venerdì 14 febbraio 2014

Tre iniziative imminenti



Tre iniziative imminenti

1. in primo luogo ricordo il Convegno
«Il Vangelo è annunciato ai poveri : con Francesco nelle periferie dell’esistenza»,
6° incontro nazionale de “Il Vangelo che abbiamo ricevuto : Uno spazio libero di comunione, confronto e ricerca sinodale”,
che si svolgerà a Napoli il 1° -2 marzo 2014,
presso la “Casa Sant’Ignazio”, Villa Cangiani, viale Sant’Ignazio di Loyola n. 51.

Sul sito www.statusecclesiae.net è possibile leggere il programma dei lavori e le modalità di partecipazione.
Sono altresì disponibili i contributi di approfondimento di gruppi e di singoli e i documenti preparatori dei lavori.
Lo  stile di lavoro de “Il Vangelo che abbiamo ricevuto” ha carattere sinodale, pertanto la preparazione agli incontri vede il confluire di contributi di gruppi e singoli interessati e un lavoro di paziente sintesi delle riflessioni pervenute operata dal gruppo promotore. 
 
2. Il secondo evento che è giusto segnalare è il Convegno nazionale
«L’impossibile fine del politeismo»
promosso da «Biblia : Associazione laica di cultura biblica»,
che si svolgerà a Monte Sant’Angelo, Foggia, dal 3 al 6 aprile 2014

Informazioni dettagliate sul sito: http://www.biblia.org/

3. Infine vi anticipo che dal 30 giugno al 4 luglio 2014, a Caserta si svolgerà la 18a Settimana biblica nazionale sul tema
«Il libro dell’Apocalisse»

Informazioni più dettagliate sul sito: www.centroapostolatobiblicocaserta.it

domenica 9 febbraio 2014

L’uso del genere letterario dell’“autoelogio”

 L’uso del genere letterario dell’“autoelogio”
In merito alla cattura di Domenico Cutrì, avvenuta questa notte, oggi nel Tg2 delle 13:00 è andata in onda una dichiarazione del nostro ministro degli interni “a part-time”, sig. Angelino Alfano, che si è pubblicamente autocompiaciuto, attribuendo alla propria opera, la felice conclusione dell’operazione di polizia. Molti dei nostri politici sono velocissimi nell’attribuirsi meriti veri o presunti. Peccato che solo qualche mese fa il sig. Alfano abbia con “nonchalance” scaricato sulla struttura del Ministero tutte le responsabilità sullo sfortunato caso della sig.ra Alma Shalabayeva. In quel caso il sig. Alfano era, stranamente, all’oscuro di tutto. Noi cittadini, però, abbiamo “memoria” dei fatti e delle cose.

sabato 8 febbraio 2014

3. PILLOLE DI TEOLOGIA DELLE RELIGIONI: L’ENCICLICA "ECCLESIAM SUAM" – Prima parte



1.    Presentazione e significato teologico del “dialogo”.


Come abbiamo visto in un precedente contributo ( http://sergiosbragia.blogspot.it/2014/01/2-pillole-di-teologia-delle-religioni.html ) la Dichiarazione Nostra aetate ha evidenziato con decisione la funzione essenziale rivestita dal dialogo inter-religioso nella promozione nelle relazioni con le altre tradizioni religiose di nuove prospettive più aderenti all’autenticità del messaggio evangelico. Nello stesso torno di tempo, circa un anno prima dell’approvazione della Dichiarazione Nostra aetate, proprio al tema del dialogo e del suo significato ecclesiale, papa Paolo 6° ha dedicato un documento di notevole valore sul piano dello sforzo di discernimento e comprensione dei caratteri della missione della Chiesa nel mondo contemporaneo.


«La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» [Es. 67].


Nell’Ecclesiam suam, papa Paolo 6° constata come nell’epoca contemporanea la Chiesa abbia preso coscienza della necessità di costruire le condizioni per entrare in un costruttivo dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. Questa necessità è sintetizzata dal pontefice con grande enfasi nell’espressione densa di contenuto programmatico in cui sottolinea con forza: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (Es. 67).


«Questo capitale aspetto della vita odierna della Chiesa sarà oggetto di speciale ed ampio studio da parte del Concilio Ecumenico, come è noto; e Noi non vogliamo entrare nell'esame concreto dei temi che tale studio si propone per lasciare ai Padri del Concilio il compito di trattarli liberamente. Noi vogliamo soltanto invitarvi, Venerabili Fratelli, a premettere a tale studio alcune considerazioni, affinché ci siano più chiari i motivi che spingono la Chiesa al dialogo, più chiari i metodi da seguire, più chiari i fini da conseguire. Vogliamo disporre gli animi, non trattare le cose» [Es. 68].


Papa Paolo 6° si pone in relazione con i contemporanei lavori conciliari, impegnati ad affrontare i temi più rilevanti e scottanti su cui la Chiesa era allora, ed è oggi, chiamata a entrare in dialogo con il mondo. Egli sceglie tuttavia di non entrare nel merito delle questioni che saranno di lì a poco oggetto dell’attenzione dei padri del Concilio. Si ritaglia, invece, uno spazio di riflessione intorno alla natura più autentica della realtà del dialogo, sui motivi di fondo che chiamano la Chiesa al dialogo, sui metodi da seguire, sui fini da raggiungere. La prospettiva è meravigliosamente riassunta nell’icastica espressione: «Vogliamo disporre gli animi, non trattare le cose» (Es. 68). L’intento è chiaro: porsi in un atteggiamento di servizio, indicare la strada sulle motivazioni che inducono a porsi in dialogo con il mondo e sul modo migliore per realizzarlo, piuttosto che intervenire sui temi specifici oggetto di dialogo, che saranno affrontati dall’Assemblea Conciliare.


«Né possiamo fare altrimenti, nella convinzione che il dialogo debba caratterizzare il Nostro ufficio Apostolico, eredi come siamo d'un tale stile, d'un tale indirizzo pastorale che Ci è tramandato dai Nostri Predecessori dell'ultimo secolo, a partire dal grande e sapiente Leone 13°, il quale, quasi impersonando la figura evangelica dello scriba sapiente ...che come un padre di famiglia cava dal suo tesoro cose antiche e cose nuove (Mt. 13,52)[1], riprendeva maestosamente l'esercizio del magistero cattolico facendo oggetto del suo ricchissimo insegnamento i problemi del nostro tempo considerati alla luce della parola di Cristo. Così i suoi successori, come sapete» [Es. 69].


Nel dare avvio alle riflessioni sul tema, Paolo 6° pone la chiamata al “dialogo” nel solco dell’indirizzo pastorale già delineato dai suoi predecessori, a partire da Leone 13° che, immedesimandosi nella figura evangelica dello “scriba sapiente”, che, come un padre di famiglia, recupera dal proprio tesoro cose antiche e cose nuove (cf Mt. 13,52), rilanciava con passione la tradizione del magistero pastorale, proponendo un ricchissimo insegnamento sui problemi del nostro tempo, considerandoli alla luce della cultura e della sensibilità degli uomini contemporanei.


«Non ci lasciarono i Nostri Predecessori, specialmente Pio 11° e Pio 12°, un patrimonio magnifico e amplissimo di dottrina, concepita nell'amoroso e sapiente tentativo di congiungere il pensiero divino al pensiero umano, non astrattamente considerato, ma concretamente espresso nel linguaggio dell'uomo moderno? E che cos'è questo apostolico tentativo se non un dialogo? E non diede Giovanni 23°, Nostro immediato Predecessore di venerata memoria, un'accentuazione anche più marcata al suo insegnamento nel senso di accostarlo quanto più possibile all'esperienza e alla comprensione del mondo contemporaneo? Al Concilio stesso non s'è voluto dare, e giustamente, uno scopo pastorale, tutto rivolto all'inserimento del messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, di parole, di cultura, di costume, di tendenze dell'umanità, quale oggi vive e si agita sulla faccia della terra? Ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna accostarlo e parlargli» [Es. 70].


Analogamente i suoi successori, in particolare Pio 11° e Pio 12°, hanno lasciato testimonianza di un contributo ricchissimo di riflessione e d’insegnamento, frutto di un amoroso e sapiente tentativo di congiungere il pensiero divino a quello umano, non in forma astratta e disincarnata, ma espresso concretamente nel linguaggio dell’umanità di oggi. Questo sforzo magistrale di riflessione pastorale riveste, in fondo, già i connotati di un vero ‘e proprio “dialogo”. Successivamente anche Giovanni 23° ha conferito al suo insegnamento un’accentuazione più marcata, nello sforzo di accostarlo quanto più possibile all’esperienza e alla comprensione del mondo contemporaneo. Lo stesso Concilio ha avuto, per precisa scelta operata all’atto della sua convocazione, una finalità eminentemente pastorale, intesa a porre il messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, parole, cultura, costume e tendenze dell’umanità odierna. È, infatti, evidente che, per presentare al mondo l’annuncio cristiano al fine della conversione, è necessario prima entrare in relazione con il mondo e riuscire a parlargli.


«Per quanto riguarda l'umile Nostra persona, sebbene alieni di parlarne e desiderosi di non attirare su di essa l'altrui attenzione, non possiamo, in questa Nostra intenzionale presentazione al collegio episcopale e al popolo cristiano, tacere il Nostro proposito di perseverare, per quanto le nostre deboli forze ce lo concederanno e, soprattutto, la divina grazia Ci darà modo di farlo, nella medesima linea, nel medesimo sforzo di avvicinare il mondo, nel quale la Provvidenza Ci ha destinati a vivere, con ogni riverenza, con ogni premura, con ogni amore, per comprenderlo, per offrirgli i doni di verità e di grazia di cui Cristo ci ha resi depositari, per comunicargli la nostra meravigliosa sorte di Redenzione e di speranza. Sono profondamente scolpite nel Nostro spirito le parole di Cristo, di cui umilmente, ma tenacemente, ci vorremmo appropriare: Dio non mandò il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché sia salvato per mezzo di lui (cf Gv. 3,17)[2]» [Es. 71].


Paolo 6° esprime poi la propria volontà di perseverare nel medesimo sforzo di avvicinare il mondo con amore e premura, per comprenderlo e offrirgli i doni di verità e grazia, che Cristo ha donato alla Chiesa, affinché questa possa condividere con il mondo l’esperienza della redenzione e della speranza. Questo nella profonda convinzione che «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv. 3,17).


«Ecco, Venerabili Fratelli, l'origine trascendente del dialogo. Essa si trova nell'intenzione stessa di Dio. La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l'uomo. La preghiera esprime a dialogo tale rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l'iniziativa di instaurare con la umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell'Incarnazione e quindi nel Vangelo. Il colloquio paterno e santo, interrotto tra Dio e l'uomo a causa del peccato originale, è meravigliosamente ripreso nel corso della storia. La storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l'uomo varia e mirabile conversazione. È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini (cf Bar. 3,38)[3], che Dio lascia capire qualche cosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima nell'essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto; Amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è il nostro comandamento supremo. Il dialogo si fa pieno e confidente; il fanciullo vi è invitato, il mistico vi si esaurisce» [Es. 72].


Paolo 6° pone poi in evidenza come il dialogo abbia in realtà un’origine trascendente, rintracciabile in definitiva nella stessa intenzione di Dio.

L’esperienza religiosa, per sua natura, si estrinseca in un rapporto tra Dio e l’uomo. La stessa preghiera esprime tale rapporto proprio attraverso una modalità dialogica. Ma anche la stessa rivelazione, cioè quell’evento che Dio stesso ha preso l’iniziativa di avviare nei confronti dell’umanità, può essere compresa come un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si manifesta attraverso l’incarnazione e l’annuncio del Vangelo. Il paterno dialogo originario tra Dio e l’uomo, interrotto a causa del peccato, è ripreso nel corso della storia. La storia della salvezza è difatti il racconto di questo lungo e diversificato dialogo che parte da Dio, che intavola con l’uomo una meravigliosa e multiforme conversazione. Attraverso questo dialogo di Gesù fra gli uomini (cf Bar. 3,38), Dio lascia capire qualcosa di sé, del mistero della sua vita, assolutamente unica nell’essenza, trinitaria nelle Persone, ma soprattutto manifesta come vuole essere conosciuto. Egli è Amore, e vuole che la nostra relazione con lui sia espressa nel comandamento fondamentale dell’amore. Nell’amore il dialogo si fa pieno e confidente. A questo dialogo siamo invitati, un dialogo nel quale i mistici vivono l’esperienza del pieno affidamento nelle braccia del Padre.


«Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, per comprendere quale rapporto noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare d'instaurare e di promuovere con l'umanità» [Es. 73].


È necessario aver sempre presente il carattere di questo rapporto dialogico, stabilito con noi da Dio Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo, onde poter comprendere quale rapporto la comunità ecclesiale deve cercare di costruire e promuovere con l’umanità.  


«Il dialogo della salvezza fu aperto spontaneamente dalla iniziativa divina: Egli (Dio) per primo ci ha amati: (1Gv. 4,10) toccherà a noi prendere l'iniziativa per estendere agli uomini il dialogo stesso, senza attendere d'essere chiamati» [Es. 74].


Così come il dialogo della salvezza è stato aperto grazie all’iniziativa divina («In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» – 1Gv. 4,10), allo stesso modo siamo noi cristiani a dover assumere l’iniziativa per allargare il dialogo agli altri uomini.


«Il dialogo della salvezza partì dalla carità, dalla bontà divina: Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo unigenito (Gv. 3,16), non altro che amore fervente e disinteressato dovrà muovere il nostro» [Es. 75].


Il dialogo della salvezza affonda poi le proprie radici nella carità, nella bontà divina («Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» – Gv. 3,16). Allo stesso modo l’amore fraterno e disinteressato deve muovere la nostra iniziativa dialogica nei confronti del mondo.


«Il dialogo della salvezza non si commisurò ai meriti di coloro a cui era rivolto, e nemmeno ai risultati che avrebbe conseguito o che sarebbero mancati; non hanno bisogno del medico i sani (Lc. 5,31), anche il nostro dev'essere senza limiti e senza calcoli» [Es. 76].


L’iniziativa di Dio nel proporre agli uomini il dialogo della salvezza non ebbe a dimensionarsi sui meriti di coloro ai quali era rivolta e nemmeno ai risultati che avrebbero conseguito («Gesù rispose loro: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati "» – Lc. 5,31). Senza limiti e senza calcoli dev’essere anche la nostra iniziativa di dialogo.


«Il dialogo della salvezza non obbligò fisicamente alcuno ad accoglierlo; fu una formidabile domanda d'amore, la quale, se costituì una tremenda responsabilità in coloro a cui fu rivolta (cf Mt. 11,21), li lasciò tuttavia liberi di corrispondervi o di rifiutarla, adattando perfino la quantità dei segni (cf Mt. 12,38ss.) alle esigenze e alle disposizioni spirituali dei suoi uditori e la forza probativa dei segni medesimi (cf Mt. 13,13ss.), affinché fosse agli uditori stessi facilitato il libero consenso alla divina rivelazione, senza tuttavia perdere il merito di tale consenso. Così la Nostra missione, anche se è annuncio di verità indiscutibile e di salute necessaria, non si presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell'umana educazione, dell'interiore persuasione, della comune conversazione offrirà il suo dono di salvezza, sempre nel rispetto della libertà personale e civile» [Es. 77].


Il dialogo della salvezza è stato condotto senza obbligare fisicamente nessuno ad aderirvi. È stata una grande proposta indirizzata agli uomini e ispirata  dall’amore che, se ha rappresentato una tremenda responsabilità per coloro a cui è stata rivolta (cf Mt. 11,21)[4], ma in ogni caso tutti i destinatarî sono sempre stati  lasciati liberi di aderire o meno alla chiamata, addirittura la quantità dei segni è stata adattata alle esigenze degli uditori stessi (cf Mt. 12,38-42 e 13,13-17)[5].

Allo stesso modo la nostra proposta di dialogo, anche se annuncio autentico di verità e di salvezza, evita i sentieri della coercizione e percorre gli itinerarî dell’umana educazione, della persuasione interiore, della comune conversazione, sempre nel rispetto della libertà personale e civile.


«Il dialogo della salvezza fu reso possibile a tutti; a tutti senza discriminazione alcuna destinato (cf Col. 3,11); il nostro parimenti dev'essere potenzialmente universale, cattolico cioè e capace di annodarsi con ognuno, salvo che l'uomo assolutamente non lo respinga o insinceramente finga di accoglierlo» [Es. 78].


Il dialogo della salvezza è stato reso accessibile tutti, senza discriminazione alcuna, così come evidenziato da Col. 3,11 («Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti»). Allo stesso modo anche la nostra proposta di dialogo dev’essere potenzialmente rivolta a tutti.


«Il dialogo della salvezza ha conosciuto normalmente delle gradualità, degli svolgimenti successivi (cf Mt. 13,31-32), degli umili inizi prima del pieno successo; anche il nostro avrà riguardo alle lentezze della maturazione psicologica e storica e all'attesa dell'ora in cui Dio lo renda efficace. Non per questo il nostro dialogo rimanderà al domani ciò che oggi può compiere; esso deve avere l'ansia dell'ora opportuna e il senso della preziosità del tempo (cf Ef. 5, 15-17). Oggi, cioè ogni giorno, deve ricominciare; e da noi prima che da coloro a cui è rivolto» [Es. 79].


Il dialogo della salvezza ha conosciuto, come l’evangelico granello di senape di Mt. 13,31-32[6], uno sviluppo graduale da umili inizî sino alla piena manifestazione. Così anche l’odierno dialogo con il mondo deve aver riguardo degli umani tempi di maturazione psicologica e storica nell’attesa dell’attesa dell’ora nota solo a Dio della sua efficacia. È pertanto essenziale prestare molta attenzione al modo di condurre il dialogo, operando con saggezza, facendo buon uso del tempo e ricercando con costanza di comprendere qual è la volontà del Signore (Ef. 5,15-17)[7].


«Com'è chiaro, i rapporti fra la Chiesa ed il mondo possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente parlando, la Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di sequestrare se stessa dal commercio della società profana; come potrebbe proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatemitizzandoli e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di esercitarvi un dominio teocratico; e così via. Sembra a Noi invece che il rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma adattato all'indole dell'interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è infatti il dialogo con un fanciullo ed altro con un adulto; altro con un credente ed altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall'abitudine ormai diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni, nonché dalla maturità dell'uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile dall'educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo» [Es. 80].


I rapporti tra la Chiesa e il mondo potrebbero essere ispirati a una pluralità di modelli. Un primo modello potrebbe tendere a ridurre al minimo i rapporti con il mondo, perseguendo l’obiettivo di un radicale isolamento della comunità ecclesiale dal mondo. Un secondo modello potrebbe configurarsi nella ricerca dei mali presenti nella società contemporanea, per colpirli con specifici anatèmi e promuovere crociate contro di essi. Una terza prospettiva potrebbe essere quella di avvicinarsi alla società profana allo scopo di esercitarvi un influsso preponderante di carattere teocratico. Rispetto a questi modelli appare del tutto preferibile un rapporto con il mondo ispirato al dialogo e adattato all’indole dell’interlocutore e delle circostanze di fatto. La scelta preferenziale per il modello di relazioni dialogiche con il mondo è ispirata dall’ormai diffusa abitudine di concepire in tal modo i rapporti tra il sacro e il profano; dal dinamismo trasformatore della società moderna; dal pluralismo delle sue manifestazioni; e, non ultimo, dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non religioso, reso abile dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità in un clima autentico di dialogo.


«Questa forma di rapporto indica un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura; esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità d'inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la conversione dell'interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena comunione di sentimenti e di convinzioni» [Es. 81].


Un dialogo autentico richiede un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo istaura. Vanno quindi escluse la condanna aprioristica, la polemica offensiva, la comunicazione vuota. Il dialogo non può proporsi naturalmente la conversione immediata dell’interlocutore, in quanto ne rispetta la libertà e la dignità, si propone  tuttavia il suo vantaggio e tende a disporlo a una più piena comunione di sentimenti e convinzioni.


«Suppone pertanto il dialogo uno stato d'animo in noi, che intendiamo introdurre e alimentare con quanti ci circondano: lo stato d'animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell'umano discorso» [Es. 82].


La pratica del dialogo presuppone nei cristiani la consapevolezza del mandato apostolico, che induce a non separare la ricerca della propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, e chiede di ricercare quotidianamente le vie per rendere presente il messaggio di fede nella circolazione dell’umano discorso.


«Il colloquio è perciò un modo d'esercitare la missione apostolica; è un'arte di spirituale comunicazione. Suoi caratteri sono i seguenti. La chiarezza innanzi tutto; il dialogo suppone ed esige comprensibilità, è un travaso di pensiero, è un invito all'esercizio delle superiori facoltà dell'uomo; basterebbe questo suo titolo per classificarlo fra i fenomeni migliori dell'attività e della cultura umana; e basta questa sua iniziale esigenza per sollecitare la nostra premura apostolica a rivedere ogni forma del nostro linguaggio: se comprensibile, se popolare, se eletto. Altro carattere è poi la mitezza, quella che Cristo ci propose d'imparare da Lui stesso: Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore (Mt. 11,29); il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per la verità che espone, per la carità che diffonde, per l'esempio che propone; non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è paziente; è generoso. La fiducia, tanto nella virtù della parola propria, quanto nell'attitudine ad accoglierla da parte dell'interlocutore: promuove la confidenza e l'amicizia; intreccia gli spiriti in una mutua adesione ad un Bene, che esclude ogni scopo egoistico» [Es. 83].


Il dialogo, che il documento in questa fase denomina con il termine più intimo e più relazionale di “colloquio”, è riconosciuto dunque come una modalità in cui si esplica la missione apostolica, una vera ‘e propria arte di comunicazione spirituale. I cui caratteri è opportuno siano i seguenti:

- La chiarezza: essendo una reciproca comunicazione di pensiero, nel dialogo è essenziale la comprensibilità. In quanto tale è un invito alle superiori facoltà dell’uomo e può essere annoverato tra i fenomeni migliori e più elevati dell’attività e della cultura umana. È dunque fondamentale aver cura del linguaggio utilizzato, verificando con rigore se è comprensibile, se è “popolare” (nel senso se è conforme alle forme della comunicazione umana oggi diffuse e praticate), se è “eletto” (cioè se è adatto a illustrare i temi spirituali oggetto del dialogo).

- La mitezza: è questo un carattere che Gesù ci ha additato con la sua parola ed esemplato con i suoi atti: «Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore» (Mt. 11,29). Il dialogo, dunque, non dev’essere orgoglioso, né pungente, né offensivo. La sua autorevolezza si fonda sulla ricerca di veridicità che conduce nelle proprie argomentazioni, per lo spirito di carità che promana dalle iniziative dialogiche che si realizzano, dall’esempio concreto che si pone in atto, rifuggendo da ogni spirito di comando o imposizione. Il dialogo, per sua natura, è pacifico, evita la violenza, è paziente, è generoso. In questo ripetuto e insistito elogio del dialogo, in qualche modo riecheggia, lo stile e la modalità espositiva dell’Inno alla carità di 1Cor. 13,4-7:


«La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor. 13,4-7).


- La fiducia: il dialogo si fonda sia sulla fiducia della propria ricerca spirituale e sulla capacità di esporla con autenticità, sia sull’attitudine di accogliere una parola autentica. Il dialogo promuove così la confidenza, la stima e l’amicizia tra gli interlocutori, favorisce il reciproco coinvolgimento verso il valore del Bene, ed esclude ogni finalità egoistica.


«La prudenza pedagogica infine, la quale fa grande conto delle condizioni psicologiche e morali di chi ascolta (Mt. 7,6): se bambino, se incolto, se impreparato, se diffidente, se ostile; e si studia di conoscere la sensibilità di lui, e di modificare, ragionevolmente, se stesso e le forme della propria presentazione per non essergli ingrato e incomprensibile» [Es. 84].


- La prudenza pedagogica. Il dialogo deve prestare grande attenzione alle condizioni psicologiche e morali dei proprî interlocutori (cf Mt. 7,6). È importante ap3operare, con ragionevolezza, per evitare incomprensioni o rotture ingiustificate. A questo proposito mi sembra opportuno richiamare come anche alla luce delle esigenze di prudenza, poste qui in evidenza, emerga l’inadeguatezza in un àmbito di teologia delle religioni di un’impostazione di taglio apologetico (cf http://sergiosbragia.blogspot.it/search?updated-min=2013-01-01T00:00:00-08:00&updated-max=2014-01-01T00:00:00-08:00&max-results=28 ).


«Nel dialogo, così condotto, si realizza l'unione della verità con la carità, dell'intelligenza con l'amore» [Es. 85].


All’interno di una relazione dialogica condotta con chiarezza, con mitezza, con fiducia e con prudenza pedagogica, si creano, a giudizio della Ecclesiam suam, le condizioni per l’incontro tra la verità e la carità. Appare, infatti, proprio questo il terreno più propizio dove si può realizzare la meravigliosa sintesi tra un’appassionata ricerca sul piano spirituale e razionale dei punti comuni e la sperimentazione di relazioni umane e fraterne ispirate all’amore vicendevole.


«Nel dialogo si scopre come diverse sono le vie che conducono alla luce della fede, e come sia possibile farle convergere allo stesso fine. Anche se divergenti, possono diventare complementari, spingendo il nostro ragionamento fuori dei sentieri comuni e obbligandolo ad approfondire le sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo esercizio di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle opinioni altrui, ci obbligherà ad esprimere con grande lealtà il nostro insegnamento e ci darà merito per la fatica d'averlo esposto all'altrui obiezione, all'altrui lenta assimilazione. Ci farà sapienti, ci farà maestri» [Es. 86].


Attraverso il dialogo, secondo l’Ecclesiam suam, è possibile anche scoprire come possono essere molteplici le strade che possono condurre alla fede, e come sia in realtà possibile  operare per farle convergere allo stesso fine. Posizioni divergenti, possono divenire complementari, se si ha il coraggio di spingere la riflessione al di fuori dei terreni consueti, se si avverte il dovere di approfondire la nostra ricerca, di ripensare e di rinnovare le nostre espressioni. L’esercizio di questo sforzo di approfondimento del pensiero e la pratica di una paziente disponibilità ci potrà portare a scoprire elementi di verità nelle posizioni e nelle esperienze degli altri, ci pone di fronte al dovere d’esprimere con lealtà l’insegnamento cristiano, proponendolo certo all’altri obiezione, ma anche all’altrui apprezzamento. È questo l’itinerario sul quale i rispettivi interlocutori di un’iniziativa dialogica maturano in sapienza, divenendo (in prospettiva) “maestri”.


«E quale è la sua forma di esplicazione?» [Es. 87].


Il Santo Padre, Paolo 6°, a questo punto si chiede, con solennità (dedicando all’interrogativo un paragrafo specifico), quali possano essere le forme concrete di conduzione del dialogo.


«Oh! molteplici sono le forme del dialogo della salvezza. Esso obbedisce a esigenze sperimentali, sceglie i mezzi propizi, non si lega a vani apriorismi, non si fissa in espressioni immobili, quando queste avessero perduto virtù di parlare e di muovere gli uomini» [Es. 88].


Le modalità concrete di conduzione del dialogo potranno, in effetti, essere molteplici. Su questo 
terreno appare tuttavia opportuno tanto evitare apriorismi quanto adoperarsi per sfuggire ai rischî connessi al restare ancorati a formulazioni che abbiano mostrato di aver perso la capacità di muovere gli animi e d’interrogarli in profondità. Il dialogo dev’infatti rispondere a concrete esigenze esistenzialmente sperimentabili e scegliere i mezzi e gli strumenti più propizî.

«Qui si pone una grande questione, quella dell'aderenza della missione della Chiesa alla vita degli uomini in un dato tempo, in un dato luogo, in una data cultura, in una data situazione sociale» [Es. 89].

L’Ecclesiam suam affronta allora pienamente la grande questione dell’aderenza della missione della Chiesa alla vita degli uomini in una data epoca, in un dato luogo, in una data cultura, in una data situazione sociale. Il problema è quello di come avvicinare i fratelli restando nell’interezza della verità.


«Fino a quale grado la Chiesa deve uniformarsi alle circostanze storiche e locali in cui svolge la sua missione? Come deve premunirsi dal pericolo d'un relativismo che intacchi la sua fedeltà dogmatica e morale? Ma come insieme farsi idonea a tutti avvicinare per tutti salvare, secondo l'esempio dell'Apostolo: Mi son fatto tutto a tutti, perché tutti io salvi (1Cor. 9,22)? Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegî, o diaframma di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto, quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell'uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell'atto stesso che vogliamo essere loro pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l'amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l'esempio e il precetto che Cristo ci lasciò (cf Gv. 13,14-17)» [Es. 90].


Fino a che punto la Chiesa e i cristiani possono uniformarsi alle circostanze storiche e locali? Com’è possibile non cadere in una forma di relativismo, che può potenzialmente intaccare la fedeltà dogmatica e morale? Come in concreto rendersi idonei a tutti, avvicinare tutti, interloquire con tutti, per poter offrire la salvezza a tutti, secondo l’esempio di Paolo («mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno»: 1Cor. 9,22). Non si salva il mondo dal di fuori, seguendo l’esempio del Verbo di Dio che si è fatto uomo, è necessario “incarnarsi” nelle forme di vita  di coloro ai quali si vuol portare il messaggio di Cristo. È quindi necessario e opportuno, per quanto possibile e senza frapporre distanza di privilegî o di forme di linguaggio, condividere il comune costume, purché umano e onesto, soprattutto quello dei più piccoli. È opportuno anteporre l’ascolto alla parola: ascoltare la voce, ma soprattutto il cuore dell’uomo, rispettarlo, e, per quanto possibile assecondarlo. Bisogna farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso in cui vogliamo presentar loro il messaggio cristiano. Dobbiamo ricordare che il clima del dialogo è l’amicizia, anzi il servizio. Tutto ciò dobbiamo ricordare e cercare il più possibile di porre in atto, secondo l’esempio e la precisa indicazione che Gesù ci ha lasciato: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv. 13,14-17).

Fin qui l’enciclica ha esposto, in forma davvero alta e inedita, i principî di fondo del dialogo, la sua profonda fondazione evangelica, l’essenzialità della sua pratica per la missione della Chiesa, gli elementi metodologici di fondo. Nei paragrafi successivi (91-114), papa Paolo 6° passa ad analizzare in forma chiara ed esauriente gli aspetti descrittivi che la pratica del dialogo comporta.

(Fine 1a parte - segue )


Vico Equense, sabato 8 febbraio 2014





[1] – «Ed egli disse loro: "Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche"» (Mt. 13,52).
[2] – «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv. 3,17).
[3] – «Per questo [la sapienza] è apparsa sulla terra / e ha vissuto fra gli uomini» (Bar. 3,38).
[4] – «"Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite» (Mt. 11,21).
[5] – «Allora alcuni scribi e farisei gli dissero: "Maestro, da te vogliamo vedere un segno". Ed egli rispose loro: "Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. Nel giorno del giudizio, quelli di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona! Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si alzerà contro questa generazione e la condannerà, perché ella venne dagli estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Salomone!» (Mt. 12,38-42).
«Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, / guarderete, sì, ma non vedrete. / Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, / sono diventati duri di orecchî / e hanno chiuso gli occhî, / perché non vedano con gli occhî, / non ascoltino con gli orecchî / e non comprendano con il cuore / e non si convertano e io li guarisca! / Beati invece i vostri occhî perché vedono e i vostri orecchî perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!» (Mt. 13,13-17).
[6] – «Espose loro un'altra parabola, dicendo: "Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell'orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami"» (Mt. 13,31-32).
[7] – «Fate dunque molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore» (Ef. 5,15-17).