domenica 21 febbraio 2016

“Stare sugli spalti della fortezza” in sterile difesa o “uscire” all’aperto e confrontarsi in libertà?




L’attuale dibattito in corso sulla proposta di legge sulle unioni civili costituisce per le nostre comunità cristiane una grande opportunità, offertaci dal concreto svolgersi della storia, per entrare in dialogo con le donne e con gli uomini del nostro tempo.
La proposta in discussione interviene su un tema di grande delicatezza che interseca in profondità il vissuto dell’umanità di oggi. Sono in gioco, da un lato, istituti consolidati del diritto familiare e, dall’altro, l’aspirazione al riconoscimento di spazî di azione, percepiti come nuovi e irrinunciabili àmbiti di diritto e libertà da parte di gruppi sociali sempre più larghi. Una partita decisiva che, tuttavìa, si gioca su un terreno fertilissimo disseminato di grandi opportunità per la testimonianza di valori essenziali della vita familiare. Una circostanza questa che costituisce davvero un’opportunità da non lasciarsi sfuggire per un malinteso senso di “difesa” dei valori della famiglia. In contrario tra non molto ci troveremo a rimpiangere il non aver speso il “nostro talento” in una circostanza storica che ci richiedeva di intervenire e dire la nostra.
Di certo non aiuta un confronto sereno e libero l’attuale rissoso clima del dibattito politico, che strumentalizza il tema delle unioni civili a fini di contrapposti disegni di affermazione o di contrasto dell’attuale maggioranza di governo, ignorando che il tema travalica di molto la logica, pur rispettabile, degli equilibrî di governo. Sarebbe pertanto saggio, su quest’argomento, porre temporaneamente tra parentesi il confronto governo-opposizione, per concentrarsi su un libero e approfondito confronto su un tema che costituisce oggetto di sofferenza autentica per tante persone e occasione di profonda preoccupazione per tante altre. Ma su questo, sta alla classe politica dimostrare di essere davvero all’altezza della propria funzione sociale.
A rendere ulteriormente difficile l’approccio al tema concorre anche il pesante ritardo con cui esso viene affrontato nel nostro paese, rendendo evidente l’errore storico compiuto alcuni anni fa quando si è lasciata affogare nel guado del nulla di fatto la proposta di legge conosciuta comunemente come “riconoscimento dei DiCo”. Senza comunque stare a recriminare sul passato, credo sia giusto imparare dagli errori compiuti per evitare di ripeterli e ritrovarci, tra qualche anno, a rimpiangere un’ulteriore occasione persa. È importante pertanto concentrarci sui contenuti in discussione, avendo il coraggio di lasciare da parte le inconcludenti risse di basso profilo politico che avvelenano purtroppo la vita democratica del nostro paese.
La comunità ecclesiale in questi ultimi tempi, sotto la guida di papa Francesco, si è profondamente interrogata sul tema, riscoprendo e conferendo vigore e vitalità all’antichissima tradizione ecclesiale della riflessione sinodale a voce plurima, condotta sotto la luce dello Spirito. Un itinerario quello percorso dalla Chiesa, attraverso due appuntamenti sinodali e una profonda riflessione che ha interessato l’intero corpo della comunità ecclesiale, che rappresenta nell’attuale momento storico davvero un “unicum”, in un tempo che purtroppo vede di solito l’assunzione di repentine determinazioni e decisioni strategiche, che interessano i destini dell’intera umanità, al chiuso d’istituzioni blindate dai poteri forti e senza vere forme di partecipazione e condivisione. La Chiesa, invece, si è interrogata in profondità e dando voce a molti (tendenzialmente a tutti) su un tema, quello della famiglia, che tradizionalmente riveste un peso di grande rilevanza nella propria missione pastorale. E proprio in quanto processo reale di confronto tra sensibilità e posizioni diversificate, e non artificiosa e irreale rappresentazione mediatica, la riflessione condotta in àmbito ecclesiale ha sì aperto prospettive pastorali nuove e impensabili solo alcuni anni fa, ma ha anche manifestato la preoccupazione di consistenti componenti della comunità ecclesiale che vengano posti in discussione con leggerezza fondamentali temi del messaggio cristiano. Tuttavìa l’indicazione di fondo che appare emergere tanto dall’esperienza sinodale quanto dal magistero di Francesco, è quella che delinea una comunità ecclesiale “in uscita” capace di tenere “lo sguardo fisso” su Gesù Cristo. Quest’indicazione costituisce, a dir la verità, una sintesi mirabile della vocazione a cui siamo chiamati noi che abbiamo scelto di seguire Gesù, nei sentieri tortuosi della storia: “uscire” incontro all’umanità di oggi, avendo come bussola di orientamento Gesù maestro itinerante in Giudèa, Samarìa e Galilèa. Gesù, in effetti, nella sua missione concreta non ha esitato a entrare in relazione con prostitute, adùlteri, pubblicani e con persone appartenenti a gruppi sociali esclusi dal comune riconoscimento sociale dell’epoca, non ha esitato a elargir loro il perdono, a indicar loro la via della salvezza, a riconoscere in loro la presenza della fede. Di fronte a questo consolidato comportamento di Gesù nella sua missione terrena, siamo chiamati a lasciare le false sicurezze di valutazioni esteriori e “da lontano”, a “uscire” per incontrare l’umanità di oggi e a essere attenti “lettori dei segni dei tempi”, per comprendere quale sia la volontà del Signore “qui” e “oggi”. Su questa strada del confronto con le donne e gli uomini è pertanto di grande rilievo l’indicazione metodologica di papa Francesco («chi sono io per giudicare…»). Rifuggire dal giudicare gli altri, ma porsi nella posizione di chi serve («anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri») e indurli a una personale e autentica ricerca della verità («"chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei"… quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani»), nella consapevolezza che ciò che è decisivo è “l’amore” («questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi»).
Allora, di fronte a quella che oggi comunemente viene definita la “cultura gender”, mi sembra poco utile proclamare l’inviolabilità di diritti della famiglia e il rispetto della legge di natura, mentre appare più consono il porsi in ascolto autentico delle esperienze esistenziali delle persone e dei loro travaglî esistenziali. Siamo chiamati ad approfondire la distinzione (“distinzione”, non “separazione”) tra dato biologico e dato culturale. La cultura “gender” ci chiede di non restare ancorati alla distinzione sessuale sancita sul piano biologico, per comprendere la dimensione davvero reale degli orientamenti che si determinano nella sensibilità delle persone, e che possono non essere esattamente coincidenti con la distinzione biologica. Questi orientamenti divergenti dalla distinzione biologica uomo-donna, non sono allora, in sé, deformazioni dell’autentica realtà umana, né forme patologiche, né frutto di scelte sbagliate, di errori o condizionamenti psicologici. Sono condizioni e realtà autentiche in cui le persone sono chiamate a vivere. Condizioni di vita reali nelle quali queste donne e questi uomini, come tutti, sono chiamati da Gesù, maestro itinerante, a scegliere l’amore. Questo ci chiama a una riconsiderazione della nozione di “legge naturale”, che riveste un notevole peso nella riflessione teologica tradizionale, e ci stimola a ricomprendere nella realtà della “natura” anche il dato della “cultura”, che, a ben vedere, non è un elemento artificioso che si aggiunge a quello della “natura”, ma è in questa pienamente presente e operante. Una visione d’altronde già implicita nella tradizionalissima definizione dell’uomo quale “animale ragionevole”. In una riflessione limitata alla considerazione del solo rigido dato biologico questa definizione non avrebbe goduto di alcuna legittimazione.
Oggi, allora, ci troviamo di fronte alla richiesta di tante coppie che vivono la realtà di unioni di persone dello stesso sesso biologico che, nel chiedere il riconoscimento civile delle loro convivenze, dunque non chiedono altro che di poter vivere, nel riconoscimento sociale, i valori della dedizione all’altro, della fedeltà, della corresponsabilità reciproca, della genitorialità, ecc.. Ma questi, a ben guardare, non sono i valori autentici della famiglia? Allora ci troviamo in una realtà in cui c’è chi fuori dell’uscio, chiede di entrare e partecipare alla mensa, nella condivisione degli stessi valori. Ci sono dunque persone che riconoscono e anelano a incarnare gli stessi valori della famiglia.
L’unico atteggiamento sbagliato di fronte a quanti hanno fame di valori, è quello di dire “no” e di decretare la loro esclusione dal pasto fraterno, decretando che tanti non hanno diritto d’incarnare valori, il cui altissimo profilo etico è fuori discussione. Un tale atteggiamento difficilmente appare coerente con la dimensione universale dell’annuncio cristiano rivolto a tutti.
Piuttosto che contrapporre la famiglia ad altre forme di convivenza, è l’ora di prendere coscienza che i valori familiari, anche grazie alla testimonianza delle famiglie, hanno una singolare capacità di attrazione che finisce per coinvolgere e attrarre anche altre esperienze. E questo è decisamente un fatto di segno positivo. I valori della famiglia, nella loro autenticità, non sono allora dei privilegî riservati solo ad alcuni, ma sono una chiamata per tutti. La sfida di scegliere autenticamente la dedizione all’altro, la fedeltà, la corresponsabilità reciproca, la genitorialità, può essere proposta a tutti. Non importa quale sia il gradino di partenza, l’essenziale è scegliere il piede giusto di partenza. Anzi, a esser sinceri, forse chi si ritrova sul gradino più basso è oggetto di una particolare benevolenza da parte del Signore («così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi»). Qualunque sia la condizione di partenza, tutti abbiamo qualche risorsa da impegnare: ci sarà chi dispone di cinque talenti, chi di tre, chi solo di uno, o chi, come la povera vedova, solo di pochi spiccioli. L’errore può essere solo e unicamente quello di “sotterrare” queste risorse e queste capacità, piccole o grandi che esse siano. La sapienza autentica della comunità cristiana sarà quella di saper indicare alle donne e agli uomini del nostro tempo come impegnare e rischiare le loro risorse di dedizione e la loro capacità di amare, nella consapevolezza che nessuno è escluso dall’amore del Signore. Tutti, infatti, siamo stati invitati ad andare ai crocicchî delle strade, a chiamare alle nozze tutti quelli che troveremo, a raccoglierli tutti, “buoni e cattivi”, affinché la sala del convito nuziale possa riempirsi di commensali. L’unica condizione è il vestire l’abito nuziale, cioè scegliere di rispondere con autenticità e in coscienza alla chiamata di Gesù. In proposito appare giusto ricordare come Gesù stesso abbia ceduto ammirato all’insistenza profetica della donna cananea che gli chiedeva accorata di lasciare che i cagnolini potessero mangiare le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni.
Allora la sfida che ci troviamo dinanzi è quella di saper riconoscere la voce del Signore nell’appello all’“I care” che ci arriva dalle tante coppie di persone dello stesso sesso. Una luce che brilla a fronte del buio proposto dai tanti “me ne frego” dichiarati dalle società opulente dinanzi a tanti drammi: dalla “questione migranti” al “ debito greco”, dalla “questione ambientale” alla “pirateria finanziaria”, dal “traffico d’armi” al “terrorismo internazionale”.

Vico Equense, domenica 21 febbraio 2016
Sergio Sbragia

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