Il disagio di un democratico
Sono,
sin dalla sua fondazione, un elettore del Partito democratico e sono
convinto che senza il Partito democratico in Italia non sia percorribile alcun
itinerario di cambiamento. Dico con chiarezza che alle ultime primarie non ho
votato per Matteo Renzi, anche se da convinto democratico, accetto la scelta
fatta, nelle urne delle primarie, dalla grande maggioranza del partito; un
partito del quale continuo a essere un convinto sostenitore, e per il quale continuerò
a votare anche in futuro.
Ritengo
tuttavia necessario esporre con franchezza e apertamente le ragioni del mio
personale disagio rispetto al metodo di lavoro inaugurato da Matteo Renzi, un
metodo che ritengo poco coerente con la natura stessa del Partito democratico e
che auspico venga al più presto corretto.
Una
delle principali ragioni per cui alle primarie non ho votato per Matteo Renzi è
stata la poca considerazione mostrata, a mio parere, da Renzi stesso per il suo
incarico di Sindaco di Firenze. Sono convinto che alcuni incarichi pubblici, e
in particolare quello di Sindaco, richiedano a chi li ricopre un coinvolgimento
pieno. La singolare procedura d’investitura che l’ordinamento vigente prevede
per l’elezione del Sindaco di una città, con liste fortemente centrate sulle
persone candidate, con la possibile celebrazione di due tornate elettorali (con
relativi costi a carico dell’erario), appare fortemente centrata sulla persona
eletta a Sindaco, che si ritrova a ricevere dai proprî concittadini un mandato
forte. Una procedura elettorale a cui, per altro, si guarda con grande attenzione
come a un utile modello per altri contesti elettorali. È dunque alquanto
naturale che da un Sindaco ci si aspetti una grande dedizione per il mandato ricevuto
e che il suo impegno si protragga sino alla sua naturale scadenza . Alla luce
di questa convinzione nei mesi scorsi ho guardato con una certa preoccupazione
alla strategia seguìta da Matteo Renzi e al suo attivismo per giungere alla
segreteria del Pd, come anche ad altri preoccupanti atteggiamenti diffusi un
po’ in tutte le forze politiche che denotano, a mio avviso, un grave e diffuso
deficit di “cultura democratica”. Alcuni mesi fa, ho infatti espresso questa
mia preoccupazione in un contributo pubblico di domenica 8 settembre 2013,
titolato proprio “Un grave problema di cultura democratica” [http://sergiosbragia.blogspot.it/2013/09/un-grave-problema-di-cultura-democratica.html]. Un contributo nel quale ho, tra l’altro, fatto anche
un cenno critico all’aspirazione di Matteo Renzi a sommare nella propria
persona l’incarico di Sindaco e quello di segretario del partito.
Il
mio non essere persuaso della validità e della correttezza di una pratica
politica consistente nello stare contemporaneamente a Palazzo Vecchio e alla
Leopolda si fondava sulla convinzione che alcuni impegni (quali quelli di
Sindaco, di Segretario di un partito, di Ministro degli interni, ecc.) non
fossero degli incarichi a “part-time” e che il dovuto rispetto per i cittadini,
per gli elettori di un partito e per le istituzioni democratiche richiedessero
dalle persone investite di un incarico pubblico o di partito una dedizione
piena. Se si “pone mano all’aratro” si ha il dovere di “arare il campo”, non ci
si può “volgere indietro” e lasciarsi affascinare da altre sirene e da altre
avventure. Si ha il dovere di portare a compimento l’impegno assunto.
Lo
svolgimento delle primarie ha tuttavia manifestato una larga convergenza di
opinione attorno alla prospettiva delineata, per il partito, da Matteo Renzi.
Ne ho preso atto, proprio perché sono convinto che il Pd sia una realtà
plurale, dove l’iniziativa politica è delineata con metodo democratico e con
grande partecipazione di idee e di energie. Un elemento che segna una decisa
differenza con altre forze politiche guidate da individualità monarchiche e
miliardarie, dove le decisioni sono condizionate dalla capacità del
leader/padrone di orientare le opinioni facendo leva sulla propria straripante
supremazia economica, attraverso abili orchestrazioni di costose campagne
pubblicitarie, la promozione di iniziative pubbliche abilmente sfruttate sul
piano mediatico, lo svolgimento di artate consultazioni condotte e pilotate nel
“segreto” della rete (e non nelle piazze) che sortiscono “immancabilmente”
esiti plebiscitarî, senza per altro disdegnare il ricorso a metodi di stampo staliniano
come le riunioni a porte chiuse o l’espulsione di quanto “osano” proporre idee
nuove o chiedere di discutere la linea decisa dal leader/padrone. Su questa
base, all’indomani delle primarie, ho fatto un’apertura di credito nei
confronti di Matteo Renzi, augurandomi che il suo impegno alla segreteria del
partito potesse contribuire all’affermazione della proposta politica
democratica.
Con
sorpresa ho dovuto constatare come, nonostante l’ampio mandato conferitogli dalla
base del partito, Matteo Renzi dopo solo pochi mesi abbia subìto il fascino di
palazzo Chigi, relegando l’impegno di segretario del partito a una funzione
secondaria e subalterna, con buona pace dei tanti che si sono recati ai seggî
delle primarie. Ho visto così affermarsi di nuovo uno stile che punta a
concentrare su poche persone una pluralità di incarichi e di funzioni, svilite
così a compiti da assolvere “part-time” in modo approssimativo e frettoloso.
Sono infatti convinto che tutte le persone, anche quelle più capaci e
preparate, hanno in definitiva una sola testa e solo due mani. Sovraccaricare
un singolo di troppi compiti espone al rischio reale che gli stessi compiti non
siano assolti al meglio. Se poi si pensa al carattere assolutamente
coinvolgente di ruoli quali quelli di “premier” e di “segretario di partito”,
l’improponibilità della scelta di concentrarli sulla stessa persona dovrebbe ricadere
sul piano della più naturale ovvietà.
Al
di là dell’impercorribilità pratica (per una singola persona) della
sovrapposizione delle funzioni di capo del governo e di segretario politico del
Pd, appaiono di tutta evidenza anche i limiti politici di una tale scelta, che
prescinde del tutto da una democratica e sana cultura della distinzione.
L’assunzione dell’incarico di Presidente del Consiglio dei ministri, richiede
l’assoluta libertà e il pieno rispetto dell’istituzione. La persona incaricata
risponde esclusivamente ai cittadini. Un leader di partito deve rispondere
anche ai sostenitori della propria parte politica. Le due cose non sono
coincidenti e la distinzione non è solo teorica. Mi chiedo, per esempio, ogni
qual volta Matteo Renzi prende posizione su un tema qualsiasi se esprime la valutazione
del governo o quella del partito, dove finisca l’una e dove inizî l’altra.
Non
solo, ma, a mio parere, così facendo in definitiva si afferma una logica poco
rispettosa dei diritti democratici.
Infatti
uno degli aspetti primarî su cui si giudica il carattere autenticamente
democratico di un asetto politico è quello del rispetto delle minoranze. Quando
il capo del partito maggioritario assume in prima persona la guida del governo
del paese, il principio del rispetto delle minoranze ne viene a soffrire
gravemente. Per contro l’incarico a una diversa personalità, attraverso l’attuazione
del principio democratico della divisione dei poteri, offrirebbe di certo
maggiori garanzie.
La
cosa appare, per altro, poco rispettosa anche nei confronti delle altre forze
politiche che concorrono all’attività del governo. Il ruolo preminente svolto
nella compagine governativa e nella sua attività corrente dal leader di uno dei
partiti, finisce per sminuire e porre in secondo piano il contributo dato dagli
altri partner, venendosi a configurare con l’evolversi delle situazione in un’oggettiva
debolezza dell’azione di governo.
Può
sembrare strano, ma alla fin fine, la scelta della coincidenza tra leader del
paese e leader di partito si configura anche come poco rispettosa per lo stesso
Partito democratico. Il programma di governo e il programma politico del
partito non coincidono ne possono coincidere. Il primo è frutto di un accordo trasparente
sottoscritto tra più forze politiche, al cui interno sono stati individuati
temi condivisi e sono state poste tra parentesi azioni che non hanno, tra le
stesse forze politiche, riscosso il consenso necessario. Il secondo, invece,
esprime la visione complessiva di società che una forza politica propone per il
paese. Questa visione, che non è un’agenda politica immediata è tuttavia una
funzione necessaria che nel quotidiano dibattito politico deve essere
adeguatamente rappresentata. Una funzione che, per quanti sforzi faccia, un
Presidente del Consiglio non potrà mai concretizzare pienamente senza venire
meno agli obblighi proprî della sua funzione.
Non
mi sento, infine, di condividere l’opinione di quanti ritengono che la scelta
di conferire l’incarico di premier al segretario politico di un partito, sia un
elemento di forza per il governo, perché dice dell’effettivo e pieno sostegno
del partito di maggioranza relativa all’azione del governo. Sono invece
convinto che, più che un elemento di forza, una tale opzione sia un segno di
debolezza. Passati i momenti un po’ rituali e formalistici dell’insediamento,
connotati inevitabilmente da immancabili lineamenti trionfalistici, quando
viene l’ora delle scelte concrete e quando si prospettano nella congiuntura
politica scenarî inediti e imprevisti, iniziano i distinguo e le scissioni di responsabilità.
Le stesse altre forze che hanno dato vita al governo avvertono il peso della propria
marginalità nell’azione di governo, subiscono la tentazione di rendere pubblico
il carattere condizionato del proprio sostegno al governo e sono indotte a
lasciare l’ingrato compito di “togliere le castagne dal fuoco” al leader del
partito di maggioranza relativa, che non potrà avvalersi della necessaria, opportuna
e utile distribuzione delle funzioni tra più persone.
Con
questa mia presa di posizione, che assumo apertamente, perché ritengo che di
politica sia giusto parlare apertamente come una cosa che riguarda tutti e che
sia di rifuggire ogni rintanarsi al chiuso delle riunioni interne, vorrei
segnalare la necessità di una riflessione responsabile tra quanti hanno a cuore
le sorti del partito e quelle del paese. Sono convinto che il popolo del Partito
democratico sia il primo e più significativo baluardo per le sorti democratiche
del paese. I difetti della nostra parte politica sono cose di cui dobbiamo avere
il coraggio di parlare, per mettere insieme le forze, le capacità, le idee e le
energie per correggerli. L’unica scelta sbagliata sarebbe quella di chiudere
gli occhî e di ignorarli, o di impegolarci in sterili campagne negatrici dell’evidenza.
Il pericolo che ho cercato di segnalare è reale. Mi auguro che un dibattito sereno
e concreto permetta di prenderne coscienza e che Matteo Renzi dimostri saggezza
e lungimiranza politica lasciando ad altri la segreteria del partito per concentrarsi
esclusivamente sull’azione di governo. Ne guadagnerebbero il partito, il governo
e il paese.
Sergio Sbragia
Vico Equense, sabato 29 marzo 2014.
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