mercoledì 17 giugno 2015

Tornano i muri



Ho appreso della decisione del governo ungherese di procedere, allo scopo di impedire l’ingresso di profughi sul proprio territorio, alla costruzione di un muro lungo il confine che separa il paese magiaro dalla Serbia.
Data la mia non più giovane età, questo evento mi ricorda un altro muro costruito negli anni ’60 nella città di Berlino e rimasto in piedi per circa un trentennio. In quegli anni abbiamo visto tante persone cercare di superare quel muro. In alcuni casi quei tentativi riuscivano e noi, in occidente, gioivamo per l’impresa riuscita di chi aveva così chiuso con una realtà di oppressione e poteva iniziare l’avventura di un nuova vita in un contesto sociale democratico e accogliente. Molti altri, invece, fallivano andando incontro alla morte o a forme crudeli di rappresaglia per opera dei servizi di “sicurezza” (si fa per dire) della Repubblica Democratica Tedesca.
In quegli anni i movimenti democratici occidentali si sono battuti con decisione contro le politiche repressive e negatrici dei diritti umani poste in essere dai paesi del blocco sovietico, puntando ad affermare il principio, davvero nobile, della libera circolazione delle persone e delle idee. Un principio che ha nutrito le coscienze di tantissimi miei coetanei. Successivamente nella comunicazione e nella mentalità corrente è stato pian piano sostituito dal principio della libera circolazione dei capitali.
In quegli anni si aveva tuttavia la sensazione che quel muro fosse solido e non se ne prevedeva di certo un facile crollo.
Quando, invece, al passaggio degli anni ’90 abbiamo assistito al suo effettivo crollo tutti abbiamo gioito per il più grande fenomeno di accoglienza di massa di extra-comunitarî mai registrato. Un evento che ha fatto onore all’Europa democratica.
Chi negli anni ’60 assunse la decisione della costruzione del muro era convinto di aver trovato una soluzione efficace per garantire la sicurezza del proprio regime. La storia ha poi decretato la sconfitta dei costruttori di muri e l’illusorietà delle loro scelte.
Pensavamo che dopo il crollo del muro di Berlino, l’era dei muri fosse definitivamente tramontata. E invece abbiamo dovuto constatare che il fascino perverso dell’illusoria sensazione di sicurezza fornita dai muri e dalle barriere ha ripreso a contagiare mefiticamente le relazioni internazionali. E’ il caso, solo per fare qualche esempio, dei muri costruiti alle frontiere tra gli Stati uniti d’America e il Messico, o di quelli eretti dagli israeliani in Cisgiordania per scongiurare attacchi da parte palestinese. Costruzioni costosissime e del tutto inefficaci, basti pensare a quanti messicani, in barba a tutti i muri, comunque sono entrati ed entrano negli Stati uniti, tanto che negli States oggi lo spagnolo è forse più parlato dell’inglese. E in medio oriente, nonostante i muri e una schiacciante superiorità militare, la questione palestinese non è certamente liquidata.
Historia magistra vitae.
L’esperienza ci ha mostrato che i costruttori di muri sono destinati, prima o poi, alla sconfitta. Sono invece i costruttori di ponti gli autentici artefici del futuro.
Di fronte ai problemi, tanto più se gravi e drammatici, l’unica strada sbagliata è quella dell’isolamento. L’alternativa, quella della relazione, quella di mettersi in gioco senza timori, è certamente impegnativa e non permette di programmare e prevedere passo dopo passo il percorso e le conseguenze, ma è anche la scelta che permette a tutti di crescere, di maturare e di gettare le fondamenta di un nuovo sviluppo. La relazione è poi la vocazione primaria del nostro paese. L’Italia nella sua lunghissima storia ha conosciuto i periodi di maggiore affermazione sul piano culturale ed economico proprio quando è stata al centro delle relazioni tra i paesi e i popoli gravitanti sul bacino del mar Mediterraneo.

Vico Equense, mercoledì 17 giugno 2015
Sergio Sbragia

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