domenica 30 marzo 2014

Il futuro delle biblioteche


Il futuro delle biblioteche





Quando nel mio quotidiano occuparmi di biblioteche mi accade (e avviene sempre più spesso) di incontrarmi e scontrarmi con l’affermazione che «con l’avvento d’internet non si avverte più la necessità di andare in biblioteca», non posso fare a meno d’interrogarmi sul futuro delle nostre biblioteche.

Di fronte alla pervasività delle opportunità offerte dalla rete, sul piano sia dell’informazione e della conoscenza sia delle molteplici offerte di nuovi supporti tecnici per la lettura alternativi al libro, in effetti, non si può evitare di pensare che l’itinerario storico dell’istituzione “biblioteca” stia per giungere fatalmente al proprio capolinea.

Se a questo aggiungiamo poi gli effetti nefasti che l’attuale fase di recessione economica, con la conseguente drastica contrazione degli investimenti pubblici, produce sullo sviluppo e sul funzionamento delle biblioteche, nonché le oggettive difficoltà che il mondo delle biblioteche incontra nel costruire e affermare socialmente un processo efficace di advocacy (a costituirsi cioè come un autorevole gruppo di pressione capace d’influenzare le politiche pubbliche e l'allocazione delle risorse all'interno dei sistemi politici, economici e sociali e delle relative istituzioni), si può legittimamente essere indotti a conclusioni sconfortanti.
L’effetto convergente, da un lato, di un processo storico di lungo periodo che propone nuovi paradigmi nella forma e nella sostanza dei processi di trasmissione e di formazione della conoscenza e, dall’altro, del restringersi (anche forzato dalla congiuntura economica) della considerazione sociale per i servizî bibliotecarî, può apparire un vero ’e proprio nodo scorsoio che lentamente, ma inesorabilmente, toglie  respiro vitale alle biblioteche e svilisce il ruolo professionale e sociale di quanti vi operano.
La questione è decisamente seria e, a mio parere, va affrontata con serietà e lungimiranza.
Nella vicenda storica dell’umanità è difficile individuare istituti o strutture sociali ai quali si possa riconoscere il connotato della perennità. È quindi immaginabile che anche la sia pur millenaria istituzione biblioteca possa in un futuro non molto lontano rivelarsi superata e venir sostituita da altri istituti più rispondenti alle esigenze dell’umanità del 21° secolo. Lo stesso oggetto “libro”, come luogo fisico di condensazione e comunicazione della conoscenza, ha sviluppato una sua peculiare evoluzione storica che lo ha visto transitare attraverso una pluralità di formati materiali, di tecniche produttive, di modalità di conservazione. Nessuna meraviglia, dunque, che il progresso tecnico, come sta già facendo, possa porre a disposizione nuovi strumenti e nuovi formati. La considerazione che spesso facciamo dell’essenzialità nella lettura e nello studio della disponibilità materiale del libro, dell’esigenza di sfogliarlo manualmente, di poter tornare alla pagina in cui si è letta una cosa interessante, di poterlo annotare, di poterlo leggere al tavolo di studio, accoccolati in poltrona, in treno o in tram, all’ombra di un albero, sdraiati al letto prima di addormentarsi, su una sdraio alla spiaggia, seduti su un masso di una scogliera, dice senz’altro molto di vero del legame esistenziale di tanti di noi con l’oggetto libro. Se tuttavia ci guardiamo intorno, non possiamo non constatare come una familiarità analoga a quella che noi viviamo con il libro, è già ampiamente diffusa, e appare anche in ulteriore e vertiginosa crescita, nei confronti dei nuovi strumenti portatili di comunicazione. Una familiarità che non coinvolge solo le generazioni più giovani e che di certo ha ampiamente superato i confini di una moda passeggera.
Non mi spaventa allora la prospettiva che tra qualche decennio “libro a stampa” e “biblioteca” potranno verosimilmente essere oggetto d’interesse solo da un punto di vista antiquario, se non addirittura di archeologia culturale. In realtà “libro a stampa” e “biblioteca” dicono una relazione essenziale e insostituibile con una dimensione strutturale e profonda dell’umanità: la dimensione della “conoscenza”. Non mi avventuro certo su terreni filosofici miranti a definire la dimensione della “conoscenza” come una struttura perenne e ineliminabile dell’umanità, ma è certo almeno che all’orizzonte non è percepibile alcun segnale che possa nemmeno lontanamente far presagire l’imminenza di una caduta della sua utilità sociale. Se dunque è immaginabile che “libri a stampa” e “biblioteche” in un futuro prossimo possano venir messi in disparte, mi sembra certo che i processi di formazione, condensazione e trasmissione della conoscenza continueranno a essere aspetti ai quali le comunità civili dovranno prestare la massima attenzione. Aspetti ai quali sarà necessario riservare spazî reali, siano essi spazî fisici, spazî virtuali o digitali. Altrettanto essenziale sarà investire in essi risorse e dedicare competenze specifiche e adeguate. Potrà non essere più necessario leggere un libro, ma resterà ancora indispensabile leggere, studiare, conoscere, incontrare gli altri e confrontarsi con le loro esperienze. E per far questo, tra le altre cose, sarà necessario (anzi indispensabile) l’apporto di professionalità specifiche, duttili e di alta competenza.
Di fronte al forse inevitabile ridimensionamento numerico e di rilevanza sociale delle biblioteche, mi sembra allora che l’atteggiamento più adeguato non sia né quello dello sconforto e né quello della rassegnazione. In questo mi torna di aiuto un insegnamento di sant’Agostino che, dinanzi alle rovine della città di Roma, seppe porre in evidenza come la grandezza di una città consista non tanto nelle sue costruzioni, quanto nelle qualità dei suoi cittadini. Lo stesso si può dire per la questione che stiamo affrontando: se l’attuale strutturazione delle biblioteche è destinata a essere superata, la dimensione culturale dei professionisti delle biblioteche si trova invece dinanzi a una sfida, certo impegnativa, ma sotto tanti aspetti entusiasmante, che le giovani bibliotecarie e i giovani bibliotecarî devono senz’altro raccogliere e portare avanti, investendo in essa le proprie energie, le proprie idee e le proprie capacità. Una sfida che da tanti indizî quotidiani verifico che i giovani colleghi stanno concretamente e coraggiosamente ingaggiando.
La comunità bibliotecaria, per esempio, da alcuni anni ha inaugurato un’interessante percorso professionale su una dimensione peculiare della professionalità. Mi riferisco al campo, definito con un anglismo, come Information Literacy, al quale la letterale trasposizione in italiano come “competenza informativa” non rende per nulla giustizia. Si tratta in realtà della capacità professionale di identificare, individuare, valutare, organizzare, utilizzare e comunicare le informazioni e la conoscenza. Mi sembra questo il naturale sbocco della professionalità bibliotecaria, che potrà svolgersi in un luogo fisico come la biblioteca o attraverso la mediazione di una struttura digitale on-line, che tuttavia non potrà fare a meno di una raffinata capacità di selezionare le risorse informative e conoscitive disponibili materialmente o in rete, di valutarne la qualità e di proporle e renderle disponibili secondo le esigenze del pubblico richiedente. Un’attività che sarà necessario graduare per campi di ricerca e per livelli d’interesse (ricerca, competenza, divulgazione, informazione, ecc.).
Lo stesso dicasi per la vasta sperimentazione in corso sugli approccî bibliometrici, di analisi citazionale, con l’approntamento in questo settore di studio, di strumenti di valutazione della qualità dei contributi, come quello dell’impact factor. Un metodo che, a mio avviso, sarebbe opportuno provare a estendere dal campo della ricerca (a cui è di preferenza sinora applicato) a terreni più generali e diversificati.
In quest’ottica mi sembra si muova anche l’evoluzione vissuta in questi ultimi anni dall’AIB, l’Associazione italiana biblioteche, che ha accentuato notevolmente la propria dimensione professionale, attraverso una selezione e un monitoraggio dell’offerta professionale dei proprî associati. La scommessa intesa a garantire un’elevata qualità dell’offerta professionale messa a disposizione del mondo delle biblioteche mi sembra il segno che si è imboccato il sentiero giusto per porre nel dovuto risalto la dimensione culturale a tutto tondo di chi lavora in biblioteca.
La valorizzazione, infine, di chi professionalmente opera in biblioteca, mi sembra anche la garanzia più solida e più credibile per affermare, sul piano deontologico, i valori centrali della professione, quali quelli del diritto universale di accesso alle fonti dell’informazione e della conoscenza. Valori che nelle evoluzioni in corso nella società globale dell’informazione sono tutt’altro che assicurati. In questa sfida naturalmente una categoria professionale che sappia con sapienza, saggezza e lungimiranza delineare il proprio status epistemologico e deontologico e che sia capace, altresì, di ritagliare una propria funzione sociale non facilmente surrogabile può naturalmente dire la sua.

Sergio Sbragia
(domenica, 30 marzo 2014)
 

sabato 29 marzo 2014

Il disagio di un democratico



Il disagio di un democratico




Sono, sin dalla sua fondazione, un elettore del Partito democratico e sono convinto che senza il Partito democratico in Italia non sia percorribile alcun itinerario di cambiamento. Dico con chiarezza che alle ultime primarie non ho votato per Matteo Renzi, anche se da convinto democratico, accetto la scelta fatta, nelle urne delle primarie, dalla grande maggioranza del partito; un partito del quale continuo a essere un convinto sostenitore, e per il quale continuerò a votare anche in futuro.

Ritengo tuttavia necessario esporre con franchezza e apertamente le ragioni del mio personale disagio rispetto al metodo di lavoro inaugurato da Matteo Renzi, un metodo che ritengo poco coerente con la natura stessa del Partito democratico e che auspico venga al più presto corretto.

Una delle principali ragioni per cui alle primarie non ho votato per Matteo Renzi è stata la poca considerazione mostrata, a mio parere, da Renzi stesso per il suo incarico di Sindaco di Firenze. Sono convinto che alcuni incarichi pubblici, e in particolare quello di Sindaco, richiedano a chi li ricopre un coinvolgimento pieno. La singolare procedura d’investitura che l’ordinamento vigente prevede per l’elezione del Sindaco di una città, con liste fortemente centrate sulle persone candidate, con la possibile celebrazione di due tornate elettorali (con relativi costi a carico dell’erario), appare fortemente centrata sulla persona eletta a Sindaco, che si ritrova a ricevere dai proprî concittadini un mandato forte. Una procedura elettorale a cui, per altro, si guarda con grande attenzione come a un utile modello per altri contesti elettorali. È dunque alquanto naturale che da un Sindaco ci si aspetti una grande dedizione per il mandato ricevuto e che il suo impegno si protragga sino alla sua naturale scadenza . Alla luce di questa convinzione nei mesi scorsi ho guardato con una certa preoccupazione alla strategia seguìta da Matteo Renzi e al suo attivismo per giungere alla segreteria del Pd, come anche ad altri preoccupanti atteggiamenti diffusi un po’ in tutte le forze politiche che denotano, a mio avviso, un grave e diffuso deficit di “cultura democratica”. Alcuni mesi fa, ho infatti espresso questa mia preoccupazione in un contributo pubblico di domenica 8 settembre 2013, titolato proprio “Un grave problema di cultura democratica” [http://sergiosbragia.blogspot.it/2013/09/un-grave-problema-di-cultura-democratica.html]. Un contributo nel quale ho, tra l’altro, fatto anche un cenno critico all’aspirazione di Matteo Renzi a sommare nella propria persona l’incarico di Sindaco e quello di segretario del partito.

Il mio non essere persuaso della validità e della correttezza di una pratica politica consistente nello stare contemporaneamente a Palazzo Vecchio e alla Leopolda si fondava sulla convinzione che alcuni impegni (quali quelli di Sindaco, di Segretario di un partito, di Ministro degli interni, ecc.) non fossero degli incarichi a “part-time” e che il dovuto rispetto per i cittadini, per gli elettori di un partito e per le istituzioni democratiche richiedessero dalle persone investite di un incarico pubblico o di partito una dedizione piena. Se si “pone mano all’aratro” si ha il dovere di “arare il campo”, non ci si può “volgere indietro” e lasciarsi affascinare da altre sirene e da altre avventure. Si ha il dovere di portare a compimento l’impegno assunto.

Lo svolgimento delle primarie ha tuttavia manifestato una larga convergenza di opinione attorno alla prospettiva delineata, per il partito, da Matteo Renzi. Ne ho preso atto, proprio perché sono convinto che il Pd sia una realtà plurale, dove l’iniziativa politica è delineata con metodo democratico e con grande partecipazione di idee e di energie. Un elemento che segna una decisa differenza con altre forze politiche guidate da individualità monarchiche e miliardarie, dove le decisioni sono condizionate dalla capacità del leader/padrone di orientare le opinioni facendo leva sulla propria straripante supremazia economica, attraverso abili orchestrazioni di costose campagne pubblicitarie, la promozione di iniziative pubbliche abilmente sfruttate sul piano mediatico, lo svolgimento di artate consultazioni condotte e pilotate nel “segreto” della rete (e non nelle piazze) che sortiscono “immancabilmente” esiti plebiscitarî, senza per altro disdegnare il ricorso a metodi di stampo staliniano come le riunioni a porte chiuse o l’espulsione di quanto “osano” proporre idee nuove o chiedere di discutere la linea decisa dal leader/padrone. Su questa base, all’indomani delle primarie, ho fatto un’apertura di credito nei confronti di Matteo Renzi, augurandomi che il suo impegno alla segreteria del partito potesse contribuire all’affermazione della proposta politica democratica.

Con sorpresa ho dovuto constatare come, nonostante l’ampio mandato conferitogli dalla base del partito, Matteo Renzi dopo solo pochi mesi abbia subìto il fascino di palazzo Chigi, relegando l’impegno di segretario del partito a una funzione secondaria e subalterna, con buona pace dei tanti che si sono recati ai seggî delle primarie. Ho visto così affermarsi di nuovo uno stile che punta a concentrare su poche persone una pluralità di incarichi e di funzioni, svilite così a compiti da assolvere “part-time” in modo approssimativo e frettoloso. Sono infatti convinto che tutte le persone, anche quelle più capaci e preparate, hanno in definitiva una sola testa e solo due mani. Sovraccaricare un singolo di troppi compiti espone al rischio reale che gli stessi compiti non siano assolti al meglio. Se poi si pensa al carattere assolutamente coinvolgente di ruoli quali quelli di “premier” e di “segretario di partito”, l’improponibilità della scelta di concentrarli sulla stessa persona dovrebbe ricadere sul piano della più naturale ovvietà.

Al di là dell’impercorribilità pratica (per una singola persona) della sovrapposizione delle funzioni di capo del governo e di segretario politico del Pd, appaiono di tutta evidenza anche i limiti politici di una tale scelta, che prescinde del tutto da una democratica e sana cultura della distinzione. L’assunzione dell’incarico di Presidente del Consiglio dei ministri, richiede l’assoluta libertà e il pieno rispetto dell’istituzione. La persona incaricata risponde esclusivamente ai cittadini. Un leader di partito deve rispondere anche ai sostenitori della propria parte politica. Le due cose non sono coincidenti e la distinzione non è solo teorica. Mi chiedo, per esempio, ogni qual volta Matteo Renzi prende posizione su un tema qualsiasi se esprime la valutazione del governo o quella del partito, dove finisca l’una e dove inizî l’altra.

Non solo, ma, a mio parere, così facendo in definitiva si afferma una logica poco rispettosa dei diritti democratici.

Infatti uno degli aspetti primarî su cui si giudica il carattere autenticamente democratico di un asetto politico è quello del rispetto delle minoranze. Quando il capo del partito maggioritario assume in prima persona la guida del governo del paese, il principio del rispetto delle minoranze ne viene a soffrire gravemente. Per contro l’incarico a una diversa personalità, attraverso l’attuazione del principio democratico della divisione dei poteri, offrirebbe di certo maggiori garanzie.

La cosa appare, per altro, poco rispettosa anche nei confronti delle altre forze politiche che concorrono all’attività del governo. Il ruolo preminente svolto nella compagine governativa e nella sua attività corrente dal leader di uno dei partiti, finisce per sminuire e porre in secondo piano il contributo dato dagli altri partner, venendosi a configurare con l’evolversi delle situazione in un’oggettiva debolezza dell’azione di governo.

Può sembrare strano, ma alla fin fine, la scelta della coincidenza tra leader del paese e leader di partito si configura anche come poco rispettosa per lo stesso Partito democratico. Il programma di governo e il programma politico del partito non coincidono ne possono coincidere. Il primo è frutto di un accordo trasparente sottoscritto tra più forze politiche, al cui interno sono stati individuati temi condivisi e sono state poste tra parentesi azioni che non hanno, tra le stesse forze politiche, riscosso il consenso necessario. Il secondo, invece, esprime la visione complessiva di società che una forza politica propone per il paese. Questa visione, che non è un’agenda politica immediata è tuttavia una funzione necessaria che nel quotidiano dibattito politico deve essere adeguatamente rappresentata. Una funzione che, per quanti sforzi faccia, un Presidente del Consiglio non potrà mai concretizzare pienamente senza venire meno agli obblighi proprî della sua funzione.

Non mi sento, infine, di condividere l’opinione di quanti ritengono che la scelta di conferire l’incarico di premier al segretario politico di un partito, sia un elemento di forza per il governo, perché dice dell’effettivo e pieno sostegno del partito di maggioranza relativa all’azione del governo. Sono invece convinto che, più che un elemento di forza, una tale opzione sia un segno di debolezza. Passati i momenti un po’ rituali e formalistici dell’insediamento, connotati inevitabilmente da immancabili lineamenti trionfalistici, quando viene l’ora delle scelte concrete e quando si prospettano nella congiuntura politica scenarî inediti e imprevisti, iniziano i distinguo e le scissioni di responsabilità. Le stesse altre forze che hanno dato vita al governo avvertono il peso della propria marginalità nell’azione di governo, subiscono la tentazione di rendere pubblico il carattere condizionato del proprio sostegno al governo e sono indotte a lasciare l’ingrato compito di “togliere le castagne dal fuoco” al leader del partito di maggioranza relativa, che non potrà avvalersi della necessaria, opportuna e utile distribuzione delle funzioni tra più persone.

Con questa mia presa di posizione, che assumo apertamente, perché ritengo che di politica sia giusto parlare apertamente come una cosa che riguarda tutti e che sia di rifuggire ogni rintanarsi al chiuso delle riunioni interne, vorrei segnalare la necessità di una riflessione responsabile tra quanti hanno a cuore le sorti del partito e quelle del paese. Sono convinto che il popolo del Partito democratico sia il primo e più significativo baluardo per le sorti democratiche del paese. I difetti della nostra parte politica sono cose di cui dobbiamo avere il coraggio di parlare, per mettere insieme le forze, le capacità, le idee e le energie per correggerli. L’unica scelta sbagliata sarebbe quella di chiudere gli occhî e di ignorarli, o di impegolarci in sterili campagne negatrici dell’evidenza. Il pericolo che ho cercato di segnalare è reale. Mi auguro che un dibattito sereno e concreto permetta di prenderne coscienza e che Matteo Renzi dimostri saggezza e lungimiranza politica lasciando ad altri la segreteria del partito per concentrarsi esclusivamente sull’azione di governo. Ne guadagnerebbero il partito, il governo e il paese.



Sergio Sbragia

Vico Equense, sabato 29 marzo 2014.

venerdì 21 marzo 2014

La venerazione mariana a Vico Equense

La venerazione mariana a Vico Equense.


La difficile ricerca di coerenza tra antiche pratiche cultuali e centralità cristologica della fede.

Nella comune esperienza della vita cristiana il riferimento alla figura della Madre di Gesù, Maria di Nàzareth, riveste tradizionalmente un rilievo notevolissimo. Sin dall’antichità l’attenzione dei cristiani alla figura di Maria è stata sempre grandissima, basti ricordare la controversia che nel 4°-5° sec. portò alla proclamazione, nel Concilio di Èfeso (431), del dogma della divina maternità di Maria, che da allora fu designata quale Theotókos (Madre di Dio). Nel corso dei secoli in tutte le regioni ove si è affermato il cristianesimo, soprattutto quello di orientamento cattolico, si è diffuso ampiamente il culto mariano, che ha assunto forme molto diversificate e ha profondamente innervato le esperienze di fede delle popolazioni. Questo è vero in tutte le regioni di lunga tradizione cristiana, ma assume caratteristiche del tutto singolari nelle regioni mediterranee, nell’Italia meridionale e in Campania.
Non sono di certo in grado di operare una sintesi esaustiva del culto mariano in Campania, ma posso cercare di dare una diretta testimonianza del significato che esso assume nella mia terra. Vivo in una piccola frazione di Vico Equense, un centro della penisola Sorrentina, in provincia di Napoli, dove ogni paese, ogni frazione, oserei dire ogni angolo di strada, custodisce una cappella, un’edicola votiva, un’effigie dedicata alla Madonna o un segno concreto di culto e devozione mariana.
Nella mia comunità parrocchiale, o intorno ad essa, sono presenti numerose esperienze di devozione mariana. In primo luogo incontriamo forme di culto che sono diffuse universalmente nella Chiesa cattolica. È il caso, per esempio, per il culto per Maria SS. del Monte Carmelo che ha il suo centro nella chiesetta di Sant’Antonio, nella frazione di Sant’Andrea, dove ogni anno, il 16 luglio, Maria viene onorata con una celebrazione all’aperto di particolare significato. Ma è anche il caso della festa di Maria SS. Assunta in cielo, che è forse la festività di maggiore rilevanza nella mia comunità parrocchiale, dove il 15 agosto e nei giorni immediatamente precedenti l’effigie della Madonna è portata solennemente in processione nelle varie frazioni per solenni celebrazioni all’aperto. Molto sentita è anche la venerazione per il mistero dell’Annunciazione, basti pensare che la chiesa ex cattedrale di Vico Equense è intitolata proprio a Maria SS. Annunziata.
Sono profondamente sentite anche forme di culto di respiro regionale, come, per esempio, la devozione particolarmente intensa per la beata Vergine del Rosario di Pompei o per Santa Maria di Montevergine.
Ma l’aspetto del culto mariano che mi preme porre in maggiore evidenza è legato piuttosto a devozioni di carattere propriamente locale, che hanno la loro origine in vicende peculiari della nostra comunità e sono espressione di tradizioni di fede profondamente radicate. Riferisco solo di tre esperienze, consapevole di tralasciarne altre pur significative. Il mio intento è, infatti, più esemplificativo che esaustivo.
Il primo esempio si riferisce al culto di Santa Maria del Toro, avente il suo centro nell’omonima chiesa di Vico Equense, che, secondo le testimonianze disponibili, risale al 16° sec. quando in una grotta venne rinvenuto un dipinto risalente alla metà del 15° sec, raffigurante la Vergine col Bambino con alla destra san Bernardino. Sulla vicenda del miracoloso rinvenimento della sacra immagine esiste una duplice tradizione. Una prima recensione parla di un’anziana donna che, nel portare al pascolo un toro, venne attratta da una luce d’intensità soprannaturale proveniente da un anfratto, dall’esplorazione del luogo, abbandonato e infestato dai rovi, seguì il ritrovamento del dipinto. Una seconda versione riferisce, invece, di un toro al pascolo che ogni volta che passava dinanzi a una determinata grotta si inginocchiava. Successivamente l’apparizione in sogno a una ragazza storpia della Vergine che la invitava a recarsi, per ottenere la guarigione, proprio nella grotta dinanzi a cui soleva inginocchiarsi il toro, indusse la stessa ragazza a recarsi nel luogo indicato. Simultaneamente ebbero a verificarsi il miracolo della guarigione e il ritrovamento dell’immagine. Intorno alla grotta del rinvenimento venne poi costruita la Chiesa che, ancor oggi, conserva il dipinto.
Un altro particolare culto mariano è quello rivolto a Santa Maria Visita Poveri, che si celebra nella mia comunità parrocchiale in concomitanza con la solennità dell'Assunta. Nella chiesa parrocchiale è conservata e venerata una particolare immagine dedicata proprio a Santa Maria Visita Poveri, un dipinto risalente al 1609, opera dell’artista Cesare Calise, di Forio d'Ischia. Committenti dell’opera furono alcuni esponenti della famiglia Balsamo insediata nelle frazioni equensi di Bonea e di Sant’Andrea che, nelle loro frequenti relazioni con la città di Napoli, ebbero occasione di entrare in contatto, restandone profondamente colpiti, con il culto di Santa Maria Visita Poveri attivo nell’omonima chiesa allora esistente nella città partenopea nella zona del porto. L’immagine raffigura la Vergine che, tenendo in grembo Gesù bambino, stringe la croce, mentre dalla sua mano cadono delle monete. Il bambino, a sua volta, tiene nelle manine un pezzo di pane. Le monete e il pane simboleggiano entrambi la carità verso i poveri. L’effigie da allora è al centro di una fervida devozione popolare e di una diffusa sollecitudine per le opere caritative e assistenziali sorte a Bonea intorno alla sua venerazione.
L’ultima tradizione mariana che mi sento di richiamare è quella che nella vicinissima frazione di Massaquano è denominata, senz’alcun aggettivo, come la “Festa della Madonna” ed è celebrata ogn’anno il martedì di Pentecoste. Essa affonda le sue origini nell’antica festa di Santa Maria a Chieia, una vicina località oggi denominata “San Francesco”, per l’intervenuto insediamento di un convento di frati minori. La prima attestazione disponibile della chiesetta di Chieia risale al 1575, in un documento notarile che ne certifica la cessione (la Chiesetta doveva dunque già esistere da tempo) dall’omonima Congrega mariana ai frati francescani nel frattempo insediatisi nel luogo, con l’impegno, per questi ultimi, a continuare nel tempo quattro solenni celebrazioni annue in onore di Santa Maria a Chieia, tra le quali l’unica sopravvissuta sino a oggi è quella del martedì di Pentecoste. Con la cessione ai francescani della Chiesa di Santa Maria a Chieia, l’omonima Congrega mariana, ritiratasi successivamente nel centro abitato di Massaquano, restò tuttavia negli anni profondamente legata all’originario luogo di culto. A partire dal 1747 appare attestato lo svolgimento di un atto di devozione popolare che vede i fedeli portare solennemente in processione la statua della Madonna da Massaquano, attraverso un itinerario suggestivo quanto accidentato, sino alla Chiesa di Chieia (San Francesco) e ritorno. Il momento di maggiore emozione e solennità dell’evento è costituito dal rientro della Madonna a Massaquano, momento che a lungo è stato salutato dal cosiddetto “volo degli angeli”. Una rappresentazione, questa, che, ispirandosi all’uso del deus ex machina del teatro classico, vedeva due giovani vestiti da angeli sospesi a robusti cavi tesi, con un sistema di carrucole, librarsi nell’aria a mo’ di volo incontro a Maria portandole dei fiori. Quest’uso, profondamente coinvolgente, si è protratto sino al 1947. Dal 1979 si è invece affermata la nuova tradizione di accogliere il rientro della Madonna a Massaquano con un’autentica pioggia di petali di rosa, una scena particolarmente suggestiva, che impressiona con forza quanti vi partecipano. La festa mariana di Massaquano esercita una notevole attrazione in tutta la penisola sorrentina e vede il rientro a casa, per l’occasione, di tanti massaquanesi emigrati altrove.
Queste esperienze mariane, che ho cercato brevemente di tratteggiare, insistono su una base territoriale molto ristretta, i luoghi di culto intorno a cui si avvengono le celebrazioni distano tra di loro poche centinaia di metri. Esse sono profondamente connesse con le condizioni di vita della nostra gente, con le dure realtà del lavoro (le attività della pastorizia e dell’agricoltura), della sofferenza (la dura condizione della malattia e della disabilità), e in generale della povertà. Esse sono l’esempio di come, nel nostro paese, il culto mariano innervi pressoché ovunque e  profondamente l’esperienza di vita delle donne e degli uomini.
Esso ha intimamente contribuito a formare quella sorta di spiritualità spontanea che talvolta genera un riferimento immediato e più diretto alla figura di Maria, piuttosto che a quella di Gesù. Basti solo un esempio. Nel comune linguaggio quotidiano l’espressione della sorpresa, dello stupore o della percezione del pericolo si concretizza molto più frequentemente nell’esclamazione «Oh Madonna mia!», piuttosto che nell’omologa «Oh Gesù mio!». Questo è naturalmente un linguaggio ordinario e non di fede, ma manifesta senz’altro uno slittamento, nella comprensione corrente, dalla centralità cristologica della fede. Un’azione su questo piano richiede, tuttavia, una grande sensibilità e una profonda saggezza pastorale. È vero che, in taluni casi, certe forme di culto mariano (e non mi sembra sia il caso delle manifestazioni che ho richiamato) dia luogo a comportamenti eccessivi o poco comprensibili nell’odierno contesto culturale, ma è altrettanto vero che la venerazione per Maria ha nutrito nel profondo generazioni e generazioni di credenti, contribuendo a formare, fino al livello di quella naturalità comportamentale non sempre pienamente consapevole, quella spiritualità e quella solidarietà originarie che ancora oggi fortunatamente contraddistinguono tanti comportamenti immediati della nostra gente. L’immagine della dedizione di Maria nei confronti di quanti vivono nel bisogno e nella sofferenza ispira ancora oggi tanti comportamenti spontanei di solidarietà e di condivisione. È questo un tesoro da conservare. Un elemento, a mio avviso, da valorizzare pienamente dinanzi al pericolo dell’egoismo programmatico, divenuto di fatto il valore centrale della cultura e della civiltà (o, meglio, della inciviltà) contemporanea. Un egoismo programmatico presentato dalle visioni liberiste addirittura nel quadro di un millantato status di scientificità.
L’adeguata presentazione della figura di Maria di Nàzareth, a mio parere, si configura come la sfida di maggiore rilevanza per il cristianesimo conciliare. La tentazione un po’ paternalistica di porre in evidenza, a ogni piè sospinto, i limiti cristologici ed ecclesiologici di determinate pratiche mariane può rivelarsi molto spesso controproducente e vanificare anche generose iniziative di dialogo e di confronto. Quanti nella comunità ecclesiale sono maggiormente legati alle forme della pietà mariana popolare, proprio per la significativa antichità di tali pratiche, al di là di autentiche posizioni di fede, rischiano di percepire la “novità” conciliare come un pericolo o, addirittura, come un tentativo di negazione del culto mariano più autentico. Mi sembra invece più saggia una posizione che punti a presentare una visione di Maria maggiormente centrata sul mistero dell’Annunciazione che, senza negare le altre prospettive da cui guardare alla Madre di Gesù, appare il punto di vista che meglio permette di porre in evidenza quella singolare capacità di Maria di Nàzareth di percepire e interpretare la volontà di Dio, che la rende la più autentica “lettrice dei segni dei tempi” e l’esempio più fulgido di percezione dei bisogni umani. Basti pensare alla sua attitudine a conservare nel suo cuore il senso degli eventi di cui era testimone, alla sua capacità di comprendere il da farsi nell’episodio di Cana, e, infine, alla chiara scelta dei poveri, degli umili e degli oppressi formulata nel Magnificat.
Una tale presentazione va, secondo me, declinata non in forma intellettualistica quanto (e questo lo sottolineo in chiave autocritica, anche sul piano personale) con la semplice presenza in questi momenti forti di celebrazione mariana. Una presenza da semplici credenti tra gli altri fratelli credenti, pronti tuttavia a segnalare la bellezza di una visione di Maria, destinataria dell’annunzio, pronta ad accogliere il progetto di Dio, capace di riconoscerne i segni nelle vicende della vita, che, con la sua presenza discreta ma essenziale nei racconti evangelici, sa far spazio alla centralità della missione di salvezza del Figlio. Uno spazio che, con sapienza e sensibilità, dobbiamo contribuire a recuperare e a far sedimentare nelle concrete pratiche di fede vissuta. A questo stile mariano di discrezione e di essenzialità ritengo sia opportuno cercare d’ispirare il nostro far “teologia di strada”, da fedeli tra i fedeli, ma attenti a discernere il senso di quanto accade.
Questo mi sembra quanto mai necessario anche per scongiurare due pericoli concreti che incombono sulle manifestazioni di religiosità popolare in Campania. Si tratta di due pericoli che, per onore della verità, non toccano le esperienze locali che ho qui presentato, ma che, a ragione della loro gravità, vanno presi nella massima considerazione.
Il primo pericolo è dato dal fatto che non di rado nella nostra realtà le celebrazioni di pietà popolare sono oggetto delle attenzioni degli ambienti della criminalità organizzata. In varî casi si sono registrati episodî di condizionamenti imposti da ambienti malavitosi sulle modalità di svolgimento di eventi di culto popolare tendenti ad affermare su di essi una sorta di padrinaggio. Riveste quindi grande rilievo la partecipazione e la vigilanza dei fedeli per scongiurare fenomeni di tal genere, rispetto ai quali anche i vescovi della Campania hanno emanato direttive comportamentali finalizzate, tra l’altro, a prevenirli.
Il secondo pericolo è dato dai possibili condizionamenti consumistici. In penisola Sorrentina alcune antiche tradizioni di pietà popolare della settimana santa subiscono da varî anni la sorte di essere percepite di fatto più come evento spettacolare del folklore locale che come esperienza di fede, a causa del loro svolgersi in un periodo di consistente afflusso turistico, che ingenera un notevole squilibrio tra quanti “assistono” e quanti “partecipano” agli eventi. Queste celebrazioni sono in effetti utilizzate sul piano promozionale e del marketing turistico come concreti elementi di richiamo. Da qui un tendenziale snaturamento delle celebrazioni.
L’esigenza di preservare le celebrazioni di pietà mariana potrà, a mio avviso, trarre effettivo giovamento, più che dalle pur necessarie disposizioni disciplinari e canonistiche, dalla partecipazione affezionata, attiva e matura dei fedeli, che è anche la prima condizione affinché questi momenti forti siano vissuti e compresi sempre più in una prospettiva di fede autenticamente cristocentrica.



Sergio Sbragia

                                                              (contributo pubblicato su «Tempi di fraternità : donne e uomini in ricerca e confronto comunitario», 43. (2014) 04, pp. 24-26)