L’attualità del martirio.
I ripetuti eventi tragici che in questi ultimi mesi ci parlano
sempre più frequentemente di fratelli cristiani uccisi per la propria fede in
Gesù di Nàzareth, Figlio di Dio. Il ripetersi sempre più frequente di eventi
tragici di tal genere, per altro in forme spesso efferate e turpi, ci impone di
condurre un’attenta riflessione comune sulla realtà e l’attualità del
“martirio”. La morte violenta di tanti cristiani, in varie parti del mondo,
riporta alla nostra attenzione di credenti la realtà del “martirio”. Un evento,
quello del martirio, al quale viene tributato una profonda venerazione ed è
riconosciuto universalmente come un segno inequivocabile della santità. È
tuttavia innegabile che nel nostro comune sentire il martirio, sia pur
insensibilmente, non è più percepito come un’eventualità comune e possibile
nella vita di fede. Lo intendiamo di più come un’eventualità sostanzialmente
lontana, per lo più relegata nelle epoche passate, in particolare nell’“età
d’oro” della Chiesa antica. Certo nutriamo una profonda venerazione per i santi
martiri, li ricordiamo e li onoriamo con grande fervore, ma dobbiamo
riconoscere che raramente ci soffermiamo a riflettere su un’eventualità, quale
quella del “martirio”, che potrebbe divenire per ciascuno di noi esperienza
concreta.
La pratica sempre più diffusa in alcune aree del pianeta di
eseguire condanne capitali in ragione della fede e in nome di motivazioni
religiose, nonché la minaccia ventilata e, in taluni casi, portata a compimento
di azioni cruente contro persone e simboli pregnanti della fede cristiana anche
in occidente ci ha portato a distanza ravvicinata la possibilità
dell’esperienza del martirio, e ci fa percepire come questa possa tornare a
essere un’eventualità ricorrente e frequente nella nostra vita di fede.
Questa nuova realtà ci impone di operare una profonda riflessione
personale e comunitaria sulla dimensione del martirio. Un riflessione da
operare in punta di piedi e con grande rispetto nei confronti dei fratelli
cristiani che vivono e testimoniano la fede in Cristo in contesti dove al culto
religioso non è garantita la dovuta libertà di espressione e manifestazione e
il rischio di subire violenza e di andare incontro al martirio è un’eventualità
concreta e drammaticamente reale.
Ciò nonostante ritengo sia doveroso che nelle nostre comunità si
apra un’attenta riflessione sulla realtà e l’eventualità del martirio, che non
è di certo una tappa obbligata, ma una sfida che la nostra testimonianza
cristiana può senz’altro proporci, anche nei tempi e nei modi che meno possiamo
immaginare.
D’altronde Gesù, nella sua predicazione, in proposito non ha
usato mezzi termini e ha chiaramente prospettato a quanti avessero scelto di
seguirlo, sia pur delineando una tale condizione con i lineamenti della
beatitudine:
Beati voi quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di
voi (Mt. 5,11-12).
Nel discorso del Monte Gesù, infatti, delinea con chiarezza per
i suoi discepoli la prospettiva degli insulti, della persecuzione e della
diffamazione, indicandone con chiarezza la ragione e l’origine («per causa
mia»). È la decisione di seguire Gesù sui sentieri del mondo che comporta
l’eventualità di doversi confrontare anche con il rifiuto persino violento. E
questa condizione di possibile destino di sofferenza e anche di morte, viene
paradossalmente indicata come una ragione per “rallegrarsi” ed “esultare”. Non
quindi un dato che induce a rattristarsi, ma un elemento che costituisce una
ragione per gioire. La delineazione di questo legame diretto tra la concreta
eventualità del martirio e la beatitudine non costituisce un’affermazione
sporadica dei vangeli. Il tema ricorre ripetutamente, a cominciare dai due
passi paralleli di Luca e Marco, nei quali invita i proprî a prendere su di sé
e senza indugî la propria croce e a seguirlo, perché perdere la vita a causa di
Gesù, vuol dire, in realtà, salvarla.
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro:
"Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua
croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi
perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà (Mc. 8,34-35).
Poi, a tutti, diceva: "Se qualcuno vuole venire dietro a
me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole
salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa
mia, la salverà (Lc. 9,23-24).
La scelta e l’atteggiamento proposto da Gesù a quanti desiderino
seguirlo, a ben vedere, stride fortemente con il comune sentire umano, quello
che siamo soliti definire il “buon senso”. Si tratta di un invito a compiere una
scelta che salta a piè pari ogni considerazione di prudenza e di avvedutezza, in
sostanza è un appello a mettere in gioco senza reticenze la propria vita
riponendola nelle mani di Gesù. Ma a questa scelta non corrisponde un
riconoscimento sociale, un cursus honorum,
o una ricompensa materiale, ma un sentiero di sofferenza e patimento, che non
esclude anche il sacrificio della vita. E questa scelta tuttavìa è compiuta
nella gioia ed è ragione di beatitudine.
Risulta davvero duro percorrere il sentiero di comprensione di
questa duplice caratteristica della scelta di seguire Gesù, all’un tempo,
evento di sofferenza e di gioia.
Un aiuto, a mio avviso, può venire dalla lettura del brano del Vangelo di Marco che narra la morte di
Gesù (Mc. 15,33-39):
Quando
fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.
Alle tre, Gesù gridò a gran voce: "Eloì, Eloì, lemà sabactàni?",
che significa: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?
". Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: "Ecco, chiama
Elia!". Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e
gli dava da bere, dicendo: "Aspettate, vediamo se viene Elia a
farlo scendere". Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Il
velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si
trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse:
"Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!" (Mc. 15,33-39).
In questo brano incontriamo la figura del centurione che assiste
alla morte in Croce di Gesù, una morte esito di un’agonia indotta da una terribile
forma di tortura. Un supplizio ordinariamente riservato in quell’epoca ai
criminali della peggiore risma. Una morte preceduta da una lunga e inenarrabile
sofferenza, ma anche oggetto del più largo discredito sociale. Eppure questo
personaggio, il centurione, che per mestiere era di certo abituato a uccidere e
a esercitare violenza, di fronte alla morte di Gesù, reagisce riconoscendo che
Gesù è davvero il “Figlio di Dio”. Il centurione non ha assistito alla
moltiplicazione dei pani, né alla trasformazione dell’acqua in vino, né alla
guarigione del paralitico o a quella del cieco nato, né alla resurrezione di
Làzzaro. È stato testimone solo di una morte ignominiosa tra mille sofferenze,
ma nell’aver partecipato a tale evento, sta la radice della sua fede. Una fede
che non nasce da un segno straordinario, ma da un’esperienza di debolezza
estrema, di umano annientamento. L’aver colto i segni della divinità
nell’abbassamento più infimo sperimentato da Gesù nella sua vicenda umana, fa
di questo anonimo centurione un autentico Padre della fede. Un esponente di una
categorie guardata con sospetto dai circoli giudaici, estraneo alla tradizione
della fede d’Israele, riesce a leggere con più immediatezza i segni della
presenza di Dio («In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano
avanti nel regno di Dio», Mt. 21,31).
È questo, per altro, che Paolo ci mostra con grande forza
nell’inno che ci propone nella Lettera ai
Filippesi:
Abbiate
in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli,
pur essendo nella condizione di Dio,
non
ritenne un privilegio
l'essere
come Dio,
ma
svuotò se stesso
assumendo
una condizione di servo,
diventando
simile agli uomini.
Dall'aspetto
riconosciuto come uomo,
umiliò
se stesso
facendosi
obbediente fino alla morte
e a
una morte di croce.
Per
questo Dio lo esaltò
e gli
donò il nome
che è
al di sopra di ogni nome,
perché
nel nome di Gesù
ogni
ginocchio si pieghi
nei cieli,
sulla terra e sotto terra,
e
ogni lingua proclami:
"Gesù
Cristo è Signore!",
a
gloria di Dio Padre (Fil. 2,5-11).
La dignità divina di Gesù si manifesta, non nei segni
straordinarî, quanto nello svuotamento della grandezza, nell’accettazione della
condizione di servo, nel farsi simile agli esseri umani, e in particolare a
quelli più umili e disprezzati, nel seguire obbediente la via della croce e
della morte. Ed è su questo che si fonda l’esaltazione del nome di Gesù, che
induce tante ginocchia a piegarsi e tante bocche a proclamare la Signoria di
Gesù. Una strada sulla quale il centurione ci ha preceduto, e con lui anche
tanti pubblicani e prostitute. D’altronde Gesù, all’apostolo Tommaso che
chiedeva riscontri sull’avvenuta resurrezione, dirà: «perché mi hai veduto, tu
hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv. 20,29).
Scegliere la via della fede senza una ragione evidente al comune e ordinario
sentire è dunque definita da Gesù una condizione di beatitudine, a maggior
regione lo è quella di chi sceglie di seguire Gesù, contro l’evidenza umana,
quando tutto farebbe pensare che quello proposto da Gesù non sia altro che un
vicolo cieco, una strada senza prospettive.
Queste considerazioni pongono in luce come la prospettiva del
martirio, la via della croce, sia connaturata alla nostra scelta cristiana, non
un passaggio obbligato, ma un’eventualità concreta, che per altro non presenta
i connotati della rassegnazione, della preoccupazione, della paura e del peso
esistenziale, quanto i segni della gioia e della beatitudine.
Un’opzione che, non dobbiamo nascondercelo, può apparire irrazionale,
pazzesca, soprattutto in un’epoca quale la nostra dove ci aspettiamo che tutto
sia programmato, organizzato, preordinato e prevedibile. Ma noi
dall’insegnamento di Paolo sappiamo:
La
parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli
che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:
Distruggerò la sapienza dei sapienti
e annullerò l'intelligenza degli
intelligenti.
Dov'è
il sapiente? Dov'è il dotto? Dov'è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio
non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel
disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto
Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
Mentre i Giudèi chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece
annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudèi e stoltezza per i pagani;
ma per coloro che sono chiamati, sia Giudèi che Greci, Cristo è potenza di Dio
e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli
uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor. 1,18-25).
Davvero affascinante la verve
polemica di Paolo, che si confronta con da un lato con il ragionar sottile
della sapienza mondana e, dall’altro, con la ricerca spasmodica di segni
strabilianti («Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si
facevano beffe di lui e dicevano: "Ha salvato altri e non può salvare se
stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e
crediamo!"», Mc. 15,31-32). Ma Paolo ci ricorda che «ciò che è stoltezza
di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte
degli uomini».
Anche oggi siamo abituati ad ascoltare spesso, anche i moderni
sistemi di comunicazione social,
abili imbonitori (e in questo la messaggistica pubblicitaria è autentica
“maestra”) invitarci a seguirli per conseguire obiettivi di prestigio sociale
ed economico. L’invito proposto da Gesù (“prendi la tua croce e seguimi”) si
pone in radicale controtendenza e caratterizza la diversità, la “novità” della
scelta cristiana.
Il martirio, dunque, la Croce non sono un’eventualità lontana,
né un ricordo del passato, di una sorta di età mitica del cristianesimo antico,
né una tragica evenienza per comunità immerse in contesti diversi, le chiese
del silenzio di alcuni decennî fa, o le chiese di determinare aree dell’oriente
(vicino o più lontano) o dell’Africa. È una sfida che in qualche modo può
interpellarci, anche quando meno possiamo attendercelo, secondo una modalità
prettamente evangelica. I racconti evangelici, infatti, in più occasioni
richiamano l’attenzione sul carattere improvviso dell’arrivo dello sposo, del
ritorno del Figlio dell’uomo, della fine del mondo.
E allora credo che, a questo proposito, sia opportuno recuperare
in tutta la sua profondità l’insegnamento di un particolare brano del Vangelo di Matteo:
Guardate
gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai;
eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? E chi di
voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E
per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i giglî del
campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con
tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro (Mt. 6,26-29).
Un brano che ci aiuta comprendere il senso del nesso tacciato
dalla parole di Gesù tra l’assunzione della croce e la condizione di
beatitudine. Un nesso che non risponde a calcoli e a considerazioni di vantaggio
ed utilità, ma è la conseguenza dell’affidarsi fiduciosi in Gesù, scegliendo di
essere semplici donne e uomini, immersi nell’umanità e nel mondo di oggi, senza
alcuna pretesa di dominio, ma offrendo solo la semplice testimonianza della
speranza donata da Gesù.
Vico Equense, martedì 17 novembre 2015
Sergio Sbragia