domenica 21 febbraio 2016

“Stare sugli spalti della fortezza” in sterile difesa o “uscire” all’aperto e confrontarsi in libertà?




L’attuale dibattito in corso sulla proposta di legge sulle unioni civili costituisce per le nostre comunità cristiane una grande opportunità, offertaci dal concreto svolgersi della storia, per entrare in dialogo con le donne e con gli uomini del nostro tempo.
La proposta in discussione interviene su un tema di grande delicatezza che interseca in profondità il vissuto dell’umanità di oggi. Sono in gioco, da un lato, istituti consolidati del diritto familiare e, dall’altro, l’aspirazione al riconoscimento di spazî di azione, percepiti come nuovi e irrinunciabili àmbiti di diritto e libertà da parte di gruppi sociali sempre più larghi. Una partita decisiva che, tuttavìa, si gioca su un terreno fertilissimo disseminato di grandi opportunità per la testimonianza di valori essenziali della vita familiare. Una circostanza questa che costituisce davvero un’opportunità da non lasciarsi sfuggire per un malinteso senso di “difesa” dei valori della famiglia. In contrario tra non molto ci troveremo a rimpiangere il non aver speso il “nostro talento” in una circostanza storica che ci richiedeva di intervenire e dire la nostra.
Di certo non aiuta un confronto sereno e libero l’attuale rissoso clima del dibattito politico, che strumentalizza il tema delle unioni civili a fini di contrapposti disegni di affermazione o di contrasto dell’attuale maggioranza di governo, ignorando che il tema travalica di molto la logica, pur rispettabile, degli equilibrî di governo. Sarebbe pertanto saggio, su quest’argomento, porre temporaneamente tra parentesi il confronto governo-opposizione, per concentrarsi su un libero e approfondito confronto su un tema che costituisce oggetto di sofferenza autentica per tante persone e occasione di profonda preoccupazione per tante altre. Ma su questo, sta alla classe politica dimostrare di essere davvero all’altezza della propria funzione sociale.
A rendere ulteriormente difficile l’approccio al tema concorre anche il pesante ritardo con cui esso viene affrontato nel nostro paese, rendendo evidente l’errore storico compiuto alcuni anni fa quando si è lasciata affogare nel guado del nulla di fatto la proposta di legge conosciuta comunemente come “riconoscimento dei DiCo”. Senza comunque stare a recriminare sul passato, credo sia giusto imparare dagli errori compiuti per evitare di ripeterli e ritrovarci, tra qualche anno, a rimpiangere un’ulteriore occasione persa. È importante pertanto concentrarci sui contenuti in discussione, avendo il coraggio di lasciare da parte le inconcludenti risse di basso profilo politico che avvelenano purtroppo la vita democratica del nostro paese.
La comunità ecclesiale in questi ultimi tempi, sotto la guida di papa Francesco, si è profondamente interrogata sul tema, riscoprendo e conferendo vigore e vitalità all’antichissima tradizione ecclesiale della riflessione sinodale a voce plurima, condotta sotto la luce dello Spirito. Un itinerario quello percorso dalla Chiesa, attraverso due appuntamenti sinodali e una profonda riflessione che ha interessato l’intero corpo della comunità ecclesiale, che rappresenta nell’attuale momento storico davvero un “unicum”, in un tempo che purtroppo vede di solito l’assunzione di repentine determinazioni e decisioni strategiche, che interessano i destini dell’intera umanità, al chiuso d’istituzioni blindate dai poteri forti e senza vere forme di partecipazione e condivisione. La Chiesa, invece, si è interrogata in profondità e dando voce a molti (tendenzialmente a tutti) su un tema, quello della famiglia, che tradizionalmente riveste un peso di grande rilevanza nella propria missione pastorale. E proprio in quanto processo reale di confronto tra sensibilità e posizioni diversificate, e non artificiosa e irreale rappresentazione mediatica, la riflessione condotta in àmbito ecclesiale ha sì aperto prospettive pastorali nuove e impensabili solo alcuni anni fa, ma ha anche manifestato la preoccupazione di consistenti componenti della comunità ecclesiale che vengano posti in discussione con leggerezza fondamentali temi del messaggio cristiano. Tuttavìa l’indicazione di fondo che appare emergere tanto dall’esperienza sinodale quanto dal magistero di Francesco, è quella che delinea una comunità ecclesiale “in uscita” capace di tenere “lo sguardo fisso” su Gesù Cristo. Quest’indicazione costituisce, a dir la verità, una sintesi mirabile della vocazione a cui siamo chiamati noi che abbiamo scelto di seguire Gesù, nei sentieri tortuosi della storia: “uscire” incontro all’umanità di oggi, avendo come bussola di orientamento Gesù maestro itinerante in Giudèa, Samarìa e Galilèa. Gesù, in effetti, nella sua missione concreta non ha esitato a entrare in relazione con prostitute, adùlteri, pubblicani e con persone appartenenti a gruppi sociali esclusi dal comune riconoscimento sociale dell’epoca, non ha esitato a elargir loro il perdono, a indicar loro la via della salvezza, a riconoscere in loro la presenza della fede. Di fronte a questo consolidato comportamento di Gesù nella sua missione terrena, siamo chiamati a lasciare le false sicurezze di valutazioni esteriori e “da lontano”, a “uscire” per incontrare l’umanità di oggi e a essere attenti “lettori dei segni dei tempi”, per comprendere quale sia la volontà del Signore “qui” e “oggi”. Su questa strada del confronto con le donne e gli uomini è pertanto di grande rilievo l’indicazione metodologica di papa Francesco («chi sono io per giudicare…»). Rifuggire dal giudicare gli altri, ma porsi nella posizione di chi serve («anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri») e indurli a una personale e autentica ricerca della verità («"chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei"… quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani»), nella consapevolezza che ciò che è decisivo è “l’amore” («questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi»).
Allora, di fronte a quella che oggi comunemente viene definita la “cultura gender”, mi sembra poco utile proclamare l’inviolabilità di diritti della famiglia e il rispetto della legge di natura, mentre appare più consono il porsi in ascolto autentico delle esperienze esistenziali delle persone e dei loro travaglî esistenziali. Siamo chiamati ad approfondire la distinzione (“distinzione”, non “separazione”) tra dato biologico e dato culturale. La cultura “gender” ci chiede di non restare ancorati alla distinzione sessuale sancita sul piano biologico, per comprendere la dimensione davvero reale degli orientamenti che si determinano nella sensibilità delle persone, e che possono non essere esattamente coincidenti con la distinzione biologica. Questi orientamenti divergenti dalla distinzione biologica uomo-donna, non sono allora, in sé, deformazioni dell’autentica realtà umana, né forme patologiche, né frutto di scelte sbagliate, di errori o condizionamenti psicologici. Sono condizioni e realtà autentiche in cui le persone sono chiamate a vivere. Condizioni di vita reali nelle quali queste donne e questi uomini, come tutti, sono chiamati da Gesù, maestro itinerante, a scegliere l’amore. Questo ci chiama a una riconsiderazione della nozione di “legge naturale”, che riveste un notevole peso nella riflessione teologica tradizionale, e ci stimola a ricomprendere nella realtà della “natura” anche il dato della “cultura”, che, a ben vedere, non è un elemento artificioso che si aggiunge a quello della “natura”, ma è in questa pienamente presente e operante. Una visione d’altronde già implicita nella tradizionalissima definizione dell’uomo quale “animale ragionevole”. In una riflessione limitata alla considerazione del solo rigido dato biologico questa definizione non avrebbe goduto di alcuna legittimazione.
Oggi, allora, ci troviamo di fronte alla richiesta di tante coppie che vivono la realtà di unioni di persone dello stesso sesso biologico che, nel chiedere il riconoscimento civile delle loro convivenze, dunque non chiedono altro che di poter vivere, nel riconoscimento sociale, i valori della dedizione all’altro, della fedeltà, della corresponsabilità reciproca, della genitorialità, ecc.. Ma questi, a ben guardare, non sono i valori autentici della famiglia? Allora ci troviamo in una realtà in cui c’è chi fuori dell’uscio, chiede di entrare e partecipare alla mensa, nella condivisione degli stessi valori. Ci sono dunque persone che riconoscono e anelano a incarnare gli stessi valori della famiglia.
L’unico atteggiamento sbagliato di fronte a quanti hanno fame di valori, è quello di dire “no” e di decretare la loro esclusione dal pasto fraterno, decretando che tanti non hanno diritto d’incarnare valori, il cui altissimo profilo etico è fuori discussione. Un tale atteggiamento difficilmente appare coerente con la dimensione universale dell’annuncio cristiano rivolto a tutti.
Piuttosto che contrapporre la famiglia ad altre forme di convivenza, è l’ora di prendere coscienza che i valori familiari, anche grazie alla testimonianza delle famiglie, hanno una singolare capacità di attrazione che finisce per coinvolgere e attrarre anche altre esperienze. E questo è decisamente un fatto di segno positivo. I valori della famiglia, nella loro autenticità, non sono allora dei privilegî riservati solo ad alcuni, ma sono una chiamata per tutti. La sfida di scegliere autenticamente la dedizione all’altro, la fedeltà, la corresponsabilità reciproca, la genitorialità, può essere proposta a tutti. Non importa quale sia il gradino di partenza, l’essenziale è scegliere il piede giusto di partenza. Anzi, a esser sinceri, forse chi si ritrova sul gradino più basso è oggetto di una particolare benevolenza da parte del Signore («così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi»). Qualunque sia la condizione di partenza, tutti abbiamo qualche risorsa da impegnare: ci sarà chi dispone di cinque talenti, chi di tre, chi solo di uno, o chi, come la povera vedova, solo di pochi spiccioli. L’errore può essere solo e unicamente quello di “sotterrare” queste risorse e queste capacità, piccole o grandi che esse siano. La sapienza autentica della comunità cristiana sarà quella di saper indicare alle donne e agli uomini del nostro tempo come impegnare e rischiare le loro risorse di dedizione e la loro capacità di amare, nella consapevolezza che nessuno è escluso dall’amore del Signore. Tutti, infatti, siamo stati invitati ad andare ai crocicchî delle strade, a chiamare alle nozze tutti quelli che troveremo, a raccoglierli tutti, “buoni e cattivi”, affinché la sala del convito nuziale possa riempirsi di commensali. L’unica condizione è il vestire l’abito nuziale, cioè scegliere di rispondere con autenticità e in coscienza alla chiamata di Gesù. In proposito appare giusto ricordare come Gesù stesso abbia ceduto ammirato all’insistenza profetica della donna cananea che gli chiedeva accorata di lasciare che i cagnolini potessero mangiare le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni.
Allora la sfida che ci troviamo dinanzi è quella di saper riconoscere la voce del Signore nell’appello all’“I care” che ci arriva dalle tante coppie di persone dello stesso sesso. Una luce che brilla a fronte del buio proposto dai tanti “me ne frego” dichiarati dalle società opulente dinanzi a tanti drammi: dalla “questione migranti” al “ debito greco”, dalla “questione ambientale” alla “pirateria finanziaria”, dal “traffico d’armi” al “terrorismo internazionale”.

Vico Equense, domenica 21 febbraio 2016
Sergio Sbragia

domenica 14 febbraio 2016

L’unica scelta sbagliata è la guerra



Dopo i recenti e orribili fatti di Parigi sono stato molto colpito dal tenore delle reazioni che questi tremendi eventi hanno prodotto nel mondo politico internazionale, europeo e italiano.

È fuor di dubbio che il massacro di tante vite innocenti provoca in tutti noi orrore e indignazione, oltre che un profondo dolore per le numerose vittime, tra le quali tantissimi giovani, colpiti in un momento di svago e distensione. È naturale di fronte a un così efferato crimine, ricercare le vie più efficaci per contrastare, porre in condizione di non nuocere e punire adeguatamente ed esemplarmente quanti hanno preordinato, organizzato e realizzato tali vili azioni.

Tuttavìa non posso non manifestare il mio dissenso rispetto a posizioni molto diffuse e abilmente amplificate dalla comunicazione mass-mediale di ampio raggio ed eterodiretta dai cosiddetti poteri forti, che, prendendo lo spunto dal giusto dolore per le vittime e per gli atti di violenza compiuti, vanno a delineare scenarî di guerra e di violenza, fomentando posizioni ispirate a sentimenti di vendetta e di rivalsa, che non sono altro che la riproposizione dell’antica legge del taglione.

Avverto una sostanziale delusione nel sentire capi di stato che, anziché mostrare lungimiranza e capacità adulta di governare il timone nel mare in tempesta, riescono solo a balbettare inconcludenti dichiarazioni con le quali si dichiara di essere “in stato di guerra”, e si delineano prospettive di reazione violenta e si gonfiano i muscoli. Il tutto mentre i mercanti di armi e di sistemi di “in-sicurezza” brindano aspettandosi incipienti lauti affari, cosa che mi fa fare un parallelo con eventi di alcuni anni fa. Ho infatti ancora molto vivido il ricordo delle notizie di stampa che, a suo tempo, riferirono come all’indomani del terremoto de L’Aquila, alcuni affaristi del settore dell’edilizia gioirono aspettandosi di poter lucrare dall’accaduto ottimi affari. Anche oggi credo che siano in atto manovre ispirate alla logica del mors tua, vita mea.

Non solo! In Italia abbiamo poi anche capi di partito che, in spregio alla gravità della situazione, non perdono l’occasione di tentare la via di un’apparentemente facile ricerca di consenso elettorale, giocando sulla comprensibile paura dei cittadini e istillando sentimenti di odio, di chiusura, di razzismo. E allora vengono proposte alleanze militari con potenze internazionali che in questi anni si sono caratterizzate per un comportamento ben lontano da una cultura democratica, sia sul piano della libertà di opinione e di vita dei proprî cittadini, sia su quello delle relazioni con i paesi confinanti, sia sullo stesso scenario Vicino Oriente, dove le missioni aeree effettuate nei mesi scorsi, spesso hanno colpito (per errore o per scelta?) obiettivi non riconducibili all’Isis. Un altro argomento molto abusato è quello di chiedere una decisa stretta all’accoglienza dei rifugiati e degli immigrati, sostenendo che attraverso i canali di transito dei rifugiati e degli immigrati possono essere utilizzati dall’Isis per infiltrare in occidente proprî agenti terroristici. Di qui le aperte e ripetute violazioni (ipocritamente derubricate in “sospensioni”) degli impegni e delle libere scelte operate e sottoscritte con il Trattato di Schengen. Il tutto in barba al principio base del diritto internazionale, che (grada caso) affonda le proprie radice nel più genuino diritto romano e può essere riassunto nell’icastica locuzione latina pacta sunt servanda.

Naturalmente queste posizioni possono apparire, a prima vista, del tutto giustificate dalla carica estrema violenta e inumana degli atti terroristici posti in essere e la sistematica loro riproposizione e ripetizione monocorde conferisce a esse un connotato di naturalità e ovvietà e un potere di convincimento del tutto artificioso ma purtroppo efficace, come ben sanno gli esperti di campagne pubblicitarie ripetitive, martellanti e costose per i consumatori.

A pensarci bene, però, a mio avviso, le cose stanno in maniera molto diversa.

Premetto che è mio fermo convincimento che l’idea democratica costituisce il più grande contributo che il mondo occidentale ha offerto e offre all’umanità intera. Si tratta di un patrimonio di umanità, di civiltà e di cultura di altissima rilevanza, che scommette sulla capacità del libero confronto delle idee e delle culture come la via maestra per garantire la pacifica e proficua convivenza dell’umanità. Un’idea che s’impone per la sua forza intrinseca di valorizzare le qualità più alte della persona umana e, alla lunga, è capace di aver ragione della prepotenza e della violenza, purché si abbia la perseveranza di testimoniarla con continuità e rigore etico.

Quando, invece, i paesi e i popoli di tradizione democratica ritengono di vedersi dalle circostanze o dall’azione violenta delle forze antidemocratiche costretti a “sospendere” la pratica democratica e a ricorrere a una sorta di “violenza giusta” per difendere la democrazia, in realtà cadono nel vicolo cieco di misconoscere i valori della democrazia e della libera e civile convivenza, e forse senza nemmeno esserne pienamente consapevoli, finiscono per riconoscere nei fatti che alla fin fine, al di là di ogni discorso di sani principî, quello che conta sono le ragioni della forza, della prepotenza e della violenza, dando così pienamente ragione alle forze che nella democrazia non credono e che, anzi, la democrazia apertamente combattono.

La forza della democrazia sta nella capacità di dare respiro ed espressione creativa alle più nobili capacità e potenzialità degli esseri umani. Per potersi dispiegare in pienezza nella sua positività la forza della democrazia deve tuttavìa potersi esprimere in una promozione a tutto campo delle relazioni tra gli uomini, i popoli e i paesi, senza barriere, muri e restrizioni, siano questi d’ordine materiale, giuridico o ideale. Scommettere senza riserve sulla capacità dell’umanità di dare sviluppo alla solidarietà e alla capacità di risolvere insieme i problemi della convivenza globale è una sfida che una sensibilità autenticamente democratica deve saper in ogni circostanza raccogliere. Quando di fronte a episodî e fatti gravissimi di efferata violenza, quanti si “dicono” democratici non sanno far di meglio che parlare di “guerra”, e anche di farla, ci troviamo di fatto dinanzi a un “rinnegamento” dell’idea democratica, che dichiara senza mezzi termini la vittoria della violenza e della prepotenza e la sconfitta della “ragione” e della “democrazia”. La democrazia non può essere “sospesa”.

Non mi sorprende di certo che forze politiche di tradizione nazionalista e localistica possano avventarsi con voluttà sull’opzione della strumentalizzazione della paura della cittadinanza per lucrare facile consenso. Onestamente, invece, sono molto sorpreso che un po’ in tutto il mondo occidentale le forze politiche storicamente più direttamente legate alla tradizione liberale, quella tradizione che vanta un secolare contributo all’affermazione dell’idea democratica, ripiegarsi sull’opzione di una prospettiva di soluzione “militare” del “problema terrorismo”, dimenticando che il “terrorismo” è prima di tutto un problema “ideale e culturale”, non risolvibile con le pallottole o con i muri e le recinzioni.

Ma al di là di queste ragioni di principio, che da sole, dovrebbero essere più che sufficienti a far rifiutare ogni ipotesi di rivalsa armata in reazione a fatti, per quanto efferati, di violenza, sussistono anche motivazioni pratiche e considerazioni di obiettiva valutazione della effettiva efficacia delle opzioni in chiave militare nello sventare i pericoli, senz’altro innegabili cui l’efferatezza terroristica senza dubbio ci espone.

Proprio la gravità del fenomeno terroristico e i realissimi pericoli cui il suo dilagare espone per la vita dei nostri paesi e dei nostri popoli, dovrebbe imporre a tutti noi di ricercare con accuratezza le vie autentiche di soluzione e di contrasto efficace del fenomeno, senza cedere a superficiali e improvvisate prospettive di rivalsa.

Penso che di fronte a un problema di tale gravità ci corre l’obbligo di ricercare la strada risolutiva di maggiore efficacia. Questa strada dal dibattito politico proposto sugli strumenti della grande comunicazione ci viene sbrigativamente indicata nella guerra. Leader politici e grandi comunicatori ci ripetono che “siamo in guerra” e che dobbiamo prenderne atto affilando le armi e scendendo in campo, con coalizioni internazionali e bombardamenti.

Se tuttavìa ci soffermiamo un po’ a riflettere, possiamo vedere che le cose stanno in modo un po’ diverso. Se ci facciamo caso, con la seconda guerra mondiale si è verificato un grande mutamento di paradigma sull’efficacia dello strumento “guerra”. Lungo i secoli e i millennî, a dir la verità, la guerra si è dimostrata, al di là del giusto e dell’ingiusto, come lo strumento privilegiato per far prevalere, con le ragioni della forza, una delle forze in conflitto. Con la guerra Alessandro il Macedone poté sottomettere l’intero oriente. E grazie alle guerre puniche, Roma poté aver ragione di Cartagine. E sempre con la guerra Carlo Magno diede avvio al Sacro Romano Impero, Carlo 5° costruì un regno sul quale non tramontava mai il sole, Napoleone distese il suo potere in tutta Europa, che i suoi avversari, sempre grazie alla guerra, riuscirono a loro volta ad abbattere. Lo stesso risorgimento italiano, grazie ad azioni belliche, è riuscito a costruire l’unità del paese. E, infine, con la guerra è stato possibile sconfiggere il nazismo.

Dopo la seconda guerra mondiale le cose sono però radicalmente cambiate. Lo strumento “guerra” ha perso la sua capacità di decretare “un vincitore” tra due parti in causa. Nessuna delle tante guerre che si sono combattute negli ultimi settant’anni, e che tutt’ora si combattono, ha avuto conclusione con un verdetto conclusivo e la determinazione di un nuovo corso, giusto o sbagliato che sia. Facciamo alcuni esempî per rendercene meglio conto. Israele ha mostrato in tantissime occasioni la propria indiscutibile superiorità militare, e tuttavìa, non riesce a chiudere a proprio favore il conflitto che la oppone ai Palestinesi. I russi hanno invaso l’Afghanistan, ma non sono riusciti a imporre in maniera decisiva il proprio potere su quel paese e alla fine hanno dovuto far ritirata. Lo stesso Vietnam è riuscito militarmente a resistere e a respingere l’occupazione americana, ma ha pagato il tutto con decennî d’isolamento, oscurantismo e dittatura, di cui solo in questi ultimi anni si stanno intravedendo bagliori di superamento. Gli Stati Uniti e i paesi occidentali si sono imbarcati in parecchie avventure belliche in Somalia, in Afghanistan, in Iraq. Avventure all’inizio spavaldamente intraprese con l’idea di far piazza pulita in quattro e quattr’otto degli avversarî. I risultati sono sotto gli occhî di tutti. La destabilizzazione sociale prodotta dall’intervento militare in Iraq ha contribuito almeno in parte a spianare la strada al Califfato Islamico nella sua avventura di costruirsi una propria consistenza territoriale. Eppure a suo tempo papa Giovanni Paolo 2° inviò alla Casa Bianca mons. Pio Laghi per scongiurare l’azione bellica. Il rappresentante pontificio fu accolto con sufficienza dall’allora presidente USA e dai suoi generali, che si vantarono di essere in condizione di sbrigare rapidamente la pratica Saddam. Il tempo oggi ci dà la possibilità di valutare meglio da quale parte fosse allora “la saggezza” e dove allocasse,  invece, “l’irresponsabilità”. E gli esempî potrebbero continuare a lungo.

Per contro in tanti contesti laddove sono stati conseguiti risultati di progresso e sviluppo civile e sociale o sono state risolte controversie in forma efficace, i processi si sono svolti evitando il ricorso alle armi o limitandolo drasticamente. Sono tantissimi gli esempî che si possono portare in merito, come il superamento in forma pacifica di tanti regimi dittatoriali (in Europa, in sud America, nelle Filippine) o il superamento della crisi di Cuba tra Stati Uniti e Unione Sovietica, quando in piena guerra fredda, si ebbe la capacità di anteporre la ragione alle armi. Lo stesso crollo del comunismo nell’Europa orientale è stato in gran parte un processo che ha evitato il ricorso al sangue e grazie a ciò i paesi interessati, pur nelle difficoltà e nelle ingiustizie patite, hanno potuto evitare più pesanti sofferenze e tragedie. Laddove invece questo processo si è svolto in forma bellica (paesi balcanici) il conto è stato decisamente diverso e più duro. In Sud Africa è stato possibile superare il regime di Apartheid senza bagni di sangue. L’India ha potuto affrancarsi dal potere coloniale grazie alla pratica gandhiana della non-violenza. E gli esempî potrebbero proseguire a lungo.

Ma anche la nostra spesso vituperata e sottovalutata Italia, pur tra le tante contraddizioni della nostra storia repubblicana, può vantare un sia pur piccolo risultato positivo. Oggi in pochi ricordano la vicenda del Terrorismo Altoatesino con cui nel nostro paese si dovette fare i conti negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Ebbene in quegli anni la tanto vituperata “Politica italiana” (alla quale è giusto riconoscere, per la vicenda, la “P” maiuscola), seppe trovare le vie democratiche, affinché nelle terre del Sud Tirolo, non si determinassero le condizioni ideali per la costruzione di un consenso popolare di massa alla scelta terroristica. Per altri contesti europei (Paese Basco, Catalogna, Nord Irlanda) non si può parlare di risultati del tutto analoghi.

Quanto al terrorismo di pretesa matrice islamista, diverse sono le condizioni e le dimensioni del fenomeno, ma la strada da seguire è sostanzialmente la stessa: operare affinché la proposta terroristica non trovi consenso di massa tra le centinaia di milioni di fedeli islamici.

Non illudiamoci! I registi e i finanziatori degli atti di terrorismo puntano proprio a fare paura e a determinare reazioni ispirate alla rivalsa, alla guerra, alla contrapposizione anti-islamica e al rifiuto dell’accoglienza degli immigrati. Sarebbero stupidi se ignorassero la possibilità di reazioni di tal tipo. Ma questi signori sono tutt’altro che stupidi. Di fronte agli atti di terrorismo, invocare misure di rivalsa militare e di chiusura delle frontiere significa non solo arrendersi, ma divenire nella sostanza delle cose complici e sostenitori “di fatto” del terrorismo.

Il terrorismo, invece, si combatte impegnandosi nella tessitura instancabile delle relazioni pacifiche e garanzia della libera circolazione delle persone e delle idee. Tra i milioni e milioni di fedeli islamici ci sono tanti uomini e donne, che vivono di lavoro e d’impegno, che hanno genio personale e disponibilità al confronto e al dialogo. È dialogando con loro che si taglia l’erba sotto i piedi dei terroristi!



Vico Equense, domenica 14 febbraio 2016

Sergio Sbragia