Ho appreso della decisione del governo ungherese di
procedere, allo scopo di impedire l’ingresso di profughi sul proprio
territorio, alla costruzione di un muro lungo il confine che separa il paese
magiaro dalla Serbia.
Data la mia non più giovane età, questo evento mi ricorda
un altro muro costruito negli anni ’60 nella città di Berlino e rimasto in
piedi per circa un trentennio. In quegli anni abbiamo visto tante persone
cercare di superare quel muro. In alcuni casi quei tentativi riuscivano e noi,
in occidente, gioivamo per l’impresa riuscita di chi aveva così chiuso con una
realtà di oppressione e poteva iniziare l’avventura di un nuova vita in un
contesto sociale democratico e accogliente. Molti altri, invece, fallivano
andando incontro alla morte o a forme crudeli di rappresaglia per opera dei
servizi di “sicurezza” (si fa per dire) della Repubblica Democratica Tedesca.
In quegli anni i movimenti democratici occidentali si
sono battuti con decisione contro le politiche repressive e negatrici dei
diritti umani poste in essere dai paesi del blocco sovietico, puntando ad
affermare il principio, davvero nobile, della libera circolazione delle persone
e delle idee. Un principio che ha nutrito le coscienze di tantissimi miei
coetanei. Successivamente nella comunicazione e nella mentalità corrente è
stato pian piano sostituito dal principio della libera circolazione dei
capitali.
In quegli anni si aveva tuttavia la sensazione che quel
muro fosse solido e non se ne prevedeva di certo un facile crollo.
Quando, invece, al passaggio degli anni ’90 abbiamo
assistito al suo effettivo crollo tutti abbiamo gioito per il più grande
fenomeno di accoglienza di massa di extra-comunitarî mai registrato. Un evento
che ha fatto onore all’Europa democratica.
Chi negli anni ’60 assunse la decisione della costruzione
del muro era convinto di aver trovato una soluzione efficace per garantire la
sicurezza del proprio regime. La storia ha poi decretato la sconfitta dei
costruttori di muri e l’illusorietà delle loro scelte.
Pensavamo che dopo il crollo del muro di Berlino, l’era
dei muri fosse definitivamente tramontata. E invece abbiamo dovuto constatare
che il fascino perverso dell’illusoria sensazione di sicurezza fornita dai muri
e dalle barriere ha ripreso a contagiare mefiticamente le relazioni
internazionali. E’ il caso, solo per fare qualche esempio, dei muri costruiti
alle frontiere tra gli Stati uniti d’America e il Messico, o di quelli eretti
dagli israeliani in Cisgiordania per scongiurare attacchi da parte palestinese.
Costruzioni costosissime e del tutto inefficaci, basti pensare a quanti
messicani, in barba a tutti i muri, comunque sono entrati ed entrano negli
Stati uniti, tanto che negli States
oggi lo spagnolo è forse più parlato dell’inglese. E in medio oriente,
nonostante i muri e una schiacciante superiorità militare, la questione
palestinese non è certamente liquidata.
Historia magistra vitae.
L’esperienza ci ha mostrato che i costruttori di muri
sono destinati, prima o poi, alla sconfitta. Sono invece i costruttori di ponti
gli autentici artefici del futuro.
Di fronte ai problemi, tanto più se gravi e drammatici, l’unica
strada sbagliata è quella dell’isolamento. L’alternativa, quella della
relazione, quella di mettersi in gioco senza timori, è certamente impegnativa e
non permette di programmare e prevedere passo dopo passo il percorso e le
conseguenze, ma è anche la scelta che permette a tutti di crescere, di maturare
e di gettare le fondamenta di un nuovo sviluppo. La relazione è poi la
vocazione primaria del nostro paese. L’Italia nella sua lunghissima storia ha
conosciuto i periodi di maggiore affermazione sul piano culturale ed economico proprio
quando è stata al centro delle relazioni tra i paesi e i popoli gravitanti sul
bacino del mar Mediterraneo.
Vico Equense, mercoledì 17 giugno 2015
Sergio Sbragia
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