mercoledì 14 maggio 2014

Ero stato buon profeta... Purtroppo!

Avrei davvero preferito sbagliarmi e passare come colui che è uso a pensar male. Il 5 aprile scorso, nel quadro di una mia riflessione in ricordo delle vittime del terremoto de L'Aquila, mi ero lasciato andare ad alcune considerazioni critiche sull'imminente evento dell'"Expo 2015", paventando che tale iniziativa potesse rappresentare l'occasione per "qualcuno" di poterne trasformarne gli utili in "lingotti", lasciando ai cittadini italiani l'onere di saldarne i debiti sino al 2090. E concludevo dicendo: "Expo 2015"? No, grazie (cf. http://sergiosbragia.blogspot.it/2014/04/cinque-anni-fa-il-terremoto-de-laquila.html).
I fatti di cronaca di questi giorni hanno, purtroppo, mostrato che i miei timori non erano infondati.
E' l'ennesima dimostrazione che la cultura eventistica non produce sviluppo, né lavoro, ma solo affarismo e corruzione. Mondiali '90, G-7, G-8 e America's cup  lo hanno abbondantemente dimostrato. Sono occasioni per fare beneficenza al jet-set internazionale, a spese dei contribuenti, per iniettare una temporanea dose di droga all'economia, che passata la festa e gabbato il santo, torna inevitabilmente a ripiegarsi sui problemi di sempre, per altro aggravati.
Ritengo che sarebbe saggio prendere atto dell'inutilità e della persistente pericolosità dell'Expo. Sarebbe davvero giusto sospenderne la realizzazione e concentrare tutte le risorse e tutte le energie del paese sul LAVORO. Unico presupposto di rilancio economico.

Sergio Sbragia
Vico Equense, mercoledì 14 maggio 2014


Sottoscriviamo la petizione dell'IFLA

L'Associazione italiana biblioteche sta invitando tutti i bibliotecari a sosttoscrivere un'importante petizione della Federazione internazionale delle associazioni bibliotecarie (IFLA) per garantire alle biblioteche, agli archivi e alle istituzioni culturali il libero accesso ai contenuti digitali.
Riporto il testo della petizione, che, purtroppo è in inglese
, ma è facilmente comprensibile:
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European research institutions, libraries and archives need balanced copyright laws to fulfill the promise of the Innovation Union Copyright exceptions and limitations for libraries and archives are currently being discussed by the World Intellectual Property Organisation
(WIPO) Standing Committee on Copyright & Related Rights (SCCR). The undersigned organisations feel they must express their deep disappointment following the European Union’s unwillingness to progress text-based discussions on this topic at the last meeting of the SCCR. In doing so, the European Union tried to reverse conclusions that had been previously agreed by the SCCR.
The undersigned European research institutions and library and archive organisations strongly urge the European Union and its Member States to ensure that text-based discussion of an international instrument on copyright exceptions and limitations for libraries and archives continues to be reflected in the mandate of the SCCR, and that the European Union engages constructively in these discussions. These discussions are important for:
1. Fostering a cutting-edge, open international research culture
The European Union has identified international research and development collaboration as key to the success of the Innovation Union and the Europe 2020 initiative. Indeed, European countries are leading the world for international co-authorship. European research institutions need a research infrastructure that is globally oriented and supports seamless access to information across national borders, outside as well as within the EU.
The EU has also identified open access to research outputs as key for Europe as a means of supporting a more collaborative and open way to do science. Researchers are using new tools and methods to support European research outputs, and copyright laws should facilitate, not stifle, this.
The talks at WIPO potentially could lead to the world’s libraries and archives being better able to open up their own cultural and scientific collections to European citizens and researchers.
2. Ensuring future researchers have access to our digital-borne
heritage
Future researchers are in danger of being unable to access significant portions of our 20th and early 21st century digital heritage.
Access to information in the digital environment is increasingly restricted by licensing and digital locks, which prevent libraries and archives from being able to preserve culture and research outputs for the future. National approaches to this problem fall short, because digital information researchers are accessing is now global.

3. Making European cultural heritage globally accessible
European libraries and archives possess rich collections of information that are important for the research and study of history within Europe, and its historical influence on other cultures. Today populations are mobile and multicultural, and the internet holds the promise for libraries and archives to be able to open up Europe’s collections to the world. This would also enhance the economic development of some of the world’s poorest countries by better supporting access to education and research.
The copyright problem
Copyright laws still stop at the national border, both within the European Union and elsewhere, frustrating the efforts of libraries and archives whose mission is to ensure that people, regardless of their location and regardless of their means, have the potential to access Europe’s culture, history and scientific research. The European Union’s strong objection to text-based discussions of copyright exceptions and limitations at WIPO is particularly concerning in light of the Commission’s own ongoing consultations about updating Europe’s copyright laws, to better serve its Single Market.
The aspirations of the Internal Single Market are to support innovation, increase productivity, ensure the seamless flow of information and access to knowledge within EU borders, as well as encourage the creation of new copyright-protected works. Robust copyright exceptions and limitations are essential to this.
Libraries, archives and research institutions at WIPO have illustrated the challenges they currently face in the internet environment, operating under a patchwork of national copyright provisions that obstruct international collaboration and services. The existing international copyright framework is simply not sufficient and effective any longer.
The undersigned organisations believe that a balanced and effective international copyright framework should support robust discussion of exceptions and limitations to copyright, as well as protections for creators. This can only be to everyone’s benefit. We ask the European Union to continue discussions of international copyright exceptions and limitations for libraries and archives at WIPO in good faith, and progress Committee work towards an international solution.

Yours sincerely
xxx
 
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Inviare la petizione a: <ellen.broad@ifla.org>, con oggetto
"WIPO/SCCR: Letter to EU Commissioners and MEPs seeking constructive engagement on copyright E&L for libraries and archives", specificando nel testo "I sign this petition" e firmando con Nome, Cognome, Nome e possibilmente anche logo della biblioteca.

SOSTENIAMO QUESTA INIZIATIVA DELL'AIB E DELL'IFLA.

Sergio Sbragia
Vico Equense, mercoledì 14 maggio 2014 

martedì 13 maggio 2014

Suggerimento di lettura : La speranza nel presente, la speranza nell’altrove



Suggerisco la lettura di un altro bel contributo presente sul numero 8 di «Rocca»:

Che cos’è la religione : La speranza nel presente, la speranza nell’altrove / Marco Gallizioli. – «Rocca : Quindicinale della Pro Civitate Christiana», 73. (2014) 08. p. 47-49.

L’autore, Marco Gallizioli, prendendo le mosse da una costante antropologica facilmente riscontrabile nell’umanità contemporanea che segna un sordo sentimento di rassegnazione e d’ineluttabilità nei confronti dell’epoca odierna, pone in evidenza come oggi ci si trovi di fronte a una sorta di smarrimento della capacità di «generare un senso di speranza in grado di innervare nei soggetti forza e determinazione, di rinnovare idee e progetti, di fornire nutrimento e propellente esistenziali». Il rischio più che concreto è che, in conseguenza dell’incapacità di dare senso alla speranza nella condizione presente in cui ciascuno si ritrova, si finisce col negarla o rifiutarla, col sostituirla con surrogati del tutto riduttivi, oppure con il confinarla su un piano astratto e lontano dalla vita reale. E questo nonostante oggi sia quanto mai essenziale un contributo propositivo di alto profilo motivazionale.
Certamente lo slancio verso il futuro, che senza dubbio è connaturato allo stesso essere in divenire della persona umana, si trova tuttavia nella necessità di calarsi nella realtà presente, perché la realtà concreta di oggi è «il vero luogo della speranza, inteso come tempo del cambiamento in vista del domani». E qui è davvero illuminante la considerazione operata da Gallizioli: «il nostro essere “qui e ora” è, infatti, l’àmbito in cui si esprime la nostra esistenza, il terreno in cui si gioca il nostro essere viventi e in cui si deve realizzare il senso dell’attesa».
Da qui parte una presentazione davvero accattivante di come il valore della “speranza” appare declinato nelle tradizioni religiose e nella cultura contemporanea.
Le tradizioni occidentali, nel loro complesso, concordano nell’affermare che, per dar vita a un mondo migliore, sia doveroso partire dal cambiare il nostro stile di vivere nella storia e nel tempo. Il cristianesimo, dal canto suo, con la proposta di un Dio che si fa uomo e vive nella storia, costituisce il principale esempio di un tale orientamento. Qui il presente si costituisce come il luogo temporale ove può determinarsi la nostra trasformazione, l’àmbito della ricerca della dimensione più autentica, della presa di coscienza, della conversione e dell’avvio dell’itinerario di perfezione.
Vivere nel presente in una prospettiva di trasformazione di sé (diremmo in un linguaggio di moda, “con un atteggiamento in progress), rappresenta un vero ‘e proprio seme di speranza, un sentirsi compartecipi, parete di una realtà, il mondo, che è qualcosa di più della mera somma delle sue componenti.
Per esempio, per un pensatore come Martini Heidegger il presente è il «il tempo della cura, della crescita nella responsabilità e nella consapevolezza di ciò che siamo». Anche il pensiero antropologico ha fornito un grande contributo in proposito. Dal suo punto di vista Clifford Geertz ha posto in luce come una grande speranza per l’umanità sia quella d’imparare a capire ciò che non possiamo abbracciare. Gallizioli sottolinea con grande efficacia come oggi la sfida sia rappresentata dal prenderci cura del mondo, che vuol dire imparare ad ascoltare e comprendere l’altro, inteso come alterità culturale. Questo implica percorrere strade diverse e alternative al dissimulare la differenza dall’altro con discorsi generici sul dato della comune umanità, all’indifferenza del dare “a ciascuno il suo”, o, infine, alla collocazione marginale e distante sul piano di una considerazione di fascino esotico, ma di sostanziale estraneità alla realtà quotidiana. Urge pertanto divenire capaci di apprendere l’attitudine di comprendere l’altro, e di saperla mantenere viva e alimentare. Le diverse culture vivono insieme nel mondo, in qualche modo intrecciate reciprocamente. Su un piano assoluto non possibile né isolarle l’una dall’altra né uniformarle in una generalizzata indistinzione. La pratica sociale si realizza nel concreto della vita e della storia e non in un laboratorio asettico.
Tutte le culture devono, sia pur lentamente, imboccare la strada di una responsabile autoeducazione finalizzata a prendere coscienza della propria marginalità, superando autocomprensioni fondate sull’avvertirsi come realtà separata e in contrapposizione alle altre culture. Nessuna cultura, in fin dei conti, è in sé autosufficiente o priva di correlazioni con le altre culture. Tutte, di fatto, sperimentano una sostanziale osmosi reciproca. Dimensione, questa, che l’attuale globalizzazione tende inevitabilmente ad accrescere. Tutte le culture dovrebbero compiere lo sforzo di calcare il sentiero di assumere la preoccupazione di percepirsi insieme nel mondo, declinando tale percezione come dato ineliminabile e concreto. Anziché attardarci ciascuno nella celebrazione dei proprî eroi e nella demonizzazione dei proprî nemici, è urgente prendere coscienza che lo stesso futuro di ciascuna cultura dipende dalla sua capacità di sapersi pensare in una conformazione diversa da quella attuale. Nella storia dell’umanità ogni giorno non è mai l’esatta fotocopia del giorno precedente. Ciascun giorno ha naturalmente salde radici nell’ieri, ma guai se fosse privo di nuovi germoglî protesi verso il domani. Le culture, che si rivelano refrattarie a un’apertura all’ospitalità incondizionata, in realtà segnano ineluttabilmente il proprio destino. Lasciare, invece, la porta aperta all’ospite inatteso, accettare il rischio che questa visita comporta significa riconoscere che l’altro, più che essere colui che invade l’àmbito del mio orizzonte, è piuttosto colui assieme al quale posso travalicare gli orizzonti.
La speranza appare allora come una fondamentale esigenza d’immaginazione, che ciascuno di noi e il mondo nel suo complesso avvertiamo come una necessità stringente, che determina il futuro in tutte le sue possibilità.
Appare assolutamente necessario spalancare una finestra su un futuro possibile e non predeterminabile, l’alternativa significa ridurre la nostra azione nel presente a un qualcosa di precostituito e, inevitabilmente, voluto all’inefficacia.
Sotto questo punto di vista appare davvero esemplare l’insegnamento del Vangelo, per il suo chiamare a sentirsi partecipi e compartecipi della creazione: una chiamata a costruire, attraverso l’attenzione all’oggi, il senso del domani, un domani da rispettare comunque nella sua astrazione e imprevedibilità.
Il buddhismo Mahayana, dal canto suo, invita alla bodhipranidhicitta, cioè a conseguire l’illuminazione per il bene di tutti gli esseri, vivendo le quattro realtà incommensurabili: l’amore, la compassione, la gioia, l’equanimità illimitate, in quanto rivolte a tutti gli esseri. Nella visione buddhista il raggiungimento dell’illuminazione non è mai finalizzato a se stessi, ma opera per il risveglio complessivo degli esseri, affinché ogni realtà possa partecipare alla felicità che comunque ciascuna contribuisce a determinare. I quattro valori, prima richiamati, caratterizzano uno stile di vita proteso ad apprendere che ogni essere al mondo vive di relazioni e che ogni realtà va rispettata. In una tale ottica la dimensione della speranza che può caratterizzare il nostro essere “qui e ora" costituisce un appello a vivere in modo autentico, per poter costruire qualcosa che può proiettarsi nel futuro. E questo rappresenta la speranza che domani potrà esserci ancora una realtà presente in cui ci si possa adoperare per innescare nuovo cambiamento.
La dimensione della speranza che ci viene proposta dalle tradizioni religiose, sia occidentali che orientali, rispetto al nostro essere pienamente immersi nel presente, assolve un’altra funzione di assoluto rilievo, quella di proporsi a noi come traguardo, respiro e silenzio.
Grazie a una seria analisi della realtà possiamo evitare d’invischiarci in mitologie inquietanti, con l’uso rigoroso della ragione possiamo scegliere di non imboccare i vicoli ciechi delle illusioni, ma è solo con «la speranza nell’altrove – sostiene Gallizioli – che ci riconciliamo con il nostro presente e diventiamo capaci di assaporare l’esistenza». E questo nonostante i nostri limiti, le nostre miserie, la nostra incapacità di comprendere, nonostante i limiti e i condizionamenti posti dalla natura, con le sue leggi e i suoi meccanismi, e, infine, nonostante le visioni umane di Dio che, non di rado, possono ridurlo a funzione di una società, nelle cui logiche finiscono per intrappolarlo.
La speranza, allora, è il propellente che nel concreto della quotidianità ci apre la prospettiva verso un futuro comunque non ipotecabile. Essa si propone come vera ‘e propria poesia della quale abbiamo più che mai necessità per uscire dai vincoli aridi dei linguaggî tesi alla mera oggettività e superare la perentorietà condizionante della realtà che ci circonda. E questo perché la poesia «è una capacità d’incanto che nessuno si può permettere di perdere e che nessun male, nessun dolore, nessuna sofferenza, nessun limite può inquinare perché nasce da un’esperienza».
La speranza, secondo la prospettiva proposta da Gallizioli, finisce per sfociare nella capacità di vivere fino in fondo il silenzio in cui l’esperienza del “totalmente altro” non si contamina con i linguaggî dell’ordinarietà. «Un silenzio nel quale la speranza diviene impalpabile, invisibile e indicibile, perché diviene sinonimo di salvezza, diventa esperienza della salvezza, di una salvezza che non è mai solo mia, ma è la salvezza per intero dell’umanità, della creazione, del cosmo».
Quella proposta da Marco Gallizioli è una riflessione davvero intrigante, che propone il tema della speranza in una chiave del tutto inconsueta, aperta al contributo delle più diverse e disparate ispirazioni di pensiero.
Una lettura da non lasciarsi sfuggire.

Sergio Sbragia
Vico Equense, martedì 13 maggio 2014

domenica 4 maggio 2014

Il Vaticano, “ospite d’onore” al salone del libro, e perché no?





Lo scorso 12 aprile ho ricevuto in biblioteca uno stimolante messaggio di posta elettronica inviato dalla casa editrice Utopia, che, riguardo alla imminente nuova edizione del Salone internazionale del libro di Torino, nella quale la Santa Sede sarà ospite d’onore, ha sollecitato per l’occasione la necessità per la comunità ecclesiale di confrontarsi senza remore con il testo del capitolo 19 degli Atti degli apostoli, ove si narra l’episodio del contrasto avvenuto nella città di Èfeso tra l’apostolo Paolo e gli esorcisti giudèi:



«Dio intanto operava prodigî non comuni per mano di Paolo, al punto che mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano.

Alcuni Giudèi, che erano esorcisti itineranti, provarono anch'essi a invocare il nome del Signore Gesù sopra quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: "Vi scongiuro per quel Gesù che Paolo predica!". Così facevano i sette figlî di un certo Sceva, uno dei capi dei sacerdoti, giudèo. Ma lo spirito cattivo rispose loro: "Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi siete?". E l'uomo che aveva lo spirito cattivo si scagliò su di loro, ebbe il sopravvento su tutti e li trattò con tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite. Il fatto fu risaputo da tutti i Giudèi e i Greci che abitavano a Èfeso e tutti furono presi da timore, e il nome del Signore Gesù veniva glorificato. Molti di quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le loro pratiche di magia e un numero considerevole di persone, che avevano esercitato arti magiche, portavano i proprî libri e li bruciavano davanti a tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e si trovò che era di cinquantamila monete d'argento. Così la parola del Signore cresceva con vigore e si rafforzava» (At. 19,11-20).



L’espressione, che pone in forma esplicita il problema posto in evidenza dall’editrice Utopia, ricorre propriamente al versetto 19, ove si legge «e un numero considerevole di persone, che avevano esercitato arti magiche, portavano i proprî libri e li bruciavano davanti a tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e si trovò che era di cinquantamila monete d'argento» (At. 19,19). Questo appare decisamente come il primo esempio di comportamento censorio nella storia del cristianesimo, che può aver con ogni probabilità svolto una funzione di autorevolissimo avallo alle successive e secolari pratiche censorie nei confronti della produzione intellettuale, sfociate nei roghi di libri e nella formulazione dell’indice dei libri proibiti.

Ritengo che quella formulata dall’editrice Utopia sia una provocazione intellettuale di grande rilievo, che non può essere ignorata con sussiego, né tantomeno va respinta con sdegno. Essa va assolutamente raccolta, ricorrendo al linguaggio della verità che ci è stato additato da Gesù («Sia invece il vostro parlare: "Sì, sì", "No, no"; il di più viene dal Maligno» - Mt. 5,37).

In effetti nel corso dei secoli come comunità cristiana abbiamo posto in essere gravi azioni e comportamenti lesivi della libera produzione intellettuale, che hanno prodotto tanti roghi di libri e si sono condensati nell’istituto canonico dell’Indice dei libri proibiti. Questa pratica secolare appare senz’altro come un grave peccato storico, che ci ha visti come comunità dei credenti venir meno a una precisa indicazione comportamentale, propostaci esemplarmente dalla stesso Gesù, allorché rivolto al giovane ricco ebbe a dire: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!» (Mt. 19,21). L’invito rivolto al suo interlocutore, nel quale siamo esemplati noi tutti, è chiarissimo. Gesù chiede, esplicitamente e senza mezzi termini, di anteporre le esigenze della sua sequela a ogni altra cosa o preoccupazione. Chiede d’impostare la vita avendo come riferimento primario la sua persona. Ma quest’invito autorevole e perentorio è, tuttavia, preceduto da una pre-condizione: “Se vuoi”. La sequela di Gesù, nella volontà dello stesso Gesù, dev’essere frutto di una scelta libera e responsabile. Una scelta operata nella libertà. Un invito, quello di Gesù, rivolto a una libertà. Ciascuno di noi, in quanto destinatario di quell’invito, forte e deciso, ma pienamente rispettoso della libera sfera decisionale dell’uomo, è interpellato nella propria più nobile e piena sfera di decisionalità: quella di decidere liberamente e responsabilmente l’orientamento di fondo della propria vita. Ebbene, nel corso della storia, noi cristiani spesso abbiamo dimenticato il presupposto di libertà che è collocato al principio del nostro personale e comunitario itinerario di fede. Ogni qual volta abbiamo ritenuto di essere detentori della “verità”, dimenticando di essere solo dei fallibili cercatori e servitori della verità, che solo in Cristo è piena, abbiamo dato il via a vere ‘e proprie strutture di peccato, che hanno prodotto nel corso dei secoli lutti e sofferenze.

Della verità proposta da Gesù, noi suoi seguaci siamo capaci di raccoglierne solo delle briciole, come i cagnolini citati dalla donna siro-fenicia («Ma lei gli replicò: "Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei figlî"» - Mc. 7,28). Il nostro sforzo dev’essere allora quello di trasformare queste briciole in autentici talenti da far fruttare nella vita quotidiana, nel confronto con le donne e gli uomini più diversi, cercando di scoprire, con la sapiente interpretazione dei “segni dei tempi”, nuovi aspetti della verità cristiana che precedentemente non siamo riusciti a cogliere. È una sfida impegnativa, difficile, ma è la strada che ci è stata mostrata da Gesù, che tuttavia ci ha anche detto di aver fiducia nell’assistenza del Padre e di non confidare eccessivamente nelle nostre capacità umane («Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire"» - Lc. 12,11-12).

Quando invece, come Pietro sulle acque del lago («Ed egli disse: "Vieni!". Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: "Signore, salvami!"» - Mt. 14,29-30), subordiniamo la nostra fiducia nel Signore alla fiducia nelle nostre capacità e forze meramente umane, il rischio di combinare pasticcî si fa davvero alto.

E questo è ciò che è avvenuto nei secoli anche nei confronti della libera produzione intellettuale, quando si è ritenuto di dover stabilire dei limiti alla libera espressione di quanto maturato in coscienza dalle persone.

Né è sufficiente, a mio avviso, porre in evidenza come contraltare il grande contributo dato alla trasmissione e alla conservazione della cultura classica con il paziente lavoro degli scriptoria monastici e da altre grandi e autorevoli istituzioni culturali d’ispirazione cristiana che hanno servito nei secoli, e tutt’ora servono, la causa della cultura.

Senza nulla togliere al valore indiscutibile di queste esperienze, penso sia necessario, ponendosi sulla scia dell’insegnamento di papa Giovanni Paolo 2°, anche sul tema dei tanti roghi di libri e dell’Indice dei libri proibiti fare una concreta opera di purificazione della memoria, e la scena dell’imminente Salone internazionale del libro di Torino, potrebbe essere un luogo adatto per sviluppare una serena riflessione aperta sul tema.

Dall’esperienza del Giubileo del 2000 abbiamo imparato come la purificazione della memoria sia un «processo volto a liberare la coscienza personale e collettiva da tutte le forme di risentimento o di violenza, che l'eredità di colpe del passato può avervi lasciato, mediante una rinnovata valutazione storica e teologica degli eventi implicati, che conduca […] a un corrispondente riconoscimento di colpa e contribuisca a un reale cammino di riconciliazione. Un simile processo può incidere in maniera significativa sul presente, proprio perché le colpe passate fanno spesso sentire ancora il peso delle loro conseguenze e permangono come altrettante tentazioni anche nell'oggi. In quanto tale, la purificazione della memoria richiede "un atto di coraggio e di umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di cristiani", e si fonda sulla convinzione che "per quel legame che, nel corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personale e senza sostituirci al giudizio di Dio, che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha preceduto". Giovanni Paolo 2° aggiunge: "Come successore di Pietro, chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli". Nel ribadire, poi, che "i cristiani sono invitati a farsi carico, davanti a Dio e agli uomini offesi dai loro comportamenti, delle mancanze da loro commesse", il Papa conclude: "Lo facciano senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell''amore di Dio che è stato riversato nei nostri cuori (Rm. 5,5)"» (Commissione teologica internazionale,  Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, [le citazioni di secondo livello sono riferite alla bolla Incarnationis mysterium di Giovanni Paolo 2°, par. 11]).

Credo che questa sia un’operazione doverosa anche sul tema sollevato dall’editrice Utopia, anche per l’aspetto più delicato che vi risulta implicato, cioè il riportare l’origine della pratica censoria nella Chiesa, non a un qualsiasi, per quanto antico, periodo storico, ma allo stessa età apostolica, come testimoniato dal brano, precedentemente citato, di At. 19,11-20, dove un rogo di libri prende il via dopo una mirabile manifestazione di annunzio operata dall’apostolo Paolo.

È opportuno non rifuggire dal confronto con il contenuto del testo degli Atti degli apostoli, che di certo nei secoli successivi è stato invocato come autorevolissima origine e giustificazione delle pratiche censorie. In effetti nel testo si attesta che in quell’occasione furono bruciati, in conseguenza dell’adesione alla fede cristiana, libri per un valore di oltre cinquantamila monete d’oro.

Questo confronto in realtà costituisce, a mio parere, un’occasione per operare un più autentico approfondimento dell’esperienza di fede. Di fronte alle sollecitazioni ineludibili provenienti dalla società del nostro tempo, con l’assistenza dello Spirito, la comunità dei credenti saprà individuare i sentieri più adatti per rispondere alle nuove esigenze proposte dalla storia senza venir meno alla tradizione della fede apostolica.

La via è quella di ricordarci che il Vangelo è stato scritto per gli uomini di tutti i tempi e che i libri della Scrittura non sono un codice giuridico, ma la testimonianza di un’esperienza di fede che si è dipanata nel tempo e il cui centro si rintraccia nell’incarnazione, nella missione terrena, nella morte e nella resurrezione di Gesù. Un’esperienza di fede che si è realizzata nella storia, nel concreto delle vicende della comunità umana, inframezzata con le genialità e con le miserie della condizione dell’uomo. Ma questo è proprio il dato decisivo di una fede che si rivolge a un Dio incarnato nella storia, che ha fatto irruzione nel concreto della realtà delle donne e degli uomini, assumendo su di sé tutte le contraddizioni che la condizione umana comporta. Scegliere di seguìre Gesù non implica uscire dalla storia, al contrario significa restare pienamente con i piedi ancorati a terra, condividendone tutti i limiti di comprensione, di azione e le possibilità di errore. La santità è allora un dono della grazia, è un’irruzione dello Spirito di Dio nell’esperienza umana di un umile seguace di Gesù. Un seguace che, continuando a camminare nei polverosi sentieri della storia, resta pienamente uomo, vive nella cultura del suo tempo, sperimenta l’errore e anche il peccato, ma sa riconoscere i proprî limiti e il proprio peccato e affidarsi alla misericordia di Dio.

Questo è vero anche per i più grandi testimoni della fede, a cominciare dagli apostoli. Ciascuno di essi, nel seguìre Gesù, non ha cessato di essere uomo. Sappiamo che hanno fatto esperienza dell’errore (basta ricordare l’episodio dei rinnegamenti di Pietro o, l’altro, dove lo stesso Pietro sguaina la spada e ferisce uno dei servi del sommo sacerdote). Essi restano immersi nella cultura in cui sono nati e vissuti (lo testimonia la grande difficoltà che incontrano nel superare i limiti insiti nello schema tradizionale della ritualità ebraica). Non sono esseri straordinarî venuti da una realtà oltremondana, ma sono comuni esseri umani, che hanno la sola peculiarità di aver riposto la propria speranza in Gesù di Nàzareth.

Anche lo stesso apostolo Paolo condivide questa condizione. Egli realizza una mirabile opera di evangelizzazione del mondo classico, pone in contatto il messaggio cristiano con la cultura ellenistica e romana, ma ciò non toglie che egli resta pienamente uomo del suo tempo. Da un lato nella Lettera ai Galati egli pone in evidenza come nella logica inaugurata da Gesù «Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3,28), ma poi nella Prima lettera ai Corinzî esprime tutta la sua dipendenza dalla cultura del tempo in merito alla comprensione del ruolo della donna, ponendo di fatto tra parentesi anche l’insegnamento e la concreta pratica di vita di Gesù nelle relazioni con le donne. Si valuti, in proposito, la differenza tra la visione paolina testimoniata in 1Cor. 14,33b-35 e la considerazione di Gesù per la scelta operata da Maria di Betània di porsi in ascolto della sua Parola, atteggiamento definito esplicitamente come la “parte migliore”:



«Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea» (1Cor. 14,33b-35)



«Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizî. Allora si fece avanti e disse: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma il Signore le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta"» (Lc. 10,38-42).



Qualcosa di analogo si registra nell’episodio delle conversioni di Èfeso, dove quanti si erano convertiti in sèguito alla predicazione paolina, tra i comportamenti con cui rendono palese il mutamento di rotta della propria esistenza, realizzano anche un grande rogo di libri nei quali erano contenuti insegnamenti e pratiche espressive della loro vita precedente, senza che questo innescasse una valutazione da parte di Paolo. Quest’episodio, conservato nella Scrittura cristiana, senz’altro ha fornito, come già detto, una giustificazione per successive pratiche censorie, anzi ha procurato a queste ultime un fondamento scritturistico. Allo stesso tempo tuttavia è giusto sottolineare che nella cultura del tempo era del tutto assente la nozione del libro o dell’opera scultorea come “beni culturali” da preservare e tramandare ai posteri. Tali concezioni saranno maturate solo in epoca posteriore. Sarebbe senz’altro un anacronismo storico caricare i cristiani del 1° secolo di una responsabile violazione di un principio di cui non avevano percezione, in quanto espressione di una sensibilità propria di generazioni successive.

Ciascuno di noi, nel seguìre Gesu, riesce a realizzare solo parzialmente l’esempio e l’insegnamento di Gesù. Parte dell’eredità di Gesù resta inevitabilmente al di là dello sforzo di comprensione e di concreta pratica. Di qui l’importanza di non tralasciare mai l’approfondimento, il confronto, l’ascolto e il nutrimento della Parola. È solo assumendo strutturalmente la scelta della “parte migliore” di Maria di Betània, che è possibile crescere nella comprensione della volontà del Signore, una comprensione che comunque non sarà mai esaustiva in pienezza, ci sarà sempre un itinerario ulteriore di comprensione da percorrere con pazienza e sacrificio. E quella della sempre maggiore comprensione dell’insegnamento e della missione di Gesù, è anche la strada per prendere coscienza dei peccati commessi nei secoli e degli errori compiuti, talvolta inconsapevolmente, e che tuttavia possono aver prodotto lutti e sofferenze a tanti.

Mi sorprende perciò, nella segnalazione dell’editrice Utopia, la sostanziale svalutazione della ricerca esegetica e storica, là dove si chiede che la Santa Sede ripudî «i brani del rogo paolino, senza raggiri esegetici o sotterfugî storicizzanti». Prescindendo dal fatto che un brano della Scrittura, per quanto scomodo, non può essere oggetto di un ripudio, in quanto il testo dei libri biblici è oramai un dato incontrovertibile, il processo di definizione del canone è storicamente definito, procedere oggi a un’esclusione dal canone di un brano o di un intero libro risulterebbe del tutto incomprensibile e sarebbe una sostanziale fuga dalla responsabilità. Invece è proprio attraverso il ricorso all’esegesi scientifica e alla ricerca storica che è possibile comprendere più adeguatamente il brano e l’episodio in questione, che non può essere negato, né deve essere espulso dal Secondo Testamento. Ciò tuttavia non impedisce di evidenziare che comportamenti come i roghi di libri e la negazione della libera produzione culturale sono radicalmente contrarî al “comandamento dell’amore” che Giovanni ci ha additato come la sintesi del messaggio cristiano. Questa consapevolezza poteva certamente non essere percepita dai cristiani del 1° secolo e dall’apostolo Paolo, ma è pienamente percepita oggi, anzi da qualche secolo il valore della libertà d’espressione e di ricerca è ampiamente affermato e riconosciuto. È quindi doveroso porre in atto ogni atto affinché sia pienamente affermato e garantito sul piano sociale e nella pratica ecclesiale.

Personalmente, infine, non conosco la vicenda, presumo molto sofferta, del vicario di Notre-Dame di Parigi, Jean Steinmann, della quale parla il messaggio dell’editrice Utopia. Sarà mia cura approfondirla adeguatamente. In ogni caso sono perfettamente consapevole che il riconoscimento del principio della libertà di ricerca soffre tutt’ora dell’assenza di un pieno riconoscimento nella comunità ecclesiale. Ne ho parlato nella mia riflessione La sfida del “far teologia” al tempo di Francesco, dello scorso 1° febbraio (cf. http://sergiosbragia.blogspot.it/2014/02/la-sfida-del-far-teologia-al-tempo-di.html).

In quell’occasione ho avuto modo di sottolineare come:



«Nell’ultimo secolo il rapporto tra teologia e magistero è spesso stato testimone di esperienze di tensione e di profonda sofferenza umana. Numerosi sono i casi di teologi ammoniti o puniti dal Sant’Uffizio (poi Sacra Congregazione per la dottrina della fede). Questa realtà dolorosa accomuna, purtroppo, i tempi precedenti e successivi al Concilio. Si è purtroppo rivelata vana la speranza che fosse finito il tempo delle dure sofferenze vissute da fratelli di alto sentire spirituale e culturale, per il solo aver tentato di sperimentare nuovi itinerarî di ricerca nel modo di realizzare la volontà di Dio. In realtà negli ultimi decennî sono tornati a essere numerosi gli interventi d’autorità nei confronti della produzione scientifica di autorevoli teologi» (La sfida del “far teologia” al tempo di Francesco).



Questo è certamente un nervo scoperto dell’attuale temperie ecclesiale, ed è un terreno su cui dovrà necessariamente misurarsi l’azione pastorale di papa Francesco, che a mio avviso non mancherà di porre in atto in proposito concrete iniziative di cambiamento.

Fermo restando l’esigenza di far piena chiarezza sull’episodio segnalato dall’editrice Utopia, mi sembra alquanto ingenerosa la valutazione dell’operato di papa Giovanni 23°, che di certo nel suo breve pontificato ha diretto la Chiesa secondo la prassi istituzionale consolidata, ma ha compiuto dei gesti di apertura di grandissima rilevanza, ha aperto nuove strade, ha reso possibili itinerarî di dialogo e collaborazione con cultura contemporanea sino ad allora del tutto inimmaginabili. Credo che attraverso la sua persona negli anni ’60 nella Chiesa e nel mondo abbia effettivamente spirato il vento dello Spirito. Molte delle realizzazioni successive sul piano del rinnovamento ecclesiale, del dialogo ecumenico e interreligioso, del confronto con il mondo della cultura, del progresso della distensione internazionale, sono senza dubbio in parte debitrici al suo contributo profetico.

Senza nulla togliere all’esigenza di ricostruire storicamente e in pienezza la vicenda dell’abate Jean Steinmann, anche il pontificato Giovanneo va vagliato nel suo complesso sul piano storico, tenendo conto altresì che il cinquantennio trascorso fornisce ormai una distanza temporale adeguata per una valutazione metodologicamente rigorosa.

La ricerca storica, lungi dal configurarsi come un “sotterfugio”, si presenta invece come uno strumento essenziale e indispensabile per ricostruire processi storici e vicende specifiche. È però indispensabile percorrerne con serietà e umiltà i faticosi sentieri. L’imminente Salone internazionale del Libro di Torino può essere l’occasione per parlarne liberamente.

D’altronde secondo un motto caro a Giovanni 23°: «la storia tutto vela e tutto svela» (Giovanni 23°, Discorso dell’11 aprile 1961).



Sergio Sbragia

Domenica, 4 maggio 2014