giovedì 26 dicembre 2013

1. PILLOLE DI TEOLOGIA DELLE RELIGIONI: I LIMITI DI UN APPROCCIO APOLOGETICO.



1. La novità del pluralismo religioso.


Il mondo di oggi, contraddistinto da un grande pluralismo culturale e religioso, chiede a noi cristiani di condividere il nostro itinerario terreno stando fianco a fianco a donne e uomini che, nei confronti del fenomeno religioso, assumono posizioni diverse. Si passa da quanti affermano una posizione esplicitamente atea, a quanti sperimentano forme di sostanziale indifferenza religiosa, per addivenire, infine, a coloro che si riconoscono come appartenenti a una delle numerose, diverse e spesso contrapposte tradizioni religiose che si sono storicamente affermate.
Venute meno le false sicurezze, prodotte da una secolare assuefazione a vivere entro il contesto di una società formalmente, istituzionalmente e culturalmente “cristiana”, noi credenti in Cristo ci ritroviamo oggi dinanzi a un’alternativa decisamente seria. Un prima opzione, che ci viene offerta, consiste nel vivere con lo sguardo sostanzialmente rivolto all’indietro, nel rimpianto di una mitica ‘età dell’oro’, rappresentata dall’ormai tramontata christiana res publica, attardandosi a deprecare il secolarismo e il relativismo e i loro presunti effetti in termini di diffusione di una pratica di vita, che prescinde di fatto da un rapporto con Dio, anzi che in un tale rapporto non ritrova alcun senso o utilità. L’altra possibilità che abbiamo davanti è rappresentata, invece, dalla sfida a riscoprire la dimensione più autentica del mandato di Gesù («E disse loro: "Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”» – Mc. 16,15), quella che ci chiama ad annunciare, alle donne e agli uomini che incontriamo sulla nostra strada, la novità costituita dall’irruzione del Regno di Dio nella storia. Il contesto civile e sociale e il clima culturale in cui siamo immersi, sono il risultato di secolari processi storici, pongono di certo dei condizionamenti alla missione dei discepoli di Gesù, ma costituiscono ciò nondimeno l’ambiente vitale entro cui la missione si realizza e nel quale la libertà cristiana viene messa alla prova.
È un po’ come l’avventura del navigare. Si può scegliere se contentarsi delle acque protette e più tranquille di una baia ben riparata, della quale si conosce ogni anfratto e l’ordinario andamento delle correnti. Oppure si può raccogliere la sfida dell’uscire in mare aperto, del confrontarsi con venti e correnti poco conosciuti, se non addirittura ignoti. Qui, la navigazione è, di certo, meno facile e più pericolosa. Ma il mare aperto è, tuttavia, il luogo dove realmente si tempra “il marinaio” e si forma “lo sperimentatore di nuove rotte”. Certo, c’è il pericolo del fallimento, ma abbiamo anche la certezza che la scelta di “nascondere il talento” è, in definitiva, quella che è realmente priva di prospettive (cf. Mt. 25,14-30).

«Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo". Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti"» (Mt. 25,14-30).

Accettare di essere testimonî di Gesù, senza reti di protezione sociale e culturale, espone di certo all’errore e alla possibilità del fallimento. Questo non va sottovalutato, ma occorre tener conto che la vicenda storica cristiana nasce proprio dal “fallimento della Croce”. Allora è certamente giusto tenere nella debita considerazione la diffusione dell’agnosticismo pratico e dell’indifferentismo religioso e valutare opportunamente il fenomeno di “apostasia silenziosa”, che ci ha ricordato Giovanni Paolo 2° nell’Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa (cf. EE. 9). Ma appare anche necessario cercare di comprendere come la non piena fedeltà al carattere autentico della missione cristiana abbia, con ogni probabilità, contribuito alla diffusione di questi fenomeni ben più delle correnti culturali secolariste e relativiste.

«Alla radice dello smarrimento della speranza sta il tentativo di far prevalere un'antropologia senza Dio e senza Cristo. Questo tipo di pensiero ha portato a considerare l'uomo come “il centro assoluto della realtà, facendogli così artificiosamente occupare il posto di Dio e dimenticando che non è l'uomo che fa Dio ma Dio che fa l'uomo. L'aver dimenticato Dio ha portato ad abbandonare l'uomo”, per cui “non c'è da stupirsi se in questo contesto si è aperto un vastissimo spazio per il libero sviluppo del nichilismo in campo filosofico, del relativismo in campo gnoseologico e morale, del pragmatismo e finanche dell'edonismo cinico nella configurazione della vita quotidiana” (Sinodo mondiale dei Vescovi : Seconda Assemblea Speciale per l'Europa, Relatio ante disceptationem, 1.,1.2). La cultura europea dà l'impressione di una “apostasia silenziosa” da parte dell'uomo sazio che vive come se Dio non esistesse. In tale orizzonte, prendono corpo i tentativi, anche ultimamente ricorrenti, di presentare la cultura europea a prescindere dall'apporto del cristianesimo che ha segnato il suo sviluppo storico e la sua diffusione universale. Siamo di fronte all'emergere di una nuova cultura, in larga parte influenzata dai mass media, dalle caratteristiche e dai contenuti spesso in contrasto con il Vangelo e con la dignità della persona umana. Di tale cultura fa parte anche un sempre più diffuso agnosticismo religioso, connesso con un più profondo relativismo morale e giuridico, che affonda le sue radici nello smarrimento della verità dell'uomo come fondamento dei diritti inalienabili di ciascuno. I segni del venir meno della speranza talvolta si manifestano attraverso forme preoccupanti di ciò che si può chiamare una “cultura di morte” (cf. Sinodo mondiale dei Vescovi : Seconda Assemblea Speciale per l'Europa, Propositio, 5a)» (Giovanni Paolo 2°, Esortazione apostolica post-sinodale su Gesù Cristo vivente nella sua Chiesa, sorgente di speranza per l’Europa Ecclesia in Europa, [EE], n. 9).

Allora il grande successo editoriale di una fiction letteraria che opera una ricostruzione fantastica, in chiave di romanzo storico, della vicenda umana di Gesù, della primitiva comunità cristiana e della chiesa antica e medievale, anziché preoccupare, costituisce il segno del fascino che esercita, anche nell’odierna società secolarizzata, innanzitutto la figura storica del falegname di Nàzareth, ma anche la stessa vicenda cristiana[1].
Allo stesso modo, non mi preoccuperei della pubblicazione di opere divulgative dei risultati delle ricerche sul “Gesù storico”. Al di là dei differenti esiti cui le varie correnti di ricerca sono pervenute, il fenomeno è comunque anch’esso ìndice dell’interesse che riveste, anche nell’àmbito della ricerca storica, la figura di Gesù, ben oltre quello riconosciuto agli altri grandi personaggî (fondatori, ecc.) delle grandi religioni. E non è senza significato, inoltre, che i lineamenti di fondo del Gesù, ricostruito con i metodi della ricerca storica, coincidono (al di là di qualche singolo dettaglio) all’immagine che di Gesù hanno tramandato le tradizioni ecclesiali[2].

«L’immagine di maestro itinerante che di Gesù le diversificate scuole di ricerca storica hanno prodotto, lungi dal configurarsi come un pericolo per la fede, si traduce di fatto in un prezioso ausilio per noi credenti nel rispondere al mandato di Pietro a esser “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1Pt. 3,15).
Sia lo sforzo condotto, con uno statuto metodologico chiaro, definito e verificabile, per ricostruire il contesto antropologico, sociale e culturale degli ambienti che videro la missione pubblica di Gesù, sia la paziente ricostruzione del diverso grado di plausibilità storica dei varî episodî della vita e della passione, nonché i risultati conseguiti nel selezionare gli insegnamenti che con maggiori ragioni possono essere fatti risalire direttamente alla sua persona, se esaminati con equanimità nella loro globalità, finiscono con il restituire una fisionomìa di Gesù che, al di là di aspetti particolari, coincide largamente con l’immagine di Gesù predicata nelle nostre Chiese e vissuta nella nostra fede.
Naturalmente occorre aver cura di tenere debitamente distinti i due piani, quello della ricerca storica e quello della fede. La ricerca storica su l’uomo Gesù si muove esclusivamente sul piano della metodologia storica e il suo obiettivo è far luce sui connotati umani di Gesù, uomo vissuto nel 1° sec. e.v., interrogando con metodi sia tradizionali che innovativi le fonti antiche e le fonti nuove rese disponibili da recenti ritrovamenti, facendole interagire fra loro, interrogandole adeguatamente in forma anche inedita a partire anche da esigenze conoscitive proprie dell’umanità odierna, ricorrendo anche alle acquisizioni prodotte dalle scienze antropologiche e sociali e dai più recenti ritrovamenti archeologici.
Questo è un itinerario che noi cristiani possiamo condurre anche fianco a fianco con uomini di diversa convinzione. Un itinerario che, com’è ovvio, non può condurre per sua natura a rintracciare le prove dei miracoli, della resurrezione o della divinità di Gesù, ma può contribuire senza dubbio a fondare un terreno sul quale diviene possibile scommettere la sostanziale ragionevolezza della scelta di fede, che è tutt’altro che un salto nel buio o nell’illusorietà, quanto la decisione responsabile e consapevole di seguire una persona, che ha fondate radici nella storia e non nel mito» (Sergio Sbragia, La ricerca storica su l’uomo Gesù di Nazareth ha senso per la fede cristiana?)[3].

Più che parlare, infine, di una “strategia di lotta contro la Chiesa”, come fanno alcuni autori cattolici[4], in reazione controversistica alla pubblicazione di alcuni pamphlets programmaticamente atei e anticattolici[5], sarebbe, a mio personale avviso, preferibile evitare di cadere in una logica di sterile contrapposizione, cedendo di fatto, sia pur spesso involontariamente, a una cultura dell’avversario e del nemico, ricordando in proposito il bellissimo insegnamento di papa Giovanni 23°.

«È abbastanza naturale che nella società odierna siano presenti una varietà di posizioni e vengano operate opzioni di ordine etico, religioso e metafisico, che possono approdare a sponde diverse, o addirittura, contrapposte al Cristianesimo. Faccio, tuttavìa, molta fatica ad accettare l’accentuazione della categoria dell’”avversario”, che mi sembra sostanzialmente estranea alla visione cristiana dell’umanità. Noi cristiani dovremmo evidenziare l’insegnamento autentico di Gesù, praticando e proponendo agli uomini il suo invito ad amare i nemici (cf. Mt. 5,44; Lc. 6,27.35) e sarebbe pertanto consigliabile rifuggire dal praticare la cultura del “nemico” e seguire l’autorevole insegnamento di Giovanni 23° che amava ripetere che la Chiesa non è nemica di nessuno» (Sergio Sbragia, La proprietà privata: una riflessione : Recensione al libro ‘Note sulla Proprietà Privata’ di don Beniamino Di Martino)[6].

È dunque essenziale essere consapevoli di quanto la società contemporanea sia attenta alla valutazione dell’effettiva fondatezza delle molteplici (spesso troppe) proposte alle quali le singole persone si trovano di fronte, ma anche attenta a salvaguardare l’autonomia delle scelte che le stesse liberamente pongono in essere. Dinanzi a una tale realtà, risulta basilare porre al centro il già ricordato invito dell’apostolo Pietro a esser «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt. 3,15). Non bisogna, allora, stancarci di riproporre con semplicità e in forma pacata le ragioni che hanno indotto ciascuno di noi, in una determinata circostanza della nostra vita, a scegliere di divenire discepoli di Gesù. La nostra vera forza, infatti, è Gesù stesso, e non le nostre strategie. A questo proposito è davvero indicativo quanto affermato, a proposito di Gesù, dall’illustre donna di scienza Margherita Hack, orgogliosamente non credente e recentemente scomparsa:

«Gesù è stato certamente la maggior personalità della storia. Il suo insegnamento, se è resistito per 2000 anni, significa che aveva davvero qualcosa di eccezionale: ha trasmesso valori che sono essenziali anche per un non credente»[7].

Se una persona generosa, innamorata del cosmo e pienamente partecipe della vita sociale, qual è stata Margherita Hack è portata, naturalmente dal punto di vista di una persona non credente, a riconoscere la nobiltà del contributo storico dato da Gesù, esistono a mio parere i presupposti per un dialogo autentico e proficuo con quanti con sincerità e mitezza abbracciano fedi diverse o si riconoscono in valori assoluti anche se in una prospettiva ateistica.

2. Le preoccupazioni dell’approccio apologetico.


Il carattere pluralista e strettamente interdipendente assunto dalla società contemporanea offre nuovi e più ampî spazî al dialogo e al confronto tra credenti di diverse tradizioni religiose. Il  dialogo interreligioso, oltre a rivelarsi di fondamentale importanza sul piano della conservazione e della promozione della pace, si configura come il terreno più concreto e potenzialmente fecondo per un confronto tra il cristianesimo e le altre religioni.
Esso si estrinseca nel positivo e costruttivo incontro tra credenti di diverse religioni, che, grazie allo scambio personale e nel rispetto delle reciproche identità, s’impegnano a dar luogo a una reciproca conoscenza quale premessa per relazioni sociali improntate ai valori dell’umanità e della fraternità.
Il dialogo interreligioso costituisce il principale momento d’attrazione per la riflessione teologica contemporanea condotta nell’àmbito di una specifica disciplina, la teologia delle religioni, che s’interroga sul valore del pluralismo religioso entro l’unico disegno di salvezza, ponendo in evidenza convergenze e divergenze tra il cristianesimo e le altre religioni.
Non manca chi, nel campo d’indagine della teologia delle religioni – che, come disciplina teologica, si pone come oggetto lo studio del fenomeno del pluralismo religioso in una prospettiva cristiana, e, in quanto tale, si presenta come formalmente distinta  dal momento del dialogo – rituene di poter distinguere due àmbiti che richiederebbero l’articolazione di due distinte metodologie scientifiche: una di taglio dogmatico e l’altra condotta su un terreno di natura apologetico-fondamentale[8].
Nella ricerca di taglio dogmatico ci si interrogherebbe, alla luce della fede in Gesù, portatore di una proposta di salvezza rivolta a tutti gli uomini, innanzitutto intorno a quale possa essere il significato delle varie religioni all’interno dell’unico piano salvifico di Dio; quale possa essere il loro rapporto con Cristo e con la Chiesa; come il mistero pasquale possa agire in esse e come sia possibile riconoscere in esse la presenza di Cristo. In sintesi si cerca di comprendere se e come esse possano essere intese come vie di mediazione salvifica.
Nell’approfondimento condotto, invece, sotto il profilo apologetico-fondamentale la preoccupazione sarebbe piuttosto quella di legittimare razionalmente la fede in un contesto sociale e culturale caratterizzato da un grande pluralismo religioso. Su questo terreno l’interrogativo in cui imbattiamo sarebbe quello di comprendere quale sia la specificità della rivelazione cristiana, nonché quello di seguire un itinerario di ricerca inteso a comprendere quale sia la vera religione.
In effetti nutro più di un dubbio sull’utilità e sulla validità di un’opzione che tenta di affrontare un itinerario di ricerca nel campo della teologia delle religioni, scegliendo come punto di partenza una prospettiva di taglio apologetico.
Cercando di ricostruire, in via preliminare, le motivazioni da cui muovono le argomentazioni di quanti propongono, nello studio delle religioni, un approccio di taglio apologetico-fondamentale, si può verificare, che essi partono dalla convinzione che il dialogo interreligioso non sia l’unica chiave con la quale declinare il rapporto tra il cristianesimo e le altre religioni. Sono, infatti, convinti che il tema della pluralità del fenomeno religioso possa essere esaminato anche sotto un’altra prospettiva, complementare a quella del dialogo, e che a essi appare per tanti versi più urgente. Una prospettiva che riconoscono nell’approccio che pone la domanda centrale della verità, declinata a partire dalla specificità del messaggio cristiano.
Il punto dolente che mi sembra di rintracciare all’origine dell’orientamento di questi studiosi  è, con ogni probabilità, da individuare nel fenomeno del secolarismo e nella mentalità relativista che di esso sarebbe conseguenza. Essi riscontrano nell’epoca contemporanea un’ampia diffusione di questa mentalità, che si sarebbe diffusa anche tra i credenti. Secondo questa mentalità in definitiva una religione varrebbe l’altra. I sostenitori di queste posizioni ritengono, in genere, di rintracciare sostanziali conferme alle loro tesi in varî documenti del magistero post-conciliare, in particolare nell’Enciclica di Giovanni Paolo 2° Redemptoris missio, nelle sue Esortazioni apostoliche post-sinodali Ecclesia in Europa e Pastores dabo vobis, e nella Dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la dottrina della fede. A incrementare la loro preoccupazione sarebbero sia il fatto che molte (tutte?) le indagini sociologiche mostrerebbero un deciso indebolimento dello slancio della fede primitiva, sia una grave carenza di formazione nella fede. La recente pubblicazione di opere programmaticamente anticristiane, del tipo di quelle citate in precedenza, contribuirebbe ulteriormente a indebolire la fede, soprattutto in quanti non dispongono di una solida formazione cristiana.
Da questi tre fattori (indebolimento dello slancio originario della fede, carente formazione culturale cristiana e pubblicistica programmaticamente anticristiana) fanno derivare la conseguenza di un fenomeno che espone la religione cristiana al rischio di essere considerata una religione tra le tante o di essere ridotta a pura etica sociale a servizio. Il diluirsi dell’identità cristiana in una pluralità indifferenziata di esperienze religiose e la riduzione della fede cristiana al solo versante del servizio al prossimo sarebbero il sintomo di una mancata percezione della sconvolgente novità rappresentata nella storia dalla fede in Gesù, il suo essere “mistero” in quanto “evento del Figlio di Dio che si è fatto uomo e dà a quanti l’accolgono il «potere di diventare  figlî di Dio» (Gv. 1,12)”.
La conclusione sarebbe allora quella di rintracciare la ragione dell’odierno approccio relativistico alle religioni nell’offuscamento della fede nella divinità di Cristo, che si potrebbe riscontrare anche nell’abitudine di considerare Gesù solo come uno dei grandi fondatori di religioni nel mondo, ai quali fu donata una profonda esperienza di Dio. Seguendo una tale visione, quella di Gesù non sarebbe altro che un’esperienza puramente umana di Dio, che circoscrive e limita la realtà infinita di Dio, con i limiti e la finitezza della mente umana. Di conseguenza l’“esperienza di Dio”, vissuta da Gesù, resterebbe in fin dei conti relativa e da completare con i frammenti percepiti da altri grandi fondatori di religioni. È a partire da questo svuotamento del contenuto essenziale della fede cristiana, che in Gesù riconosce solo un uomo che cresce nella conoscenza di Dio, che si rivelerebbe necessaria una “nuova evangelizzazione”, che è stata oggetto della recente 13a Assemblea generale ordinaria del Sinodo mondiale dei vescovi “La nuova evangelizzazione
per la trasmissione della fede cristiana” (Città del Vaticano, 7-28 ottobre 2012), grazie alla quale  riportare al centro dell’annuncio Gesù Cristo, il Signore e Figlio di Dio, il Figlio di Dio che si è reso presente a noi.
Se, poi, alla constatazione della seria crisi d’identità attraversata dalla fede cristiana, si aggiunge la consapevolezza che le altre religioni storiche, e anche i nuovi movimenti religiosi, nonostante l’affiorare di numerosi tratti comuni con il cristianesimo, si propongono in realtà come alternativa al messaggio cristiano, inducono gli studiosi di questa tendenza, che per intenderci definirei esclusivista, a ritenere sostanzialmente inadeguata una lettura teologica che intendesse le diverse religioni quali vie complementari di salvezza e convergenti nella mèta ultima della Realtà Assoluta, o Dio, in quanto accomunate nella loro dimensione più profonda, quella della spiritualità e della mistica, al di là delle reciproche differenze sul piano della dottrina, dei riti e della prassi etica.

3. Il vicolo cieco dell’apologetica.


Come ho già anticipato, non condivido la linea argomentativa di questi studiosi. Cercherò allora di esporre nelle grandi linee i dubbî nutro in proposito.
La mia prima impressione è che vengano tratte delle conclusioni affrettate senza aver condotto un chiaro esame delle condizioni in cui si svolge attualmente la vita umana, da qui un confronto, operato per lo più su dati sociologici, tra contesti profondamente diversi. Un raffronto, operato con modalità metodologiche poco corrette, che conduce inevitabilmente a valutare come patologici varî fenomeni che, per lo più, a un’analisi più accurata e circostanziata si rivelano in definitiva per lo più come il frutto di processi fisiologici.
Mi spiego meglio: c’è una chiara preoccupazione dettata dal fatto che numerose indagini sociologiche pongano in evidenza un generalizzato indebolimento dello slancio di fede. E questo innesca una serie di valutazioni venate da un sostanziale pessimismo.
In realtà, a mio parere, in tali argomentazioni non si tiene adeguatamente conto sia del fatto che vengono confrontate situazioni sociali profondamente diverse, sia del dato che la scelta di fede è un’opzione d’impegno. In precedenza ho fatto cenno a un concreto rischio cui noi credenti siamo esposti, e mi riferisco al pericolo di camminare con lo sguardo rivolto al passato nel rimpianto di una società culturalmente monodimensionale. Quest’atteggiamento d’impronta nostalgica porta come conseguenza a non valutare pienamente i caratteri peculiari della società contemporanea, che è contraddistinta dai dati del pluralismo, della mobilità globale, dell’integrazione culturale, dell’accesso generalizzato e tendenzialmente autogestito all’informazione e alla conoscenza. Operare dei confronti sociologici sui comportamenti religiosi tra contesti sociali culturalmente monodimensionali, da un lato, e, dall’altro, la situazione attuale, senza fare adeguatamente la “tara” dovuta al radicale cambiamento di paradigma che è intercorso nell’ultimo secolo, può condurre a considerazioni davvero fuorvianti.
È pressoché automatico in un contesto monoculturale che la quasi totalità delle persone aderisca alla confessione religiosa dominante. In quest’adesione di massa c’è di certo una consistente componente di scelta consapevole e personalizzata, ma comprende necessariamente anche componenti di adesioni dettate dal conformismo, dall’abitudine, dall’aspirazione a partecipare a vantaggî di potere, o, di converso, dal timore di subire discriminazioni. Non basta, nell’adesione di massa, si aprono inevitabilmente spazî per un’adesione meramente formale e, nei fatti, sostanzialmente disimpegnata.
Questo è vero non solo sul piano religioso, ma anche in altri contesti, come quello politico-istituzionale e quello della comunicazione. I confronti che sto per fare non vogliono essere irrispettosi, per un malinteso senso porre sullo stesso piano il sacro e il profano (sono perfettamente consapevole della radicale differenze di piano), ma hanno il solo scopo di aiutarci nel portare avanti la riflessione da un punto di vista analogico.
Sul piano politico-istituzionale è di certo più significativo, per una forza politica, conseguire una maggioranza relativa del 30% in un contesto di democrazia pluralista consolidata, rispetto a una “maggioranza bulgara” del 95-99%, conseguibile in regimi dittatoriali, mediante forme di consultazione popolare meramente formali.
Analogamente a sèguito del processo di pluralizzazione della comunicazione televisiva, che, nel nostro paese, abbiamo sperimentato negli ultimi 40 anni, è certamente significativa e confortante, per la tv pubblica, la quota di ascolto che oggi riesce a conseguire dai telespettatori italiani. Essa ha certamente un valore maggiore della copertura totale che le garantiva la precedente condizione di monopolio. Sarebbe allora del tutto fuorviante intonare pessimistiche valutazioni a partire da una considerazione “asettica” del calo della quota d’ascolto di oltre il 50%.
Il pluralismo, tuttavia, non è l’unico dato da considerare. Nella società contemporanea la cultura è diventato un bene di massa, una quantità sempre maggiore di persone ha accesso a essa, con la conseguente acquisizione di sempre maggiori quote di autonomia e di capacità di giudizio personale. Le proposte culturali si sono così moltiplicate, sono divenute tutte più esigenti, s’intrecciano, s’influenzano reciprocamente, si contaminano, sono sottoposte dalle persone con cui entrano in contatto a una valutazione rigorosa ed esigente sul piano dei contenuti, della coerenza interna e dell’autenticità della testimonianza. Le opportunità offerte dalla rete moltiplicano, poi, la possibilità di progettare la propria crescita conoscitiva e la propria formazione secondo itinerarî peculiari, personali e originali. E non bisogna dimenticare che la scelta di fede è un’opzione esistenziale d’impegno. Scegliere, a un certo punto della propria vita, di “seguire Gesù” è qualcosa di più del premere un tasto sul telecomando. È una scelta che decide l’orientamento di fondo della propria vita, e ciò, volenti o nolenti, richiede coinvolgimento interiore e impegno.
Di fronte a una realtà così complessa appare davvero riduttivo ricondurre le ragioni dell’attuale carenza nella formazione cristiana di base, al secolarismo e al fenomeno di svuotamento del contenuto essenziale della fede cristiana (già precedentemente richiamato). A mio parere le cose stanno in una maniera un po’ diversa. Se è vero, com’è vero, che ogni giorno ciascuno di noi è chiamato a scegliere se leggere un settimanale d’ispirazione cristiana, un giornale sportivo o una rivista di moda (lo stesso dicasi per l’alternativa tra un programma televisivo d’informazione religiosa e uno spettacolo leggero, o per quella tra la partecipazione a un incontro di catechesi e una pizza per gli amici), ciò mostra che oggi la concorrenza non è solo con diverse proposte religiose, culturali ed esistenziali che fanno riferimento a valori che si propongono come assoluti, ma questa si estende agli àmbiti dell’effimero e dello svago.
Allora si configura come decisivo il dato della “motivazione”. La scelta di fede si determina solo in presenza di una convinta “motivazione”, capace di determinare la sua assunzione e la sua condivisione lungo l’intero arco della vita. E dunque la proposta di fede deve avere un quid di accattivante e di coinvolgente sul piano esperienziale ed esistenziale tale da determinare un’adesione che implichi un orientamento dell’intera esistenza alla sequela di Gesù. La proposta cristiana si confronta perciò a 360 gradi con l’intero odierno universo culturale e comunicazionale, dall’àmbito di pensiero più impegnato alle sfere della discorsività leggera e dello svago, deve allora possedere i requisiti necessarî per attrarre l’attenzione delle persone, coinvolgerle nella sfera più intima, indurre interrogativi profondi tali da innescare possibili scelte di adesione esistenziale. È un compito arduo dove però il dato decisivo è la persona di Gesù, capace di affascinare e coinvolgere donne e uomini di ogni epoca, di ogni latitudine e di ogni cultura.
Nostro compito è dunque presentare adeguatamente Gesù all’umanità d’oggi, essendo consapevoli che molto dipende dalla credibilità della nostra testimonianza e dalla coerenza della nostra sequela. Con ogni probabilità la nostra non piena fedeltà al messaggio, l’indecisione nel far proprie le intuizioni profetiche del Concilio Vaticano 2°, la contiguità di certi settori ecclesiastici col potere terreno, la diffusione nella Chiesa di comportamenti lesivi della dignità della persone umane, in particolare di quelle più deboli e meritevoli di attenzione, hanno contribuito e contribuiscono all’allontanamento dalla fede molto più del secolarismo e del conseguente relativismo. Da questi fenomeni di nostra infedeltà prende le mosse anche certa pubblicistica programmaticamente anticristiana, che, tuttavia, a un esame più attento si dimostra di corto respiro ed è lontana, per livello culturale, profondità di pensiero e capacità d’intuizione, dal contributo dato alla “critica della religione” operata dai cosiddetti “maestri del sospetto” del 19° secolo (quali, per esempio: Ludwig Feuerbach, Karl Marx, Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud). Il pensiero di questi grandi, per noi cristiani, ha costituito per davvero una grande e inedita sfida, ma anche un’occasione provvidenziale per riscoprire nella sofferenza e nel travaglio le radici più autentiche del nostro essere cristiani.
Secondo l’impostazione esclusivista il discorso sulle relazioni tra il cristianesimo e le altre religioni andrebbe articolato all’interno di due prospettive di fondo: quella del rispetto reciproco e quella della competizione. Il “rispetto reciproco”, da promuovere attraverso un sincero impegno sul terreno del dialogo interreligioso, che si articolerebbe a sua volta, in un rispetto per l'uomo nella sua ricerca di risposte alle domande più profonde della vita e in un rispetto per l'azione dello Spirito nell'uomo e nelle religioni. Ciò non escluderebbe una “dimensione concorrenziale” giustificata  dall’assenza nelle altre tradizioni religiose di riferimenti a punti fondamentali della fede cristiana, in primo luogo l’unicità e l’universalità salvifica e rivelativa del mistero di Gesù Cristo.
La mia personale non adesione a questa impostazione simmetrica di “rispetto” e “concorrenza”, non significa per niente il sottovalutare il dato che le religioni non sono per nulla uguali o equivalenti. Anzi sono pienamente convinto che è di primaria importanza non cadere in una sorta d’indifferenza su l’adesione a una religione piuttosto che a un’altra, sia pur in nome di un ideale alto quale quello di favorire una coesistenza pacifica e collaborativa.
Ogni tradizione religiosa è, in sé, un universo significativo complesso e integrato, che modella e dirige, nelle sue strutture più profonde, l’orientamento nella vita delle persone che vi aderiscono. I singoli elementi che rientrano in una specifica tradizione religiosa (credenze, eventi fondanti, riti, disposizioni etiche, elementi istituzionali, ecc.) vanno necessariamente letti entro il quadro complessivo dell’universo religioso che li esprime e al cui interno essi acquistano significato. Il non tener conto di questa precauzione metodologica espone al rischio di banalizzare l’esame di elementi significativi di un particolare culto religioso, con il risultato di non riuscire a cogliere i suoi significati più profondi.
È dunque importante, al fine di una comprensione tendenzialmente autentica dell’universo significativo di una diversa tradizione religiosa, porsi in una tensione ermeneutica di “sim-patia”, costruire un atteggiamento di comprensione del pathos di una particolare religione. Quando si opera un confronto inteso a individuare analogie e differenze tra le religioni, per ciascun elemento che si prende in considerazione è necessario fare uno sforzo per uscire dall’universo significativo della propria tradizione religiosa ed entrare nell’universo significativo della tradizione cui appartiene l’elemento in esame. Solo così si può condurre un esame più vicino all’autentica dimensione che quell’elemento riveste nella propria tradizione di appartenenza. Solo a queste condizioni può essere poi percorso l’itinerario inverso di ritorno nell’universo significativo di partenza, per verificare quale dimensione quell’elemento può eventualmente rivestire nella nostra tradizione religiosa, ammesso che ciò sia possibile (un tale esito non è automatico, né scontato, ma in alcune esperienze è stato concretamente verificato). È questo un procedimento molto laborioso e impegnativo, ma a mio parere è irrinunciabile se si vuole perseguire una comprensione il più possibile autentica, evitando facili banalizzazioni e fraintendimenti.
Non manca, come ho detto, chi sostiene a questo proposito la necessità di porre in un tale contesto la questione “veritativa”, cioè la necessità d’intraprendere un itinerario di riflessione intorno alle motivazioni razionali (cioè condotte alla luce della ragione) che portano all’individuazione della “vera” religione.
A dir la verità mi sembra poco opportuno prevedere, nell’àmbito di un itinerario di riflessione sulla teologia delle religioni e del dialogo interreligioso, una riflessone dedicata alla giustificazione razionale della fede cristiana, tema di cui non misconosco il valore e il rilievo per tanti versi fondante, ma che riterrei più opportuno affrontare nella sua sede propria, che mi sembra quello della teologia fondamentale. È, d’altronde, fuor di dubbio che sembra del tutto naturale che prima di accingersi a una riflessione di teologia delle religioni, assicurarsi che siano state poste preventivamente solide basi teologico-fondamentali.

4. La novità del Concilio.


Va da sé che ogni religione, e naturalmente anche il Cristianesimo, concepisce la propria tradizione di fede come autentica ed esclusiva, e come la risposta più soddisfacente ai grandi interrogativi esistenziali che interpellano nel profondo e lungo l’intera storia umana gli uomini e le donne pur nella grande diversità di culture e i civiltà e a cui fa riferimento la Dichiarazione del Concilio ecumenico Vaticano 2°, sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate [Nae], 1.

«Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra i varî popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino.
I varî popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra (cf. At. 17,26) hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti (cf. Sap. 8,1; At. 14,17; Rm. 2,6-7; 1Tm. 2,4) finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce (cf. Ap. 21,23-24).
Gli uomini attendono dalle varie religioni la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e lo scopo del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» [Nae. 1].

Una scelta di taglio apologetico mi sembra poi sconsigliabile anche sul piano pratico. Storicamente siamo tutti consapevoli che il terreno delle relazioni tra le religioni si è rivelato nei secoli forse uno dei più delicati (se non il più delicato). È stato occasione di atrocità e di sofferenze inenarrabili. Quando si parla di religioni, ci si colloca su un piano di valori e opzioni primarie e spesso, a questo livello ciò che è “verità assoluta” in una tradizione, può corrispondere a “orrenda bestemmia” in un’altra (e viceversa). Il taglio apologetico, che intende giustificare razionalmente la veridicità di una tradizione religiosa, nell’àmbito di una comparazione tra diverse esperienze religiose, rischia d’urtare facilmente nervi scoperti, di generare spiacevoli incomprensioni e di scadere sul piano dell’inutile controversia.
Essa tuttavia appare non condivisibile anche sul piano più strettamente metodologico. Nel corso dell’esame condotto in precedenza della Dichiarazione conciliare Nostra aetate, abbiamo potuto verificare come i padri conciliari abbiano seguìto, nell’argomentazione, un metodo particolare allorché si sono occupati delle singole tradizioni religiose, diverse da quella cristiana. Se infatti rileggiamo il documento, possiamo constatare come al n. 2b (a proposito dell’induismo e del buddhismo), al n. 3 (in relazione all’islamismo) e al n. 4 (per quanto riguarda l’ebraismo), venga percorso un singolare itinerario argomentativo:

1. si parte da una sintetica indicazione dei contenuti di particolare interesse che la Chiesa riviene nelle altre esperienze religiose, che possono sostanzialmente considerati punti comuni:

«nell'induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per mezzo dei propri sforzi o con l'aiuto venuto dall'alto.
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» [Nae. 2].

«La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno» [Nae. 3].
«Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.
La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.
Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo, figlî di Abramo secondo la fede (cf. Gal. 3,7), sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che essa stessa si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell'ulivo selvatico che sono i gentili (cf. Rm. 11,17-24). La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso (cf. Ef. 2,14-16). Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: “ai quali appartiene l'adozione a figlî e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne” (Rm 9,4-5), figlio di Maria vergine.
Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo» [Nae. 4].

2. si passa poi a indicare, sinteticamente ma con rispetto, dei motivi di dissenso, di contrasto e si parla anche delle dolorose esperienze storiche di contrapposizione:

«Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è “via, verità e vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose (cf. 2Cor. 5,18-19[Nae. 2].

«Nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani» [Nae. 3].

«Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata (cf. Lc. 19,44); gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione (cf. Rm. 11,28). Tuttavia secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e “lo serviranno sotto uno stesso giogo” (Sof 3,9) (cf. Is. 66,23; Sal. 64,4; Rm. 11,11-32)» [Nae. 4].

3. per giungere, infine, all’indicazione delle idee guida che si possono sviluppare sul piano del dialogo:

«Essa perciò esorta i suoi figlî affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi» [Nae. 2].

«Il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» [Nae. 3].

«Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo» [Nae. 4].

L’individuazione e la valorizzazione dei punti comuni, la chiarezza e l’aderenza alla verità storica nell’indicazione delle differenze e nella ricostruzione dei contrasti, e, infine, la ricerca appassionata di comuni itinerarî di impegno e di riflessione, mi sembra la delineazione dei punti essenziali di un metodo, che i padri conciliari hanno indicato con chiarezza a quanti intendano cimentarsi con gli studî di teologia delle religioni. In questo metodo incontro una certa difficoltà a riconoscere l’itinerario argomentativo del trattato dell’apologetica classica De vera religione, articolato nei tre momenti della Demonstratio religiosa, della Demonstratio christiana e della Demonstratio catholica. Occorre, inoltre, aver conto che nella Dichiarazione conciliare non s’incontra un riferimento al concetto di “vera” religione. Un dato che, a mio parere, non è casuale. A tal proposito è importante ricordare che l’analisi dei documenti del Concilio, per addivenire a una loro reale e piena comprensione, va condotta, non in forma statica e letteralistica, ma in forma dinamica e collocata nel Sitz im Leben dei lavori conciliari. Il collaudato schema metodologico del trattato De vera religione (nella sua articolazione nelle Demonstrationes: religiosa, christiana, catholica) era ampiamente conosciuto tra i Padri del Concilio (praticamente tutti teologicamente formati secondo la tradizione dell’apologetica classica), il suo mancato utilizzo nel documento conciliare non può essere considerato un fatto casuale. D’altronde è giusto ricordare che i documenti del Concilio furono il frutto di un appassionato lavoro, al più alto livello, di solenne assemblea ecclesiale (dove trovano realizzazione nella forma più piena le parole di Gesù: «perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» – Mt. 18,20), con grande partecipazione di tutti i Padri con idee, proposte e contributi, che determinarono spesso l’abbandono o la radicale modifica degli schemi preliminari.

Vico Equense, giovedì 26 dicembre 2013


[1] – Cf. Dan Brown, Il codice da Vinci, Mondadori, Milano 2003.
[2] – Cf. Corrado Augias e Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù : Chi era l’uomo che cambiò il mondo, Mondadori, Milano 2006.
[3] – Sergio Sbragia, La ricerca storica su l’uomo Gesù di Nazareth ha senso per la fede cristiana?, in «Tempi di fraternità : donne e uomini in ricerca e confronto comunitario», 42. (2013) 2, 14-15.
[4] – Giandomenico Mucci, Dagli argomenti alle favole, in «La Civiltà cattolica», 158. (2007) 3, 390-398; Giuseppe De Rosa, Un attacco alla fede cristiana, in «La Civiltà cattolica», 157. (2006) 4, 456-466; Matteo Veronesi, Odifreddi, matematico fuori luogo, «Studi cattolici» 51. (2007) 3, 370-376.
[5] – Piergiorgio Odifreddi, Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici), Longanesi, Milano 2007; Christopher Hitchens, Dio non è grande : come la religione avvelena ogni cosa, Einaudi, Torino 2007; Carlo Augusto Viano, Le imposture degli antichi e i miracoli dei moderni, Einaudi, Torino 2005; Richard Dawkins, L’illusione di Dio : le ragioni per non credere, Mondadori, Milano 2007.
[6] – Sergio Sbragia, La proprietà privata: una riflessione : Recensione al libro ‘Note sulla Proprietà Privata’ di don Beniamino Di Martino, [pubblicazione : 14 maggio 2013] http://sergiosbragia.blogspot.it/2013/05/la-proprieta-privata-una-riflessione_8041.html.
[7] – Margherita Hack, Dove nascono le stelle, Sperling & Kupfer, Milano 2004, 198.
[8] – Si veda, per es.: Marcello Di Tora, Il cristianesimo a confronto con le grandi religioni (induismo, buddismo e islâm) e le sètte : Le ragioni della fede cristiana (1Pt. 3,15), Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2008, [Tit. della cop.: Cristianesimo e religioni], 12 (in part. nota 12).

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