martedì 17 novembre 2015

L’attualità del martirio




L’attualità del martirio.


I ripetuti eventi tragici che in questi ultimi mesi ci parlano sempre più frequentemente di fratelli cristiani uccisi per la propria fede in Gesù di Nàzareth, Figlio di Dio. Il ripetersi sempre più frequente di eventi tragici di tal genere, per altro in forme spesso efferate e turpi, ci impone di condurre un’attenta riflessione comune sulla realtà e l’attualità del “martirio”. La morte violenta di tanti cristiani, in varie parti del mondo, riporta alla nostra attenzione di credenti la realtà del “martirio”. Un evento, quello del martirio, al quale viene tributato una profonda venerazione ed è riconosciuto universalmente come un segno inequivocabile della santità. È tuttavia innegabile che nel nostro comune sentire il martirio, sia pur insensibilmente, non è più percepito come un’eventualità comune e possibile nella vita di fede. Lo intendiamo di più come un’eventualità sostanzialmente lontana, per lo più relegata nelle epoche passate, in particolare nell’“età d’oro” della Chiesa antica. Certo nutriamo una profonda venerazione per i santi martiri, li ricordiamo e li onoriamo con grande fervore, ma dobbiamo riconoscere che raramente ci soffermiamo a riflettere su un’eventualità, quale quella del “martirio”, che potrebbe divenire per ciascuno di noi esperienza concreta.
La pratica sempre più diffusa in alcune aree del pianeta di eseguire condanne capitali in ragione della fede e in nome di motivazioni religiose, nonché la minaccia ventilata e, in taluni casi, portata a compimento di azioni cruente contro persone e simboli pregnanti della fede cristiana anche in occidente ci ha portato a distanza ravvicinata la possibilità dell’esperienza del martirio, e ci fa percepire come questa possa tornare a essere un’eventualità ricorrente e frequente nella nostra vita di fede.
Questa nuova realtà ci impone di operare una profonda riflessione personale e comunitaria sulla dimensione del martirio. Un riflessione da operare in punta di piedi e con grande rispetto nei confronti dei fratelli cristiani che vivono e testimoniano la fede in Cristo in contesti dove al culto religioso non è garantita la dovuta libertà di espressione e manifestazione e il rischio di subire violenza e di andare incontro al martirio è un’eventualità concreta e drammaticamente reale.
Ciò nonostante ritengo sia doveroso che nelle nostre comunità si apra un’attenta riflessione sulla realtà e l’eventualità del martirio, che non è di certo una tappa obbligata, ma una sfida che la nostra testimonianza cristiana può senz’altro proporci, anche nei tempi e nei modi che meno possiamo immaginare.
D’altronde Gesù, nella sua predicazione, in proposito non ha usato mezzi termini e ha chiaramente prospettato a quanti avessero scelto di seguirlo, sia pur delineando una tale condizione con i lineamenti della beatitudine:

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi (Mt. 5,11-12).

Nel discorso del Monte Gesù, infatti, delinea con chiarezza per i suoi discepoli la prospettiva degli insulti, della persecuzione e della diffamazione, indicandone con chiarezza la ragione e l’origine («per causa mia»). È la decisione di seguire Gesù sui sentieri del mondo che comporta l’eventualità di doversi confrontare anche con il rifiuto persino violento. E questa condizione di possibile destino di sofferenza e anche di morte, viene paradossalmente indicata come una ragione per “rallegrarsi” ed “esultare”. Non quindi un dato che induce a rattristarsi, ma un elemento che costituisce una ragione per gioire. La delineazione di questo legame diretto tra la concreta eventualità del martirio e la beatitudine non costituisce un’affermazione sporadica dei vangeli. Il tema ricorre ripetutamente, a cominciare dai due passi paralleli di Luca e Marco, nei quali invita i proprî a prendere su di sé e senza indugî la propria croce e a seguirlo, perché perdere la vita a causa di Gesù, vuol dire, in realtà, salvarla.

Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà (Mc. 8,34-35).

Poi, a tutti, diceva: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà (Lc. 9,23-24).

La scelta e l’atteggiamento proposto da Gesù a quanti desiderino seguirlo, a ben vedere, stride fortemente con il comune sentire umano, quello che siamo soliti definire il “buon senso”. Si tratta di un invito a compiere una scelta che salta a piè pari ogni considerazione di prudenza e di avvedutezza, in sostanza è un appello a mettere in gioco senza reticenze la propria vita riponendola nelle mani di Gesù. Ma a questa scelta non corrisponde un riconoscimento sociale, un cursus honorum, o una ricompensa materiale, ma un sentiero di sofferenza e patimento, che non esclude anche il sacrificio della vita. E questa scelta tuttavìa è compiuta nella gioia ed è ragione di beatitudine.
Risulta davvero duro percorrere il sentiero di comprensione di questa duplice caratteristica della scelta di seguire Gesù, all’un tempo, evento di sofferenza e di gioia.
Un aiuto, a mio avviso, può venire dalla lettura del brano del Vangelo di Marco che narra la morte di Gesù (Mc. 15,33-39):

Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni?", che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ". Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: "Ecco, chiama Elia!". Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: "Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere". Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: "Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!" (Mc. 15,33-39).

In questo brano incontriamo la figura del centurione che assiste alla morte in Croce di Gesù, una morte esito di un’agonia indotta da una terribile forma di tortura. Un supplizio ordinariamente riservato in quell’epoca ai criminali della peggiore risma. Una morte preceduta da una lunga e inenarrabile sofferenza, ma anche oggetto del più largo discredito sociale. Eppure questo personaggio, il centurione, che per mestiere era di certo abituato a uccidere e a esercitare violenza, di fronte alla morte di Gesù, reagisce riconoscendo che Gesù è davvero il “Figlio di Dio”. Il centurione non ha assistito alla moltiplicazione dei pani, né alla trasformazione dell’acqua in vino, né alla guarigione del paralitico o a quella del cieco nato, né alla resurrezione di Làzzaro. È stato testimone solo di una morte ignominiosa tra mille sofferenze, ma nell’aver partecipato a tale evento, sta la radice della sua fede. Una fede che non nasce da un segno straordinario, ma da un’esperienza di debolezza estrema, di umano annientamento. L’aver colto i segni della divinità nell’abbassamento più infimo sperimentato da Gesù nella sua vicenda umana, fa di questo anonimo centurione un autentico Padre della fede. Un esponente di una categorie guardata con sospetto dai circoli giudaici, estraneo alla tradizione della fede d’Israele, riesce a leggere con più immediatezza i segni della presenza di Dio («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio», Mt. 21,31).
È questo, per altro, che Paolo ci mostra con grande forza nell’inno che ci propone nella Lettera ai Filippesi:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
"Gesù Cristo è Signore!",
a gloria di Dio Padre (Fil. 2,5-11).

La dignità divina di Gesù si manifesta, non nei segni straordinarî, quanto nello svuotamento della grandezza, nell’accettazione della condizione di servo, nel farsi simile agli esseri umani, e in particolare a quelli più umili e disprezzati, nel seguire obbediente la via della croce e della morte. Ed è su questo che si fonda l’esaltazione del nome di Gesù, che induce tante ginocchia a piegarsi e tante bocche a proclamare la Signoria di Gesù. Una strada sulla quale il centurione ci ha preceduto, e con lui anche tanti pubblicani e prostitute. D’altronde Gesù, all’apostolo Tommaso che chiedeva riscontri sull’avvenuta resurrezione, dirà: «perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv. 20,29). Scegliere la via della fede senza una ragione evidente al comune e ordinario sentire è dunque definita da Gesù una condizione di beatitudine, a maggior regione lo è quella di chi sceglie di seguire Gesù, contro l’evidenza umana, quando tutto farebbe pensare che quello proposto da Gesù non sia altro che un vicolo cieco, una strada senza prospettive.
Queste considerazioni pongono in luce come la prospettiva del martirio, la via della croce, sia connaturata alla nostra scelta cristiana, non un passaggio obbligato, ma un’eventualità concreta, che per altro non presenta i connotati della rassegnazione, della preoccupazione, della paura e del peso esistenziale, quanto i segni della gioia e della beatitudine.
Un’opzione che, non dobbiamo nascondercelo, può apparire irrazionale, pazzesca, soprattutto in un’epoca quale la nostra dove ci aspettiamo che tutto sia programmato, organizzato, preordinato e prevedibile. Ma noi dall’insegnamento di Paolo sappiamo:

La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:
Distruggerò la sapienza dei sapienti
e annullerò l'intelligenza degli intelligenti.
Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dov'è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudèi chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudèi e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudèi che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor. 1,18-25).

Davvero affascinante la verve polemica di Paolo, che si confronta con da un lato con il ragionar sottile della sapienza mondana e, dall’altro, con la ricerca spasmodica di segni strabilianti («Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: "Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!"», Mc. 15,31-32). Ma Paolo ci ricorda che «ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini».
Anche oggi siamo abituati ad ascoltare spesso, anche i moderni sistemi di comunicazione social, abili imbonitori (e in questo la messaggistica pubblicitaria è autentica “maestra”) invitarci a seguirli per conseguire obiettivi di prestigio sociale ed economico. L’invito proposto da Gesù (“prendi la tua croce e seguimi”) si pone in radicale controtendenza e caratterizza la diversità, la “novità” della scelta cristiana.

Il martirio, dunque, la Croce non sono un’eventualità lontana, né un ricordo del passato, di una sorta di età mitica del cristianesimo antico, né una tragica evenienza per comunità immerse in contesti diversi, le chiese del silenzio di alcuni decennî fa, o le chiese di determinare aree dell’oriente (vicino o più lontano) o dell’Africa. È una sfida che in qualche modo può interpellarci, anche quando meno possiamo attendercelo, secondo una modalità prettamente evangelica. I racconti evangelici, infatti, in più occasioni richiamano l’attenzione sul carattere improvviso dell’arrivo dello sposo, del ritorno del Figlio dell’uomo, della fine del mondo.
E allora credo che, a questo proposito, sia opportuno recuperare in tutta la sua profondità l’insegnamento di un particolare brano del Vangelo di Matteo:

Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i giglî del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro (Mt. 6,26-29).

Un brano che ci aiuta comprendere il senso del nesso tacciato dalla parole di Gesù tra l’assunzione della croce e la condizione di beatitudine. Un nesso che non risponde a calcoli e a considerazioni di vantaggio ed utilità, ma è la conseguenza dell’affidarsi fiduciosi in Gesù, scegliendo di essere semplici donne e uomini, immersi nell’umanità e nel mondo di oggi, senza alcuna pretesa di dominio, ma offrendo solo la semplice testimonianza della speranza donata da Gesù.

Vico Equense, martedì 17 novembre 2015
Sergio Sbragia

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