Dopo i recenti e orribili fatti di Parigi sono stato molto
colpito dal tenore delle reazioni che questi tremendi eventi hanno prodotto nel
mondo politico internazionale, europeo e italiano.
È fuor di dubbio che il massacro di tante vite innocenti provoca
in tutti noi orrore e indignazione, oltre che un profondo dolore per le
numerose vittime, tra le quali tantissimi giovani, colpiti in un momento di
svago e distensione. È naturale di fronte a un così efferato crimine, ricercare
le vie più efficaci per contrastare, porre in condizione di non nuocere e
punire adeguatamente ed esemplarmente quanti hanno preordinato, organizzato e
realizzato tali vili azioni.
Tuttavìa non posso non manifestare il mio dissenso rispetto a
posizioni molto diffuse e abilmente amplificate dalla comunicazione
mass-mediale di ampio raggio ed eterodiretta dai cosiddetti poteri forti, che,
prendendo lo spunto dal giusto dolore per le vittime e per gli atti di violenza
compiuti, vanno a delineare scenarî di guerra e di violenza, fomentando
posizioni ispirate a sentimenti di vendetta e di rivalsa, che non sono altro
che la riproposizione dell’antica legge del taglione.
Avverto una sostanziale delusione nel sentire capi di stato che,
anziché mostrare lungimiranza e capacità adulta di governare il timone nel mare
in tempesta, riescono solo a balbettare inconcludenti dichiarazioni con le
quali si dichiara di essere “in stato di guerra”, e si delineano prospettive di
reazione violenta e si gonfiano i muscoli. Il tutto mentre i mercanti di armi e
di sistemi di “in-sicurezza” brindano aspettandosi incipienti lauti affari,
cosa che mi fa fare un parallelo con eventi di alcuni anni fa. Ho infatti ancora
molto vivido il ricordo delle notizie di stampa che, a suo tempo, riferirono
come all’indomani del terremoto de L’Aquila, alcuni affaristi del settore
dell’edilizia gioirono aspettandosi di poter lucrare dall’accaduto ottimi
affari. Anche oggi credo che siano in atto manovre ispirate alla logica del mors tua, vita mea.
Non solo! In Italia abbiamo poi anche capi di partito che, in
spregio alla gravità della situazione, non perdono l’occasione di tentare la
via di un’apparentemente facile ricerca di consenso elettorale, giocando sulla
comprensibile paura dei cittadini e istillando sentimenti di odio, di chiusura,
di razzismo. E allora vengono proposte alleanze militari con potenze
internazionali che in questi anni si sono caratterizzate per un comportamento
ben lontano da una cultura democratica, sia sul piano della libertà di opinione
e di vita dei proprî cittadini, sia su quello delle relazioni con i paesi
confinanti, sia sullo stesso scenario Vicino Oriente, dove le missioni aeree
effettuate nei mesi scorsi, spesso hanno colpito (per errore o per scelta?)
obiettivi non riconducibili all’Isis. Un altro argomento molto abusato è quello
di chiedere una decisa stretta all’accoglienza dei rifugiati e degli immigrati,
sostenendo che attraverso i canali di transito dei rifugiati e degli immigrati
possono essere utilizzati dall’Isis per infiltrare in occidente proprî agenti
terroristici. Di qui le aperte e ripetute violazioni (ipocritamente derubricate
in “sospensioni”) degli impegni e delle libere scelte operate e sottoscritte con
il Trattato di Schengen. Il tutto in barba al principio base del diritto internazionale,
che (grada caso) affonda le proprie radice nel più genuino diritto romano e può
essere riassunto nell’icastica locuzione latina pacta sunt servanda.
Naturalmente queste posizioni possono apparire, a prima vista,
del tutto giustificate dalla carica estrema violenta e inumana degli atti
terroristici posti in essere e la sistematica loro riproposizione e ripetizione
monocorde conferisce a esse un connotato di naturalità e ovvietà e un potere di
convincimento del tutto artificioso ma purtroppo efficace, come ben sanno gli
esperti di campagne pubblicitarie ripetitive, martellanti e costose per i
consumatori.
A pensarci bene, però, a mio avviso, le cose stanno in maniera
molto diversa.
Premetto che è mio fermo convincimento che l’idea democratica
costituisce il più grande contributo che il mondo occidentale ha offerto e
offre all’umanità intera. Si tratta di un patrimonio di umanità, di civiltà e
di cultura di altissima rilevanza, che scommette sulla capacità del libero
confronto delle idee e delle culture come la via maestra per garantire la
pacifica e proficua convivenza dell’umanità. Un’idea che s’impone per la sua
forza intrinseca di valorizzare le qualità più alte della persona umana e, alla
lunga, è capace di aver ragione della prepotenza e della violenza, purché si
abbia la perseveranza di testimoniarla con continuità e rigore etico.
Quando, invece, i paesi e i popoli di tradizione democratica ritengono
di vedersi dalle circostanze o dall’azione violenta delle forze
antidemocratiche costretti a “sospendere” la pratica democratica e a ricorrere
a una sorta di “violenza giusta” per difendere la democrazia, in realtà cadono
nel vicolo cieco di misconoscere i valori della democrazia e della libera e
civile convivenza, e forse senza nemmeno esserne pienamente consapevoli,
finiscono per riconoscere nei fatti che alla fin fine, al di là di ogni
discorso di sani principî, quello che conta sono le ragioni della forza, della
prepotenza e della violenza, dando così pienamente ragione alle forze che nella
democrazia non credono e che, anzi, la democrazia apertamente combattono.
La forza della democrazia sta nella capacità di dare respiro ed
espressione creativa alle più nobili capacità e potenzialità degli esseri umani.
Per potersi dispiegare in pienezza nella sua positività la forza della
democrazia deve tuttavìa potersi esprimere in una promozione a tutto campo
delle relazioni tra gli uomini, i popoli e i paesi, senza barriere, muri e
restrizioni, siano questi d’ordine materiale, giuridico o ideale. Scommettere
senza riserve sulla capacità dell’umanità di dare sviluppo alla solidarietà e alla
capacità di risolvere insieme i problemi della convivenza globale è una sfida
che una sensibilità autenticamente democratica deve saper in ogni circostanza
raccogliere. Quando di fronte a episodî e fatti gravissimi di efferata
violenza, quanti si “dicono” democratici non sanno far di meglio che parlare di
“guerra”, e anche di farla, ci troviamo di fatto dinanzi a un “rinnegamento”
dell’idea democratica, che dichiara senza mezzi termini la vittoria della
violenza e della prepotenza e la sconfitta della “ragione” e della
“democrazia”. La democrazia non può essere “sospesa”.
Non mi sorprende di certo che forze politiche di tradizione
nazionalista e localistica possano avventarsi con voluttà sull’opzione della
strumentalizzazione della paura della cittadinanza per lucrare facile consenso.
Onestamente, invece, sono molto sorpreso che un po’ in tutto il mondo
occidentale le forze politiche storicamente più direttamente legate alla
tradizione liberale, quella tradizione che vanta un secolare contributo
all’affermazione dell’idea democratica, ripiegarsi sull’opzione di una
prospettiva di soluzione “militare” del “problema terrorismo”, dimenticando che
il “terrorismo” è prima di tutto un problema “ideale e culturale”, non
risolvibile con le pallottole o con i muri e le recinzioni.
Ma al di là di queste ragioni di principio, che da sole,
dovrebbero essere più che sufficienti a far rifiutare ogni ipotesi di rivalsa
armata in reazione a fatti, per quanto efferati, di violenza, sussistono anche
motivazioni pratiche e considerazioni di obiettiva valutazione della effettiva
efficacia delle opzioni in chiave militare nello sventare i pericoli,
senz’altro innegabili cui l’efferatezza terroristica senza dubbio ci espone.
Proprio la gravità del fenomeno terroristico e i realissimi
pericoli cui il suo dilagare espone per la vita dei nostri paesi e dei nostri
popoli, dovrebbe imporre a tutti noi di ricercare con accuratezza le vie
autentiche di soluzione e di contrasto efficace del fenomeno, senza cedere a
superficiali e improvvisate prospettive di rivalsa.
Penso che di fronte a un problema di tale gravità ci corre
l’obbligo di ricercare la strada risolutiva di maggiore efficacia. Questa
strada dal dibattito politico proposto sugli strumenti della grande
comunicazione ci viene sbrigativamente indicata nella guerra. Leader politici e
grandi comunicatori ci ripetono che “siamo in guerra” e che dobbiamo prenderne
atto affilando le armi e scendendo in campo, con coalizioni internazionali e
bombardamenti.
Se tuttavìa ci soffermiamo un po’ a riflettere, possiamo vedere
che le cose stanno in modo un po’ diverso. Se ci facciamo caso, con la seconda
guerra mondiale si è verificato un grande mutamento di paradigma sull’efficacia
dello strumento “guerra”. Lungo i secoli e i millennî, a dir la verità, la
guerra si è dimostrata, al di là del giusto e dell’ingiusto, come lo strumento
privilegiato per far prevalere, con le ragioni della forza, una delle forze in
conflitto. Con la guerra Alessandro il Macedone poté sottomettere l’intero
oriente. E grazie alle guerre puniche, Roma poté aver ragione di Cartagine. E
sempre con la guerra Carlo Magno diede avvio al Sacro Romano Impero, Carlo 5°
costruì un regno sul quale non tramontava mai il sole, Napoleone distese il suo
potere in tutta Europa, che i suoi avversari, sempre grazie alla guerra,
riuscirono a loro volta ad abbattere. Lo stesso risorgimento italiano, grazie
ad azioni belliche, è riuscito a costruire l’unità del paese. E, infine, con la
guerra è stato possibile sconfiggere il nazismo.
Dopo la seconda guerra mondiale le cose sono però radicalmente
cambiate. Lo strumento “guerra” ha perso la sua capacità di decretare “un
vincitore” tra due parti in causa. Nessuna delle tante guerre che si sono
combattute negli ultimi settant’anni, e che tutt’ora si combattono, ha avuto
conclusione con un verdetto conclusivo e la determinazione di un nuovo corso,
giusto o sbagliato che sia. Facciamo alcuni esempî per rendercene meglio conto.
Israele ha mostrato in tantissime occasioni la propria indiscutibile
superiorità militare, e tuttavìa, non riesce a chiudere a proprio favore il
conflitto che la oppone ai Palestinesi. I russi hanno invaso l’Afghanistan, ma
non sono riusciti a imporre in maniera decisiva il proprio potere su quel paese
e alla fine hanno dovuto far ritirata. Lo stesso Vietnam è riuscito
militarmente a resistere e a respingere l’occupazione americana, ma ha pagato
il tutto con decennî d’isolamento, oscurantismo e dittatura, di cui solo in
questi ultimi anni si stanno intravedendo bagliori di superamento. Gli Stati
Uniti e i paesi occidentali si sono imbarcati in parecchie avventure belliche
in Somalia, in Afghanistan, in Iraq. Avventure all’inizio spavaldamente
intraprese con l’idea di far piazza pulita in quattro e quattr’otto degli
avversarî. I risultati sono sotto gli occhî di tutti. La destabilizzazione
sociale prodotta dall’intervento militare in Iraq ha contribuito almeno in
parte a spianare la strada al Califfato Islamico nella sua avventura di
costruirsi una propria consistenza territoriale. Eppure a suo tempo papa
Giovanni Paolo 2° inviò alla Casa Bianca mons. Pio Laghi per scongiurare
l’azione bellica. Il rappresentante pontificio fu accolto con sufficienza
dall’allora presidente USA e dai suoi generali, che si vantarono di essere in
condizione di sbrigare rapidamente la pratica Saddam. Il tempo oggi ci dà la
possibilità di valutare meglio da quale parte fosse allora “la saggezza” e dove
allocasse, invece, “l’irresponsabilità”.
E gli esempî potrebbero continuare a lungo.
Per contro in tanti contesti laddove sono stati conseguiti
risultati di progresso e sviluppo civile e sociale o sono state risolte
controversie in forma efficace, i processi si sono svolti evitando il ricorso
alle armi o limitandolo drasticamente. Sono tantissimi gli esempî che si
possono portare in merito, come il superamento in forma pacifica di tanti
regimi dittatoriali (in Europa, in sud America, nelle Filippine) o il
superamento della crisi di Cuba tra Stati Uniti e Unione Sovietica, quando in
piena guerra fredda, si ebbe la capacità di anteporre la ragione alle armi. Lo
stesso crollo del comunismo nell’Europa orientale è stato in gran parte un
processo che ha evitato il ricorso al sangue e grazie a ciò i paesi
interessati, pur nelle difficoltà e nelle ingiustizie patite, hanno potuto
evitare più pesanti sofferenze e tragedie. Laddove invece questo processo si è
svolto in forma bellica (paesi balcanici) il conto è stato decisamente diverso
e più duro. In Sud Africa è stato possibile superare il regime di Apartheid
senza bagni di sangue. L’India ha potuto affrancarsi dal potere coloniale
grazie alla pratica gandhiana della non-violenza. E gli esempî potrebbero
proseguire a lungo.
Ma anche la nostra spesso vituperata e sottovalutata Italia, pur
tra le tante contraddizioni della nostra storia repubblicana, può vantare un sia
pur piccolo risultato positivo. Oggi in pochi ricordano la vicenda del
Terrorismo Altoatesino con cui nel nostro paese si dovette fare i conti negli
anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Ebbene in quegli anni la tanto vituperata “Politica
italiana” (alla quale è giusto riconoscere, per la vicenda, la “P” maiuscola),
seppe trovare le vie democratiche, affinché nelle terre del Sud Tirolo, non si
determinassero le condizioni ideali per la costruzione di un consenso popolare
di massa alla scelta terroristica. Per altri contesti europei (Paese Basco,
Catalogna, Nord Irlanda) non si può parlare di risultati del tutto analoghi.
Quanto al terrorismo di pretesa matrice islamista, diverse sono
le condizioni e le dimensioni del fenomeno, ma la strada da seguire è sostanzialmente
la stessa: operare affinché la proposta terroristica non trovi consenso di
massa tra le centinaia di milioni di fedeli islamici.
Non illudiamoci! I registi e i finanziatori degli atti di
terrorismo puntano proprio a fare paura e a determinare reazioni ispirate alla
rivalsa, alla guerra, alla contrapposizione anti-islamica e al rifiuto dell’accoglienza
degli immigrati. Sarebbero stupidi se ignorassero la possibilità di reazioni di
tal tipo. Ma questi signori sono tutt’altro che stupidi. Di fronte agli atti di
terrorismo, invocare misure di rivalsa militare e di chiusura delle frontiere
significa non solo arrendersi, ma divenire nella sostanza delle cose complici e
sostenitori “di fatto” del terrorismo.
Il terrorismo, invece, si combatte impegnandosi nella tessitura
instancabile delle relazioni pacifiche e garanzia della libera circolazione
delle persone e delle idee. Tra i milioni e milioni di fedeli islamici ci sono
tanti uomini e donne, che vivono di lavoro e d’impegno, che hanno genio personale
e disponibilità al confronto e al dialogo. È dialogando con loro che si taglia
l’erba sotto i piedi dei terroristi!
Vico
Equense, domenica 14 febbraio 2016
Sergio
Sbragia
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