In questi giorni sui
muri della mia città, Vico Equense, ho avuto l’opportunità di leggere un manifesto
che informa i cittadini di un’iniziativa assunta dal Comune (Assessorato alla
politiche sociali) per il reclutamento dei partecipanti al pellegrinaggio in
Vaticano per partecipare all’udienza pubblica che sarà tenuta da papa Francesco
il prossimo 25 giugno. Ho letto con attenzione l’intero avviso pubblico è devo
confessare di essere rimasto profondamente ferito dal suo contenuto.
Un pellegrinaggio è un
evento di fede che si realizza in un contesto comunitario al quale partecipano
in piena libertà quanti condividono una comune esperienza spirituale e di fede.
È un momento di spiritualità orante che afferisce alla dimensione più intima e
sacra della persona umana nel suo rapporto personale e comunitario con Dio. È
un àmbito in cui è opportuno entrare in punta di piedi, avendo cura di rispettare
la sensibilità di fede che i cittadini hanno diritto di nutrire ed esprimere
nelle forme più varie. Cosa diversa sono le doverose e significative iniziative
di turismo sociale, che i servizi sociali dei comuni realizzano, in particolare
a beneficio dei cittadini in condizione di maggiore difficoltà. Tra le due cose
sussiste una differenza sostanziale, che non è riducibile a una sottigliezza
linguistica.
I pellegrinaggî sono
momenti di fede, rispetto ai quali le istituzioni pubbliche, dovrebbero doverosamente
assumere una posizione di assoluto rispetto dell’autonomia operativa,
promozionale e organizzativa propria delle legittime espressioni emergenti
dalla società civile d’ispirazione religiosa (comunità, parrocchie, assemblee
ecclesiali, movimenti, gruppi, associazioni, singoli, ecc.). La loro funzione
dovrebbe esprimersi semmai nel fornire a tali iniziative un supporto operativo,
consistente nel porre a disposizione, nel pieno rispetto del principio della
libertà religiosa, servizî utili per il loro migliore svolgimento e finalizzati
soprattutto a favorire la partecipazione dei cittadini in difficoltà sociale,
economica e fisica.
Nel caso in questione,
invece, si tiene a precisare esplicitamente che l’evento è organizzato dal
Comune (è detto testualmente nel manifesto) ed è confermato dal fatto che nella
delineazione dell’iniziativa alle Parrocchie viene conferita una funzione
meramente esecutiva e subalterna, fornendo loro anche indicazioni sui criterî
da seguire nella selezione dei partecipanti, come se le Parrocchie fossero
assimilabili agli ufficî comunali. Nulla da dire sulla priorità da riconoscere
alle persone in condizione di difficoltà sociale, economica e fisica (anche se
su questo mi sembra che le comunità parrocchiali, spesso, sono in proprio molto
più avanti dei servizî sociali di molti comuni). Appaiono invece del tutto
inaccettabili le indicazioni preferenziali per i partecipanti ai gruppi parrocchiali
e alle associazioni ecclesiali. Questo mi sembra un àmbito proprio e
insindacabile delle comunità religiose, nel quale le istituzioni pubbliche non
dovrebbero operare interferenza alcuna. L’indicazione, per altro, contrasta con
contenuti centrali del messaggio cristiano. Gesù ci ha ripetutamente insegnato
come sia essenziale preoccuparsi prioritariamente di cercare la pecora smarrita
piuttosto che le novantanove che sono al sicuro nell’ovile, e di mettere in
tavola il vitello grasso per il ritorno del figlio prodigo, piuttosto che per
la permanenza del figlio assennato. D’altronde l’appuntamento della partecipazione
all’udienza pubblica di papa Francesco potrebbe costituire un’occasione
preziosa per entrare in contatto con persone lontane dalla chiesa o poste ai
margini della vita ecclesiale. Quest’atteggiamento di attenzione ai lontani e
ai distanti mi sembra poi profondamente coerente con l’idea guida che papa Francesco
ci propone con grande intensità e in ogni occasione, e che ha sapientemente
delineato nell’esortazione apostolica Evangelii
gaudium («La Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte. Uscire
verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso
il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il
passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhî e ascoltare, o rinunciare
alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è
come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando
ritornerà possa entrare senza difficoltà» Evangelii
gaudium, 46).
Quella che ci propone
papa Francesco è l’avventura del navigare in “mare aperto”. Si può preferire di
accontentarsi delle acque protette e tranquille di una baia ben riparata, della
quale si conosce ogni anfratto e l’ordinario andamento delle correnti, rimanendo
nell’àmbito noto dei gruppi parrocchiali e dei movimenti ecclesiali. Oppure si
può raccogliere la sfida dell’uscire in “mare aperto”, del confrontarsi con
venti e correnti poco conosciuti, se non addirittura ignoti. Qui, la
navigazione è, di certo, meno facile e più pericolosa. Ma è il “mare aperto” il
luogo dove si tempra “il marinaio” e si forma “lo sperimentatore di nuove
rotte”. Certo, c’è il pericolo del fallimento, ma abbiamo anche la certezza che
la scelta di “nascondere il talento” è, in definitiva, quella che è realmente
priva di prospettive. La cosa diviene poi davvero preoccupante quando, come nel
caso in questione, la scelta è indotta da condizionamenti esterni.
Personalmente sono
convinto che non rientri nelle funzioni del Comune organizzare pellegrinaggî,
mentre è preciso dovere delle istituzioni pubbliche assicurare che gli eventi
di carattere religioso possano liberamente svolgersi, fornendo anche strumenti
e servizi per la loro celebrazione e concorrendo a rimuovere gli ostacoli
d’ordine politico, economico e sociale che possono impedire la partecipazione a
quei cittadini che pur vorrebbero liberamente prendervi parte. È in un contesto del genere che si può realizzare un
armonico quadro di rapporti tra istituzioni pubbliche e comunità religiose. Ciò
richiede tuttavia che tutte le parti interessate svolgano interamente le
proprie funzioni e dispieghino pienamente la propria vocazione, ma ponendo la
massima cura nel rispettare rigorosamente l’identità e le prerogative degli
interlocutori.
Con queste mie
riflessioni voglio solo esprimere il disagio e la sofferenza di un credente,
nella convinzione che il sentimento religioso costituisca una delle dimensioni
più preziose e intangibili della dignità della persona umana, una dimensione
che le istituzioni pubbliche hanno il dovere di rispettare, di garantirne
l’autonomia e sono investite della missione di promuoverne il pieno e regolare
esercizio. Ferire il sentimento religioso, anche di un solo cittadino,
costituisce un preoccupante sintomo che pone in discussione il livello di
qualità reale della nostra convivenza democratica.
Devo, infine, anche manifestare
la mia delusione, a meno che non mi sia sfuggito, per non aver avuto
l’opportunità d’ascoltare una qualche voce dalla comunità ecclesiale che abbia
tentato di operare una riflessione sulla necessità di dare a Cesare ciò che è
di Cesare e a Dio ciò che è di Dio.
Vico Equense, venerdì
20 giugno 2014
Sergio Sbragia
Nessun commento:
Posta un commento