La venerazione mariana a Vico Equense.
La difficile ricerca di coerenza tra antiche pratiche cultuali e centralità cristologica della fede.
Nella comune esperienza della vita cristiana il
riferimento alla figura della Madre di Gesù, Maria di Nàzareth, riveste
tradizionalmente un rilievo notevolissimo. Sin dall’antichità l’attenzione dei
cristiani alla figura di Maria è stata sempre grandissima, basti ricordare la controversia
che nel 4°-5° sec. portò alla proclamazione, nel Concilio di Èfeso (431), del
dogma della divina maternità di Maria, che da allora fu designata quale Theotókos (Madre di Dio). Nel corso dei
secoli in tutte le regioni ove si è affermato il cristianesimo, soprattutto quello
di orientamento cattolico, si è diffuso ampiamente il culto mariano, che ha
assunto forme molto diversificate e ha profondamente innervato le esperienze di
fede delle popolazioni. Questo è vero in tutte le regioni di lunga tradizione
cristiana, ma assume caratteristiche del tutto singolari nelle regioni
mediterranee, nell’Italia meridionale e in Campania.
Non sono di certo in grado di operare una sintesi
esaustiva del culto mariano in Campania, ma posso cercare di dare una diretta
testimonianza del significato che esso assume nella mia terra. Vivo in una
piccola frazione di Vico Equense, un centro della penisola Sorrentina, in
provincia di Napoli, dove ogni paese, ogni frazione, oserei dire ogni angolo di
strada, custodisce una cappella, un’edicola votiva, un’effigie dedicata alla
Madonna o un segno concreto di culto e devozione mariana.
Nella mia comunità parrocchiale, o intorno ad essa, sono
presenti numerose esperienze di devozione mariana. In primo luogo incontriamo forme
di culto che sono diffuse universalmente nella Chiesa cattolica. È il caso, per
esempio, per il culto per Maria SS. del Monte Carmelo che ha il suo centro
nella chiesetta di Sant’Antonio, nella frazione di Sant’Andrea, dove ogni anno,
il 16 luglio, Maria viene onorata con una celebrazione all’aperto di
particolare significato. Ma è anche il caso della festa di Maria SS. Assunta in
cielo, che è forse la festività di maggiore rilevanza nella mia comunità
parrocchiale, dove il 15 agosto e nei giorni immediatamente precedenti
l’effigie della Madonna è portata solennemente in processione nelle varie
frazioni per solenni celebrazioni all’aperto. Molto sentita è anche la venerazione
per il mistero dell’Annunciazione, basti pensare che la chiesa ex cattedrale di
Vico Equense è intitolata proprio a Maria SS. Annunziata.
Sono profondamente sentite anche forme di culto di
respiro regionale, come, per esempio, la devozione particolarmente intensa per
la beata Vergine del Rosario di Pompei o per Santa Maria di Montevergine.
Ma l’aspetto del culto mariano che mi preme porre in
maggiore evidenza è legato piuttosto a devozioni di carattere propriamente
locale, che hanno la loro origine in vicende peculiari della nostra comunità e
sono espressione di tradizioni di fede profondamente radicate. Riferisco solo
di tre esperienze, consapevole di tralasciarne altre pur significative. Il mio
intento è, infatti, più esemplificativo che esaustivo.
Il primo esempio si riferisce al culto di Santa Maria del
Toro, avente il suo centro nell’omonima chiesa di Vico Equense, che, secondo le
testimonianze disponibili, risale al 16° sec. quando in una grotta venne
rinvenuto un dipinto risalente alla metà del 15° sec, raffigurante la Vergine
col Bambino con alla destra san Bernardino. Sulla vicenda del miracoloso
rinvenimento della sacra immagine esiste una duplice tradizione. Una prima
recensione parla di un’anziana donna che, nel portare al pascolo un toro, venne
attratta da una luce d’intensità soprannaturale proveniente da un anfratto,
dall’esplorazione del luogo, abbandonato e infestato dai rovi, seguì il
ritrovamento del dipinto. Una seconda versione riferisce, invece, di un toro al
pascolo che ogni volta che passava dinanzi a una determinata grotta si
inginocchiava. Successivamente l’apparizione in sogno a una ragazza storpia
della Vergine che la invitava a recarsi, per ottenere la guarigione, proprio
nella grotta dinanzi a cui soleva inginocchiarsi il toro, indusse la stessa
ragazza a recarsi nel luogo indicato. Simultaneamente ebbero a verificarsi il
miracolo della guarigione e il ritrovamento dell’immagine. Intorno alla grotta
del rinvenimento venne poi costruita la Chiesa che, ancor oggi, conserva il
dipinto.
Un altro particolare culto mariano è quello rivolto a Santa Maria
Visita Poveri, che si celebra nella mia comunità parrocchiale in concomitanza
con la solennità dell'Assunta. Nella chiesa parrocchiale è conservata e
venerata una particolare immagine dedicata proprio a Santa Maria Visita Poveri,
un dipinto risalente al 1609, opera dell’artista Cesare Calise, di Forio
d'Ischia. Committenti dell’opera furono alcuni esponenti della famiglia Balsamo
insediata nelle frazioni equensi di Bonea e di Sant’Andrea che, nelle loro frequenti
relazioni con la città di Napoli, ebbero occasione di entrare in contatto,
restandone profondamente colpiti, con il culto di Santa Maria Visita Poveri
attivo nell’omonima chiesa allora esistente nella città partenopea nella zona
del porto. L’immagine raffigura la Vergine che, tenendo in grembo Gesù bambino,
stringe la croce, mentre dalla sua mano cadono delle monete. Il bambino, a sua
volta, tiene nelle manine un pezzo di pane. Le monete e il pane simboleggiano
entrambi la carità verso i poveri. L’effigie da allora è al centro di una
fervida devozione popolare e di una diffusa sollecitudine per le opere caritative
e assistenziali sorte a Bonea intorno alla sua venerazione.
L’ultima tradizione mariana che mi sento di richiamare è
quella che nella vicinissima frazione di Massaquano è denominata, senz’alcun
aggettivo, come la “Festa della Madonna” ed è celebrata ogn’anno il martedì di
Pentecoste. Essa affonda le sue origini nell’antica festa di Santa Maria a
Chieia, una vicina località oggi denominata “San Francesco”, per l’intervenuto
insediamento di un convento di frati minori. La prima attestazione disponibile
della chiesetta di Chieia risale al 1575, in un documento notarile che ne
certifica la cessione (la Chiesetta doveva dunque già esistere da tempo)
dall’omonima Congrega mariana ai frati francescani nel frattempo insediatisi
nel luogo, con l’impegno, per questi ultimi, a continuare nel tempo quattro
solenni celebrazioni annue in onore di Santa Maria a Chieia, tra le quali
l’unica sopravvissuta sino a oggi è quella del martedì di Pentecoste. Con la
cessione ai francescani della Chiesa di Santa Maria a Chieia, l’omonima
Congrega mariana, ritiratasi successivamente nel centro abitato di Massaquano,
restò tuttavia negli anni profondamente legata all’originario luogo di culto. A
partire dal 1747 appare attestato lo svolgimento di un atto di devozione
popolare che vede i fedeli portare solennemente in processione la statua della
Madonna da Massaquano, attraverso un itinerario suggestivo quanto accidentato,
sino alla Chiesa di Chieia (San Francesco) e ritorno. Il momento di maggiore
emozione e solennità dell’evento è costituito dal rientro della Madonna a
Massaquano, momento che a lungo è stato salutato dal cosiddetto “volo degli
angeli”. Una rappresentazione, questa, che, ispirandosi all’uso del deus ex machina del teatro classico,
vedeva due giovani vestiti da angeli sospesi a robusti cavi tesi, con un
sistema di carrucole, librarsi nell’aria a mo’ di volo incontro a Maria
portandole dei fiori. Quest’uso, profondamente coinvolgente, si è protratto
sino al 1947. Dal 1979 si è invece affermata la nuova tradizione di accogliere
il rientro della Madonna a Massaquano con un’autentica pioggia di petali di
rosa, una scena particolarmente suggestiva, che impressiona con forza quanti vi
partecipano. La festa mariana di Massaquano esercita una notevole attrazione in
tutta la penisola sorrentina e vede il rientro a casa, per l’occasione, di
tanti massaquanesi emigrati altrove.
Queste esperienze mariane, che ho cercato brevemente di
tratteggiare, insistono su una base territoriale molto ristretta, i luoghi di
culto intorno a cui si avvengono le celebrazioni distano tra di loro poche
centinaia di metri. Esse sono profondamente connesse con le condizioni di vita
della nostra gente, con le dure realtà del lavoro (le attività della pastorizia
e dell’agricoltura), della sofferenza (la dura condizione della malattia e
della disabilità), e in generale della povertà. Esse sono l’esempio di come,
nel nostro paese, il culto mariano innervi pressoché ovunque e profondamente l’esperienza di vita delle
donne e degli uomini.
Esso ha intimamente contribuito a formare quella sorta di
spiritualità spontanea che talvolta genera un riferimento immediato e più
diretto alla figura di Maria, piuttosto che a quella di Gesù. Basti solo un
esempio. Nel comune linguaggio quotidiano l’espressione della sorpresa, dello
stupore o della percezione del pericolo si concretizza molto più frequentemente
nell’esclamazione «Oh Madonna mia!», piuttosto che nell’omologa «Oh Gesù mio!».
Questo è naturalmente un linguaggio ordinario e non di fede, ma manifesta senz’altro
uno slittamento, nella comprensione corrente, dalla centralità cristologica
della fede. Un’azione su questo piano richiede, tuttavia, una grande
sensibilità e una profonda saggezza pastorale. È vero che, in taluni casi,
certe forme di culto mariano (e non mi sembra sia il caso delle manifestazioni
che ho richiamato) dia luogo a comportamenti eccessivi o poco comprensibili
nell’odierno contesto culturale, ma è altrettanto vero che la venerazione per
Maria ha nutrito nel profondo generazioni e generazioni di credenti, contribuendo
a formare, fino al livello di quella naturalità comportamentale non sempre
pienamente consapevole, quella spiritualità e quella solidarietà originarie che
ancora oggi fortunatamente contraddistinguono tanti comportamenti immediati
della nostra gente. L’immagine della dedizione di Maria nei confronti di quanti
vivono nel bisogno e nella sofferenza ispira ancora oggi tanti comportamenti
spontanei di solidarietà e di condivisione. È questo un tesoro da conservare. Un
elemento, a mio avviso, da valorizzare pienamente dinanzi al pericolo
dell’egoismo programmatico, divenuto di fatto il valore centrale della cultura
e della civiltà (o, meglio, della inciviltà)
contemporanea. Un egoismo programmatico presentato dalle visioni liberiste addirittura
nel quadro di un millantato status di
scientificità.
L’adeguata presentazione della figura di Maria di
Nàzareth, a mio parere, si configura come la sfida di maggiore rilevanza per il
cristianesimo conciliare. La tentazione un po’ paternalistica di porre in
evidenza, a ogni piè sospinto, i limiti cristologici ed ecclesiologici di
determinate pratiche mariane può rivelarsi molto spesso controproducente e
vanificare anche generose iniziative di dialogo e di confronto. Quanti nella
comunità ecclesiale sono maggiormente legati alle forme della pietà mariana
popolare, proprio per la significativa antichità di tali pratiche, al di là di
autentiche posizioni di fede, rischiano di percepire la “novità” conciliare
come un pericolo o, addirittura, come un tentativo di negazione del culto
mariano più autentico. Mi sembra invece più saggia una posizione che punti a
presentare una visione di Maria maggiormente centrata sul mistero
dell’Annunciazione che, senza negare le altre prospettive da cui guardare alla
Madre di Gesù, appare il punto di vista che meglio permette di porre in
evidenza quella singolare capacità di Maria di Nàzareth di percepire e
interpretare la volontà di Dio, che la rende la più autentica “lettrice dei
segni dei tempi” e l’esempio più fulgido di percezione dei bisogni umani. Basti
pensare alla sua attitudine a conservare nel suo cuore il senso degli eventi di
cui era testimone, alla sua capacità di comprendere il da farsi nell’episodio
di Cana, e, infine, alla chiara scelta dei poveri, degli umili e degli oppressi
formulata nel Magnificat.
Una tale presentazione va, secondo me, declinata non in
forma intellettualistica quanto (e questo lo sottolineo in chiave autocritica,
anche sul piano personale) con la semplice presenza in questi momenti forti di
celebrazione mariana. Una presenza da semplici credenti tra gli altri fratelli
credenti, pronti tuttavia a segnalare la bellezza di una visione di Maria,
destinataria dell’annunzio, pronta ad accogliere il progetto di Dio, capace di
riconoscerne i segni nelle vicende della vita, che, con la sua presenza
discreta ma essenziale nei racconti evangelici, sa far spazio alla centralità
della missione di salvezza del Figlio. Uno spazio che, con sapienza e sensibilità,
dobbiamo contribuire a recuperare e a far sedimentare nelle concrete pratiche
di fede vissuta. A questo stile mariano di discrezione e di essenzialità
ritengo sia opportuno cercare d’ispirare il nostro far “teologia di strada”, da
fedeli tra i fedeli, ma attenti a discernere il senso di quanto accade.
Questo mi sembra quanto mai necessario anche per
scongiurare due pericoli concreti che incombono sulle manifestazioni di
religiosità popolare in Campania. Si tratta di due pericoli che, per onore
della verità, non toccano le esperienze locali che ho qui presentato, ma che, a
ragione della loro gravità, vanno presi nella massima considerazione.
Il primo pericolo è dato dal fatto che non di rado nella
nostra realtà le celebrazioni di pietà popolare sono oggetto delle attenzioni
degli ambienti della criminalità organizzata. In varî casi si sono registrati
episodî di condizionamenti imposti da ambienti malavitosi sulle modalità di
svolgimento di eventi di culto popolare tendenti ad affermare su di essi una
sorta di padrinaggio. Riveste quindi grande rilievo la partecipazione e la
vigilanza dei fedeli per scongiurare fenomeni di tal genere, rispetto ai quali
anche i vescovi della Campania hanno emanato direttive comportamentali
finalizzate, tra l’altro, a prevenirli.
Il secondo pericolo è dato dai possibili condizionamenti
consumistici. In penisola Sorrentina alcune antiche tradizioni di pietà
popolare della settimana santa subiscono da varî anni la sorte di essere
percepite di fatto più come evento spettacolare del folklore locale che come
esperienza di fede, a causa del loro svolgersi in un periodo di consistente
afflusso turistico, che ingenera un notevole squilibrio tra quanti “assistono”
e quanti “partecipano” agli eventi. Queste celebrazioni sono in effetti
utilizzate sul piano promozionale e del marketing turistico come concreti
elementi di richiamo. Da qui un tendenziale snaturamento delle celebrazioni.
L’esigenza di preservare le celebrazioni di pietà mariana
potrà, a mio avviso, trarre effettivo giovamento, più che dalle pur necessarie
disposizioni disciplinari e canonistiche, dalla partecipazione affezionata,
attiva e matura dei fedeli, che è anche la prima condizione affinché questi
momenti forti siano vissuti e compresi sempre più in una prospettiva di fede
autenticamente cristocentrica.
Sergio Sbragia
(contributo
pubblicato su «Tempi di fraternità : donne e uomini in ricerca e confronto
comunitario», 43. (2014) 04, pp. 24-26)
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