Suggerisco la lettura
di un altro bel contributo presente sul numero 8 di «Rocca»:
Che cos’è
la religione : La speranza nel presente, la speranza nell’altrove / Marco Gallizioli. – «Rocca : Quindicinale della Pro
Civitate Christiana», 73. (2014) 08. p. 47-49.
L’autore, Marco Gallizioli, prendendo le mosse da una costante
antropologica facilmente riscontrabile nell’umanità contemporanea che segna un
sordo sentimento di rassegnazione e d’ineluttabilità nei confronti dell’epoca
odierna, pone in evidenza come oggi ci si trovi di fronte a una sorta di
smarrimento della capacità di «generare un senso di speranza in grado di
innervare nei soggetti forza e determinazione, di rinnovare idee e progetti, di
fornire nutrimento e propellente esistenziali». Il rischio più che concreto è
che, in conseguenza dell’incapacità di dare senso alla speranza nella
condizione presente in cui ciascuno si ritrova, si finisce col negarla o
rifiutarla, col sostituirla con surrogati del tutto riduttivi, oppure con il
confinarla su un piano astratto e lontano dalla vita reale. E questo nonostante
oggi sia quanto mai essenziale un contributo propositivo di alto profilo
motivazionale.
Certamente lo slancio verso il futuro, che senza dubbio è connaturato
allo stesso essere in divenire della persona umana, si trova tuttavia nella
necessità di calarsi nella realtà presente, perché la realtà concreta di oggi è
«il vero luogo della speranza, inteso come tempo del cambiamento in vista del
domani». E qui è davvero illuminante la considerazione operata da Gallizioli:
«il nostro essere “qui e ora” è, infatti, l’àmbito in cui si esprime la nostra
esistenza, il terreno in cui si gioca il nostro essere viventi e in cui si deve
realizzare il senso dell’attesa».
Da qui parte una presentazione davvero accattivante di come il valore
della “speranza” appare declinato nelle tradizioni religiose e nella cultura
contemporanea.
Le tradizioni occidentali, nel loro complesso, concordano
nell’affermare che, per dar vita a un mondo migliore, sia doveroso partire dal
cambiare il nostro stile di vivere nella storia e nel tempo. Il cristianesimo,
dal canto suo, con la proposta di un Dio che si fa uomo e vive nella storia,
costituisce il principale esempio di un tale orientamento. Qui il presente si
costituisce come il luogo temporale ove può determinarsi la nostra
trasformazione, l’àmbito della ricerca della dimensione più autentica, della
presa di coscienza, della conversione e dell’avvio dell’itinerario di
perfezione.
Vivere nel presente in una prospettiva di trasformazione di sé
(diremmo in un linguaggio di moda, “con un atteggiamento in progress), rappresenta un vero ‘e proprio seme di speranza, un
sentirsi compartecipi, parete di una realtà, il mondo, che è qualcosa di più
della mera somma delle sue componenti.
Per esempio, per un pensatore come Martini Heidegger il presente è il
«il tempo della cura, della crescita nella responsabilità e nella
consapevolezza di ciò che siamo». Anche il pensiero antropologico ha fornito un
grande contributo in proposito. Dal suo punto di vista Clifford Geertz ha posto
in luce come una grande speranza per l’umanità sia quella d’imparare a capire
ciò che non possiamo abbracciare. Gallizioli sottolinea con grande efficacia
come oggi la sfida sia rappresentata dal prenderci cura del mondo, che vuol
dire imparare ad ascoltare e comprendere l’altro, inteso come alterità
culturale. Questo implica percorrere strade diverse e alternative al
dissimulare la differenza dall’altro con discorsi generici sul dato della
comune umanità, all’indifferenza del dare “a ciascuno il suo”, o, infine, alla
collocazione marginale e distante sul piano di una considerazione di fascino
esotico, ma di sostanziale estraneità alla realtà quotidiana. Urge pertanto
divenire capaci di apprendere l’attitudine di comprendere l’altro, e di saperla
mantenere viva e alimentare. Le diverse culture vivono insieme nel mondo, in
qualche modo intrecciate reciprocamente. Su un piano assoluto non possibile né
isolarle l’una dall’altra né uniformarle in una generalizzata indistinzione. La
pratica sociale si realizza nel concreto della vita e della storia e non in un
laboratorio asettico.
Tutte le culture devono, sia pur lentamente, imboccare la strada di
una responsabile autoeducazione finalizzata a prendere coscienza della propria
marginalità, superando autocomprensioni fondate sull’avvertirsi come realtà
separata e in contrapposizione alle altre culture. Nessuna cultura, in fin dei
conti, è in sé autosufficiente o priva di correlazioni con le altre culture.
Tutte, di fatto, sperimentano una sostanziale osmosi reciproca. Dimensione,
questa, che l’attuale globalizzazione tende inevitabilmente ad accrescere.
Tutte le culture dovrebbero compiere lo sforzo di calcare il sentiero di
assumere la preoccupazione di percepirsi insieme nel mondo, declinando tale
percezione come dato ineliminabile e concreto. Anziché attardarci ciascuno
nella celebrazione dei proprî eroi e nella demonizzazione dei proprî nemici, è
urgente prendere coscienza che lo stesso futuro di ciascuna cultura dipende
dalla sua capacità di sapersi pensare in una conformazione diversa da quella
attuale. Nella storia dell’umanità ogni giorno non è mai l’esatta fotocopia del
giorno precedente. Ciascun giorno ha naturalmente salde radici nell’ieri, ma
guai se fosse privo di nuovi germoglî protesi verso il domani. Le culture, che
si rivelano refrattarie a un’apertura all’ospitalità incondizionata, in realtà
segnano ineluttabilmente il proprio destino. Lasciare, invece, la porta aperta
all’ospite inatteso, accettare il rischio che questa visita comporta significa
riconoscere che l’altro, più che essere colui che invade l’àmbito del mio
orizzonte, è piuttosto colui assieme al quale posso travalicare gli orizzonti.
La speranza appare allora come una fondamentale esigenza
d’immaginazione, che ciascuno di noi e il mondo nel suo complesso avvertiamo
come una necessità stringente, che determina il futuro in tutte le sue
possibilità.
Appare assolutamente necessario spalancare una finestra su un futuro
possibile e non predeterminabile, l’alternativa significa ridurre la nostra
azione nel presente a un qualcosa di precostituito e, inevitabilmente, voluto
all’inefficacia.
Sotto questo punto di vista appare davvero esemplare l’insegnamento
del Vangelo, per il suo chiamare a sentirsi partecipi e compartecipi della
creazione: una chiamata a costruire, attraverso l’attenzione all’oggi, il senso
del domani, un domani da rispettare comunque nella sua astrazione e imprevedibilità.
Il buddhismo Mahayana, dal canto suo, invita alla bodhipranidhicitta, cioè a conseguire l’illuminazione per il bene
di tutti gli esseri, vivendo le quattro realtà incommensurabili: l’amore, la
compassione, la gioia, l’equanimità illimitate, in quanto rivolte a tutti gli
esseri. Nella visione buddhista il raggiungimento dell’illuminazione non è mai
finalizzato a se stessi, ma opera per il risveglio complessivo degli esseri,
affinché ogni realtà possa partecipare alla felicità che comunque ciascuna
contribuisce a determinare. I quattro valori, prima richiamati, caratterizzano
uno stile di vita proteso ad apprendere che ogni essere al mondo vive di
relazioni e che ogni realtà va rispettata. In una tale ottica la dimensione
della speranza che può caratterizzare il nostro essere “qui e ora"
costituisce un appello a vivere in modo autentico, per poter costruire qualcosa
che può proiettarsi nel futuro. E questo rappresenta la speranza che domani
potrà esserci ancora una realtà presente in cui ci si possa adoperare per
innescare nuovo cambiamento.
La dimensione della speranza che ci viene proposta dalle tradizioni
religiose, sia occidentali che orientali, rispetto al nostro essere pienamente
immersi nel presente, assolve un’altra funzione di assoluto rilievo, quella di
proporsi a noi come traguardo, respiro e silenzio.
Grazie a una seria analisi della realtà possiamo evitare
d’invischiarci in mitologie inquietanti, con l’uso rigoroso della ragione
possiamo scegliere di non imboccare i vicoli ciechi delle illusioni, ma è solo
con «la speranza nell’altrove – sostiene Gallizioli – che ci riconciliamo con
il nostro presente e diventiamo capaci di assaporare l’esistenza». E questo
nonostante i nostri limiti, le nostre miserie, la nostra incapacità di comprendere,
nonostante i limiti e i condizionamenti posti dalla natura, con le sue leggi e
i suoi meccanismi, e, infine, nonostante le visioni umane di Dio che, non di
rado, possono ridurlo a funzione di una società, nelle cui logiche finiscono
per intrappolarlo.
La speranza, allora, è il propellente che nel concreto della quotidianità
ci apre la prospettiva verso un futuro comunque non ipotecabile. Essa si
propone come vera ‘e propria poesia della quale abbiamo più che mai necessità
per uscire dai vincoli aridi dei linguaggî tesi alla mera oggettività e
superare la perentorietà condizionante della realtà che ci circonda. E questo perché
la poesia «è una capacità d’incanto che nessuno si può permettere di perdere e
che nessun male, nessun dolore, nessuna sofferenza, nessun limite può inquinare
perché nasce da un’esperienza».
La speranza, secondo la prospettiva proposta da Gallizioli, finisce
per sfociare nella capacità di vivere fino in fondo il silenzio in cui
l’esperienza del “totalmente altro” non si contamina con i linguaggî
dell’ordinarietà. «Un silenzio nel quale la speranza diviene impalpabile,
invisibile e indicibile, perché diviene sinonimo di salvezza, diventa
esperienza della salvezza, di una salvezza che non è mai solo mia, ma è la
salvezza per intero dell’umanità, della creazione, del cosmo».
Quella proposta da Marco Gallizioli è una riflessione davvero
intrigante, che propone il tema della speranza in una chiave del tutto
inconsueta, aperta al contributo delle più diverse e disparate ispirazioni di
pensiero.
Una lettura da non lasciarsi sfuggire.
Sergio Sbragia
Vico Equense, martedì 13
maggio 2014
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