Di
nuovo Gesù parlò loro e disse: "Io sono la luce del mondo; chi
segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita".
Gli dissero allora i farisèi: "Tu dai testimonianza di te
stesso; la tua testimonianza non è vera". Gesù rispose loro:
"Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza
è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non
sapete da dove vengo o dove vado. Voi giudicate secondo la carne; io
non giudico nessuno. E anche se io giudico, il mio giudizio è vero,
perché non sono solo, ma io e il Padre che mi ha mandato. E nella
vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera.
Sono io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi
ha mandato, dà testimonianza di me". Gli dissero allora: "Dov'è
tuo padre?". Rispose Gesù: "Voi non conoscete né me né
il Padre mio; se conosceste me, conoscereste anche il Padre mio".
Gesù pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava
nel tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la
sua ora (8,12-20).
Congedata
la donna, la scena cambia («Di nuovo Gesù parlò loro e disse» -
8,12). Questo nuovo esordio, pone notevoli problemi al lavoro
esegetico. Numerosi studiosi, con solide argomentazioni, hanno
formulato l’ipotesi che il brano della donna adultera (7,53-8,11)
sia in realtà una successiva inserzione redazionale in un corpus
giovanneo già pervenuto a una fase avanzata di composizione. Una
tale ipotesi sarebbe suffragata sia dalle caratteristiche letterarie
del brano che richiama da vicino i tratti dei racconti sinottici
piuttosto che quelli tipici della narrazione giovannea, sia dalla sua
collocazione nell’ordito della narrazione giovannea, dove in
qualche modo viene a rappresentare una soluzione di continuità nella
polemica che oppone Gesù e il gruppo dei Giudèi, dispiegandosi tra
i cap. 7° e 8° del “Vangelo di Giovanni”. In effetti non
si può negare che l’esordio del v. 12, là dove si legge «di
nuovo Gesù parlò loro e disse», può configurarsi come una ripresa
del confronto già avuto con loro nel Tempio e riferito nel c. 7°.
In
queste riflessioni tuttavìa ho già sottolineato la scelta di
considerare il testo evangelico così come esso si presenta come
testo compiuto, non perché intendo ignorare gli esiti della ricerca
esegetica, ma in quanto ai fini della nostra ricerca, cioè quella di
comprendere se il Vangelo di Giovanni abbia svolto un ruolo nel
determinare il diffondersi entro la comunità cristiana di sentimenti
antigiudaici. Per comprendere questo occorre aver presente che le più
antiche comunità cristiane si sono confrontate con il testo compiuto
del Vangelo e non con gli esiti attuali della ricerca esegetica. E
quindi è il testo compiuto del Vangelo che può fornirci
potenzialmente lumi sulla nostra pista di lavoro.
Allora
quando al v. 12 leggiamo «di nuovo Gesù parlò loro», i «loro»
qui considerati possono essere riconosciuti in «tutto il popolo
[che] andava da lui», che abbiamo incontrato al v. 2, in esordio del
brano di Gesù e l’adultera, come ci porta a pensare il testo nella
redazione che ci troviamo di fronte. Oppure i «loro», cui si allude
qui, possono essere quei Giudèi con i quali Gesù ha già avuto un
aspro confronto nel tempio nel cap. 7. In entrambi i casi è
necessario tener presente che molti dei personaggî collettivi che
incontriamo nel Vangelo di Giovanni, da un lato, non sono gruppi
uniformi e compatti e, dall’altro, comunicano tra loro e
s’influenzano reciprocamente.
Nel
brano che ci accingiamo ad analizzare gli interlocutori di Gesù
sono i «farisèi», al v. 13, più avanti, al v. 22, sono i
«Giudèi», cioè il gruppo di nostro più diretto interesse.
Questo potrebbe far pensare adue diversi confronti, un primo con i
farisèi, un secondo con i Giudèì. In realtà il fatto che il
confronto avviene nel Tempio, luogo pubblico, frequentato dal popolo,
ma soprattutto dai gruppi più significativi dell'universo religioso,
culturale e politico di Gerusalemme, rende plausibile che la polemica
di cui ci dà conto il cap. 8 abbiano preso parte persone che
potevano essere collocate in uno o nell'altro dei gruppi richiamati,
o, addirittura, in entrambi.
I
«farisèi» si configurano in realtà come un gruppo religioso con
un’identità precisa, contrassegnato dalla pratica di un’attenta
verifica degli umori che si diffondono negli strati popolari e da una
volontà esplicita di orientarli in direzione di una corretta pratica
cultuale. All'interno di questo gruppo di certo potevano essere
presenti personaltà collocate in una posizione sociale di rilievo,
che potevano avvertire nella predicazione di Gesù degli elementi
potenzialmente in grado di pregiudichare l’influenza politica e
sociale dei gruppi dirigenti.
Il
gruppo dei «Giudèi» appare invece composto dai capi dei sacerdoti
e dai farisèi, una realtà quindi composita, ma rappresentativa del
ceto dirigente religioso e sociale, che s’interroga sull’identità
autentica di Gesù, sulla cui persona s’interroga attraverso uno
sforzo interpretativo delle Scritture condotto in una forma tutto
sommato letterale, piuttosto che sostanziale.
Non
è da escludere, pertanto, che nella disputa possano essere
intervenuti sia personaggî maggiormente conosciuti per il loro
attaccamento alla liceità cultuale, sia altri personaggî più noti
per il loro rilievo sociale.
È
Gesù stesso ad aprire il confronto, con un'affermazione di grande
spessore sulla propria identità, riferita al tema della “luce” e
probabilmente indotta dalla concomitante ricorrenza della festa delle
Capanne, nel cui corso si usava allestire delle luminarie, in ricordo
della nube luminosa che aveva guidato gli Ebrèi nel deserto:
«Io
sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre,
ma avrà la luce della vita» (8,12).
Il
tema della luce riveste un ruolo di grande rilievo nel “Vangelo
di Giovanni”. Sin dal
“Prologo”,
l'evangelista ne presenta il ruolo di autentico contenuto del disegno
salvifico divino:
In
lui [il Verbo] era la vita
e
la vita era la luce degli uomini;
la
luce splende nelle tenebre
e
le tenebre non l'hanno vinta.
[...]
Veniva
nel mondo la luce vera,
quella
che illumina ogni uomo (1,4-5.9).
La
“luce” nella visione giovannea riveste una relazione intrinseca
con la vita, della quale rappresenta il più autentico splendore. La
luce non precede la vita, ma finisce con il coincidere con la vita,
che s'impone con la sua irruzione nel mondo e nella storia e con le
conseguenti possibilità di conoscenza e di scelta. La luce, così,
anticipa la contrapposta realtà delle tenebre, che nonostante tutto
non riesce a impedirle di splendere.
Presentandosi
come la «luce del mondo», Gesù si riallaccia, al presagio
annucniato nel “Prologo”
dell'imminente avvento nel mondo della “luce vera” quella davvero
capace d'illuminare ogni uomo.
Gesù
quindi si propone come faro capace di guidare il cammino nella vita,
chi sceglie di seguirlo, uscirà dal cono d'ombra delle tenebre, e
avrà la “luce della vita”.
A
quest'affermazione di Gesù i farisèi replicano con decisione:
«Tu
dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera»
(8,13).
A
Gesù che si presenta come “luce del mondo” essi replicano che la
sua affermazione è attestata dalle sole sue parole. Qui i farisèi
si riallacciano implicitamente alla tradizione giuridica ebraica
fondata sui testi primotestamentarî di Nm. 35,30, Dt. 17,6 e 19,15:
Se
uno uccide un altro, l'omicida sarà messo a morte in seguito a
deposizione di testimoni, ma un unico testimone non basterà per
condannare a morte una persona (Nm. 35,30).
Colui
che dovrà morire sarà messo a morte sulla deposizione di due o di
tre testimoni. Non potrà essere messo a morte sulla deposizione di
un solo testimone (Dt. 17,6).
Un
solo testimone non avrà valore contro alcuno, per qualsiasi colpa e
per qualsiasi peccato; qualunque peccato uno abbia commesso, il fatto
dovrà essere stabilito sulla parola di due o di tre testimoni (Dt.
19,15).
In
questi testi viene stabilito un principio basilare della pratica
giudiziaria, col quale si destituiva di valore ogni azione fondata
sulla testimonianza di una sola persona. Un principio, per altro,
richiamato dallo stesso Gesù qualche versetto più avanti («nella
vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è vera»
- 8,17).
Gesù
replica rivendicando con forza la fondatezza della propria
testimonianza:
Gesù
rispose loro: "Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia
testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado.
Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado” (8,14).
Gesù
supera a piè pari il livello meramente legalistico d'intendere il
concetto di testimonianza proposto dai suoi interlocutori, per
recuperare una sua comprensione molto più profondamente radicata
nella Scrittura e legata alla realtà dell'Alleanza di Dio con il
popolo d'Israele. L'Alleanza è l'elemento centrale della fede
d'Israele. E nella Scrittura essa viene ripetutamente confermata
dalla testimonianza di Dio stesso. È il caso, per esempio, di Es.
25,21-22:
Porrai
il propiziatorio sulla parte superiore dell'arca e collocherai
nell'arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno in
quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai
due cherubini che saranno sull'arca della Testimonianza, dandoti i
miei ordini riguardo agli Israeliti (Es.
25,21-22).
Dio
nel primo Testamento dichiara a Mosè di essere lui personalmente
testimone di quanto avvenuto, promettendogli d'incontrarlo nel luogo
sacro per ecclellenza, presso l'arca della testimonianza. Dio si pone
in molti modi dinanzi al popolo d'Israele come “testimone”
dell'Alleanza. Propone alcuni segni, che richiamano e ricordano
gl'impegni assunti con l'Alleanza (basti pensare alla tenda, all'arca
e alle tavole della testimonianza).
Anche
la stessa Legge, posta nell'Arca, è testimonianza esplicita
dell'Alleanza (Sal. 78,5):
Ha
stabilito un insegnamento in Giacobbe,
ha
posto una legge in Israele,
che
ha comandato ai nostri padri
di
far conoscere ai loro figli (Sal. 78,5).
Dio
poi propone lo stesso Israele come testimone privilegiato della sua
alleanza e preannuncia quale testimone il servo che si è scelto e la
cui missione sarà proprio quella di farlo conoscere, di farlo
comprendere e di proporre con forza la fede:
Si
radunino insieme tutti i popoli
e
si raccolgano le nazioni.
Chi
può annunciare questo tra loro
per
farci udire le cose passate?
Presentino
i loro testimoni e avranno ragione,
ce
li facciano udire e avranno detto la verità.
Voi
siete i miei testimoni - oracolo del Signore -
e
il mio servo, che io mi sono scelto,
perché
mi conosciate e crediate in me
e
comprendiate che sono io.
Prima
di me non fu formato alcun dio
né
dopo ce ne sarà (Is. 43,9-10).
Gesù
si riallaccia direttamente a questa visione autenticamente biblica
della testimonianza. Affermando la veridicità della propria
testimonianza, con l'asserzione di sapere da dove è venuto e di
sapere dove va. È questa piena consapevolezza della propria origine
e della propria missione di rivelare la realtà di Dio a essere
presentata come l'argomento decisivo per affermare la fondatezza
della propria presentazione. Gesù si riconsoce nel servo scelto da
Dio di Is. 43,10 e riecheggia la funzione di rivelatore del Padre
prefigurata in (1,18):
Dio,
nessuno lo ha mai visto:
il
Figlio unigenito, che è Dio
ed
è nel seno del Padre,
è
lui che lo ha rivelato (1,18).
Anche
in questo caso assistiamo a una diversa percezione della realtà. Gli
interlocutori di Gesù non riescono ad andare oltre la percezione
materiale del confronto, si richiudono in una lettura legalistica
dell'incontro con Gesù e si rivelano incapaci del leggerne il
significato e il senso nella logica dell'Alleanza. Questo passaggio
da una lettura dell'incontro con la persona come un fatto del tutto
ordinario e abitudinario a una comprensione della sua funzione di
evento rivelatare del disegno di Dio per Israele e per il mondo.
Quest'incapacità dei farisèi che Gesù ha dinanzi e che pur si
propongono come persone preoccupate di offrire a Dio la più
autentica forma cultuale, viene con chiarezza ascritta al fatto che
essi non sanno comprendere da dove Egli venga o dove Egli vada.
“Voi
giudicate secondo la carne; io non giudico nessuno. E anche se io
giudico, il mio giudizio è vero, perché non sono solo, ma io e il
Padre che mi ha mandato” (8,15-16).
Gesù
insiste su questa differenza, che sussiste con i suoi interlocutori,
nella capacità di comprendere e di valutare la realtà («Voi
giudicate secondo la carne» - 8,15). Rivendica, altresì, la
validità del proprio giudizio, che è condiviso con il Padre che lo
ha inviato nel mondo.
“E
nella vostra Legge sta scritto che la testimonianza di due persone è
vera” (8,17).
Qui
Gesù riprende l'argomento dei proprî interlocutori sulla validità
giuridica della testimonianza univoca di almeno due persone, per
evidenziare la realtà salvifica della propria missione terrena,
corroborata dalla coscienza dell'essere inviato del Padre. E invita
coloro che stanno animatamente dialogando con lui a riconoscere
questa realtà:
“Sono
io che do testimonianza di me stesso, e anche il Padre, che mi ha
mandato, dà testimonianza di me" (8,18).
Di
fatto la comprensione salvifica e quella giuridica della
testimonianza vengono a coincidere. Il dipanarsi nella storia
dell'alleanza tra Dio e il popolo d'Israele si è sempre fondato
sull'unilaterale testimonianza divina. Ora la missione salvifica di
Gesù oltre alla testimonianza personale dello stesso Gesù, si fonda
anche sulla convergente testimonianza di Dio Padre, allineandosi così
con l'usuale tradizione giuridica ebraica. Eppure anche questo non
basta. Gli interlocutori di Gesù restano sul piano di una lettura
materiale della realtà, rimanendo incapaci di riconoscere l'azione
di Dio nella storia.
Gli
dissero allora: "Dov'è tuo padre?". Rispose Gesù: "Voi
non conoscete né me né il Padre mio; se conosceste me, conoscereste
anche il Padre mio" (8,19).
Dinanzi
alla rischiesta di poter verificare materialmente la testimonianza
paterna, Gesù contesta loro l'incapacità di entrare in una
relazione autentica sia con lui che con il Padre. Una conoscenza
autentica di Gesù comporterebbe all'unisono una corrispondente
conoscenza piena di Dio Padre.
L'evangelista
conclude questo brano ponendo in evidenza il luogo nel quale si era
svolta la disputa:
Gesù
pronunciò queste parole nel luogo del tesoro, mentre insegnava nel
tempio. E nessuno lo arrestò, perché non era ancora venuta la sua
ora (8,19).
La
sottolineatura che il confronto si stava svolgendo nel tempio, nel
luogo destinato alla conservazione del tesoro, pone quest'episodio in
una singolare continuità con la tradizione divina di dare convegno a
Mosè in luoghi di particolare rilevanza e destinati a contrassegnare
evoluzioni decisive dell'alleanza, come abbiamo in precedenza visto
in Es. 25,21-22.
É
davvero significativo questo sforzo di Gesù di porsi in continuità
con la dinamica storico-salvifica dell'alleanza. Uno sforzo purtroppo
non percepito. Anche se bisogna riconoscere che comunque negli
interlcutori di Gesù è comunque presente un dubbio sulla sua vera
identità. Da un lato sono colpiti dai prodigî di cui sono stati
testimoni e dall'autorevolezza della sua parola, dall'altro non
risescono a uscir fuori dalla ristretta logica di una religiosità
abitudinaria e materiale. Da qui la constatazione che non si erano
ancora determinate le condizioni perché venisse deciso il suo
arresto.
Sergio
Sbragia
Vico
Equense, sabato 23 settembre 2017