giovedì 19 febbraio 2015

Alberi buoni e alberi marci

In questi giorni ho avuto modo di trovare una grande occasione di crescita spirituale dalla lettura dell’abituale contributo di analisi esegetica sul “Vangelo di Matteo” fornito da padre Ernesto Vavassori e apparso sull’ultimo numero di «Tempi di fraternità»:

Kata Matthaion Euangelion = Vangelo secondo Matteo : 30. [Mt. 7,15-29] / Ernesto Vavassori ; a cura di Germana Pene. – in «Tempi di fraternità : donne e uomini in ricerca e confronto comunitario», 44. (2014) 2, pp. 10-13.

In questo numero, padre Vavassori conduce una lettura attenta e davvero ispirata di una particolare sezione del “Discorso del monte”, quella dedicata alla figura dei “falsi profeti”. Ne suggerisco davvero la lettura a tutti gli amici. Penso che non si avrà motivo di pentirsene.
Sono stato, tra l’altro, particolarmente colpito da due riflessioni condotte da padre Vavassori.

La prima è riferita ai vv. 17-18 (“Ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni”), dove padre Vavassori sottolinea che la traduzione più appropriata del termine greco “σαπρὸν” sarebbe “marcio” piuttosto che “cattivo”. Di conseguenza la giustapposizione abituale tra “albero buono e albero marcio”.
Così intesi, sostiene padre Vavassori, i falsi profeti, Gesù li paragona a spine e rovi, perché danneggiano la vita del gruppo, così come un albero “marcio”. Non siamo di fronte a criterio morale, non è questione di un albero cattivo o buono, nel senso che la bontà o meno del frutto non dipende dalla buona volontà, ma dalla qualità dell’albero. “Una vite non si sforzerà di fare uva: la fa spontaneamente. Un rovo, per quanto si sforzi, non farà mai uva”.
Qui, l’evangelista Matteo usa lo stesso termine “marcio” che userà più avanti, in Mt. 13,48, parlando della cernita tra pesci buoni e pesci marci, cioè pesci che hanno vita e pesci che sono in putrefazione.
Allora, il criterio per distinguere il vero dal falso profeta è vedere se è una persona che ha vita e ti trasmette vita, nel qual caso viene da Dio, altrimenti se è marcio, guasto, senza linfa vitale, senza amore, attento, perché fa marcire anche te!

L’altro spunto che ho trovato di grande interesse riguarda la distinzione, operata da padre Vavassori a proposito dei vv. 22-23 (“Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità”), tra le espressioni “col tuo nome” [come sarebbe più giusto tradurre le tre ricorrenze dell’espressione in questi vv.] e “nel tuo nome”. Anche in questo caso le traduzioni correnti non rendono pienamente la profondità di questi due versetti e rendono la risposta di Gesù non del tutto comprensibile.
Le persone, delle quali Gesù sta parlando, hanno realmente profetato, cacciato demòni, e compiuto prodigî, che sono appunto le cose che Gesù chiede di fare ai componenti della sua comunità. Si tratta di persone che non si sono limitate a dire “Signore, Signore”, ma per ben tre volte, come è qui sottolineato, “con il tuo nome”, essi dicono che hanno compiuto segni.
Tutto il problema sta in questa piccola affermazione “col tuo”. Gesù chiede di compiere le azioni “nel suo nome”, che significa nella misura in cui uno lo rappresenta, lo rende visibile  (“Tutto ciò che chiederete nel mio nome vi verrà concesso”).
Chiedere “nel nome di Gesù” significa piuttosto: “nella misura in cui mi assomigliate siate tranquilli che ciò che chiedete verrà dato.
Questa è l’unica ricorrenza, nel “Vangelo di Matteo”, e in tutto il Secondo Testamento, dove l’espressione è diversa, perché mentre Gesù ha invitato a compiere le azioni “nel” suo nome, essi l’hanno fatto “al” nome, che si può tradurre letteralmente “col tuo nome”.
«Nella misura in cui una persona si identifica in Gesù, non spersonalizzandosi, ma arricchendo la sua personalità, inondandosi di amore ed esprimendo questo amore, compirà queste azioni “nel nome” di Gesù, come Gesù voleva. Questi personaggî, invece, con enfasi, mettono al primo posto l’espressione “col tuo nome”, perché hanno usato il nome di Gesù senza un coinvolgimento della propria persona. Hanno adoperato Gesù e il suo messaggio, e la forza di Gesù e del Vangelo, inevitabilmente causando il bene, liberando da demoni e facendo profezie, ma non hanno coinvolto la loro vita. È questo di Matteo, un monito di grande severità ai componenti della sua comunità, perché siano attenti a non diventare dei mestieranti del Vangelo, proclamando la ricchezza del messaggio di Gesù, ma senza lasciarsene trasformare. Essi, infatti, hanno usato il Vangelo, senza far sì che esso si radicasse in loro. È come il seme che una volta gettato germoglia, che tu ne sia consapevole o no. È questo, un monito severo, a tutta la comunità cristiana di ogni tempo, perché essa non rischi di cadere nell’efficientismo del Vangelo, strumentalizzando il messaggio di Gesù invece di cercare la somiglianza col Maestro. Il rischio è diventare dei “funzionari di Dio”, ma senza coinvolgimento personale non si diventa discepoli di Gesù».

Vico Equense, giovedì 19 febbraio 2015
Sergio Sbragia

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