Lo
scorso 12 aprile ho ricevuto in biblioteca uno stimolante messaggio di posta
elettronica inviato dalla casa editrice Utopia, che, riguardo alla imminente
nuova edizione del Salone internazionale del libro di Torino, nella quale la
Santa Sede sarà ospite d’onore, ha sollecitato per l’occasione la necessità per
la comunità ecclesiale di confrontarsi senza remore con il testo del capitolo
19 degli Atti degli apostoli, ove si
narra l’episodio del contrasto avvenuto nella città di Èfeso tra l’apostolo
Paolo e gli esorcisti giudèi:
«Dio intanto operava prodigî non comuni per
mano di Paolo, al punto che mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che
erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi
fuggivano.
Alcuni Giudèi, che erano esorcisti
itineranti, provarono anch'essi a invocare il nome del Signore Gesù sopra
quanti avevano spiriti cattivi, dicendo: "Vi scongiuro per quel Gesù che
Paolo predica!". Così facevano i sette figlî di un certo Sceva, uno dei
capi dei sacerdoti, giudèo. Ma lo spirito cattivo rispose loro: "Conosco Gesù
e so chi è Paolo, ma voi chi siete?". E l'uomo che aveva lo spirito
cattivo si scagliò su di loro, ebbe il sopravvento su tutti e li trattò con
tale violenza che essi fuggirono da quella casa nudi e coperti di ferite. Il
fatto fu risaputo da tutti i Giudèi e i Greci che abitavano a Èfeso e tutti
furono presi da timore, e il nome del Signore Gesù veniva glorificato. Molti di
quelli che avevano abbracciato la fede venivano a confessare in pubblico le
loro pratiche di magia e un numero considerevole di persone, che avevano
esercitato arti magiche, portavano i proprî libri e li bruciavano davanti a
tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e si trovò che era di
cinquantamila monete d'argento. Così la parola del Signore cresceva con vigore
e si rafforzava» (At.
19,11-20).
L’espressione,
che pone in forma esplicita il problema posto in evidenza dall’editrice Utopia,
ricorre propriamente al versetto 19, ove si legge «e un numero considerevole di persone, che
avevano esercitato arti magiche, portavano i proprî libri e li bruciavano
davanti a tutti. Ne fu calcolato il valore complessivo e si trovò che era di cinquantamila
monete d'argento» (At.
19,19). Questo appare decisamente come il primo esempio di comportamento
censorio nella storia del cristianesimo, che può aver con ogni probabilità svolto
una funzione di autorevolissimo avallo alle successive e secolari pratiche
censorie nei confronti della produzione intellettuale, sfociate nei roghi di
libri e nella formulazione dell’indice dei libri proibiti.
Ritengo che
quella formulata dall’editrice Utopia sia una provocazione intellettuale di
grande rilievo, che non può essere ignorata con sussiego, né tantomeno va respinta
con sdegno. Essa va assolutamente raccolta, ricorrendo al linguaggio della verità
che ci è stato additato da Gesù («Sia invece il vostro
parlare: "Sì, sì", "No, no"; il di più viene dal Maligno» - Mt. 5,37).
In effetti nel corso dei secoli come comunità cristiana abbiamo
posto in essere gravi azioni e comportamenti lesivi della libera produzione
intellettuale, che hanno prodotto tanti roghi di libri e si sono condensati
nell’istituto canonico dell’Indice dei libri proibiti. Questa pratica secolare
appare senz’altro come un grave peccato storico, che ci ha visti come comunità
dei credenti venir meno a una precisa indicazione comportamentale, propostaci
esemplarmente dalla stesso Gesù, allorché rivolto al giovane ricco ebbe a dire:
«Se vuoi essere perfetto, va',
vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e
vieni! Seguimi!» (Mt.
19,21). L’invito rivolto al suo interlocutore, nel quale siamo esemplati noi
tutti, è chiarissimo. Gesù chiede, esplicitamente e senza mezzi termini, di
anteporre le esigenze della sua sequela a ogni altra cosa o preoccupazione.
Chiede d’impostare la vita avendo come riferimento primario la sua persona. Ma
quest’invito autorevole e perentorio è, tuttavia, preceduto da una
pre-condizione: “Se vuoi”. La sequela di Gesù, nella volontà dello stesso Gesù,
dev’essere frutto di una scelta libera e responsabile. Una scelta operata nella
libertà. Un invito, quello di Gesù, rivolto a una libertà. Ciascuno di noi, in
quanto destinatario di quell’invito, forte e deciso, ma pienamente rispettoso
della libera sfera decisionale dell’uomo, è interpellato nella propria più
nobile e piena sfera di decisionalità: quella di decidere liberamente e
responsabilmente l’orientamento di fondo della propria vita. Ebbene, nel corso
della storia, noi cristiani spesso abbiamo dimenticato il presupposto di
libertà che è collocato al principio del nostro personale e comunitario
itinerario di fede. Ogni qual volta abbiamo ritenuto di essere detentori della
“verità”, dimenticando di essere solo dei fallibili cercatori e servitori della
verità, che solo in Cristo è piena, abbiamo dato il via a vere ‘e proprie
strutture di peccato, che hanno prodotto nel corso dei secoli lutti e sofferenze.
Della verità proposta da Gesù, noi suoi seguaci siamo capaci di
raccoglierne solo delle briciole, come i cagnolini citati dalla donna
siro-fenicia («Ma lei gli
replicò: "Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole
dei figlî"» - Mc.
7,28). Il nostro sforzo dev’essere allora quello di trasformare queste briciole
in autentici talenti da far fruttare nella vita quotidiana, nel confronto con
le donne e gli uomini più diversi, cercando di scoprire, con la sapiente
interpretazione dei “segni dei tempi”, nuovi aspetti della verità cristiana che
precedentemente non siamo riusciti a cogliere. È una sfida impegnativa,
difficile, ma è la strada che ci è stata mostrata da Gesù, che tuttavia ci ha
anche detto di aver fiducia nell’assistenza del Padre e di non confidare
eccessivamente nelle nostre capacità umane («Quando vi porteranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e
alle autorità, non preoccupatevi di come o di che cosa discolparvi, o di che
cosa dire, perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna
dire"» - Lc. 12,11-12).
Quando invece, come Pietro sulle acque del lago («Ed egli disse: "Vieni!". Pietro scese
dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che
il vento era forte, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò:
"Signore, salvami!"»
- Mt. 14,29-30), subordiniamo la nostra fiducia nel Signore alla fiducia nelle
nostre capacità e forze meramente umane, il rischio di combinare pasticcî si fa
davvero alto.
E questo è ciò che è avvenuto nei secoli anche nei confronti
della libera produzione intellettuale, quando si è ritenuto di dover stabilire
dei limiti alla libera espressione di quanto maturato in coscienza dalle
persone.
Né è sufficiente, a mio avviso, porre in evidenza come
contraltare il grande contributo dato alla trasmissione e alla conservazione
della cultura classica con il paziente lavoro degli scriptoria monastici e da altre grandi e autorevoli istituzioni
culturali d’ispirazione cristiana che hanno servito nei secoli, e tutt’ora servono,
la causa della cultura.
Senza nulla togliere al valore indiscutibile di queste
esperienze, penso sia necessario, ponendosi sulla scia dell’insegnamento di
papa Giovanni Paolo 2°, anche sul tema dei tanti roghi di libri e dell’Indice
dei libri proibiti fare una concreta opera di purificazione della memoria, e la scena dell’imminente Salone
internazionale del libro di Torino, potrebbe essere un luogo adatto per
sviluppare una serena riflessione aperta sul tema.
Dall’esperienza del Giubileo del 2000 abbiamo imparato come la purificazione della memoria sia un «processo
volto a liberare la coscienza personale e collettiva da tutte le forme di
risentimento o di violenza, che l'eredità di colpe del passato può avervi
lasciato, mediante una rinnovata valutazione storica e teologica degli eventi
implicati, che conduca […] a un corrispondente riconoscimento di colpa e
contribuisca a un reale cammino di riconciliazione. Un simile processo può
incidere in maniera significativa sul presente, proprio perché le colpe passate
fanno spesso sentire ancora il peso delle loro conseguenze e permangono come
altrettante tentazioni anche nell'oggi. In quanto tale, la purificazione della memoria richiede "un atto di coraggio e di
umiltà nel riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano
il nome di cristiani", e si fonda sulla convinzione che "per quel
legame che, nel corpo mistico, ci unisce gli uni agli altri, tutti noi, pur non
avendone responsabilità personale e senza sostituirci al giudizio di Dio, che
solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e delle colpe di chi ci ha
preceduto". Giovanni Paolo 2° aggiunge: "Come successore di Pietro,
chiedo che in questo anno di misericordia la Chiesa, forte della santità che
riceve dal suo Signore, si inginocchi davanti a Dio e implori il perdono per i
peccati passati e presenti dei suoi figli". Nel ribadire, poi, che "i
cristiani sono invitati a farsi carico, davanti a Dio e agli uomini offesi dai
loro comportamenti, delle mancanze da loro commesse", il Papa conclude:
"Lo facciano senza nulla chiedere in cambio, forti solo dell''amore di Dio
che è stato riversato nei nostri cuori (Rm. 5,5)"» (Commissione teologica
internazionale, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato, [le
citazioni di secondo livello sono riferite alla bolla Incarnationis mysterium di Giovanni Paolo 2°, par. 11]).
Credo che questa sia un’operazione doverosa anche sul tema
sollevato dall’editrice Utopia, anche per l’aspetto più delicato che vi risulta
implicato, cioè il riportare l’origine della pratica censoria nella Chiesa, non
a un qualsiasi, per quanto antico, periodo storico, ma allo stessa età
apostolica, come testimoniato dal brano, precedentemente citato, di At.
19,11-20, dove un rogo di libri prende il via dopo una mirabile manifestazione
di annunzio operata dall’apostolo Paolo.
È opportuno non rifuggire dal confronto con il contenuto del
testo degli Atti degli apostoli, che
di certo nei secoli successivi è stato invocato come autorevolissima origine e
giustificazione delle pratiche censorie. In effetti nel testo si attesta che in
quell’occasione furono bruciati, in conseguenza dell’adesione alla fede
cristiana, libri per un valore di oltre cinquantamila monete d’oro.
Questo confronto in realtà costituisce, a mio parere, un’occasione
per operare un più autentico approfondimento dell’esperienza di fede. Di fronte
alle sollecitazioni ineludibili provenienti dalla società del nostro tempo, con
l’assistenza dello Spirito, la comunità dei credenti saprà individuare i
sentieri più adatti per rispondere alle nuove esigenze proposte dalla storia
senza venir meno alla tradizione della fede apostolica.
La via è quella di ricordarci che il Vangelo è stato scritto per
gli uomini di tutti i tempi e che i libri della Scrittura non sono un codice
giuridico, ma la testimonianza di un’esperienza di fede che si è dipanata nel
tempo e il cui centro si rintraccia nell’incarnazione, nella missione terrena,
nella morte e nella resurrezione di Gesù. Un’esperienza di fede che si è
realizzata nella storia, nel concreto delle vicende della comunità umana,
inframezzata con le genialità e con le miserie della condizione dell’uomo. Ma
questo è proprio il dato decisivo di una fede che si rivolge a un Dio incarnato
nella storia, che ha fatto irruzione nel concreto della realtà delle donne e
degli uomini, assumendo su di sé tutte le contraddizioni che la condizione
umana comporta. Scegliere di seguìre Gesù non implica uscire dalla storia, al
contrario significa restare pienamente con i piedi ancorati a terra,
condividendone tutti i limiti di comprensione, di azione e le possibilità di
errore. La santità è allora un dono della grazia, è un’irruzione dello Spirito
di Dio nell’esperienza umana di un umile seguace di Gesù. Un seguace che,
continuando a camminare nei polverosi sentieri della storia, resta pienamente
uomo, vive nella cultura del suo tempo, sperimenta l’errore e anche il peccato,
ma sa riconoscere i proprî limiti e il proprio peccato e affidarsi alla
misericordia di Dio.
Questo è vero anche per i più grandi testimoni della fede, a
cominciare dagli apostoli. Ciascuno di essi, nel seguìre Gesù, non ha cessato
di essere uomo. Sappiamo che hanno fatto esperienza dell’errore (basta
ricordare l’episodio dei rinnegamenti di Pietro o, l’altro, dove lo stesso
Pietro sguaina la spada e ferisce uno dei servi del sommo sacerdote). Essi restano
immersi nella cultura in cui sono nati e vissuti (lo testimonia la grande
difficoltà che incontrano nel superare i limiti insiti nello schema
tradizionale della ritualità ebraica). Non sono esseri straordinarî venuti da
una realtà oltremondana, ma sono comuni esseri umani, che hanno la sola
peculiarità di aver riposto la propria speranza in Gesù di Nàzareth.
Anche lo stesso apostolo Paolo condivide questa condizione. Egli
realizza una mirabile opera di evangelizzazione del mondo classico, pone in
contatto il messaggio cristiano con la cultura ellenistica e romana, ma ciò non
toglie che egli resta pienamente uomo del suo tempo. Da un lato nella Lettera ai Galati egli pone in evidenza
come nella logica inaugurata da Gesù «Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio
e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal. 3,28), ma poi nella Prima lettera ai Corinzî esprime tutta
la sua dipendenza dalla cultura del tempo in merito alla comprensione del ruolo
della donna, ponendo di fatto tra parentesi anche l’insegnamento e la concreta
pratica di vita di Gesù nelle relazioni con le donne. Si valuti, in proposito,
la differenza tra la visione paolina testimoniata in 1Cor. 14,33b-35 e la
considerazione di Gesù per la scelta operata da Maria di Betània di porsi in
ascolto della sua Parola, atteggiamento definito esplicitamente come la “parte
migliore”:
«Come in tutte le comunità dei santi, le donne
nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece
sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa,
interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare
in assemblea» (1Cor.
14,33b-35)
«Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome
Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale,
seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta
per i molti servizî. Allora si fece avanti e disse: "Signore, non
t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque
che mi aiuti". Ma il Signore le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni
e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno.
Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta"» (Lc. 10,38-42).
Qualcosa di analogo si registra nell’episodio delle conversioni
di Èfeso, dove quanti si erano convertiti in sèguito alla predicazione paolina,
tra i comportamenti con cui rendono palese il mutamento di rotta della propria
esistenza, realizzano anche un grande rogo di libri nei quali erano contenuti
insegnamenti e pratiche espressive della loro vita precedente, senza che questo
innescasse una valutazione da parte di Paolo. Quest’episodio, conservato nella
Scrittura cristiana, senz’altro ha fornito, come già detto, una giustificazione
per successive pratiche censorie, anzi ha procurato a queste ultime un
fondamento scritturistico. Allo stesso tempo tuttavia è giusto sottolineare che
nella cultura del tempo era del tutto assente la nozione del libro o dell’opera
scultorea come “beni culturali” da preservare e tramandare ai posteri. Tali
concezioni saranno maturate solo in epoca posteriore. Sarebbe senz’altro un anacronismo
storico caricare i cristiani del 1° secolo di una responsabile violazione di un
principio di cui non avevano percezione, in quanto espressione di una
sensibilità propria di generazioni successive.
Ciascuno di noi, nel seguìre Gesu, riesce a realizzare solo
parzialmente l’esempio e l’insegnamento di Gesù. Parte dell’eredità di Gesù
resta inevitabilmente al di là dello sforzo di comprensione e di concreta
pratica. Di qui l’importanza di non tralasciare mai l’approfondimento, il
confronto, l’ascolto e il nutrimento della Parola. È solo assumendo
strutturalmente la scelta della “parte migliore” di Maria di Betània, che è
possibile crescere nella comprensione della volontà del Signore, una
comprensione che comunque non sarà mai esaustiva in pienezza, ci sarà sempre un
itinerario ulteriore di comprensione da percorrere con pazienza e sacrificio. E
quella della sempre maggiore comprensione dell’insegnamento e della missione di
Gesù, è anche la strada per prendere coscienza dei peccati commessi nei secoli
e degli errori compiuti, talvolta inconsapevolmente, e che tuttavia possono
aver prodotto lutti e sofferenze a tanti.
Mi sorprende perciò, nella segnalazione dell’editrice Utopia, la
sostanziale svalutazione della ricerca esegetica e storica, là dove si chiede
che la Santa Sede ripudî «i brani del rogo paolino, senza raggiri esegetici o
sotterfugî storicizzanti». Prescindendo dal fatto che un brano della Scrittura,
per quanto scomodo, non può essere oggetto di un ripudio, in quanto il testo
dei libri biblici è oramai un dato incontrovertibile, il processo di
definizione del canone è storicamente definito, procedere oggi a un’esclusione
dal canone di un brano o di un intero libro risulterebbe del tutto incomprensibile
e sarebbe una sostanziale fuga dalla responsabilità. Invece è proprio
attraverso il ricorso all’esegesi scientifica e alla ricerca storica che è
possibile comprendere più adeguatamente il brano e l’episodio in questione, che
non può essere negato, né deve essere espulso dal Secondo Testamento. Ciò
tuttavia non impedisce di evidenziare che comportamenti come i roghi di libri e
la negazione della libera produzione culturale sono radicalmente contrarî al
“comandamento dell’amore” che Giovanni ci ha additato come la sintesi del
messaggio cristiano. Questa consapevolezza poteva certamente non essere
percepita dai cristiani del 1° secolo e dall’apostolo Paolo, ma è pienamente
percepita oggi, anzi da qualche secolo il valore della libertà d’espressione e
di ricerca è ampiamente affermato e riconosciuto. È quindi doveroso porre in
atto ogni atto affinché sia pienamente affermato e garantito sul piano sociale
e nella pratica ecclesiale.
Personalmente, infine, non conosco la vicenda, presumo molto
sofferta, del vicario di Notre-Dame di Parigi, Jean Steinmann, della quale
parla il messaggio dell’editrice Utopia. Sarà mia cura approfondirla
adeguatamente. In ogni caso sono perfettamente consapevole che il
riconoscimento del principio della libertà di ricerca soffre tutt’ora
dell’assenza di un pieno riconoscimento nella comunità ecclesiale. Ne ho
parlato nella mia riflessione La sfida
del “far teologia” al tempo di Francesco, dello scorso 1° febbraio (cf. http://sergiosbragia.blogspot.it/2014/02/la-sfida-del-far-teologia-al-tempo-di.html).
In quell’occasione ho avuto modo di sottolineare come:
«Nell’ultimo secolo il rapporto tra
teologia e magistero è spesso stato testimone di esperienze di tensione e di
profonda sofferenza umana. Numerosi sono i casi di teologi ammoniti o puniti
dal Sant’Uffizio (poi Sacra Congregazione per la dottrina della fede). Questa
realtà dolorosa accomuna, purtroppo, i tempi precedenti e successivi al
Concilio. Si è purtroppo rivelata vana la speranza che fosse finito il tempo
delle dure sofferenze vissute da fratelli di alto sentire spirituale e
culturale, per il solo aver tentato di sperimentare nuovi itinerarî di ricerca
nel modo di realizzare la volontà di Dio. In realtà negli ultimi decennî sono
tornati a essere numerosi gli interventi d’autorità nei confronti della produzione
scientifica di autorevoli teologi» (La
sfida del “far teologia” al tempo di Francesco).
Questo è certamente un nervo scoperto dell’attuale temperie
ecclesiale, ed è un terreno su cui dovrà necessariamente misurarsi l’azione
pastorale di papa Francesco, che a mio avviso non mancherà di porre in atto in
proposito concrete iniziative di cambiamento.
Fermo restando l’esigenza di far piena chiarezza sull’episodio
segnalato dall’editrice Utopia, mi sembra alquanto ingenerosa la valutazione
dell’operato di papa Giovanni 23°, che di certo nel suo breve pontificato ha
diretto la Chiesa secondo la prassi istituzionale consolidata, ma ha compiuto
dei gesti di apertura di grandissima rilevanza, ha aperto nuove strade, ha reso
possibili itinerarî di dialogo e collaborazione con cultura contemporanea sino
ad allora del tutto inimmaginabili. Credo che attraverso la sua persona negli
anni ’60 nella Chiesa e nel mondo abbia effettivamente spirato il vento dello
Spirito. Molte delle realizzazioni successive sul piano del rinnovamento
ecclesiale, del dialogo ecumenico e interreligioso, del confronto con il mondo
della cultura, del progresso della distensione internazionale, sono senza
dubbio in parte debitrici al suo contributo profetico.
Senza nulla togliere all’esigenza di ricostruire storicamente e
in pienezza la vicenda dell’abate Jean Steinmann, anche il pontificato
Giovanneo va vagliato nel suo complesso sul piano storico, tenendo conto altresì
che il cinquantennio trascorso fornisce ormai una distanza temporale adeguata
per una valutazione metodologicamente rigorosa.
La ricerca storica, lungi dal configurarsi come un
“sotterfugio”, si presenta invece come uno strumento essenziale e indispensabile
per ricostruire processi storici e vicende specifiche. È però indispensabile
percorrerne con serietà e umiltà i faticosi sentieri. L’imminente Salone
internazionale del Libro di Torino può essere l’occasione per parlarne
liberamente.
D’altronde secondo un motto caro a Giovanni 23°: «la storia
tutto vela e tutto svela» (Giovanni 23°, Discorso
dell’11 aprile 1961).
Sergio Sbragia
Domenica, 4 maggio 2014