sabato 23 settembre 2017

Ma Gesù, in realtà, chi è? (8,12-20).

Di nuovo Gesù parlò loro e disse: "Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita". Gli dissero allora i farisèi: "Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera". Gesù rispose loro: "Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera. Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me". Gli dissero allora: "Dov'è tuo padre?". Rispose Gesù: "Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio". Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora (8,12-20).

Congedata la donna, la scena cambia («Di nuovo Gesù parlò loro e disse» - 8,12). Questo nuovo esordio, pone notevoli problemi al lavoro esegetico. Numerosi studiosi, con solide argomentazioni, hanno formulato l’ipotesi che il brano della donna adultera (7,53-8,11) sia in realtà una successiva inserzione redazionale in un corpus giovanneo già pervenuto a una fase avanzata di composizione. Una tale ipotesi sarebbe suffragata sia dalle caratteristiche letterarie del brano che richiama da vicino i tratti dei racconti sinottici piuttosto che quelli tipici della narrazione giovannea, sia dalla sua collocazione nell’ordito della narrazione giovannea, dove in qualche modo viene a rappresentare una soluzione di continuità nella polemica che oppone Gesù e il gruppo dei Giudèi, dispiegandosi tra i cap. 7° e 8° del “Vangelo di Giovanni”. In effetti non si può negare che l’esordio del v. 12, là dove si legge «di nuovo Gesù parlò loro e disse», può configurarsi come una ripresa del confronto già avuto con loro nel Tempio e riferito nel c. 7°.
In queste riflessioni tuttavìa ho già sottolineato la scelta di considerare il testo evangelico così come esso si presenta come testo compiuto, non perché intendo ignorare gli esiti della ricerca esegetica, ma in quanto ai fini della nostra ricerca, cioè quella di comprendere se il Vangelo di Giovanni abbia svolto un ruolo nel determinare il diffondersi entro la comunità cristiana di sentimenti antigiudaici. Per comprendere questo occorre aver presente che le più antiche comunità cristiane si sono confrontate con il testo compiuto del Vangelo e non con gli esiti attuali della ricerca esegetica. E quindi è il testo compiuto del Vangelo che può fornirci potenzialmente lumi sulla nostra pista di lavoro.
Allora quando al v. 12 leggiamo «di nuovo Gesù parlò loro», i «loro» qui considerati possono essere riconosciuti in «tutto il popolo [che] andava da lui», che abbiamo incontrato al v. 2, in esordio del brano di Gesù e l’adultera, come ci porta a pensare il testo nella redazione che ci troviamo di fronte. Oppure i «loro», cui si allude qui, possono essere quei Giudèi con i quali Gesù ha già avuto un aspro confronto nel tempio nel cap. 7. In entrambi i casi è necessario tener presente che molti dei personaggî collettivi che incontriamo nel Vangelo di Giovanni, da un lato, non sono gruppi uniformi e compatti e, dall’altro, comunicano tra loro e s’influenzano reciprocamente.
Nel brano che ci accingiamo ad analizzare gli interlocutori di Gesù sono i «farisèi», al v. 13, più avanti, al v. 22, sono i «Giudèi», cioè il gruppo di nostro più diretto interesse. Questo potrebbe far pensare adue diversi confronti, un primo con i farisèi, un secondo con i Giudèì. In realtà il fatto che il confronto avviene nel Tempio, luogo pubblico, frequentato dal popolo, ma soprattutto dai gruppi più significativi dell'universo religioso, culturale e politico di Gerusalemme, rende plausibile che la polemica di cui ci dà conto il cap. 8 abbiano preso parte persone che potevano essere collocate in uno o nell'altro dei gruppi richiamati, o, addirittura, in entrambi.
I «farisèi» si configurano in realtà come un gruppo religioso con un’identità precisa, contrassegnato dalla pratica di un’attenta verifica degli umori che si diffondono negli strati popolari e da una volontà esplicita di orientarli in direzione di una corretta pratica cultuale. All'interno di questo gruppo di certo potevano essere presenti personaltà collocate in una posizione sociale di rilievo, che potevano avvertire nella predicazione di Gesù degli elementi potenzialmente in grado di pregiudichare l’influenza politica e sociale dei gruppi dirigenti.
Il gruppo dei «Giudèi» appare invece composto dai capi dei sacerdoti e dai farisèi, una realtà quindi composita, ma rappresentativa del ceto dirigente religioso e sociale, che s’interroga sull’identità autentica di Gesù, sulla cui persona s’interroga attraverso uno sforzo interpretativo delle Scritture condotto in una forma tutto sommato letterale, piuttosto che sostanziale.
Non è da escludere, pertanto, che nella disputa possano essere intervenuti sia personaggî maggiormente conosciuti per il loro attaccamento alla liceità cultuale, sia altri personaggî più noti per il loro rilievo sociale.
È Gesù stesso ad aprire il confronto, con un'affermazione di grande spessore sulla propria identità, riferita al tema della “luce” e probabilmente indotta dalla concomitante ricorrenza della festa delle Capanne, nel cui corso si usava allestire delle luminarie, in ricordo della nube luminosa che aveva guidato gli Ebrèi nel deserto:
«Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).

Il tema della luce riveste un ruolo di grande rilievo nel “Vangelo di Giovanni”. Sin dal “Prologo”, l'evangelista ne presenta il ruolo di autentico contenuto del disegno salvifico divino:

In lui [il Verbo] era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l'hanno vinta.
[...]
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo (1,4-5.9).

La “luce” nella visione giovannea riveste una relazione intrinseca con la vita, della quale rappresenta il più autentico splendore. La luce non precede la vita, ma finisce con il coincidere con la vita, che s'impone con la sua irruzione nel mondo e nella storia e con le conseguenti possibilità di conoscenza e di scelta. La luce, così, anticipa la contrapposta realtà delle tenebre, che nonostante tutto non riesce a impedirle di splendere.
Presentandosi come la «luce del mondo», Gesù si riallaccia, al presagio annucniato nel “Prologo” dell'imminente avvento nel mondo della “luce vera” quella davvero capace d'illuminare ogni uomo.
Gesù quindi si propone come faro capace di guidare il cammino nella vita, chi sceglie di seguirlo, uscirà dal cono d'ombra delle tenebre, e avrà la “luce della vita”.
A quest'affermazione di Gesù i farisèi replicano con decisione:

«Tu dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera» (8,13).

A Gesù che si presenta come “luce del mondo” essi replicano che la sua affermazione è attestata dalle sole sue parole. Qui i farisèi si riallacciano implicitamente alla tradizione giuridica ebraica fondata sui testi primotestamentarî di Nm. 35,30, Dt. 17,6 e 19,15:

Se uno uccide un altro, l'omicida sarà messo a morte in seguito a deposizione di testimoni, ma un unico testimone non basterà per condannare a morte una persona (Nm. 35,30).

Colui che dovrà morire sarà messo a morte sulla deposizione di due o di tre testimoni. Non potrà essere messo a morte sulla deposizione di un solo testimone (Dt. 17,6).

Un solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno abbia commesso, il fatto dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni (Dt. 19,15).

In questi testi viene stabilito un principio basilare della pratica giudiziaria, col quale si destituiva di valore ogni azione fondata sulla testimonianza di una sola persona. Un principio, per altro, richiamato dallo stesso Gesù qualche versetto più avanti («nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera» - 8,17).
Gesù replica rivendicando con forza la fondatezza della propria testimonianza:

Gesù rispose loro: "Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado” (8,14).

Gesù supera a piè pari il livello meramente legalistico d'intendere il concetto di testimonianza proposto dai suoi interlocutori, per recuperare una sua comprensione molto più profondamente radicata nella Scrittura e legata alla realtà dell'Alleanza di Dio con il popolo d'Israele. L'Alleanza è l'elemento centrale della fede d'Israele. E nella Scrittura essa viene ripetutamente confermata dalla testimonianza di Dio stesso. È il caso, per esempio, di Es. 25,21-22:

Porrai il propiziatorio sulla parte superiore dell'arca e collocherai nell'arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull'arca della Testimonianza, dandoti i miei ordini riguardo agli Israeliti (Es. 25,21-22).

Dio nel primo Testamento dichiara a Mosè di essere lui personalmente testimone di quanto avvenuto, promettendogli d'incontrarlo nel luogo sacro per ecclellenza, presso l'arca della testimonianza. Dio si pone in molti modi dinanzi al popolo d'Israele come “testimone” dell'Alleanza. Propone alcuni segni, che richiamano e ricordano gl'impegni assunti con l'Alleanza (basti pensare alla tenda, all'arca e alle tavole della testimonianza).
Anche la stessa Legge, posta nell'Arca, è testimonianza esplicita dell'Alleanza (Sal. 78,5):

Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe,
ha posto una legge in Israele,
che ha comandato ai nostri padri
di far conoscere ai loro figli (Sal. 78,5).

Dio poi propone lo stesso Israele come testimone privilegiato della sua alleanza e preannuncia quale testimone il servo che si è scelto e la cui missione sarà proprio quella di farlo conoscere, di farlo comprendere e di proporre con forza la fede:

Si radunino insieme tutti i popoli
e si raccolgano le nazioni.
Chi può annunciare questo tra loro
per farci udire le cose passate?
Presentino i loro testimoni e avranno ragione,
ce li facciano udire e avranno detto la verità.
Voi siete i miei testimoni - oracolo del Signore -
e il mio servo, che io mi sono scelto,
perché mi conosciate e crediate in me
e comprendiate che sono io.
Prima di me non fu formato alcun dio
né dopo ce ne sarà (Is. 43,9-10).

Gesù si riallaccia direttamente a questa visione autenticamente biblica della testimonianza. Affermando la veridicità della propria testimonianza, con l'asserzione di sapere da dove è venuto e di sapere dove va. È questa piena consapevolezza della propria origine e della propria missione di rivelare la realtà di Dio a essere presentata come l'argomento decisivo per affermare la fondatezza della propria presentazione. Gesù si riconsoce nel servo scelto da Dio di Is. 43,10 e riecheggia la funzione di rivelatore del Padre prefigurata in (1,18):

Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato (1,18).

Anche in questo caso assistiamo a una diversa percezione della realtà. Gli interlocutori di Gesù non riescono ad andare oltre la percezione materiale del confronto, si richiudono in una lettura legalistica dell'incontro con Gesù e si rivelano incapaci del leggerne il significato e il senso nella logica dell'Alleanza. Questo passaggio da una lettura dell'incontro con la persona come un fatto del tutto ordinario e abitudinario a una comprensione della sua funzione di evento rivelatare del disegno di Dio per Israele e per il mondo. Quest'incapacità dei farisèi che Gesù ha dinanzi e che pur si propongono come persone preoccupate di offrire a Dio la più autentica forma cultuale, viene con chiarezza ascritta al fatto che essi non sanno comprendere da dove Egli venga o dove Egli vada.

Voi giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. E anche se io giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato” (8,15-16).

Gesù insiste su questa differenza, che sussiste con i suoi interlocutori, nella capacità di comprendere e di valutare la realtà («Voi giudicate secondo la carne» - 8,15). Rivendica, altresì, la validità del proprio giudizio, che è condiviso con il Padre che lo ha inviato nel mondo.

E nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera” (8,17).

Qui Gesù riprende l'argomento dei proprî interlocutori sulla validità giuridica della testimonianza univoca di almeno due persone, per evidenziare la realtà salvifica della propria missione terrena, corroborata dalla coscienza dell'essere inviato del Padre. E invita coloro che stanno animatamente dialogando con lui a riconoscere questa realtà:

Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha mandato, dà testimonianza di me" (8,18).

Di fatto la comprensione salvifica e quella giuridica della testimonianza vengono a coincidere. Il dipanarsi nella storia dell'alleanza tra Dio e il popolo d'Israele si è sempre fondato sull'unilaterale testimonianza divina. Ora la missione salvifica di Gesù oltre alla testimonianza personale dello stesso Gesù, si fonda anche sulla convergente testimonianza di Dio Padre, allineandosi così con l'usuale tradizione giuridica ebraica. Eppure anche questo non basta. Gli interlocutori di Gesù restano sul piano di una lettura materiale della realtà, rimanendo incapaci di riconoscere l'azione di Dio nella storia.

Gli dissero allora: "Dov'è tuo padre?". Rispose Gesù: "Voi non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio" (8,19).

Dinanzi alla rischiesta di poter verificare materialmente la testimonianza paterna, Gesù contesta loro l'incapacità di entrare in una relazione autentica sia con lui che con il Padre. Una conoscenza autentica di Gesù comporterebbe all'unisono una corrispondente conoscenza piena di Dio Padre.
L'evangelista conclude questo brano ponendo in evidenza il luogo nel quale si era svolta la disputa:

Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua ora (8,19).

La sottolineatura che il confronto si stava svolgendo nel tempio, nel luogo destinato alla conservazione del tesoro, pone quest'episodio in una singolare continuità con la tradizione divina di dare convegno a Mosè in luoghi di particolare rilevanza e destinati a contrassegnare evoluzioni decisive dell'alleanza, come abbiamo in precedenza visto in Es. 25,21-22.
É davvero significativo questo sforzo di Gesù di porsi in continuità con la dinamica storico-salvifica dell'alleanza. Uno sforzo purtroppo non percepito. Anche se bisogna riconoscere che comunque negli interlcutori di Gesù è comunque presente un dubbio sulla sua vera identità. Da un lato sono colpiti dai prodigî di cui sono stati testimoni e dall'autorevolezza della sua parola, dall'altro non risescono a uscir fuori dalla ristretta logica di una religiosità abitudinaria e materiale. Da qui la constatazione che non si erano ancora determinate le condizioni perché venisse deciso il suo arresto.

Sergio Sbragia
Vico Equense, sabato 23 settembre 2017


domenica 3 settembre 2017

CATTOLICI E LUTERANI: SACERDOZIO COMUNE DEI FEDELI E MINISTERO ORDINATO




Riprendiamo il nostro itinerario di analisi della Dichiarazione in cammino: Chiesa, ministero ed eucarestìa[1], avvicinandoci al primo tema di consenso relativo all’àmbito del “ministero”, che viene espresso nell’affermazione n. 14, che pone in evidenza come luterani e cattolici oggi concordino ampiamente su due punti:

- che tutti i battezzati che credono in Cristo partecipano al sacerdozio di Cristo;

e che:

- il sacerdozio comune di tutti i battezzati e lo speciale ministero ordinato si valorizzano a vicenda.


Il documento internazionale di dialogo del 1981, Il ministero pastorale della Chiesa, aveva già sostenuto che:

«martyrìa, leiturgìa e diakonìa (testimonianza, liturgìa e servizio degli esseri umani) sono affidate all’intero popolo di Dio […] Mediante il battesimo tutti costituiscono l’unico popolo sacerdotale di Dio (1Pt. 2,5.9; Ap. 1,6; 5,10)» (Il ministero pastorale della Chiesa, 15)[2].

A partire da alcuni testi significativi del Secondo Testamento il dialogo luterano cattolico rintraccia la fondazione dei lineamenti sacerdotali del popolo di Dio. È il caso in primo luogo della Prima lettera di Pietro, nella quale si sottolinea che:

«quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo […] Voi invece siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1Pt 2,5.9).

Un secondo riferimento è fornito in due luoghi dell’Apocalisse:

«[A Colui] … che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (Ap. 1,6).

«[Tu]… hai fatto di loro, per il nostro Dio,
un regno e sacerdoti,
e regneranno sopra la terra» (Ap. 5,10).

Su questo chiaro fondamento biblico si fonda il consenso sulla realtà in base alla quale i credenti attingono alla funzione sacerdotale che ha la sua piena espressione nell’umanità di Cristo. A partire da questa fonte, la salvezza può propagarsi alle genti di ogni razza, colore, cultura ed epoca. Attraverso il battesimo i credenti divengono, infatti, dimora dello Spirito e sono chiamati attraverso la propria presenza tra gli uomini a far conoscere i prodigî compiuti da colui che li ha convocati e illuminati.
La dimensione sacerdotale, riconosciuta come un carattere comune di tutti i fedeli, ha rappresentato tuttavìa nel tempo un dato di divisione, allorché si va cercare di comprendere la natura della sua relazione con la dimensione sacerdotale peculiare affidata a persone alle quali viene affidato un particolare servizio nella chiesa.
Con la richiamata affermazione, con la quale, si sottolinea che «il sacerdozio comune di tutti i battezzati e lo speciale ministero ordinato si valorizzano a vicenda», si istituisce una relazione condivisa di reciproco perfezionamento tra le due dimensioni sacerdotali. Questo elemento di consenso costituisce un notevole passo avanti, compiuto grazie alle attività di dialogo.
In effetti queste hanno permesso di riconoscere come nelle due chiese la consapevolezza della vocazione dell’intero popolo di Dio, sia stata talora trascurata, tuttavìa, i comuni approfondimenti realizzati in questi anni hanno permesso di comprendere quanto la sua comprensione risulti essenziale sia per la teologìa della Chiesa, sia per la teologìa del ministero, sino a poter consensualmente affermare:

«la dottrina del sacerdozio comune di tutti i battezzati e del carattere di servizio dei ministeri nella Chiesa e per la Chiesa costituisce attualmente per luterani e cattolici un punto di partenza comune» (Il ministero pastorale nella Chiesa, 15)[3].

Che, oggi, luterani e cattolici riconoscano congiuntamente l’assenza di competizione tra la dimensione del sacerdozio comune di tutti i fedeli e quella del sacerdozio esercitato da persone alle quali viene affidata una specifica funzione nella comunità è, poi, stato ribadito anche in altri documenti, come, per esempio, L’apostolicità della Chiesa, del 2006:

«Il ministero speciale è precisamente servizio al sacerdozio comune di tutti […], cosicché i fedeli possono, ciascuno al suo proprio posto, essere sacerdoti nel senso del sacerdozio universale e assolvere la missione della Chiesa in quel posto» (L’apostolicità della Chiesa, 275)[4].

Quindi, correttamente intesa:

«esiste una relazione di riferimento differenziato fra i compiti specifici del sacerdozio generale di tutti i battezzati e del ministero ordinato» (L’apostolicità della Chiesa, 254)[5].

L’approfondimento condotto sulla dimensione sacerdotale del popolo di Dio e sul fondamento biblico del tema, ha permesso di compiere progressi impensabili sull’aspetto del ministero. Se si tien conto che in merito alla comprensione del ministero ordinato sussiste ancora oggi una differenza notevole tra le due confessioni. Basti aver presente che ad noi cattolici riconosciamo una piena dimensione sacramentale, non condivisa dai fratelli luterani, che comunque riconoscono il valore e la funzione del ministero di persone dèdite al servizio della comunità. L’ulteriore approfondimento comune del valore della dimensione sacerdotale della vocazione di tutti e di ciascuno dei credenti, costituisce senz’altro la via privilegiata su cui perseverare, che non mancherà di dare frutti positivi in futuro. 

Sergio Sbragia
Vico Equense, domenica 3 settembre 2017


[1] - Commissione per le questioni ecumeniche della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti - Chiesa evangelica luterana in America, Dichiarazione in cammino: Chiesa, ministero ed eucarestìa. - in «Il Regno : attualità e documenti», 61° (2016) 13, 409-456.
[2] - Commissione congiunta cattolica romana – evangelica luterana, Il ministero pastorale nella Chiesa,1981, 15.
[3] - Commissione congiunta cattolica romana – evangelica luterana, Il ministero pastorale nella Chiesa,1981, 15.
[4] - Commissione luterana-cattolica sull’unità, L’apostolicità della Chiesa, 2006, 275.
[5] - Commissione luterana-cattolica sull’unità, L’apostolicità della Chiesa, 2006, 254.