martedì 17 novembre 2015

L’attualità del martirio




L’attualità del martirio.


I ripetuti eventi tragici che in questi ultimi mesi ci parlano sempre più frequentemente di fratelli cristiani uccisi per la propria fede in Gesù di Nàzareth, Figlio di Dio. Il ripetersi sempre più frequente di eventi tragici di tal genere, per altro in forme spesso efferate e turpi, ci impone di condurre un’attenta riflessione comune sulla realtà e l’attualità del “martirio”. La morte violenta di tanti cristiani, in varie parti del mondo, riporta alla nostra attenzione di credenti la realtà del “martirio”. Un evento, quello del martirio, al quale viene tributato una profonda venerazione ed è riconosciuto universalmente come un segno inequivocabile della santità. È tuttavia innegabile che nel nostro comune sentire il martirio, sia pur insensibilmente, non è più percepito come un’eventualità comune e possibile nella vita di fede. Lo intendiamo di più come un’eventualità sostanzialmente lontana, per lo più relegata nelle epoche passate, in particolare nell’“età d’oro” della Chiesa antica. Certo nutriamo una profonda venerazione per i santi martiri, li ricordiamo e li onoriamo con grande fervore, ma dobbiamo riconoscere che raramente ci soffermiamo a riflettere su un’eventualità, quale quella del “martirio”, che potrebbe divenire per ciascuno di noi esperienza concreta.
La pratica sempre più diffusa in alcune aree del pianeta di eseguire condanne capitali in ragione della fede e in nome di motivazioni religiose, nonché la minaccia ventilata e, in taluni casi, portata a compimento di azioni cruente contro persone e simboli pregnanti della fede cristiana anche in occidente ci ha portato a distanza ravvicinata la possibilità dell’esperienza del martirio, e ci fa percepire come questa possa tornare a essere un’eventualità ricorrente e frequente nella nostra vita di fede.
Questa nuova realtà ci impone di operare una profonda riflessione personale e comunitaria sulla dimensione del martirio. Un riflessione da operare in punta di piedi e con grande rispetto nei confronti dei fratelli cristiani che vivono e testimoniano la fede in Cristo in contesti dove al culto religioso non è garantita la dovuta libertà di espressione e manifestazione e il rischio di subire violenza e di andare incontro al martirio è un’eventualità concreta e drammaticamente reale.
Ciò nonostante ritengo sia doveroso che nelle nostre comunità si apra un’attenta riflessione sulla realtà e l’eventualità del martirio, che non è di certo una tappa obbligata, ma una sfida che la nostra testimonianza cristiana può senz’altro proporci, anche nei tempi e nei modi che meno possiamo immaginare.
D’altronde Gesù, nella sua predicazione, in proposito non ha usato mezzi termini e ha chiaramente prospettato a quanti avessero scelto di seguirlo, sia pur delineando una tale condizione con i lineamenti della beatitudine:

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi (Mt. 5,11-12).

Nel discorso del Monte Gesù, infatti, delinea con chiarezza per i suoi discepoli la prospettiva degli insulti, della persecuzione e della diffamazione, indicandone con chiarezza la ragione e l’origine («per causa mia»). È la decisione di seguire Gesù sui sentieri del mondo che comporta l’eventualità di doversi confrontare anche con il rifiuto persino violento. E questa condizione di possibile destino di sofferenza e anche di morte, viene paradossalmente indicata come una ragione per “rallegrarsi” ed “esultare”. Non quindi un dato che induce a rattristarsi, ma un elemento che costituisce una ragione per gioire. La delineazione di questo legame diretto tra la concreta eventualità del martirio e la beatitudine non costituisce un’affermazione sporadica dei vangeli. Il tema ricorre ripetutamente, a cominciare dai due passi paralleli di Luca e Marco, nei quali invita i proprî a prendere su di sé e senza indugî la propria croce e a seguirlo, perché perdere la vita a causa di Gesù, vuol dire, in realtà, salvarla.

Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà (Mc. 8,34-35).

Poi, a tutti, diceva: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà (Lc. 9,23-24).

La scelta e l’atteggiamento proposto da Gesù a quanti desiderino seguirlo, a ben vedere, stride fortemente con il comune sentire umano, quello che siamo soliti definire il “buon senso”. Si tratta di un invito a compiere una scelta che salta a piè pari ogni considerazione di prudenza e di avvedutezza, in sostanza è un appello a mettere in gioco senza reticenze la propria vita riponendola nelle mani di Gesù. Ma a questa scelta non corrisponde un riconoscimento sociale, un cursus honorum, o una ricompensa materiale, ma un sentiero di sofferenza e patimento, che non esclude anche il sacrificio della vita. E questa scelta tuttavìa è compiuta nella gioia ed è ragione di beatitudine.
Risulta davvero duro percorrere il sentiero di comprensione di questa duplice caratteristica della scelta di seguire Gesù, all’un tempo, evento di sofferenza e di gioia.
Un aiuto, a mio avviso, può venire dalla lettura del brano del Vangelo di Marco che narra la morte di Gesù (Mc. 15,33-39):

Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni?", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ". Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: "Ecco, chiama Elia!". Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: "Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere". Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: "Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!" (Mc. 15,33-39).

In questo brano incontriamo la figura del centurione che assiste alla morte in Croce di Gesù, una morte esito di un’agonia indotta da una terribile forma di tortura. Un supplizio ordinariamente riservato in quell’epoca ai criminali della peggiore risma. Una morte preceduta da una lunga e inenarrabile sofferenza, ma anche oggetto del più largo discredito sociale. Eppure questo personaggio, il centurione, che per mestiere era di certo abituato a uccidere e a esercitare violenza, di fronte alla morte di Gesù, reagisce riconoscendo che Gesù è davvero il “Figlio di Dio”. Il centurione non ha assistito alla moltiplicazione dei pani, né alla trasformazione dell’acqua in vino, né alla guarigione del paralitico o a quella del cieco nato, né alla resurrezione di Làzzaro. È stato testimone solo di una morte ignominiosa tra mille sofferenze, ma nell’aver partecipato a tale evento, sta la radice della sua fede. Una fede che non nasce da un segno straordinario, ma da un’esperienza di debolezza estrema, di umano annientamento. L’aver colto i segni della divinità nell’abbassamento più infimo sperimentato da Gesù nella sua vicenda umana, fa di questo anonimo centurione un autentico Padre della fede. Un esponente di una categorie guardata con sospetto dai circoli giudaici, estraneo alla tradizione della fede d’Israele, riesce a leggere con più immediatezza i segni della presenza di Dio («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio», Mt. 21,31).
È questo, per altro, che Paolo ci mostra con grande forza nell’inno che ci propone nella Lettera ai Filippesi:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
"Gesù Cristo è Signore!",
a gloria di Dio Padre (Fil. 2,5-11).

La dignità divina di Gesù si manifesta, non nei segni straordinarî, quanto nello svuotamento della grandezza, nell’accettazione della condizione di servo, nel farsi simile agli esseri umani, e in particolare a quelli più umili e disprezzati, nel seguire obbediente la via della croce e della morte. Ed è su questo che si fonda l’esaltazione del nome di Gesù, che induce tante ginocchia a piegarsi e tante bocche a proclamare la Signoria di Gesù. Una strada sulla quale il centurione ci ha preceduto, e con lui anche tanti pubblicani e prostitute. D’altronde Gesù, all’apostolo Tommaso che chiedeva riscontri sull’avvenuta resurrezione, dirà: «perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv. 20,29). Scegliere la via della fede senza una ragione evidente al comune e ordinario sentire è dunque definita da Gesù una condizione di beatitudine, a maggior regione lo è quella di chi sceglie di seguire Gesù, contro l’evidenza umana, quando tutto farebbe pensare che quello proposto da Gesù non sia altro che un vicolo cieco, una strada senza prospettive.
Queste considerazioni pongono in luce come la prospettiva del martirio, la via della croce, sia connaturata alla nostra scelta cristiana, non un passaggio obbligato, ma un’eventualità concreta, che per altro non presenta i connotati della rassegnazione, della preoccupazione, della paura e del peso esistenziale, quanto i segni della gioia e della beatitudine.
Un’opzione che, non dobbiamo nascondercelo, può apparire irrazionale, pazzesca, soprattutto in un’epoca quale la nostra dove ci aspettiamo che tutto sia programmato, organizzato, preordinato e prevedibile. Ma noi dall’insegnamento di Paolo sappiamo:

La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:
Distruggerò la sapienza dei sapienti
e annullerò l'intelligenza degli intelligenti.
Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dov'è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudèi chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudèi e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudèi che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor. 1,18-25).

Davvero affascinante la verve polemica di Paolo, che si confronta con da un lato con il ragionar sottile della sapienza mondana e, dall’altro, con la ricerca spasmodica di segni strabilianti («Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: "Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!"», Mc. 15,31-32). Ma Paolo ci ricorda che «ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini».
Anche oggi siamo abituati ad ascoltare spesso, anche i moderni sistemi di comunicazione social, abili imbonitori (e in questo la messaggistica pubblicitaria è autentica “maestra”) invitarci a seguirli per conseguire obiettivi di prestigio sociale ed economico. L’invito proposto da Gesù (“prendi la tua croce e seguimi”) si pone in radicale controtendenza e caratterizza la diversità, la “novità” della scelta cristiana.

Il martirio, dunque, la Croce non sono un’eventualità lontana, né un ricordo del passato, di una sorta di età mitica del cristianesimo antico, né una tragica evenienza per comunità immerse in contesti diversi, le chiese del silenzio di alcuni decennî fa, o le chiese di determinare aree dell’oriente (vicino o più lontano) o dell’Africa. È una sfida che in qualche modo può interpellarci, anche quando meno possiamo attendercelo, secondo una modalità prettamente evangelica. I racconti evangelici, infatti, in più occasioni richiamano l’attenzione sul carattere improvviso dell’arrivo dello sposo, del ritorno del Figlio dell’uomo, della fine del mondo.
E allora credo che, a questo proposito, sia opportuno recuperare in tutta la sua profondità l’insegnamento di un particolare brano del Vangelo di Matteo:

Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i giglî del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro (Mt. 6,26-29).

Un brano che ci aiuta comprendere il senso del nesso tacciato dalla parole di Gesù tra l’assunzione della croce e la condizione di beatitudine. Un nesso che non risponde a calcoli e a considerazioni di vantaggio ed utilità, ma è la conseguenza dell’affidarsi fiduciosi in Gesù, scegliendo di essere semplici donne e uomini, immersi nell’umanità e nel mondo di oggi, senza alcuna pretesa di dominio, ma offrendo solo la semplice testimonianza della speranza donata da Gesù.

Vico Equense, martedì 17 novembre 2015
Sergio Sbragia

domenica 8 novembre 2015

Caro Matteo, sarebbe ora che ti ponessi alla ricerca delle pecorelle smarrite!



Uno dopo l’altro ormai molti parlamentari e moltissimi elettori hanno scelto di lasciare il Partito Democratico e molti altri pur continuando a permanere al suo interno e a sostenerlo, non fanno mistero di vivere con sofferenza la presente fase della sua vita politica.
Questo profondo malessere sperimentato tra i militanti, i sostenitori e gli elettori democratici e alla conseguente perdita di consensi, che ne deriva, dovrebbe, a mio personale avviso, suscitare nel Segretario del partito una profonda attenzione, piuttosto che una replica indispettita, quale quella espressa nella tua dichiarazione pubblica un po’ piccata, secondo cui, "la sinistra ideologica non vincerà, mai. Al massimo aiuta la destra a vincere", prontamente divulgata (guarda un po’) da “Il Foglio on-line”.
Prescindendo dal superficiale definire “ideologiche” le posizioni degli altri e mai le proprie, quella da te rilasciata al “Foglio” è un’affermazione che, a ben vedere, esprime in realtà una scarsa considerazione proprio per le tue posizioni politiche, che se prive di riferimento a una cultura politica, finiscono per non essere altro che scelte temporanee e opportunistiche, che possono poi essere superate non appena dovessero rivelarsi non più convenienti e vantaggiose.
Un Segretario politico, investito di questo ruolo dalla scelta delle Primarie, di fronte al disagio diffusosi nel  corpo del partito e dell’area di opinione che, intorno al PD si è sempre riconosciuto, piuttosto che dar luogo a reazioni piccate, dovrebbe porsi dei profondi interrogativi sulle ragioni di tale disagio e dei tanti abbandoni. Sarebbe l’ora di seguire l’insegnamento evangelico di “lasciare le novantanove pecore e di scendere in strada a cercare la pecora smarrita”. In questi giorni in cui persone e forze, che in questi anni hanno contribuito all’esperienza del Partito Democratico, stanno tentando di dar vita a nuove esperienze politiche, sarebbe decisamente opportuno confrontarsi costruttivamente sulle ragioni politiche di questi fenomeni. Il Partito Democratico è nato e si è caratterizzato come un’esperienza politica plurale, capace di coagulare al proprio interno e far esprimere fecondamente diverse culture politiche. L’irrigidimento che ha sin qui contraddistinto la gestione del Partito sotto la tua Segreteria, mostra una sostanziale incapacità di confrontarsi proficuamente con posizioni e culture diverse, una posizione di scarsa accoglienza della diversità, percepita come un fastidio e non come una risorsa e una ricchezza, che segna la diversità decisiva del Partito Democratico dalle altre forze politiche a conduzione personale ed espressione d’interessi ristretti e particolaristici.
Penso che sia da parte tua doveroso aprire, oggi e non domani, un ampio confronto dentro e fuori il Partito Democratico, su quale sia l’autentica rappresentanza del mandato elettorale conferito alle ultime elezioni politiche. Non bisogna dimenticare che i rapporti di forza che permettono al governo da te presieduto – nonostante la poco saggia scelta di assommare sulla tua persona gli incarichi di segretario e di premier – sono quelli delle elezioni politiche, di quando non eri né il segretario, né il premier. È doveroso chiederci onestamente a quale programma politico gli elettori hanno dato il proprio consenso, quando alle elezioni politiche hanno scelto di votare per il PD. A questa domanda bisogna dare una risposta rigorosa e in piena coscienza. Quale elettore, in quell’occasione tracciando la croce sul simbolo del PD, immaginava che nella pratica politica del successivo governo a guida PD, avrebbero trovato spazio temi e idee forza della politica berlusconiana. Ma soprattutto sarebbero stati favorevoli al successivo porre “tra parentesi” temi decisivi quali il conseguimento della piena occupazione, la tutela dei diritti del lavoro, le libertà sindacali, ma soprattutto la cultura del dialogo e del confronto come autentica opzione necessaria per far emergere “il nuovo” e “il cambiamento”.
E’ la contaminazione positiva delle diversità l’autentica ricchezza del paese e del partito. Rimanere irrigiditi su posizioni sterili, che puntano a traghettare il Partito democratico nell’area di consenso del centro-destra, non so se sul piano del puro calcolo elettorale potrà essere vantaggioso, (saranno davvero di più i voti acquisiti sul versante destro, rispetto a quelli persi sul versante sinistro? Chissà!), ma quel che è certo, una tale posizione esprime una sostanziale disattenzione ai contenuti dei temi in discussione nel confronto politico, ma solo un loro uso strumentale limitato alla conservazione del potere. Se una posizione pubblica su un argomento può garantirmi qualche voto in più, la sostengo con forza, prescindendo dalla validità del suo contenuto. Tanto quando non mi servirà più, cambierò posizione, con buona pace per quanti mi hanno votato. È la pratica di Berlusconi, che qualche anno fa era con determinazione contrario ai DICO (DIritti dei COnviventi), oggi invece, non si sa perché, sembra essere favorevole alle unioni civili. Un bell’esempio da imitare.
Una personalità politica di grande statura rifugge da scelte di semplice galleggiamento. Mi auguro che tu abbia il coraggio e la determinazione di porre in grande evidenza la diversità del Partito Democratico, il grande patrimonio di cultura dell’accoglienza, di dialogo e di confronto, che costituisce una ricchezza da porre a servizio del Paese.
Caro Matteo, è l’ora del coraggio. È l’ora di scegliere il dialogo e l’accoglienza. Ti invito, da elettore del Partito Democratico, a lasciare la posizione poco ragionevole e conservatrice di chiusura su atteggiamenti privi di prospettiva e destinati inevitabilmente alla sconfitta, per uscire in  mare aperto, come farebbe un autentico marinaio, lasciando alle spalle acque chete e ingannevolmente tranquille!
Confido nel tuo coraggio e ti aspetto alla prova.

Vico Equense, domenica 8 novembre 2015
Sergio Sbragia

mercoledì 28 ottobre 2015

Ancora Gesù e i Giudèi al Tempio (7,25-52)




Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: "Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov'è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia". Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: "Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato".
Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora. Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: "Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?".
I farisèi udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisèi mandarono delle guardie per arrestarlo. Gesù disse: "Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire". Dissero dunque tra loro i Giudèi: "Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? Che discorso è quello che ha fatto: "Voi mi cercherete e non mi troverete", e: "Dove sono io, voi non potete venire"?".
Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: "Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva". Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.
All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: "Costui è davvero il profeta!". Altri dicevano: "Costui è il Cristo!". Altri invece dicevano: "Il Cristo viene forse dalla Galilèa? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?". E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui.
Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisèi e questi dissero loro: "Perché non lo avete condotto qui?". Risposero le guardie: "Mai un uomo ha parlato così!". Ma i farisèi replicarono loro: "Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisèi? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!". Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: "La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?". Gli risposero: "Sei forse anche tu della Galilèa? Studia, e vedrai che dalla Galilèa non sorge profeta!". E ciascuno tornò a casa sua (7,25-53).

Nella seconda parte del settimo capitolo del Vangelo di Giovanni il termine Giudèi ricorre esplicitamente una sola volta al v. 35, ma si dà conto delle successive evoluzioni e degli sviluppi anche drammatici del confronto, sia nella stessa sede del tempio, sia nei successivi giorni della festa delle Capanne. Prosegue, infatti, il confronto che nella prima parte dello stesso capitolo si è determinato esplicitamente con i Giudèi. Un confronto che continua a incentrarsi sulla sua autentica identità, nella logica del piano divino di salvezza e che coinvolge anche alcuni altri personaggî collettivi quali «alcuni abitanti di Gerusalemme» (7,25), i «capi» (7,26), la «folla» (7,31), i «farisèi» (7,32), la «gente» (7,32), «i capi dei sacerdoti e i farisèi» (7,32), le «guardie» (7,32). Alla fine del brano torna, infine  in campo, un personaggio che abbiamo già incontrato in precedenza: Nicodèmo (3,1-15).



1. La perplessità di alcuni abitanti di Gerusalemme.

Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: "Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov'è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia". Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: "Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato" (7,25-29).
  
L’episodio del confronto nel Tempio che abbiamo visto nelle stesso capitolo (7,1-24), in realtà genera delle perplessità successive agli occhî almeno di una parte degli abitanti di Gerusalemme. Una perplessità generata dall’apparente assenza di reazioni esplicite, concrete ed immediate da parte dei Giudèi, all’insegnamento destabilizzante dello status quo proclamato da Gesù. Non sanno spiegarsi come mai, al Gesù di Nàzareth, che hanno ascoltato insegnare al Tempio, e che sembra sia davvero colui che i ceti dirigenti giudaici intendono uccidere, venga consentito di continuare a insegnare e parlare liberamente, senza che egli incontri alcuna opposizione materiale (7,25-26). Si fa strada tra i gerosolimitani l’ipotesi eversiva che i «capi» possano aver riconosciuto che egli sia davvero il Cristo (7,26). Ma poi le stesse persone trovano da soli una risposta tranquillizzante, di “buon senso”, e in grado di garantire il quieto vivere. L’ipotesi che Gesù di Nàzareth possa essere il Cristo, non sta in piedi, perché secondo l’insegnamento tradizionale del Cristo atteso nessuno conoscerà la provenienza, mentre di Gesù tutti sanno che viene da Nàzareth di Galilèa (7,27). Nel dar conto della propria perplessità, tuttavìa, questi abitanti di Gerusalemme si riferiscono ai Giudèi, definendoli «capi». Questa espressione, che per altro abbiamo già incontrato in precedenza, rende chiaro ancora una volta che quando si scende sul piano del conflitto che oppone Gesù ai Giudèi, questa espressione è riferita chiaramente al gruppo dirigente religioso e politico raccolto intorno al Tempio di Gerusalemme. La mancata immediata reazione d’autorità, che era tutto sommato prevedibile e in parte anche attesa, è tuttavìa il segno, che anche nello stesso gruppo dei Giudèi, le idee non fossero del tutto chiare e univoche, che dovevano essere presenti posizioni contrastanti e differenti valutazioni di opportunità e prudenza politica.
Gesù tuttavìa ribatte a tono, sia pure con tutta verosimiglianza in un successivo momento d’insegnamento al tempio, all’obiezione perplessa di questi gerosolimitani sulla palese origine di Gesù stesso, quale segno evidente, della non fondatezza della sua pretesa messianica. Gesù sposta allora l’attenzione dalla provenienza geografica alla provenienza personale, che non è l’esito di una decisione propria ma un preciso mandato conferito da chi, per eccellenza, è “veritiero”, cioè Dio. Se si riesce a cogliere in Gesù il suo essere un autentico inviato di Dio, non c’è più spazio per dubitare della sua veridicità, né per mettere in dubbio la sua parola su Dio, perché fondata sulla diretta conoscenza di Dio (7,28-29).


2. La progressiva radicalizzazione del confronto.


Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora. Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: "Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?".
I farisèi udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisèi mandarono delle guardie per arrestarlo. Gesù disse: "Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire". Dissero dunque tra loro i Giudèi: "Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? Che discorso è quello che ha fatto: "Voi mi cercherete e non mi troverete", e: "Dove sono io, voi non potete venire"? (7,30-36).

L’evangelista passa a illustrare la radicalizzazione del confronto, ma in forma impersonale («Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui » - v. 31). Si dice, infatti, semplicemente «cercavano», senza indicare il soggetto, anche se il contesto del racconto porta quasi naturalmente a pensare ai Giudèi, ma il racconto evita di precisarlo e lascia in qualche maniera in sospeso la questione di definire meglio l’identità di chi s’impegna nel tentare di arrestare Gesù, senza tuttavìa riuscire a catturarlo. Ritorna qui il tema del “tempo” che abbiamo già incontrato nella disputa tra Gesù e i suoi fratelli a Nàzareth (7,5-8), l’evangelista lo richiama in riferimento al fatto che chi cercava di catturarlo non fosse riuscito nel suo intento, sostenendo che   «non era ancora giunta la sua ora» (7,30), cioè che il tempo per la manifestazione di Gesù non era ancora compiuto.

Allo stesso tempo sempre l’evangelista tiene a evidenziare che all’interno del personaggio collettivo «la folla», sono presenti persone che hanno scelto di credere in Gesù, fondando questa scelta sulla convinzione, nata dall’aver assistito a delle azioni operate da Gesù, che il Cristo, alla sua manifestazione, non avrebbe operato gesti più grandi di quelli compiuti da Gesù (7,31).

A questo punto entra in campo il gruppo dei farisèi che cercano di raccogliere le opinioni e le convinzioni su Gesù, che si sono formate e diffuse tra la folla. Un gruppo che quindi è molto preoccupato di conoscere gli umori che maturano tra la gente, per poterli conoscere, prevenire, orientarli e controllarli. Nella sostanza quindi si configura il profilo di un gruppo che tende ad assumere con consapevolezza un ruolo di direzione degli umori popolari e degli orientamenti prevalenti tra la popolazione, e questo come abbiamo potuto verificare nei varî episodî sin qui analizzati, per alcuni di essi costituiva la precauzione per non trovarsi spiazzati da posizioni impreviste che potevano porre in discussione i loro spazî di potere; per altri, invece, costituiva il modo per indirizzare verso una vita di fede coerente con la testimonianza della Legge e dei profeti. Qui però sembra che, ad aver il sopravvento, nel gruppo di farisèi siano coloro che hanno a cuore il proprio peso politico e hanno timore di perderlo, infatti, insieme ai capi dei sacerdoti decidono di mandare delle guardie per arrestare Gesù per neutralizzarne il potenziale pericolo. Abbiamo, pertanto, l’alleanza tra un influente gruppo sacerdotale e una componente dei farisèi, che potrebbero, assieme, costituire il gruppo comunemente definito «i Giudèi», e considerato dall’evangelista come il gruppo degli avversarî di Gesù.

Il racconto torna però a proporre i contenuti dei discorsi di Gesù al Tempio nel corso della festa e qui riporta alcune espressioni che, nel corso del Vangelo, ricorrono più volte sulle labbra di Gesù, il cui senso profondo sfugge ai suoi ascoltatori. Dinanzi al tentativo di procedere al suo arresto, Gesù, senza mezzi termini, sottolinea a coloro che i capi dei sacerdoti e i farisèi avevano incaricato di arrestarlo «Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire» (7,33-34).

In effetti, questo tema in cui Gesù avverte i suoi ascoltatori che sarà con loro ancora per poco tempo, che dovrà andare da colui che lo ha inviato, che sarà dai suoi interlocutori cercato, ma non riusciranno a trovarlo, perché dove sarà lui, essi non potranno andare, nel sèguito del Vangelo avremo modo d’incontrarlo più volte. E queste affermazioni non riusciranno a essere comprese da chi lo ascolta. Incontreremo espressioni di questo tenere nei successivi cap. 8 (8,14.21-22), 12 (12,35-36a), 13 (13,33), 14 (14,1-4.19).


Gesù rispose loro: «Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. […] Di nuovo disse loro: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire». Dicevano allora i Giudèi: «Vuole forse uccidersi, dal momento che dice: “Dove vado io, voi non potete venire”?» (8,14.21-22).

Anche in questo caso, che approfondiremo nel prossimo capitolo, Gesù si confronta con un gruppo d’interlocutori ostili, ai quali tiene a evidenziare che essi non possono sapere da dove egli venga, e dove vada. Non solo! Essi non potranno seguirlo là dove egli andrà. I Giudèi, a loro volta, non riusciranno a comprendere il significato delle sue affermazioni, sulle quali cercheranno di formulare delle ipotesi fondate sul senso comune.


Allora Gesù disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è tra voi. Camminate mentre avete la luce, perché le tenebre non vi sorprendano; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figlî della luce» (12,35-36a).

Il riferimento al tempo limitato di presenza tra gli uomini ricorre anche in questo discorso rivolto alla folla del capitolo 12, nel quale Gesù ricorre alla metafora della luce e invita quanti lo ascoltano a trar profitto dalla presenza della luce per camminare, prima di essere sorpresi dalle tenebre: approfittare della luce, per credere nella luce e divenire figlî della luce.


Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudèi, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire (13,33).

Al capitolo 13 invece il riferimento di Gesù è rivolto ai proprî discepoli, ai quali riferisce un messaggio sostanzialmente analogo: egli sarà con loro ancora per poco, essi lo cercheranno, ma non potranno andare dove egli andrà.


Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via» […] Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete (14,1-4.19).

Finalmente nel capitolo 14 Gesù, rivolto anche qui ai discepoli, manifesta più apertamente il senso delle sue parole. Prende le mosse da un invito a superare il turbamento interiore e ad aver fede in Dio e in lui, perché presso il Padre sono disponibili molte dimore. Andando presso il Padre, Gesù preparerà un posto anche per i suoi discepoli, perché dove sarà lui, là saranno anche coloro che lo seguiranno. E del luogo dove egli sta per andare ormai i discepoli conoscono la strada. Tra un po’ il mondo non vedrà più Gesù, ma i discepoli lo vedranno, perché Gesù sarà vivo e anche i discepoli vivranno.

La fede in Dio e in Gesù dunque è la condizione per comprendere il senso autentico della realtà in cui ci si ritrova a vivere e il pre-requisito irrinunciabile per attingere il significato pieno delle parole di Gesù.


Tornando, dopo questa digressione, al brano che stiamo analizzando siamo ora in grado di comprendere come Gesù, con le affermazioni circa il limitato tempo che sarà ancora tra i suoi ascoltatori, il suo dover andare da colui che lo ha mandato, che sarà cercato, ma non trovato, perché non sarà possibile raggiungerlo, vuole in realtà porre in evidenza l’essenzialità della fede in Dio e in lui, quale inviato da Dio. Senza un atteggiamento di fede non sarà possibile comprendere il suo annuncio e prendere la decisione di seguirlo.
L’essenzialità della scelta di fede al fine di comprendere autenticamente il senso del messaggio di Gesù e per scegliere di seguirlo è, poi, confermata dall’evangelista col riportare i dubbî diffusi proprio nel gruppo dei Giudèi sul significato delle affermazioni di Gesù («Dissero dunque tra loro i Giudèi: "Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? Che discorso è quello che ha fatto: "Voi mi cercherete e non mi troverete", e: "Dove sono io, voi non potete venire"?» - 7,35-36). La condizione di sostanziale non-fede che contraddistingue questo gruppo impedisce loro la comprensione della reale identità di Gesù.
Di qui il loro disperdersi in una pluralità ipotesi velleitarie e poco attendibili sulle reali intenzioni di Gesù («Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci» - 7,35). Il loro pensiero tende comunque a ricondurre il fenomeno nel campo tranquillizzante del conosciuto e del controllabile, pensando a una sua missione presso gli ebrei della diàspora ellenistica o, finanche, presso gli stessi Greci. Non fa capolino alcuno nelle loro riflessione l’apertura al mistero, all’eccezionalità dell’azione di Dio nella storia. Ciò che risulta accessibile, con grande facilità a tanti umili e semplici, resta precluso alle loro menti e ai loro cuori, nonostante essi siano, nei confronti del popolo della Giudèa, i custodi più rigorosi della tradizione della salvezza operata da Dio a favore dei Padri, in Egitto, nel deserto e nell’esilio di Babilonia.


3. L’ultimo giorno della festa.

Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: "Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva". Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.
All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: "Costui è davvero il profeta!". Altri dicevano: "Costui è il Cristo!". Altri invece dicevano: "Il Cristo viene forse dalla Galilèa? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?". E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui (7,37-44).

Il culmine della vicenda si registra nell’ultimo giorno della festa, nel quale Gesù, con un implicito rimando alla visione della “sapienza” risalente al Libro dei Proverbî  («La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la voce» - Pr. 1,20), viene plasticamente descritto come “ritto in piedi” nell’atteggiamento di “gridare” e d’invitare con decisione tutti coloro che hanno “sete”, di accorrere presso di lui per poter bere, credendo in lui. Poi il riferimento alla Scrittura diviene, nelle parole di Gesù, esplicito, rivendicando con chiarezza a sé il ruolo di colui dal quale sgorga l’“acqua viva”. Riecheggiano qui fondamentali testi profetici di Isaia ed Ezechiele:

O voi tutti assetati, venite all'acqua,
voi che non avete denaro, venite,
comprate e mangiate; venite, comprate
senza denaro, senza pagare, vino e latte.
Perché spendete denaro per ciò che non è pane,
il vostro guadagno per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone
e gusterete cibi succulenti.
Porgete l'orecchio e venite a me,
ascoltate e vivrete.
Io stabilirò per voi un'alleanza eterna,
i favori assicurati a Davide (Is. 55,1-3).

Poiché io verserò acqua sul suolo assetato,
torrenti sul terreno arido.
Verserò il mio spirito sulla tua discendenza,
la mia benedizione sui tuoi posteri (Is. 44,3).

Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne (Ez. 36,25-26).

L’evangelista avverte allora che qui Gesù anticipa la comprensione post-pasquale della venuta dello Spirito («Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» - 7,39), ma, in realtà, noi abbiamo già avuto modo in forma implicita o esplicita, d’incontrare nel nostro percorso il tema dell’“acqua viva” in molti dei brani che abbiamo esaminato (cf. 1,19-28; 2,1-11; 2,13-25; 3,1-15; 3,22-36; 4,1-45; 5,1-18).
Le parole di Gesù sull’acqua viva, inducono nella folla che lo ascolta delle reazioni contrastanti. Alcuni lo riconoscono come un autentico profeta o, addirittura come il “Cristo” (7,40-41). Altri, invece, contestano quest’affermazione messianica, richiamando (7,42) un passo del Secondo libro di Samuele, dove il Signore incarica il profeta Natan di annunziare a Davide che quando i suoi «giorni saranno compiuti e tu [Davide] dormirai con i tuoi padri, io [il Signore] susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre» (2Sam. 7,12-13).


4. La sorpresa delle guardie.

Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisèi e questi dissero loro: "Perché non lo avete condotto qui?". Risposero le guardie: "Mai un uomo ha parlato così!". Ma i farisèi replicarono loro: "Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisèi? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!" (7,45-49).

Assistiamo ora all’epilogo fallimentare del tentativo posto in atto di arrestare Gesù. Le guardie, incaricate di procedere all’arresto, tornano a mani vuote da coloro che avevano loro commissionato l’operazione: i capi dei sacerdoti e i farisèi, cioè il gruppo di potere che, con grande probabilità, comprende i Giudèi che sono l’obiettivo polemico di Gesù. Questi chiedono alle guardie il motivo per cui non hanno proceduto all’arresto di Gesù. La risposta data dalle guardie è però davvero sorprendente. Anziché cercare una giustificazione del tipo “non lo abbiamo trovato”, “è fuggito”, “siamo stati ingannati”, “ha fatto resistenza”, “i suoi ce lo hanno impedito”, le guardie confessano di aver scientemente scelto di non procedere all’arresto perché «"Mai un uomo ha parlato così!"» (7,46). Un gruppo quale quello delle guardie, che nell’accezione ordinaria è inteso come un gruppo sociale avvezzo a un atteggiamento di mera, puntuale, e spesso anche pedissequa esecuzione degli ordini ricevuti, e, invece…, si trova posto in crisi dalle parole di Gesù e sceglie di sospendere il proprio comportamento e di recedere dagli ordini ricevuti, nel timore di colpire un inviato di Dio.
La reazione dei capi dei sacerdoti e dei farisèi è di autentico sconcerto. Probabilmente il fatto che un gruppo, come le guardie, che ordinariamente dovrebbe essere un affidabile esecutore dei loro ordini, si sia lasciato fuorviare dalle parole di Gesù, appare una sostanziale conferma della pericolosità sociale e religiosa di Gesù. Allora inveiscono contro le guardie accusandole di essersi anch’esse lasciate ingannare da Gesù, seguendo l’opinione facile che si va diffondendo tra la popolazione, che in gran parte non conosce la Scrittura e si lascia fuorviare dalle apparenze. A prova di ciò, essi adducono la constatazione che nessuno tra i capi e tra i farisèi, cioè tra quanti hanno una larga conoscenza della Scrittura, ha creduto in Gesù (7,49).


5. Nicodèmo e il gruppo dei Giudèi.

Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: "La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?". Gli risposero: "Sei forse anche tu della Galilèa? Studia, e vedrai che dalla Galilèa non sorge profeta!". E ciascuno tornò a casa sua (7,50-53).

È stato appena affermato che nessuno tra i capi e tra i farisèi ha creduto in Gesù, che con una singolare coincidenza torna sulla scena un personaggio che abbiamo già incontrato, nel precedente capitolo 3, Nicodèmo, del quale si tiene a sottolineare che era uno di loro, ma il narratore tiene anche a ricordare che in precedenza costui era andato da Gesù. Ne abbiamo parlato analizzando il brano 3,1-15, dove abbiamo potuto verificare l’interesse sincero di un maestro come Nicodèmo per la persona di Gesù, un interesse tuttavìa che non era giunto a determinare nello stesso Nicodèmo la maturazione di una scelta esplicita di sequela, per paura della reazione dei farisèi e dei Giudèi, di cui l’evangelista ha asserito che era uno dei capi. Quasi a smentire la precedente affermazione rivolta alle guardie circa la constatazione che nessuno dei capi aveva creduto in Gesù, nella discussione interviene Nicodèmo, che prende le difese di Gesù, in una logica che oggi definiremmo “garantista”. Nicodèmo infatti cerca una mediazione con la logica di potere dei capi dei sacerdoti e dei farisèi, in difesa di Gesù, richiama all’indicazione fondata sulla Legge di non esprimere giudizî su un uomo senza averlo prima ascoltato (7,51). Il riferimento operato da Nicodèmo richiama un significativo testo del Deuteronomio, dove Mosè afferma: «in quel tempo diedi quest’ordine ai vostri giudici: “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui” (Dt. 1,16). Questo richiamo operato da Nicodèmo, da un lato, tende a creare le condizioni per un confronto aperto e dialogante tra Gesù e i Giudèi, nella convinzione che una serena discussione avrebbe potuto fare emergere e rendere chiaro e far riconoscere il carattere unico della persona di Gesù; dall’altro, pone tuttavìa in luce che in merito a Gesù i Giudèi hanno di fatto ignorato una precisa disposizione della Legge (quello di ascoltare le persone prima di accusarle), nonostante il gruppo dei Giudèi si proponga pubblicamente come un rigoroso custode dell’osservanza della Legge.
A quest’osservazione gli altri farisèi e capi dei sacerdoti piccati rimbeccano Nicodèmo, sospettandolo di essere Galilèo e invitandolo a studiare con profondità le Scritture per rendersi conto che dalla Galilèa non può sorgere un profeta. In pratica essi riprendono l’argomento utilizzato da alcune componenti della “folla” al precedente v. 41.


6. Alcune osservazioni.

A questo punto può essere interessante operare un confronto tra i varî personaggî collettivi che fanno la loro comparsa in questo brano: gli abitanti di Gerusalemme, i capi, la folla, i farisèi, i capi dei sacerdoti, le guardie, i Giudèi, la gente. Alcuni di questi gruppi possono essere considerati sostanzialmente coincidenti e le diversificate espressioni usate in questo brano in realtà contraddistinguono lo stesso gruppo. È questo il caso delle espressioni “abitanti di Gerusalemme”, “folla” e “gente”, che in realtà sono usate per indicare il popolo di Gerusalemme che incontra o cerca d’incontrare Gesù e di capire chi in realtà egli sia. All’interno di questo gruppo si registrano posizioni diversificate. Da un lato, si registra da parte di alcuni un rifiuto deciso di Gesù; dall’altro, non manca chi invece riconosce la sua statura profetica e si chiede se, in realtà, egli non sia Il Cristo. Predomina, però, una profonda paura dei capi e ci s’interroga su quale sia la posizione che i capi hanno assunto su di lui.
Poi ricorrono i gruppi dei “capi”, dei “capi dei sacerdoti”, dei “farisèi” e dei “Giudèi”. È molto probabile che le due espressioni “capi” e “capi dei sacerdoti”, in realtà indichino lo stesso gruppo: un gruppo di dignità sacerdotale, con una funzione, socialmente riconosciuta, di guida religiosa.
I farisèi si configurano invece come un gruppo religioso con un’identità precisa, contrassegnato dalla pratica di un’attenta verifica degli umori che si diffondono negli strati popolari e da una volontà esplicita di orientarli in direzione di una corretta pratica cultuale che non pregiudichi l’influenza politica e sociale dei gruppi dirigenti.
Il gruppo dei Giudèi appare composto dai capi dei sacerdoti e dai farisèi, una realtà quindi composita, ma rappresentativa del ceto dirigente religioso e sociale, che s’interroga sull’identità autentica di Gesù, sulla cui persona s’interroga attraverso uno sforzo interpretativo delle Scritture condotto in una forma tutto sommato letterale, piuttosto che sostanziale.
A sorprendere, invece, è il comportamento delle guardie, che, incaricate dai capi di procedere all’arresto di Gesù, una volta entrati in contatto con lui, nell’ascoltare le sue parole, devono onestamente constatare che «mai un uomo ha parlato così!» (7,46), vanno in crisi e decidono di sospendere l’esecuzione degli ordini ricevuti, assumendo, almeno temporaneamente, un atteggiamento di sostanziale insubordinazione che irrita i farisèi.
Questi sono, come abbiamo visto, preoccupati delle posizioni indecise su Gesù che serpeggiano tra il popolo e dei possibili riconoscimenti di una sua statura profetica. Un cedimento di “opinione pubblica” molto pericoloso, che ha finito per coinvolgere persino uno dei gruppi più fidati, quali quello delle “guardie”. Di qui la rivendicazione della unità e tenuta del gruppo dei capi e dei farisèi. Ma, con una sorta di ironia narrativa, quest’affermazione di tenuta monolitica del gruppo viene posta anch’essa in dubbio, sia pur timidamente, dalla posizione garantista di Nicodèmo, uno di loro.
Questo dato costituito dalla posizione di Nicodèmo, sia pur timorosa e timida, è comunque il segno che anche nel contesto di un gruppo sociale, dotato di una rigoroso e forte sistema di controllo interno, è possibile comunque fare la “scelta” di seguire Gesù.

Vico Equense, mercoledì 28 ottobre 2015
Sergio Sbragia