L’attuale dibattito in corso sulla proposta di legge sulle
unioni civili costituisce per le nostre comunità cristiane una grande opportunità,
offertaci dal concreto svolgersi della storia, per entrare in dialogo con le
donne e con gli uomini del nostro tempo.
La proposta in discussione interviene su un tema di grande
delicatezza che interseca in profondità il vissuto dell’umanità di oggi. Sono
in gioco, da un lato, istituti consolidati del diritto familiare e, dall’altro,
l’aspirazione al riconoscimento di spazî di azione, percepiti come nuovi e
irrinunciabili àmbiti di diritto e libertà da parte di gruppi sociali sempre
più larghi. Una partita decisiva che, tuttavìa, si gioca su un terreno fertilissimo
disseminato di grandi opportunità per la testimonianza di valori essenziali
della vita familiare. Una circostanza questa che costituisce davvero un’opportunità
da non lasciarsi sfuggire per un malinteso senso di “difesa” dei valori della
famiglia. In contrario tra non molto ci troveremo a rimpiangere il non aver
speso il “nostro talento” in una circostanza storica che ci richiedeva di intervenire
e dire la nostra.
Di certo non aiuta un confronto sereno e libero l’attuale rissoso
clima del dibattito politico, che strumentalizza il tema delle unioni civili a
fini di contrapposti disegni di affermazione o di contrasto dell’attuale
maggioranza di governo, ignorando che il tema travalica di molto la logica, pur
rispettabile, degli equilibrî di governo. Sarebbe pertanto saggio, su quest’argomento,
porre temporaneamente tra parentesi il confronto governo-opposizione, per
concentrarsi su un libero e approfondito confronto su un tema che costituisce
oggetto di sofferenza autentica per tante persone e occasione di profonda
preoccupazione per tante altre. Ma su questo, sta alla classe politica dimostrare
di essere davvero all’altezza della propria funzione sociale.
A rendere ulteriormente difficile l’approccio al tema concorre
anche il pesante ritardo con cui esso viene affrontato nel nostro paese,
rendendo evidente l’errore storico compiuto alcuni anni fa quando si è lasciata
affogare nel guado del nulla di fatto la proposta di legge conosciuta
comunemente come “riconoscimento dei DiCo”. Senza comunque stare a recriminare
sul passato, credo sia giusto imparare dagli errori compiuti per evitare di
ripeterli e ritrovarci, tra qualche anno, a rimpiangere un’ulteriore occasione
persa. È importante pertanto concentrarci sui contenuti in discussione, avendo
il coraggio di lasciare da parte le inconcludenti risse di basso profilo
politico che avvelenano purtroppo la vita democratica del nostro paese.
La comunità ecclesiale in questi ultimi tempi, sotto la guida di
papa Francesco, si è profondamente interrogata sul tema, riscoprendo e conferendo
vigore e vitalità all’antichissima tradizione ecclesiale della riflessione
sinodale a voce plurima, condotta sotto la luce dello Spirito. Un itinerario
quello percorso dalla Chiesa, attraverso due appuntamenti sinodali e una
profonda riflessione che ha interessato l’intero corpo della comunità
ecclesiale, che rappresenta nell’attuale momento storico davvero un “unicum”,
in un tempo che purtroppo vede di solito l’assunzione di repentine determinazioni
e decisioni strategiche, che interessano i destini dell’intera umanità, al
chiuso d’istituzioni blindate dai poteri forti e senza vere forme di
partecipazione e condivisione. La Chiesa, invece, si è interrogata in
profondità e dando voce a molti (tendenzialmente a tutti) su un tema, quello
della famiglia, che tradizionalmente riveste un peso di grande rilevanza nella
propria missione pastorale. E proprio in quanto processo reale di confronto tra
sensibilità e posizioni diversificate, e non artificiosa e irreale rappresentazione
mediatica, la riflessione condotta in àmbito ecclesiale ha sì aperto prospettive
pastorali nuove e impensabili solo alcuni anni fa, ma ha anche manifestato la preoccupazione
di consistenti componenti della comunità ecclesiale che vengano posti in discussione
con leggerezza fondamentali temi del messaggio cristiano. Tuttavìa l’indicazione
di fondo che appare emergere tanto dall’esperienza sinodale quanto dal
magistero di Francesco, è quella che delinea una comunità ecclesiale “in uscita”
capace di tenere “lo sguardo fisso” su Gesù Cristo. Quest’indicazione costituisce,
a dir la verità, una sintesi mirabile della vocazione a cui siamo chiamati noi
che abbiamo scelto di seguire Gesù, nei sentieri tortuosi della storia: “uscire”
incontro all’umanità di oggi, avendo come bussola di orientamento Gesù maestro
itinerante in Giudèa, Samarìa e Galilèa. Gesù, in effetti, nella sua missione
concreta non ha esitato a entrare in relazione con prostitute, adùlteri, pubblicani
e con persone appartenenti a gruppi sociali esclusi dal comune riconoscimento
sociale dell’epoca, non ha esitato a elargir loro il perdono, a indicar loro la
via della salvezza, a riconoscere in loro la presenza della fede. Di fronte a questo
consolidato comportamento di Gesù nella sua missione terrena, siamo chiamati a
lasciare le false sicurezze di valutazioni esteriori e “da lontano”, a “uscire”
per incontrare l’umanità di oggi e a essere attenti “lettori dei segni dei
tempi”, per comprendere quale sia la volontà del Signore “qui” e “oggi”. Su
questa strada del confronto con le donne e gli uomini è pertanto di grande rilievo
l’indicazione metodologica di papa Francesco («chi sono io per giudicare…»).
Rifuggire dal giudicare gli altri, ma porsi nella posizione di chi serve («anche
voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri») e indurli a una personale e
autentica ricerca della verità («"chi di voi è senza peccato, getti per
primo la pietra contro di lei"… quelli, udito ciò, se ne andarono uno per
uno, cominciando dai più anziani»), nella consapevolezza che ciò che è decisivo
è “l’amore” («questo è il mio comandamento:
che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi»).
Allora, di fronte a quella che oggi comunemente viene definita
la “cultura gender”, mi sembra poco utile proclamare l’inviolabilità di diritti
della famiglia e il rispetto della legge di natura, mentre appare più consono il
porsi in ascolto autentico delle esperienze esistenziali delle persone e dei
loro travaglî esistenziali. Siamo chiamati ad approfondire la distinzione (“distinzione”,
non “separazione”) tra dato biologico e dato culturale. La cultura “gender” ci
chiede di non restare ancorati alla distinzione sessuale sancita sul piano
biologico, per comprendere la dimensione davvero reale degli orientamenti che
si determinano nella sensibilità delle persone, e che possono non essere
esattamente coincidenti con la distinzione biologica. Questi orientamenti divergenti
dalla distinzione biologica uomo-donna, non sono allora, in sé, deformazioni
dell’autentica realtà umana, né forme patologiche, né frutto di scelte
sbagliate, di errori o condizionamenti psicologici. Sono condizioni e realtà
autentiche in cui le persone sono chiamate a vivere. Condizioni di vita reali nelle
quali queste donne e questi uomini, come tutti, sono chiamati da Gesù, maestro
itinerante, a scegliere l’amore. Questo ci chiama a una riconsiderazione della
nozione di “legge naturale”, che riveste un notevole peso nella riflessione
teologica tradizionale, e ci stimola a ricomprendere nella realtà della “natura”
anche il dato della “cultura”, che, a ben vedere, non è un elemento artificioso
che si aggiunge a quello della “natura”, ma è in questa pienamente presente e
operante. Una visione d’altronde già implicita nella tradizionalissima
definizione dell’uomo quale “animale ragionevole”. In una riflessione limitata
alla considerazione del solo rigido dato biologico questa definizione non avrebbe
goduto di alcuna legittimazione.
Oggi, allora, ci troviamo di fronte alla richiesta di tante
coppie che vivono la realtà di unioni di persone dello stesso sesso biologico
che, nel chiedere il riconoscimento civile delle loro convivenze, dunque non
chiedono altro che di poter vivere, nel riconoscimento sociale, i valori della
dedizione all’altro, della fedeltà, della corresponsabilità reciproca, della
genitorialità, ecc.. Ma questi, a ben guardare, non sono i valori autentici
della famiglia? Allora ci troviamo in una realtà in cui c’è chi fuori dell’uscio,
chiede di entrare e partecipare alla mensa, nella condivisione degli stessi
valori. Ci sono dunque persone che riconoscono e anelano a incarnare gli stessi
valori della famiglia.
L’unico atteggiamento sbagliato di fronte a quanti hanno fame di
valori, è quello di dire “no” e di decretare la loro esclusione dal pasto
fraterno, decretando che tanti non hanno diritto d’incarnare valori, il cui
altissimo profilo etico è fuori discussione. Un tale atteggiamento
difficilmente appare coerente con la dimensione universale dell’annuncio cristiano
rivolto a tutti.
Piuttosto che contrapporre la famiglia ad altre forme di convivenza,
è l’ora di prendere coscienza che i valori familiari, anche grazie alla
testimonianza delle famiglie, hanno una singolare capacità di attrazione che
finisce per coinvolgere e attrarre anche altre esperienze. E questo è decisamente
un fatto di segno positivo. I valori della famiglia, nella loro autenticità,
non sono allora dei privilegî riservati solo ad alcuni, ma sono una chiamata
per tutti. La sfida di scegliere autenticamente la dedizione all’altro, la
fedeltà, la corresponsabilità reciproca, la genitorialità, può essere proposta
a tutti. Non importa quale sia il gradino di partenza, l’essenziale è scegliere
il piede giusto di partenza. Anzi, a esser sinceri, forse chi si ritrova sul
gradino più basso è oggetto di una particolare benevolenza da parte del Signore
(«così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi»). Qualunque sia la
condizione di partenza, tutti abbiamo qualche risorsa da impegnare: ci sarà chi
dispone di cinque talenti, chi di tre, chi solo di uno, o chi, come la povera
vedova, solo di pochi spiccioli. L’errore può essere solo e unicamente quello
di “sotterrare” queste risorse e queste capacità, piccole o grandi che esse
siano. La sapienza autentica della comunità cristiana sarà quella di saper
indicare alle donne e agli uomini del nostro tempo come impegnare e rischiare
le loro risorse di dedizione e la loro capacità di amare, nella consapevolezza che
nessuno è escluso dall’amore del Signore. Tutti, infatti, siamo stati invitati
ad andare ai crocicchî delle strade, a chiamare alle nozze tutti quelli che
troveremo, a raccoglierli tutti, “buoni e cattivi”, affinché la sala del
convito nuziale possa riempirsi di commensali. L’unica condizione è il vestire
l’abito nuziale, cioè scegliere di rispondere con autenticità e in coscienza
alla chiamata di Gesù. In proposito appare giusto ricordare come
Gesù stesso abbia ceduto ammirato all’insistenza profetica della donna cananea
che gli chiedeva accorata di lasciare che i cagnolini potessero mangiare le
briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni.
Allora la sfida che ci troviamo dinanzi è quella di saper riconoscere
la voce del Signore nell’appello all’“I care” che ci arriva dalle tante coppie
di persone dello stesso sesso. Una luce che brilla a fronte del buio proposto dai
tanti “me ne frego” dichiarati dalle società opulente dinanzi a tanti drammi: dalla
“questione migranti” al “ debito greco”, dalla “questione ambientale” alla “pirateria
finanziaria”, dal “traffico d’armi” al “terrorismo internazionale”.
Vico Equense, domenica 21 febbraio 2016
Sergio Sbragia
Nessun commento:
Posta un commento