Gesù».
Vico Equense, giovedì 19
febbraio 2015
Sergio Sbragia
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