La sfida del
“far teologia” al tempo di Francesco.
La
lettura del saggio Ermeneutiche in
tensione di Faustino Teixeira[1], mi ha fatto riflettere su
un tema che considero di particolare delicatezza: cosa significa “far teologia”
oggi nella Chiesa di papa Francesco? Il lavoro di Teixeira è stato in realtà
scritto nel 2012, ben prima dell’inizio del pontificato di papa Francesco e naturalmente
in esso non sono presenti le venature di ottimismo che oggi è legittimo nutrire.
In esso è comunque possibile trovare una sintesi priva di reticenze sullo stato
odierno della riflessione teologica.
In
effetti, papa Francesco ha mostrato un modo rinnovato di affrontare i temi
della testimonianza cristiana nel mondo d’oggi, ribaltando, sotto varî aspetti,
contenuti, metodi e linguaggî cui nei recenti decennî c’eravamo dovuti
abituare. Non nego pertanto la mia personale speranza che il nuovo pontificato
faccia sentire il soffio di un’aria nuova anche nel campo della teologia.
Nell’ultimo
secolo il rapporto tra teologia e magistero è spesso stato testimone di
esperienze di tensione e di profonda sofferenza umana. Numerosi sono i casi di
teologi ammoniti o puniti dal Sant’Uffizio (poi Sacra Congregazione per la
dottrina della fede). Questa realtà dolorosa accomuna, purtroppo, i tempi
precedenti e successivi al Concilio. Si è purtroppo rivelata vana la speranza
che fosse finito il tempo delle dure sofferenze vissute da fratelli di alto
sentire spirituale e culturale, per il solo aver tentato di sperimentare nuovi
itinerarî di ricerca nel modo di realizzare la volontà di Dio. In realtà negli
ultimi decennî sono tornati a essere numerosi gli interventi d’autorità nei
confronti della produzione scientifica di autorevoli teologi.
Senza
negare precedenti luminosi esempî di intuizione e ricerca di grande valore sul
piano scientifico, culturale e spirituale, bisogna riconoscere che in realtà,
fino al Concilio, la teologia cattolica è stata coltivata come una disciplina
sostanzialmente chiusa, insegnata ad aspiranti sacerdoti da sacerdoti-docenti
in istituzioni (seminarî) poste sotto il controllo delle diocesi o di ordini
religiosi maschili.
Con il
Concilio si sono aperti spazî nuovi per la riflessione teologica. In primo
luogo la sottolineatura primaria del suo fondamento nella Scrittura («sia
dunque lo studio delle sacre pagine come l'anima della sacra teologia», DV.
24), e, al contempo, una grande apertura nella direzione della cultura umana,
con l’invito esplicito ai teologi ad «ascoltare attentamente, discernere e
interpretare i vari linguaggî del nostro tempo» (GS. 44). Sono state aperte le
porte degli studî teologici ai laici e alle donne, che hanno così potuto in
forma sempre più ampia calcare i sentieri della ricerca teologica. Le
università hanno iniziato a insegnare la teologia come una vera ‘e propria disciplina
accademica. I teologi non sono stati più sottoposti all’obbligo
dell’“imprimatur” per rendere pubblici i loro lavori.
La
primavera conciliare è, tuttavia, stata di breve durata. Ben presto la
“minoranza conciliare” ha ripreso fiato, riuscendo a far affermare una nuova
dinamica nella vita ecclesiale. Nonostante numerose avvisaglie siano
riconoscibili già negli anni precedenti, sotto il profilo della decostruzione
dello statuto conciliare della ricerca teologica, il momento spartiacque può
essere fatto risalire al 1981, allorché l’allora card. Joseph Ratzinger assunse
la guida della Congregazione per la dottrina della fede. Già nel libro del
1985, Rapporto sulla fede, è
possibile riconoscere la piattaforma programmatica del ‘cambiamento’ attraverso
la proposizione, nella lettura del Concilio, di una sofisticata e per certi
versi ‘geniale’ «ermeneutica della continuità». Vi si riconosce, infatti,
un’esplicita reazione contro un’«apertura indiscriminata» realizzata nel post-Concilio
e sono presenti in essa molte delle questioni polemiche che nei decennî
seguenti hanno dolorosamente segnato le relazioni del magistero con la teologia
(morale, teologia femminista, liberazione, conferenze episcopali, teologia
delle religioni).
Più o meno
a partire dal 1981 è possibile infatti ricostruire alcuni itinerarî paralleli,
che si sono tradotti negli anni seguenti in una drastica limitazione
dell’autonomia scientifica ed ecclesiale della ricerca teologica.
Sul
piano dogmatico, abbiamo nel 1992 la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che,
al di là delle contrarie dichiarazioni formali, ha di fatto contribuito a
stabilizzare (nel senso di “privare di dinamismo”) l’insegnamento conciliare,
ha pesantemente limitato la libertà evangelica di annuncio e catechesi delle
chiese locali e ha fortemente circoscritto la funzione ecclesiale della
teologia, ridotta a uno statuto sostanzialmente deduttivo, e alla quale si è
negata la legittimità di ogni prospettiva inferenziale. Sulla stessa linea si
muoveranno, nel 1997, la pubblicazione del documento della Commissione
teologica internazionale “Il Cristianesimo e le religioni”, e, nel 2000, della
Dichiarazione Dominus Jesus circa
l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, che determineranno
una stasi nelle relazioni ecumeniche e nelle prospettive della teologia
ecumenica e della teologia delle religioni. Nel 2005, infine, abbiamo la
pubblicazione del Compendio del
Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto in forma di domanda/risposta,
una sorta di riedizione del Catechismo,
di papa Pio 10°.
Sul
piano della relazione fede e politica, è bene ricordare come i famosi
documenti censorî nei confronti dei teologi della liberazione, cioè le Istruzioni
Libertatis nuntius e Libertatis conscientia, risalgano
rispettivamente al 1984 e al 1986. Nello stesso periodo, assistiamo alla
derubricazione dell’insegnamento sociale a “dottrina sociale” (le due
espressioni, come ben documentato dalle riflessioni di padre Marie-Dominique
Chenu, non sono per nulla equivalenti). Ma anche la “Dottrina sociale” viene
poi congelata nel Compendio della
Dottrina sociale della Chiesa.
Sul
piano disciplinare, nel 1989 abbiamo la pubblicazione della Professione di fede, richiesta ai fedeli
chiamati a esercitare un ufficio in nome della Chiesa; nel 1998, la
pubblicazione della Lettera apostolica Ad
tuendam fidem. Entrambi i provvedimenti puntano a un controllo dottrinale
previo nei confronti di quanti sono chiamati a incarichi particolari, compreso
quello dell’insegnamento teologico, dove si confina in uno spazio di subordinazione
giuridica la scelta di un cammino di servizio e di fede, da realizzare in un
clima di parresia.
Sul
piano ecclesiologico, possiamo registrare l’affermarsi di una precisa linea
di timore della collegialità, che si è concretizzata nell’attribuzione di una
funzione esclusivamente consultiva alle Assemblee mondiali del Sinodo dei
vescovi, nella mancata definizione della funzione ecclesiologica delle
Conferenze episcopali (ridotte a una mera funzione pratica). Sempre su questo
piano destano preoccupazione i procedimenti avviati contro autorevoli organismi
rappresentativi di congregazioni religiose femminili.
L’analisi
potrebbe continuare, ma al di là dei singoli documenti, mi sembra doveroso
evidenziare come la contrapposizione, nella lettura del Concilio, di
un’«ermeneutica della continuità» a una cosiddetta «ermeneutica della
discontinuità e della rottura», oltre a essere espressione di una modalità
limitativa della produzione teologica su una pluralità di temi delicati e
sensibili, rappresenti piuttosto una comprensione riduttiva dell’evento
dell’annuncio del Vangelo, un annuncio che chiama alla conversione, cioè a un
mutamento di stile di vita, a una rottura con il passato, a un fare a meno con
quanto, nella concreta esperienza storica, si è dimostrato privo di rapporto
con l’annuncio del Vangelo.
In
effetti, sotto la preoccupazione di proporre una corretta comprensione del Concilio
da condurre nell’àmbito securizzante della tradizione della Chiesa, s’intravede
la realizzazione di una sorta di inversione di autorevolezza magisteriale che
finisce per inquadrare la lettura dei testi del Concilio sotto la luce del Catechismo della Chiesa cattolica. Il
che conduce a proporre una lettura statica dell’insegnamento conciliare, che lo
isola dalla necessaria comprensione del contesto dinamico in cui tale insegnamento
è maturato e si è prodotto e lo priva del suo “status” di invito libero alla
conversione dei cuori.
Di
fronte a questa realtà difficile, che tuttavia chiede a quanti quotidianamente
“fanno teologia” una paziente opera di perseveranza, di testimonianza e di
discernimento, si evidenzia l’urgenza di raccogliere la sfida di una teologia
pubblica, più impegnata con il Regno di Dio e con la causa del Vangelo,
sintonizzata con la ricerca accademica e in dialogo con la società. Una tale
fisionomia teologica investe soprattutto le teologhe e i teologi laici, che non
possono evitare di condurre in prima persona un discorso pubblico, cui va
riconosciuta una libertà istituzionale sul piano ecclesiale, ma anche
assicurato un luogo nello spazio pubblico della riflessione scientifica. Ciò
naturalmente non avviene per concessione, ma solo attraverso una quotidiana pratica
della riflessione teologica, rigorosa, sollecita sul piano umano ed ecclesiale,
libera, responsabile e responsabilizzante, nutrita dalla Parola di Dio e
dall’immersione nella realtà del nostro tempo. Condivido, pertanto, la conclusione
di Teixeira, per il quale «cambia il profilo della teologia – e anche dei suoi
compiti – in questo tempo di società post-tradizionali. Le teologhe e i teologi
sono provocati a investimenti riflessivi più audaci e coraggiosi, a cercare di
affrontare con creatività le grandi sfide del 21° secolo alla luce delle
proprie esperienze di fede e di comunità».
Nonostante
la pluridecennale azione istituzionale di mettere a tacere la teologia nel suo
sforzo di leggere i segni dei tempi e la voce del Signore nei sorrisi e nelle
lacrime delle donne e degli uomini del nostro tempo, grazie al Concilio il
numero di quanti “fanno teologia” è consistente. È proprio a queste donne e a
questi uomini, che guardo. Uomini e donne che, da laici, “fanno teologia”, non
tanto nei centri accademici, ma nel concreto delle parrocchie, delle comunità,
dei gruppi, della comunicazione sociale, dei luoghi di lavoro, delle
istituzioni culturali, e in relazione piena con i problemi del tempo e delle
nostre genti. E questo non in una funzione trasmissiva e divulgativa di un
astratto magistero ecclesiale, ma in una funzione di servizio umile, che, con
gli strumenti di una libera e appassionata ricerca teologica, aiuti singoli e
comunità a discernere e a comprendere quale sia la volontà del Signore “qui e
ora”. Un “far teologia”, questa, che chiamerei “teologia popolare”, fatta fuori
dalle accademie, tra la gente, intorno alla Parola scritta, ma con la “finestra
aperta” sul mondo e sull’umanità. Un luogo dove certamente ha piena cittadinanza
anche l’insegnamento e la plurisecolare esperienza spirituale della Chiesa e
delle Chiese. Mi auguro che nella Chiesa di papa Francesco sia possibile
percorrere itinerarî di servizio di tal genere. I segnali ci sono.
Sergio
Sbragia
pubblicato
su «Tempi di fraternità : donne e uomini in ricerca e confronto comunitario»,
43. (2014) 02, 3-4.
[1]
– Faustino Teixeira, Ermeneutiche in
tensione: tempi bui per la teologia, in «Concilium : Rivista internazionale
di teologia», 49. (2013) 3, pp. [152]-159.
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