1. Presentazione e significato teologico del “dialogo”.
Come abbiamo visto
in un precedente contributo ( http://sergiosbragia.blogspot.it/2014/01/2-pillole-di-teologia-delle-religioni.html
) la Dichiarazione Nostra aetate ha
evidenziato con decisione la funzione essenziale rivestita dal dialogo inter-religioso
nella promozione nelle relazioni con le altre tradizioni religiose di nuove
prospettive più aderenti all’autenticità del messaggio evangelico. Nello stesso
torno di tempo, circa un anno prima dell’approvazione della Dichiarazione Nostra aetate, proprio al tema del
dialogo e del suo significato ecclesiale, papa Paolo 6° ha dedicato un documento
di notevole valore sul piano dello sforzo di discernimento e comprensione dei
caratteri della missione della Chiesa nel mondo contemporaneo.
«La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si
trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si
fa colloquio» [Es. 67].
Nell’Ecclesiam suam, papa Paolo 6° constata
come nell’epoca contemporanea la Chiesa abbia preso coscienza della necessità
di costruire le condizioni per entrare in un costruttivo dialogo con il mondo
in cui si trova a vivere. Questa necessità è sintetizzata dal pontefice con
grande enfasi nell’espressione densa di contenuto programmatico in cui
sottolinea con forza: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa
messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (Es. 67).
«Questo capitale aspetto della vita odierna della
Chiesa sarà oggetto di speciale ed ampio studio da parte del Concilio
Ecumenico, come è noto; e Noi non vogliamo entrare nell'esame concreto dei temi
che tale studio si propone per lasciare ai Padri del Concilio il compito di
trattarli liberamente. Noi vogliamo soltanto invitarvi, Venerabili Fratelli, a
premettere a tale studio alcune considerazioni, affinché ci siano più chiari i
motivi che spingono la Chiesa al dialogo, più chiari i metodi da seguire, più
chiari i fini da conseguire. Vogliamo disporre gli animi, non trattare le cose»
[Es. 68].
Papa Paolo 6° si
pone in relazione con i contemporanei lavori conciliari, impegnati ad
affrontare i temi più rilevanti e scottanti su cui la Chiesa era allora, ed è
oggi, chiamata a entrare in dialogo con il mondo. Egli sceglie tuttavia di non
entrare nel merito delle questioni che saranno di lì a poco oggetto
dell’attenzione dei padri del Concilio. Si ritaglia, invece, uno spazio di
riflessione intorno alla natura più autentica della realtà del dialogo, sui
motivi di fondo che chiamano la Chiesa al dialogo, sui metodi da seguire, sui
fini da raggiungere. La prospettiva è meravigliosamente riassunta nell’icastica
espressione: «Vogliamo disporre gli animi, non trattare le cose» (Es. 68). L’intento è chiaro: porsi in un
atteggiamento di servizio, indicare la strada sulle motivazioni che inducono a
porsi in dialogo con il mondo e sul modo migliore per realizzarlo, piuttosto che
intervenire sui temi specifici oggetto di dialogo, che saranno affrontati
dall’Assemblea Conciliare.
«Né possiamo
fare altrimenti, nella convinzione che il dialogo debba caratterizzare il
Nostro ufficio Apostolico, eredi come siamo d'un tale stile, d'un tale indirizzo
pastorale che Ci è tramandato dai Nostri Predecessori dell'ultimo secolo, a
partire dal grande e sapiente Leone 13°, il quale, quasi impersonando la figura
evangelica dello scriba sapiente ...che come un padre di famiglia cava dal
suo tesoro cose antiche e cose nuove (Mt. 13,52)[1],
riprendeva maestosamente l'esercizio del magistero cattolico facendo
oggetto del suo ricchissimo insegnamento i problemi del nostro tempo
considerati alla luce della parola di Cristo. Così i suoi successori, come sapete»
[Es. 69].
Nel dare avvio alle
riflessioni sul tema, Paolo 6° pone la chiamata al “dialogo” nel solco
dell’indirizzo pastorale già delineato dai suoi predecessori, a partire da
Leone 13° che, immedesimandosi nella figura evangelica dello “scriba sapiente”,
che, come un padre di famiglia, recupera dal proprio tesoro cose antiche e cose
nuove (cf Mt. 13,52), rilanciava con passione la tradizione del
magistero pastorale, proponendo un ricchissimo insegnamento sui problemi del
nostro tempo, considerandoli alla luce della cultura e della sensibilità degli
uomini contemporanei.
«Non ci lasciarono i Nostri Predecessori,
specialmente Pio 11° e Pio 12°, un patrimonio magnifico e amplissimo di
dottrina, concepita nell'amoroso e sapiente tentativo di congiungere il
pensiero divino al pensiero umano, non astrattamente considerato, ma
concretamente espresso nel linguaggio dell'uomo moderno? E che cos'è questo
apostolico tentativo se non un dialogo? E non diede Giovanni 23°, Nostro
immediato Predecessore di venerata memoria, un'accentuazione anche più marcata
al suo insegnamento nel senso di accostarlo quanto più possibile all'esperienza
e alla comprensione del mondo contemporaneo? Al Concilio stesso non s'è voluto
dare, e giustamente, uno scopo pastorale, tutto rivolto all'inserimento del
messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, di parole, di cultura, di
costume, di tendenze dell'umanità, quale oggi vive e si agita sulla faccia
della terra? Ancor prima di convertirlo, anzi per convertirlo, il mondo bisogna
accostarlo e parlargli» [Es. 70].
Analogamente i suoi
successori, in particolare Pio 11° e Pio 12°, hanno lasciato testimonianza di
un contributo ricchissimo di riflessione e d’insegnamento, frutto di un amoroso
e sapiente tentativo di congiungere il pensiero divino a quello umano, non in
forma astratta e disincarnata, ma espresso concretamente nel linguaggio
dell’umanità di oggi. Questo sforzo magistrale di riflessione pastorale riveste,
in fondo, già i connotati di un vero ‘e proprio “dialogo”. Successivamente
anche Giovanni 23° ha conferito al suo insegnamento un’accentuazione più marcata,
nello sforzo di accostarlo quanto più possibile all’esperienza e alla comprensione
del mondo contemporaneo. Lo stesso Concilio ha avuto, per precisa scelta
operata all’atto della sua convocazione, una finalità eminentemente pastorale,
intesa a porre il messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, parole,
cultura, costume e tendenze dell’umanità odierna. È, infatti, evidente che, per
presentare al mondo l’annuncio cristiano al fine della conversione, è
necessario prima entrare in relazione con il mondo e riuscire a parlargli.
«Per quanto riguarda l'umile Nostra persona, sebbene
alieni di parlarne e desiderosi di non attirare su di essa l'altrui attenzione,
non possiamo, in questa Nostra intenzionale presentazione al collegio
episcopale e al popolo cristiano, tacere il Nostro proposito di perseverare,
per quanto le nostre deboli forze ce lo concederanno e, soprattutto, la divina
grazia Ci darà modo di farlo, nella medesima linea, nel medesimo sforzo di
avvicinare il mondo, nel quale la Provvidenza Ci ha destinati a vivere, con
ogni riverenza, con ogni premura, con ogni amore, per comprenderlo, per
offrirgli i doni di verità e di grazia di cui Cristo ci ha resi depositari, per
comunicargli la nostra meravigliosa sorte di Redenzione e di speranza. Sono
profondamente scolpite nel Nostro spirito le parole di Cristo, di cui umilmente,
ma tenacemente, ci vorremmo appropriare: Dio non mandò il Figlio nel mondo
per condannare il mondo, ma affinché sia salvato per mezzo di lui (cf
Gv. 3,17)[2]»
[Es. 71].
Paolo 6° esprime
poi la propria volontà di perseverare nel medesimo sforzo di avvicinare il
mondo con amore e premura, per comprenderlo e offrirgli i doni di verità e
grazia, che Cristo ha donato alla Chiesa, affinché questa possa condividere con
il mondo l’esperienza della redenzione e della speranza. Questo nella profonda
convinzione che «Dio, infatti, non ha mandato il
Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per
mezzo di lui» (Gv. 3,17).
«Ecco, Venerabili Fratelli, l'origine trascendente
del dialogo. Essa si trova nell'intenzione stessa di Dio. La religione è di
natura sua un rapporto tra Dio e l'uomo. La preghiera esprime a dialogo tale
rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha
preso l'iniziativa di instaurare con la umanità, può essere raffigurata in un
dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell'Incarnazione e quindi nel
Vangelo. Il colloquio paterno e santo, interrotto tra Dio e l'uomo a causa del
peccato originale, è meravigliosamente ripreso nel corso della storia. La
storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da
Dio, e intesse con l'uomo varia e mirabile conversazione. È in questa conversazione
di Cristo fra gli uomini (cf Bar. 3,38)[3],
che Dio lascia capire qualche cosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima
nell'essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere
conosciuto; Amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è
il nostro comandamento supremo. Il dialogo si fa pieno e confidente; il
fanciullo vi è invitato, il mistico vi si esaurisce» [Es. 72].
Paolo 6° pone poi
in evidenza come il dialogo abbia in realtà un’origine trascendente,
rintracciabile in definitiva nella stessa intenzione di Dio.
L’esperienza
religiosa, per sua natura, si estrinseca in un rapporto tra Dio e l’uomo. La
stessa preghiera esprime tale rapporto proprio attraverso una modalità
dialogica. Ma anche la stessa rivelazione, cioè quell’evento che Dio stesso ha
preso l’iniziativa di avviare nei confronti dell’umanità, può essere compresa
come un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si manifesta attraverso l’incarnazione
e l’annuncio del Vangelo. Il paterno dialogo originario tra Dio e l’uomo,
interrotto a causa del peccato, è ripreso nel corso della storia. La storia
della salvezza è difatti il racconto di questo lungo e diversificato dialogo
che parte da Dio, che intavola con l’uomo una meravigliosa e multiforme
conversazione. Attraverso questo dialogo di Gesù fra gli uomini (cf Bar. 3,38), Dio lascia capire
qualcosa di sé, del mistero della sua vita, assolutamente unica nell’essenza,
trinitaria nelle Persone, ma soprattutto manifesta come vuole essere conosciuto.
Egli è Amore, e vuole che la nostra relazione con lui sia espressa nel
comandamento fondamentale dell’amore. Nell’amore il dialogo si fa pieno e
confidente. A questo dialogo siamo invitati, un dialogo nel quale i mistici
vivono l’esperienza del pieno affidamento nelle braccia del Padre.
«Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo
ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio
Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, per comprendere quale rapporto
noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare d'instaurare e di promuovere con
l'umanità» [Es. 73].
È necessario aver
sempre presente il carattere di questo rapporto dialogico, stabilito con noi da
Dio Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo, onde poter comprendere quale
rapporto la comunità ecclesiale deve cercare di costruire e promuovere con
l’umanità.
«Il dialogo della salvezza fu aperto spontaneamente
dalla iniziativa divina: Egli (Dio) per primo ci ha amati: (1Gv. 4,10)
toccherà a noi prendere l'iniziativa per estendere agli uomini il dialogo
stesso, senza attendere d'essere chiamati» [Es.
74].
Così come il
dialogo della salvezza è stato aperto grazie all’iniziativa divina («In
questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi
e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» – 1Gv. 4,10), allo stesso modo siamo
noi cristiani a dover assumere l’iniziativa per allargare il dialogo agli altri uomini.
«Il dialogo della salvezza partì dalla carità, dalla
bontà divina: Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo
unigenito (Gv. 3,16), non altro che amore fervente e disinteressato
dovrà muovere il nostro» [Es. 75].
Il dialogo della salvezza affonda poi le
proprie radici nella carità, nella bontà divina («Dio infatti ha tanto
amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non
vada perduto, ma abbia la vita eterna» – Gv.
3,16). Allo stesso modo l’amore fraterno e disinteressato deve muovere la
nostra iniziativa dialogica nei confronti del mondo.
«Il dialogo della salvezza non si commisurò ai meriti
di coloro a cui era rivolto, e nemmeno ai risultati che avrebbe conseguito o
che sarebbero mancati; non hanno bisogno del medico i sani (Lc. 5,31),
anche il nostro dev'essere senza limiti e senza calcoli» [Es. 76].
L’iniziativa di Dio nel proporre agli uomini il dialogo
della salvezza non ebbe a dimensionarsi sui meriti di coloro ai quali era
rivolta e nemmeno ai risultati che avrebbero conseguito («Gesù rispose loro:
"Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati "» – Lc.
5,31). Senza limiti e senza calcoli dev’essere anche la nostra iniziativa di
dialogo.
«Il dialogo della salvezza non obbligò fisicamente
alcuno ad accoglierlo; fu una formidabile domanda d'amore, la quale, se costituì
una tremenda responsabilità in coloro a cui fu rivolta (cf Mt. 11,21), li lasciò tuttavia liberi
di corrispondervi o di rifiutarla, adattando perfino la quantità dei segni (cf
Mt. 12,38ss.) alle esigenze e alle disposizioni spirituali dei suoi uditori e
la forza probativa dei segni medesimi (cf Mt. 13,13ss.), affinché fosse agli
uditori stessi facilitato il libero consenso alla divina rivelazione, senza
tuttavia perdere il merito di tale consenso. Così la Nostra missione, anche se
è annuncio di verità indiscutibile e di salute necessaria, non si presenterà
armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell'umana
educazione, dell'interiore persuasione, della comune conversazione offrirà il
suo dono di salvezza, sempre nel rispetto della libertà personale e civile» [Es. 77].
Il dialogo della salvezza è stato
condotto senza obbligare fisicamente nessuno ad aderirvi. È stata una grande
proposta indirizzata agli uomini e ispirata
dall’amore che, se ha rappresentato una tremenda responsabilità per
coloro a cui è stata rivolta (cf Mt.
11,21)[4],
ma in ogni caso tutti i destinatarî sono sempre stati lasciati liberi di aderire o meno alla
chiamata, addirittura la quantità dei segni è stata adattata alle esigenze
degli uditori stessi (cf Mt. 12,38-42 e 13,13-17)[5].
Allo stesso modo
la nostra proposta di dialogo, anche se annuncio autentico di verità e di
salvezza, evita i sentieri della coercizione e percorre gli itinerarî
dell’umana educazione, della persuasione interiore, della comune conversazione,
sempre nel rispetto della libertà personale e civile.
«Il dialogo della salvezza fu reso possibile a tutti;
a tutti senza discriminazione alcuna destinato (cf Col. 3,11); il nostro parimenti dev'essere potenzialmente
universale, cattolico cioè e capace di annodarsi con ognuno, salvo che l'uomo
assolutamente non lo respinga o insinceramente finga di accoglierlo» [Es. 78].
Il dialogo della salvezza è stato reso accessibile tutti,
senza discriminazione alcuna, così come evidenziato da Col. 3,11 («Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o
incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in
tutti»). Allo stesso modo anche la nostra proposta di dialogo dev’essere potenzialmente
rivolta a tutti.
«Il dialogo della salvezza ha conosciuto normalmente
delle gradualità, degli svolgimenti successivi (cf Mt. 13,31-32), degli umili
inizi prima del pieno successo; anche il nostro avrà riguardo alle lentezze
della maturazione psicologica e storica e all'attesa dell'ora in cui Dio lo
renda efficace. Non per questo il nostro dialogo rimanderà al domani ciò che
oggi può compiere; esso deve avere l'ansia dell'ora opportuna e il senso della
preziosità del tempo (cf Ef. 5,
15-17). Oggi, cioè ogni giorno, deve ricominciare; e da noi prima che da coloro
a cui è rivolto» [Es. 79].
Il dialogo della salvezza ha conosciuto, come
l’evangelico granello di senape di Mt. 13,31-32[6], uno sviluppo graduale da
umili inizî sino alla piena manifestazione. Così anche l’odierno dialogo con il
mondo deve aver riguardo degli umani tempi di maturazione psicologica e storica
nell’attesa dell’attesa dell’ora nota solo a Dio della sua efficacia. È
pertanto essenziale prestare molta attenzione al modo di condurre il dialogo,
operando con saggezza, facendo buon uso del tempo e ricercando con costanza di
comprendere qual è la volontà del Signore (Ef. 5,15-17)[7].
«Com'è chiaro, i rapporti fra la Chiesa ed il mondo
possono assumere molti aspetti e diversi fra loro. Teoricamente parlando, la
Chiesa potrebbe prefiggersi di ridurre al minimo tali rapporti, cercando di
sequestrare se stessa dal commercio della società profana; come potrebbe
proporsi di rilevare i mali che in essa possono riscontrarsi, anatemitizzandoli
e movendo crociate contro di essi; potrebbe invece tanto avvicinarsi alla
società profana da cercare di prendervi influsso preponderante o anche di
esercitarvi un dominio teocratico; e così via. Sembra a Noi invece che il
rapporto della Chiesa col mondo, senza precludersi altre forme legittime, possa
meglio raffigurarsi in un dialogo, e neppure questo in modo univoco, ma
adattato all'indole dell'interlocutore e delle circostanze di fatto (altro è
infatti il dialogo con un fanciullo ed altro con un adulto; altro con un
credente ed altro con un non credente). Ciò è suggerito: dall'abitudine ormai
diffusa di così concepire le relazioni fra il sacro e il profano, dal dinamismo
trasformatore della società moderna, dal pluralismo delle sue manifestazioni,
nonché dalla maturità dell'uomo, sia religioso che non religioso, fatto abile
dall'educazione civile a pensare, a parlare, a trattare con dignità di dialogo»
[Es. 80].
I rapporti tra la
Chiesa e il mondo potrebbero essere ispirati a una pluralità di modelli. Un
primo modello potrebbe tendere a ridurre al minimo i rapporti con il mondo,
perseguendo l’obiettivo di un radicale isolamento della comunità ecclesiale dal
mondo. Un secondo modello potrebbe configurarsi nella ricerca dei mali presenti
nella società contemporanea, per colpirli con specifici anatèmi e promuovere
crociate contro di essi. Una terza prospettiva potrebbe essere quella di avvicinarsi
alla società profana allo scopo di esercitarvi un influsso preponderante di
carattere teocratico. Rispetto a questi modelli appare del tutto preferibile un
rapporto con il mondo ispirato al dialogo e adattato all’indole
dell’interlocutore e delle circostanze di fatto. La scelta preferenziale per il
modello di relazioni dialogiche con il mondo è ispirata dall’ormai diffusa
abitudine di concepire in tal modo i rapporti tra il sacro e il profano; dal
dinamismo trasformatore della società moderna; dal pluralismo delle sue
manifestazioni; e, non ultimo, dalla maturità dell’uomo, sia religioso che non
religioso, reso abile dall’educazione civile a pensare, a parlare, a trattare
con dignità in un clima autentico di dialogo.
«Questa forma di rapporto indica un proposito di
correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte di chi lo instaura;
esclude la condanna aprioristica, la polemica offensiva ed abituale, la vanità
d'inutile conversazione. Se certo non mira ad ottenere immediatamente la
conversione dell'interlocutore, perché rispetta la sua dignità e la sua
libertà, mira tuttavia al di lui vantaggio, e vorrebbe disporlo a più piena
comunione di sentimenti e di convinzioni» [Es.
81].
Un dialogo autentico
richiede un proposito di correttezza, di stima, di simpatia, di bontà da parte
di chi lo istaura. Vanno quindi escluse la condanna aprioristica, la polemica
offensiva, la comunicazione vuota. Il dialogo non può proporsi naturalmente la
conversione immediata dell’interlocutore, in quanto ne rispetta la libertà e la
dignità, si propone tuttavia il suo
vantaggio e tende a disporlo a una più piena comunione di sentimenti e
convinzioni.
«Suppone pertanto il dialogo uno stato d'animo in
noi, che intendiamo introdurre e alimentare con quanti ci circondano: lo stato
d'animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi
avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella
altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è
depositario, nella circolazione dell'umano discorso» [Es. 82].
La pratica del
dialogo presuppone nei cristiani la consapevolezza del mandato apostolico, che
induce a non separare la ricerca della propria salvezza dalla ricerca di quella
altrui, e chiede di ricercare quotidianamente le vie per rendere presente il
messaggio di fede nella circolazione dell’umano discorso.
«Il colloquio è perciò un modo d'esercitare la
missione apostolica; è un'arte di spirituale comunicazione. Suoi caratteri sono
i seguenti. La chiarezza innanzi tutto; il dialogo suppone ed esige
comprensibilità, è un travaso di pensiero, è un invito all'esercizio delle
superiori facoltà dell'uomo; basterebbe questo suo titolo per classificarlo fra
i fenomeni migliori dell'attività e della cultura umana; e basta questa sua
iniziale esigenza per sollecitare la nostra premura apostolica a rivedere ogni
forma del nostro linguaggio: se comprensibile, se popolare, se eletto. Altro
carattere è poi la mitezza, quella che Cristo ci propose d'imparare da
Lui stesso: Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore (Mt. 11,29); il dialogo non è
orgoglioso, non è pungente, non è offensivo. La sua autorità è intrinseca per
la verità che espone, per la carità che diffonde, per l'esempio che propone;
non è comando, non è imposizione. È pacifico; evita i modi violenti; è
paziente; è generoso. La fiducia, tanto nella virtù della parola
propria, quanto nell'attitudine ad accoglierla da parte dell'interlocutore:
promuove la confidenza e l'amicizia; intreccia gli spiriti in una mutua
adesione ad un Bene, che esclude ogni scopo egoistico» [Es. 83].
Il dialogo, che il
documento in questa fase denomina con il termine più intimo e più relazionale
di “colloquio”, è riconosciuto dunque come una modalità in cui si esplica la
missione apostolica, una vera ‘e propria arte di comunicazione spirituale. I
cui caratteri è opportuno siano i seguenti:
- La chiarezza: essendo una reciproca comunicazione di pensiero, nel
dialogo è essenziale la comprensibilità. In quanto tale è un invito alle
superiori facoltà dell’uomo e può essere annoverato tra i fenomeni migliori e
più elevati dell’attività e della cultura umana. È dunque fondamentale aver
cura del linguaggio utilizzato, verificando con rigore se è comprensibile, se è
“popolare” (nel senso se è conforme alle forme della comunicazione umana oggi
diffuse e praticate), se è “eletto” (cioè se è adatto a illustrare i temi
spirituali oggetto del dialogo).
- La mitezza: è questo un carattere che Gesù ci ha additato con la
sua parola ed esemplato con i suoi atti: «Imparate da me che sono mansueto e
umile di cuore» (Mt. 11,29).
Il dialogo, dunque, non dev’essere orgoglioso, né pungente, né offensivo. La
sua autorevolezza si fonda sulla ricerca di veridicità che conduce nelle
proprie argomentazioni, per lo spirito di carità che promana dalle iniziative
dialogiche che si realizzano, dall’esempio concreto che si pone in atto,
rifuggendo da ogni spirito di comando o imposizione. Il dialogo, per sua
natura, è pacifico, evita la violenza, è paziente, è generoso. In questo
ripetuto e insistito elogio del dialogo, in qualche modo riecheggia, lo stile e
la modalità espositiva dell’Inno alla carità
di 1Cor. 13,4-7:
«La carità è magnanima, benevola è la carità; non è
invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto, non
cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non
gode dell'ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede,
tutto spera, tutto sopporta» (1Cor. 13,4-7).
- La fiducia: il dialogo si fonda sia sulla fiducia della propria
ricerca spirituale e sulla capacità di esporla con autenticità, sia
sull’attitudine di accogliere una parola autentica. Il dialogo promuove così la
confidenza, la stima e l’amicizia tra gli interlocutori, favorisce il reciproco
coinvolgimento verso il valore del Bene, ed esclude ogni finalità egoistica.
«La prudenza pedagogica infine, la quale fa
grande conto delle condizioni psicologiche e morali di chi ascolta (Mt. 7,6): se bambino, se incolto, se
impreparato, se diffidente, se ostile; e si studia di conoscere la sensibilità
di lui, e di modificare, ragionevolmente, se stesso e le forme della propria
presentazione per non essergli ingrato e incomprensibile» [Es. 84].
- La prudenza pedagogica. Il dialogo deve prestare grande attenzione
alle condizioni psicologiche e morali dei proprî interlocutori (cf Mt. 7,6). È importante ap3operare, con ragionevolezza, per evitare incomprensioni
o rotture ingiustificate. A questo proposito mi sembra opportuno richiamare
come anche alla luce delle esigenze di prudenza, poste qui in evidenza, emerga
l’inadeguatezza in un àmbito di teologia delle religioni di un’impostazione di
taglio apologetico (cf http://sergiosbragia.blogspot.it/search?updated-min=2013-01-01T00:00:00-08:00&updated-max=2014-01-01T00:00:00-08:00&max-results=28
).
«Nel dialogo, così condotto, si realizza l'unione
della verità con la carità, dell'intelligenza con l'amore» [Es. 85].
All’interno di una relazione dialogica condotta con
chiarezza, con mitezza, con fiducia e con prudenza pedagogica, si creano, a
giudizio della Ecclesiam suam, le
condizioni per l’incontro tra la verità e la carità. Appare, infatti, proprio
questo il terreno più propizio dove si può realizzare la meravigliosa sintesi
tra un’appassionata ricerca sul piano spirituale e razionale dei punti comuni e
la sperimentazione di relazioni umane e fraterne ispirate all’amore
vicendevole.
«Nel dialogo si scopre come diverse sono le vie che
conducono alla luce della fede, e come sia possibile farle convergere allo
stesso fine. Anche se divergenti, possono diventare complementari, spingendo il
nostro ragionamento fuori dei sentieri comuni e obbligandolo ad approfondire le
sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo esercizio
di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle
opinioni altrui, ci obbligherà ad esprimere con grande lealtà il nostro
insegnamento e ci darà merito per la fatica d'averlo esposto all'altrui
obiezione, all'altrui lenta assimilazione. Ci farà sapienti, ci farà maestri» [Es. 86].
Attraverso il
dialogo, secondo l’Ecclesiam suam, è
possibile anche scoprire come possono essere molteplici le strade che possono
condurre alla fede, e come sia in realtà possibile operare per farle convergere allo stesso
fine. Posizioni divergenti, possono divenire complementari, se si ha il
coraggio di spingere la riflessione al di fuori dei terreni consueti, se si
avverte il dovere di approfondire la nostra ricerca, di ripensare e di
rinnovare le nostre espressioni. L’esercizio di questo sforzo di
approfondimento del pensiero e la pratica di una paziente disponibilità ci
potrà portare a scoprire elementi di verità nelle posizioni e nelle esperienze
degli altri, ci pone di fronte al dovere d’esprimere con lealtà l’insegnamento
cristiano, proponendolo certo all’altri obiezione, ma anche all’altrui
apprezzamento. È questo l’itinerario sul quale i rispettivi interlocutori di
un’iniziativa dialogica maturano in sapienza, divenendo (in prospettiva)
“maestri”.
«E quale è la sua forma di esplicazione?» [Es. 87].
Il Santo Padre,
Paolo 6°, a questo punto si chiede, con solennità (dedicando all’interrogativo
un paragrafo specifico), quali possano essere le forme concrete di conduzione
del dialogo.
«Oh! molteplici sono le forme del dialogo della
salvezza. Esso obbedisce a esigenze sperimentali, sceglie i mezzi propizi, non
si lega a vani apriorismi, non si fissa in espressioni immobili, quando queste
avessero perduto virtù di parlare e di muovere gli uomini» [Es. 88].
Le modalità
concrete di conduzione del dialogo potranno, in effetti, essere molteplici. Su
questo
terreno appare tuttavia opportuno tanto evitare apriorismi quanto
adoperarsi per sfuggire ai rischî connessi al restare ancorati a formulazioni
che abbiano mostrato di aver perso la capacità di muovere gli animi e
d’interrogarli in profondità. Il dialogo dev’infatti rispondere a concrete
esigenze esistenzialmente sperimentabili e scegliere i mezzi e gli strumenti
più propizî.
«Qui si pone una grande questione, quella
dell'aderenza della missione della Chiesa alla vita degli uomini in un dato
tempo, in un dato luogo, in una data cultura, in una data situazione sociale» [Es. 89].
L’Ecclesiam suam affronta allora
pienamente la grande questione dell’aderenza della missione della Chiesa alla
vita degli uomini in una data epoca, in un dato luogo, in una data cultura, in
una data situazione sociale. Il problema è quello di come avvicinare i fratelli
restando nell’interezza della verità.
«Fino a quale grado la Chiesa deve uniformarsi alle
circostanze storiche e locali in cui svolge la sua missione? Come deve
premunirsi dal pericolo d'un relativismo che intacchi la sua fedeltà dogmatica
e morale? Ma come insieme farsi idonea a tutti avvicinare per tutti salvare,
secondo l'esempio dell'Apostolo: Mi son fatto tutto a tutti, perché tutti io
salvi (1Cor. 9,22)? Non si salva il mondo dal di
fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in
certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio
di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza di privilegî, o diaframma
di linguaggio incomprensibile, il costume comune, purché umano ed onesto,
quello dei più piccoli specialmente, se si vuole essere ascoltati e compresi.
Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell'uomo;
comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo.
Bisogna farsi fratelli degli uomini nell'atto stesso che vogliamo essere loro
pastori e padri e maestri. Il clima del dialogo è l'amicizia. Anzi il servizio.
Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l'esempio e il
precetto che Cristo ci lasciò (cf Gv. 13,14-17)» [Es. 90].
Fino a che punto la
Chiesa e i cristiani possono uniformarsi alle circostanze storiche e locali?
Com’è possibile non cadere in una forma di relativismo, che può potenzialmente
intaccare la fedeltà dogmatica e morale? Come in concreto rendersi idonei a
tutti, avvicinare tutti, interloquire con tutti, per poter offrire la
salvezza a tutti, secondo l’esempio di Paolo («mi sono fatto tutto per tutti,
per salvare a ogni costo qualcuno»: 1Cor.
9,22). Non si salva il mondo dal di fuori, seguendo l’esempio del Verbo
di Dio che si è fatto uomo, è necessario “incarnarsi” nelle forme di vita di coloro ai quali si vuol portare il
messaggio di Cristo. È quindi necessario e opportuno, per quanto possibile e
senza frapporre distanza di privilegî o di forme di linguaggio, condividere il
comune costume, purché umano e onesto, soprattutto quello dei più piccoli. È
opportuno anteporre l’ascolto alla parola: ascoltare la voce, ma soprattutto il
cuore dell’uomo, rispettarlo, e, per quanto possibile assecondarlo. Bisogna
farsi fratelli degli uomini nell’atto stesso in cui vogliamo presentar loro il
messaggio cristiano. Dobbiamo ricordare che il clima del dialogo è l’amicizia,
anzi il servizio. Tutto ciò dobbiamo ricordare e cercare il più possibile di
porre in atto, secondo l’esempio e la precisa indicazione che Gesù ci ha
lasciato: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi,
anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti,
perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv. 13,14-17).
Fin qui l’enciclica ha esposto, in forma davvero alta e
inedita, i principî di fondo del dialogo, la sua profonda fondazione
evangelica, l’essenzialità della sua pratica per la missione della Chiesa, gli
elementi metodologici di fondo. Nei paragrafi successivi (91-114), papa Paolo
6° passa ad analizzare in forma chiara ed esauriente gli aspetti descrittivi
che la pratica del dialogo comporta.
(Fine 1a
parte - segue )
Vico Equense, sabato 8 febbraio 2014
[1] – «Ed egli disse loro: "Per questo ogni scriba, divenuto
discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo
tesoro cose nuove e cose antiche"» (Mt. 13,52).
[2] – «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare
il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv. 3,17).
[3] – «Per questo [la sapienza] è apparsa sulla terra
/ e ha vissuto fra gli uomini» (Bar. 3,38).
[4] –
«"Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidone
fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse,
vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite» (Mt. 11,21).
[5] – «Allora
alcuni scribi e farisei gli dissero: "Maestro, da te vogliamo vedere un
segno". Ed egli rispose loro: "Una generazione
malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non
il segno di Giona il profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre
notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e
tre notti nel cuore della terra. Nel giorno del giudizio, quelli di Ninive si
alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla
predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di
Giona! Nel giorno del giudizio, la regina del Sud si
alzerà contro questa generazione e la condannerà, perché ella venne dagli
estremi confini della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Ed ecco, qui
vi è uno più grande di Salomone!» (Mt. 12,38-42).
«Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non
vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. Così si compie per loro la
profezia di Isaia che dice: Udrete, sì, ma non comprenderete, / guarderete,
sì, ma non vedrete. / Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
/ sono diventati duri di orecchî / e hanno chiuso gli occhî, / perché non
vedano con gli occhî, / non ascoltino con gli orecchî / e non comprendano con il
cuore / e non si convertano e io li guarisca! / Beati invece i vostri occhî
perché vedono e i vostri orecchî perché ascoltano. In verità io vi dico: molti
profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo
videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!» (Mt.
13,13-17).
[6] –
«Espose loro un'altra parabola, dicendo: "Il regno dei cieli è simile a un
granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più
piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre
piante dell'orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo
vengono a fare il nido fra i suoi rami"» (Mt. 13,31-32).
[7] – «Fate
dunque molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti
ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non
siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del
Signore» (Ef. 5,15-17).
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