sabato 1 febbraio 2014

La sfida del “far teologia” al tempo di Francesco.



La sfida del “far teologia” al tempo di Francesco.
 
La lettura del saggio Ermeneutiche in tensione di Faustino Teixeira[1], mi ha fatto riflettere su un tema che considero di particolare delicatezza: cosa significa “far teologia” oggi nella Chiesa di papa Francesco? Il lavoro di Teixeira è stato in realtà scritto nel 2012, ben prima dell’inizio del pontificato di papa Francesco e naturalmente in esso non sono presenti le venature di ottimismo che oggi è legittimo nutrire. In esso è comunque possibile trovare una sintesi priva di reticenze sullo stato odierno della riflessione teologica.
In effetti, papa Francesco ha mostrato un modo rinnovato di affrontare i temi della testimonianza cristiana nel mondo d’oggi, ribaltando, sotto varî aspetti, contenuti, metodi e linguaggî cui nei recenti decennî c’eravamo dovuti abituare. Non nego pertanto la mia personale speranza che il nuovo pontificato faccia sentire il soffio di un’aria nuova anche nel campo della teologia.
Nell’ultimo secolo il rapporto tra teologia e magistero è spesso stato testimone di esperienze di tensione e di profonda sofferenza umana. Numerosi sono i casi di teologi ammoniti o puniti dal Sant’Uffizio (poi Sacra Congregazione per la dottrina della fede). Questa realtà dolorosa accomuna, purtroppo, i tempi precedenti e successivi al Concilio. Si è purtroppo rivelata vana la speranza che fosse finito il tempo delle dure sofferenze vissute da fratelli di alto sentire spirituale e culturale, per il solo aver tentato di sperimentare nuovi itinerarî di ricerca nel modo di realizzare la volontà di Dio. In realtà negli ultimi decennî sono tornati a essere numerosi gli interventi d’autorità nei confronti della produzione scientifica di autorevoli teologi.
Senza negare precedenti luminosi esempî di intuizione e ricerca di grande valore sul piano scientifico, culturale e spirituale, bisogna riconoscere che in realtà, fino al Concilio, la teologia cattolica è stata coltivata come una disciplina sostanzialmente chiusa, insegnata ad aspiranti sacerdoti da sacerdoti-docenti in istituzioni (seminarî) poste sotto il controllo delle diocesi o di ordini religiosi maschili.
Con il Concilio si sono aperti spazî nuovi per la riflessione teologica. In primo luogo la sottolineatura primaria del suo fondamento nella Scrittura («sia dunque lo studio delle sacre pagine come l'anima della sacra teologia», DV. 24), e, al contempo, una grande apertura nella direzione della cultura umana, con l’invito esplicito ai teologi ad «ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggî del nostro tempo» (GS. 44). Sono state aperte le porte degli studî teologici ai laici e alle donne, che hanno così potuto in forma sempre più ampia calcare i sentieri della ricerca teologica. Le università hanno iniziato a insegnare la teologia come una vera ‘e propria disciplina accademica. I teologi non sono stati più sottoposti all’obbligo dell’“imprimatur” per rendere pubblici i loro lavori.
La primavera conciliare è, tuttavia, stata di breve durata. Ben presto la “minoranza conciliare” ha ripreso fiato, riuscendo a far affermare una nuova dinamica nella vita ecclesiale. Nonostante numerose avvisaglie siano riconoscibili già negli anni precedenti, sotto il profilo della decostruzione dello statuto conciliare della ricerca teologica, il momento spartiacque può essere fatto risalire al 1981, allorché l’allora card. Joseph Ratzinger assunse la guida della Congregazione per la dottrina della fede. Già nel libro del 1985, Rapporto sulla fede, è possibile riconoscere la piattaforma programmatica del ‘cambiamento’ attraverso la proposizione, nella lettura del Concilio, di una sofisticata e per certi versi ‘geniale’ «ermeneutica della continuità». Vi si riconosce, infatti, un’esplicita reazione contro un’«apertura indiscriminata» realizzata nel post-Concilio e sono presenti in essa molte delle questioni polemiche che nei decennî seguenti hanno dolorosamente segnato le relazioni del magistero con la teologia (morale, teologia femminista, liberazione, conferenze episcopali, teologia delle religioni).
Più o meno a partire dal 1981 è possibile infatti ricostruire alcuni itinerarî paralleli, che si sono tradotti negli anni seguenti in una drastica limitazione dell’autonomia scientifica ed ecclesiale della ricerca teologica.
Sul piano dogmatico, abbiamo nel 1992 la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che, al di là delle contrarie dichiarazioni formali, ha di fatto contribuito a stabilizzare (nel senso di “privare di dinamismo”) l’insegnamento conciliare, ha pesantemente limitato la libertà evangelica di annuncio e catechesi delle chiese locali e ha fortemente circoscritto la funzione ecclesiale della teologia, ridotta a uno statuto sostanzialmente deduttivo, e alla quale si è negata la legittimità di ogni prospettiva inferenziale. Sulla stessa linea si muoveranno, nel 1997, la pubblicazione del documento della Commissione teologica internazionale “Il Cristianesimo e le religioni”, e, nel 2000, della Dichiarazione Dominus Jesus circa l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, che determineranno una stasi nelle relazioni ecumeniche e nelle prospettive della teologia ecumenica e della teologia delle religioni. Nel 2005, infine, abbiamo la pubblicazione del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto in forma di domanda/risposta, una sorta di riedizione del Catechismo, di papa Pio 10°.
Sul piano della relazione fede e politica, è bene ricordare come i famosi documenti censorî nei confronti dei teologi della liberazione, cioè le Istruzioni Libertatis nuntius e Libertatis conscientia, risalgano rispettivamente al 1984 e al 1986. Nello stesso periodo, assistiamo alla derubricazione dell’insegnamento sociale a “dottrina sociale” (le due espressioni, come ben documentato dalle riflessioni di padre Marie-Dominique Chenu, non sono per nulla equivalenti). Ma anche la “Dottrina sociale” viene poi congelata nel Compendio della Dottrina sociale della Chiesa.
Sul piano disciplinare, nel 1989 abbiamo la pubblicazione della Professione di fede, richiesta ai fedeli chiamati a esercitare un ufficio in nome della Chiesa; nel 1998, la pubblicazione della Lettera apostolica Ad tuendam fidem. Entrambi i provvedimenti puntano a un controllo dottrinale previo nei confronti di quanti sono chiamati a incarichi particolari, compreso quello dell’insegnamento teologico, dove si confina in uno spazio di subordinazione giuridica la scelta di un cammino di servizio e di fede, da realizzare in un clima di parresia.
Sul piano ecclesiologico, possiamo registrare l’affermarsi di una precisa linea di timore della collegialità, che si è concretizzata nell’attribuzione di una funzione esclusivamente consultiva alle Assemblee mondiali del Sinodo dei vescovi, nella mancata definizione della funzione ecclesiologica delle Conferenze episcopali (ridotte a una mera funzione pratica). Sempre su questo piano destano preoccupazione i procedimenti avviati contro autorevoli organismi rappresentativi di congregazioni religiose femminili.
L’analisi potrebbe continuare, ma al di là dei singoli documenti, mi sembra doveroso evidenziare come la contrapposizione, nella lettura del Concilio, di un’«ermeneutica della continuità» a una cosiddetta «ermeneutica della discontinuità e della rottura», oltre a essere espressione di una modalità limitativa della produzione teologica su una pluralità di temi delicati e sensibili, rappresenti piuttosto una comprensione riduttiva dell’evento dell’annuncio del Vangelo, un annuncio che chiama alla conversione, cioè a un mutamento di stile di vita, a una rottura con il passato, a un fare a meno con quanto, nella concreta esperienza storica, si è dimostrato privo di rapporto con l’annuncio del Vangelo.
In effetti, sotto la preoccupazione di proporre una corretta comprensione del Concilio da condurre nell’àmbito securizzante della tradizione della Chiesa, s’intravede la realizzazione di una sorta di inversione di autorevolezza magisteriale che finisce per inquadrare la lettura dei testi del Concilio sotto la luce del Catechismo della Chiesa cattolica. Il che conduce a proporre una lettura statica dell’insegnamento conciliare, che lo isola dalla necessaria comprensione del contesto dinamico in cui tale insegnamento è maturato e si è prodotto e lo priva del suo “status” di invito libero alla conversione dei cuori.
Di fronte a questa realtà difficile, che tuttavia chiede a quanti quotidianamente “fanno teologia” una paziente opera di perseveranza, di testimonianza e di discernimento, si evidenzia l’urgenza di raccogliere la sfida di una teologia pubblica, più impegnata con il Regno di Dio e con la causa del Vangelo, sintonizzata con la ricerca accademica e in dialogo con la società. Una tale fisionomia teologica investe soprattutto le teologhe e i teologi laici, che non possono evitare di condurre in prima persona un discorso pubblico, cui va riconosciuta una libertà istituzionale sul piano ecclesiale, ma anche assicurato un luogo nello spazio pubblico della riflessione scientifica. Ciò naturalmente non avviene per concessione, ma solo attraverso una quotidiana pratica della riflessione teologica, rigorosa, sollecita sul piano umano ed ecclesiale, libera, responsabile e responsabilizzante, nutrita dalla Parola di Dio e dall’immersione nella realtà del nostro tempo. Condivido, pertanto, la conclusione di Teixeira, per il quale «cambia il profilo della teologia – e anche dei suoi compiti – in questo tempo di società post-tradizionali. Le teologhe e i teologi sono provocati a investimenti riflessivi più audaci e coraggiosi, a cercare di affrontare con creatività le grandi sfide del 21° secolo alla luce delle proprie esperienze di fede e di comunità».
Nonostante la pluridecennale azione istituzionale di mettere a tacere la teologia nel suo sforzo di leggere i segni dei tempi e la voce del Signore nei sorrisi e nelle lacrime delle donne e degli uomini del nostro tempo, grazie al Concilio il numero di quanti “fanno teologia” è consistente. È proprio a queste donne e a questi uomini, che guardo. Uomini e donne che, da laici, “fanno teologia”, non tanto nei centri accademici, ma nel concreto delle parrocchie, delle comunità, dei gruppi, della comunicazione sociale, dei luoghi di lavoro, delle istituzioni culturali, e in relazione piena con i problemi del tempo e delle nostre genti. E questo non in una funzione trasmissiva e divulgativa di un astratto magistero ecclesiale, ma in una funzione di servizio umile, che, con gli strumenti di una libera e appassionata ricerca teologica, aiuti singoli e comunità a discernere e a comprendere quale sia la volontà del Signore “qui e ora”. Un “far teologia”, questa, che chiamerei “teologia popolare”, fatta fuori dalle accademie, tra la gente, intorno alla Parola scritta, ma con la “finestra aperta” sul mondo e sull’umanità. Un luogo dove certamente ha piena cittadinanza anche l’insegnamento e la plurisecolare esperienza spirituale della Chiesa e delle Chiese. Mi auguro che nella Chiesa di papa Francesco sia possibile percorrere itinerarî di servizio di tal genere. I segnali ci sono.

Sergio Sbragia

pubblicato su «Tempi di fraternità : donne e uomini in ricerca e confronto comunitario», 43. (2014) 02, 3-4.


[1] – Faustino Teixeira, Ermeneutiche in tensione: tempi bui per la teologia, in «Concilium : Rivista internazionale di teologia», 49. (2013) 3, pp. [152]-159.

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