sabato 12 dicembre 2020

“Freedom”, che delusione!

 Grazie a un’anticipazione promozionale ho appreso che ieri sera, nel corso della trasmissione “Freedom” programmata su “Italia uno”, sarebbe andato in onda un servizio dedicato alla presenza di vestigia egizie nella città di Benevento e in alcune località della sua provincia. Incuriosito ho puntualmente seguìto il programma televisivo. Nel suo corso ho avuto l’opportunità di confrontarmi con la presentazione da parte di Roberto Giacobbo di vari elementi d’indubbio interesse.

In primo luogo è stata rilevata la presenza in alcune località non distanti da Benevento (Caiazzo, Montesarchio, Sant’Agata dei Goti e Moiano) di quattro colline a forma piramidale, che sarebbe legittimo intendere come indubbie e antichissime vestigia egizie in area sannita. Ciò sarebbe ulteriormente confermato anche dalla singolare disposizione di queste colline che rivelerebbe una sorprendente simmetria con la costellazione astrale di Orione.

Sono stati poi presentati vari reperti rinvenuti nella città di Benevento (o nelle sue immediate vicinanze) d’indubbia fattura egizia, probabilmente risalenti a un tempio dedicato alla dea Iside, alla quale nel Sannio nell’antichità veniva dedicato un culto ampiamente diffuso. Dopo essere stati utilizzati come materiali di risulta per costruzioni successive, alcuni di questi reperti sono oggi presenti in alcuni punti della città e varie sculture sono oggi esposte nel locale Museo del Sannio. La loro particolarità è quella di non essere opere provenienti dall’Egitto, ma prodotte in loco.

È stata poi sottolineata la possibile continuità tra le sacerdotesse di Iside e la tradizione delle streghe di Benevento (le janare), determinata dalla discriminazione del culto della dea egizia prodotta dall’affermazione del cristianesimo.

Infine è stata fatta un’illustrazione del sito mefitico di Rocca San Felice, in provincia di Avellino, ma vicino a Benevento, dove si trova un piccolo lago di origine solfurea, noto anche a Virgilio e tradizionalmente considerato come un accesso all’inferno.

Si tratta, a dire il vero, di aspetti tutti di grande interesse, ma ciò che mi ha sorpreso è che, fatta eccezione per il sito di Rocca San Felice (al quale è stata dedicata una presentazione attenta e dettagliata), la trattazione dei primi tre aspetti è stata a mio avviso molto superficiale e sintetica.

La presentazione ha evitato di scendere nei particolari. Anche le interviste di alcuni esperti sono state brevissime e agli interlocutori chiamati in causa non è stato lasciato il tempo utile, non dico per approfondire, ma almeno per illustrare sia pur brevemente le ipotesi proposte dalla trasmissione.

Visto l’interesse degli argomenti, mi sarei francamente aspettato di più, almeno un maggiore dettaglio. Mi ha sorpreso poi che, a fronte della sinteticità dei contenuti, la trasmissione si sia dilungata più volte nell’anticipare ripetutamente i contenuti dei servizi previsti successivamente, nonostante fossero già stati posti in evidenza a inizio del programma.

All’interno del servizio è stato anche proposto un inserto dedicato all’esposizione di un vaso (definito “il più bello del mondo”) restituito da una lunga e approfondita indagine di polizia al patrimonio artistico e culturale del nostro paese. La visione del vaso, davvero molto bello, mi ha dato tuttavia l’impressione di trovarmi dinanzi a una manifattura di stampo ellenico e non egizio. Posso sbagliare, ma le immagini che ho visto mi indirizzano più verso la Grecia, che verso l’Egitto. Nel caso questa mia impressione dovesse corrispondere al vero, mi chiedo cosa possa giustificare l’inserzione di questo riferimento in un servizio dedicato alle vestigia egizie a Benevento, senza nemmeno una precisazione circa l’eventuale manifattura in stile ellenico del reperto. Infine nella messa in onda delle immagini, circa il luogo di esposizione del vaso, si parla genericamente di un museo, ma non si precisa se si tratta del Museo del Sannio di Benevento o del Museo Archeologico di Montesarchio. Sarebbe stato sufficiente solo aggiungere qualche parola.

Francamente mi aspettavo di più! Penso che gli argomenti non vadano solo accennati, ma che almeno vengano presentati con una certa organicità e con un sufficiente corredo informativo di base. Che delusione! Eppure alcuni anni fa ho avuto modo di ascoltare di persona Roberto Giacobbo in una conferenza tenuta presso la Biblioteca comunale di Sala Consilina (Sa) dove ci arricchì con un contributo di alta qualità.

 

Vico Equense, sabato 12 dicembre 2020

Sergio Sbragia

domenica 4 ottobre 2020

Una sola vigna del Signore

 


Oggi (4 ottobre 2020) la liturgia domenicale della Parola ci ha proposto, dal Vangelo di Matteo (21,33-43), la parabola della vigna, nella quale il padrone di una vigna, ben impiantata e curata, viene ingannato dagli affittuari ai quali l’aveva affidata. I suoi rappresentanti, inviati presso di essi a tempo debito per riscuotere la dovuta quota di raccolto, vennero trattati con durezza («uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono» e ad altri, inviati dopo, venne riservata la stessa sorte). Infine il padrone inviò suo figlio, presumendo che venisse rispettato. E invece gli affittuari, pensando di avere in mano l’erede e di poter così puntare a divenire essi stesi padroni, pensarono bene di ucciderlo. Interrogati da Gesù, i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo riconoscono che il padrone toglierà la vigna dalle mani degli affittuari infedeli e la affiderà ad altri contadini. Gesù allora esplicita con chiarezza l’insegnamento della parabola, l’affidamento della vigna non è un titolo onorifico o un privilegio, ma un impegno. Anche essere popolo di Dio non un’appartenenza rassicurante, ma una responsabilità. Se non si è fedeli in questa scelta «a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

 

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.

Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.

Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:

“La pietra che i costruttori hanno scartato

è diventata la pietra d’angolo;

questo è stato fatto dal Signore

ed è una meraviglia ai nostri occhi”?

Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

 

In questo testo, a ben vedere, sono presenti due dimensioni entrambe inerenti alla fedeltà alla volontà del Signore, quella personale e quella comunitaria di “popolo di Dio”. L’immagine biblica della “vigna” è infatti comunemente intesa come un simbolo del “popolo di Dio” e, per estensione, della chiesa. L’immagine della vigna d’altronde è stata oggi riproposta anche dalla prima lettura (Is. 5,1-7) e dal salmo responsoriale (Sal. 80 [79]).

Nella lettura di questo testo oggi, tuttavia, siamo chiamati dalla responsabilità storica, a fare la massima attenzione. Per secoli in questa pagina del Vangelo noi cristiani abbiamo ritenuto di trovare il fondamento di un’operazione teologica di sostituzione: all’Israele “popolo di Dio” nel Primo testamento è subentrato il “nuovo popolo di Dio”, il “nuovo Israele” del Secondo testamento, cioè la Chiesa cristiana. Dal mancato riconoscimento di Gesù quale Figlio di Dio abbiamo fatto derivare il rifiuto da parte di Dio del popolo ebraico, ritenuto per secoli una “massa dannata”. Questo brano evangelico è stato per lungo tempo uno dei testi centrali sui quali si è fondata la polemica antiebraica di noi cristiani, contribuendo in maniere cospicua alla concretizzazione delle tragedie dell’antisemitismo che hanno infangato la storia umana.

In realtà l’idea della “vigna” come immagine del “popolo di Dio” non è una novità del Vangelo, ma era ampiamente presente nella Scrittura ebraica, come dimostrano gli altri testi della liturgia della Parola di oggi (Is. 5,1-7; Sal. 80 [79]). Da essi possiamo comprendere come gli ebrei fossero pienamente consapevoli della loro responsabilità di essere autenticamente “vigna del Signore”, un impegno a cui siamo chiamati anche noi cristiani come Chiesa, ad essere autenticamente “popolo di Dio” nella storia, a saper riconoscere in ogni epoca i “segni dei tempi”, e a saper fare la sua volontà in forma creativa, senza restare legati come fossili anchilosati a forme che possono non essere più rispondenti al loro scopo di onorare Dio e servire il prossimo. Probabilmente, se guardiamo alla storia e anche a molte vicende contemporanee, possiamo pensare che molto spesso noi cristiani non siamo stati e non siamo la vera vigna del Signore.

In realtà Gesù di Nàzareth era un giudeo del suo tempo, viveva in pienezza la religiosità giudaica, ne riconosceva l’autenticità, si opponeva all’osservanza meramente esteriore della precettistica. Era molto critico nei confronti dei farisei, dei sadducei, degli scribi, dei sacerdoti e degli anziani del popolo, ma non di rado riconosceva in essi anche comportamenti e prese di posizione che non esitava a indicare come positive ("Non sei lontano dal regno di Dio" – Mc. 12,34).

Allo stesso tempo non tutti gli ebrei, pur non riconoscendolo come “Figlio di Dio”, avevano una visione negativa di Gesù, molti erano ammirati per i segni che compiva, altri lo consideravano un maestro, altri ancora un profeta.

L’apostolo Paolo, che si sentiva sia pienamente discepolo di Gesù sia pienamente ebreo, viveva con drammaticità questa duplice appartenenza, come ci ha magistralmente mostrato nella sua “Lettera ai Romani”, dove ha sottolineato come gli Israeliti abbiano «l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse» (Rm. 9,4).

E allora credo che sia necessario prendere sul serio l’insegnamento di Gesù, che è comune a cristiani ed ebrei: «"Qual è il primo di tutti i comandamenti?". Gesù rispose: "Il primo è: ‘Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza’. Il secondo è questo: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’. Non c'è altro comandamento più grande di questi"» (Mc. 12,28-33). È ora di superare l’idea di una staffetta, nella quale a un arcaico popolo di Dio ne subentri uno nuovo, per maturare invece una più autentica comprensione di essere pienamente e degnamente “una sola vigna del Signore” sia pur nella bellezza di una pluralità e diversità dei sentieri percorsi, chi impegnandosi sull’esempio di Abramo, Mosè e dei Profeti, chi seguendo il messaggio di Gesù di Nàzareth, “figlio di Dio”. Semmai imparando gli uni dagli altri. La storia ci mostra tanti esempi di amore di Dio e di servizio agli altri nell’una e nell’altra tradizione. Facciamo fruttificare questi incommensurabili tesori.

giovedì 1 ottobre 2020

Il tronfio imperatore d’Occidente bacchetta il successore di Pietro

 


Purtroppo la cultura dell’arroganza politica sta diventando abituale in Occidente. Già ho avuto modo di esprimere la mia personale valutazione negativa delle dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dal segretario di stato USA, Mark Pompeo, con le quali ha invitato papa Francesco a non rinnovare l’accordo la Cina sulle modalità di nomina dei vescovi in quel paese. L’amministrazione Trump da un lato si erge, sia pur strumentalmente a fini elettoralistici, a paladina del valore della libertà religiosa e, allo stesso tempo, compie una pressione indebita sul libero e autonomo esercizio dell’attività spirituale della Chiesa cattolica, nel delineare la propria attività evangelizzatrice che ha proprio la finalità di garantire ai cattolici cinesi la libera professione della fede. La Santa Sede oggi sa far riferimento al consiglio evangelico di “essere semplici come le colombe e prudenti come i serpenti” e non mancherà di chiedere al Signore il sostegno necessario e il giusto discernimento nel non facile confronto con i governanti cinesi, ma di certo non ha alcun bisogno dei consigli “interessati” di una superpotenza internazionale, che negli ultimi anni si è posta in aperta contrapposizione con la Cina, e appare stranamente interessata a ricostruire un clima da guerra fredda.

Per comprendere meglio questa vicenda può essere utile prendere in considerazione la grande lezione che alcuni secoli fa ci ha mostrato il grande gesuita Matteo Ricci, che, per portare il Vangelo in Cina, di farsi “cinese con i cinesi”.

Dinanzi al problema di creare un ponte tra due culture, quella cinese e quella europea, così reciprocamente estranee, Matteo Ricci evidenziò come la filosofia greca fosse quella più vicina al confucianesimo e fosse perciò in grado di aprire le porte del continente asiatico. Per questo motivo Matteo Ricci assunse il nome cinese di “Li Ma Dou”, dove “Li” sta per l’iniziale del cognome “Ri”, e “Ma Dou” come il suono più vicino al nome “Matteo”. Non solo, iniziò a vestirsi come un cinese, indossando la tunica al posto della veste; si lasciò crescere barba e capelli; scelse di farsi chiamare “letterato” e non “sacerdote”, onde non essere confuso con un monaco buddhista. Nel corso di un dibattito con alcuni letterati confuciani, sostenne che il culto cinese degli antenati potesse senz’altro essere accolto e integrato nella pratica religiosa cristiana.

Ai cinesi, e in particolare ai letterati e alle persone colte, piacque la visione cristiana di Confucio da lui espressa.

Un segno dell’apprezzamento nei suoi riguardi fu dato dal consenso imperiale alla sua sepoltura nella città di Pechino, cosa ordinariamente negata agli stranieri che avevano la sorte di morire in quella città; consenso motivato esplicitamente dal riconoscimento ufficiale che, sin dall’antichità non si era mai visto un solo straniero con la virtù, la scienza e l’amore per i cinesi, che aveva mostrato Matteo Ricci.

La sua personalità ha fornito un grande apporto al dialogo e alla reciproca comprensione tra Cina ed Europa. Grazie alla sua preparazione fu il principale artefice dell’introduzione in Cina della matematica e della geometria occidentali. Ebbe modo anche di presentare le acquisizioni del Rinascimento nei campi della geografia, della cartografia e dell’astronomia. D’altro canto, con i suoi scritti fornì all’Europa una conoscenza precisa e ampia della cultura cinese, per cui può a buona ragione essere indicato come il fondatore della moderna sinologia.

Risulta quindi davvero interessante cercare di comprendere come Ricci abbia aperto la strada alla lettura del Vangelo in cinese. Non si è trattato semplicemente di tradurre un testo, ma di “riesprimere il Vangelo” attraverso le categorie simboliche di quella cultura.

La grande intuizione di Matteo Ricci è stata quella d’impegnarsi per avere la capacità di esprimere in cinese la propria esperienza di fede e di comprensione del messaggio evangelico, ponendosi così nelle condizioni di riconoscere significati e sensi che un occidentale non è capace di “leggere e scrivere”, perché non riconoscibili nelle coordinate interpretative della cultura di provenienza. Con lo sguardo di chi scrive con gli ideogrammi, si possono vedere e comprendere cose nuove, si possono riconoscere sfumature e sensi complementari a quelli intuiti dalle culture alfabetiche occidentali. Ogni cultura che accoglie il messaggio evangelico lo comprende, lo vive e lo annuncia in una forma, diversa rispetto alle altre, ma altrettanto vera. Grazie a Ricci si iniziò a pensare che i cristiani cinesi, leggendo le Scritture con i propri occhi e entro le coordinate della loro cultura, avrebbero potuto comunicare a noi occidentali quello che con i nostri non siamo in grado di distinguere. Una comprensione sempre più piena del messaggio evangelico costituisce, in definitiva, un arricchimento per tutti.

A guardar bene, la lezione di Matteo Ricci travalica i confini di una comprensione limitata alla sfera religiosa, ma si propone come una metodologia utile, e forse unica, in un pianeta come il nostro, che sta divenendo sempre più piccolo. Le culture presenti sulla terra, quella occidentale, quelle orientali, quella del vicino oriente, quelle del sud del mondo, non possono più vivere isolate le une dalle altre in àmbiti territoriali propri e impermeabili alle influenze esterne, ma sono destinate a un’integrazione sempre più decisa, stante il processo di universalizzazione dei rapporti in cui ormai da tempo siamo stati progressivamente tutti coinvolti. In una realtà come quella odierna, che tutti riconosciamo come globalizzata, il costruire muri e lo stabilire confini è una scelta miope e perdente. Invece tutte le culture, nessuna esclusa, hanno ricchezze proprie da donare a tutti, il confronto e il dialogo amichevole sono la via maestra per crescere tutti in positivo. L’intestardirsi immaturamente nella ricerca di riservare a sé il controllo di materie prime, di sistemi di armamento, delle forme di comunicazione globale, significa porre in serio pericolo il futuro del pianeta e dell’intera umanità, rendendo insolubili problemi gravissimi che vanno affrontati assieme in uno spirito di concordia e di cooperazione, quali la sconfitta della povertà estrema di una gran parte dell’umanità, la cessazione di numerosissimi conflitti armati in corso a macchia di leopardo in tutti i continenti, la conduzione di un contrasto efficace e non rinviabile ai mutamenti climatici. Naturalmente non ignoro e non sottovaluto le difficoltà che sono disseminate sul sentiero che conduce verso queste mete. Ma l’arroganza politica di certo è un elemento che rema in senso contrario e conduce alla rovina e alla sconfitta dell’intera umanità. Il confronto e l’arricchimento reciproco delle culture è la condizione per garantire il futuro del pianeta. In tutte le tradizioni religiose da decenni sono maturati e si stanno esprimendo sempre con maggiore convinzione fermenti e orientamenti ispirati alla fraternità universale. Facciamoli nostri e diamo il nostro contributo alla loro promozione e affermazione.

giovedì 10 settembre 2020

Oligarchia? No, grazie! Preferisco la Democrazia.

Domenica 20 settembre, come cittadini, siamo chiamati alle urne per esprimere la nostra valutazione sulla legge di Riforma costituzionale, approvata lo scorso anno in Parlamento e che prevede una drastica riduzione del numero dei parlamentari, mediante una modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione. Il Referendum è stato reso necessario da un’approvazione parlamentare con una maggioranza non sufficiente ad assicurarne l’immediata entrata in vigore.

Credo che un referendum costituzionale costituisca il più importante momento di esercizio della sovranità popolare, così come prevista dall’art. 1 della stessa Costituzione. Nella consultazione referendaria costituzionale ci interroghiamo su elementi fondamentali della nostra vita comune. La Costituzione, ricordiamolo è la legge fondamentale del nostro paese, quella che indica i criteri fondamentali del vivere civile e ispira tutta la legislazione e tutto l’ordinamento amministrativo.

Quindi quando siamo chiamati a pronunciarci in materia costituzionale, credo che noi cittadini dobbiamo prestare la massima considerazione alle scelte in gioco e alle loro conseguenze sulla vita della comunità civile, sul rispetto dei diritti umani e dei valori fondamentali e sulla crescita della democrazia e della partecipazione di tutti i cittadini al libero confronto delle idee e dei valori.

È quindi importante cercare di astrarsi un po’ dalla conflittualità politica contingente e fare uno sforzo per pensare “in grande”, perché nelle scelte costituzionali, non sono in gioco gli equilibri immediati tra gli schieramenti politici, non si decide quale sarà il prossimo governo, ma si contribuisce a delineare la qualità della vita democratica nella nostra Italia nel medio e lungo periodo.

Avrei preferito che per la scadenza referendaria, proprio perché riguardante la legge fondamentale dello stato, si fosse deciso di dedicare un’apposita e autonoma tornata elettorale, evitando la coincidenza temporale con altre forme di consultazione popolare. Così non sarà, purtroppo, per una decisione assunta, a mio avviso, con un po’ di leggerezza. In una parte del paese in contemporanea saranno celebrate le elezioni regionali e anche altre consultazioni amministrative locali. Questa coincidenza rischia, a mio avviso, di distrarre, per la necessaria attenzione da dare anche al confronto tra le proposte politiche in gioco nelle varie realtà, da una piena considerazione di tutti gli elementi in gioco nella consultazione referendaria sulla Costituzione.

Il fatto, poi, che la coincidenza tra più forme di consultazione popolare non riguardi tutto il territorio nazionale ma solo una parte, sia pur molto consistente, dell’elettorato, crea di fatto una condizione di disparità reale tra gli elettori. Una parte dei cittadini, infatti, potrà dedicare pienamente la propria attenzione al quesito referendario, un’altra parte invece potrà essere distratta dai concomitanti elementi di conflittualità naturalmente connessi alle consultazioni di ordine regionale e amministrativo. E questo in barba al diritto dei cittadini di essere posti in condizione di uguaglianza nell’esercizio del diritto di voto.

Per evitare questo vulnus nell’esercizio del diritto di voto sarebbe stato sufficiente prevedere date diverse di svolgimento per il Referendum e per le Elezioni regionali e amministrative. Purtroppo così non sarà e pertanto sarà compito di noi cittadini dare una prova di grande senso di responsabilità democratica nell’affrontare il quesito referendario con il massimo dell’attenzione e della considerazione del suo peso per la crescita democratica del paese.

La riduzione del numero dei parlamentari, prevista dalla legge di riforma costituzionale, in caso di conferma referendaria, di fatto diminuirebbe il grado di rappresentatività delle nostre Assemblee parlamentari, restringendo in senso oligarchico l’esercizio del potere, favorendo così un maggiore distacco tra funzione politica e cittadinanza e lasciando così una via ancora più libera all’esercizio della corruzione di palazzo. Non dimentichiamo, infatti, che il principale strumento di lotta alla corruzione è il controllo popolare della cittadinanza, ma se rendiamo più flebile la relazione tra elettori ed eletti, di fatto spuntiamo la principale arma a nostra disposizione per combattere la corruzione. Per questo, in particolare, sorprende che una tale proposta sia fatta propria anche da formazioni politiche che abitualmente, a parole, sventolano la bandiera della lotta alla corruzione.

Oggi nella nostra Italia abbiamo un parlamentare ogni 64mila abitanti circa. Grazie all’eventuale approvazione della modifica proposta, dovremmo avere un parlamentare ogni 100mila abitanti circa. Questo vorrà dire che, per eleggere un parlamentare, sarà necessario raccogliere più voti per ciascun seggio, più o meno un quarto in più di quanti ne siano necessarî oggi. La conseguenza sarà un allontanamento ulteriore dei cittadini dalla politica e una riduzione della rappresentatività democratica in direzione oligarchica. Un cittadino che vorrà scegliere d’impegnarsi in politica per servire il paese e dedicarsi al bene comune si troverà a fare i conti, per avere successo e conquistare un seggio in parlamento, con la necessità di scalare un gradino più alto e di raccogliere un consistente maggior numero di voti. Molto minori difficoltà avranno i candidati delle forze politiche, a trazione miliardaria, in possesso di maggiori disponibilità economiche, o quanti siano legati a centri di potere lobbistici e finanziari, o espressione di trame delle maggiori potenze internazionali, o, ancora, perché legati a organizzazioni illegali e/o criminali.

Sorprende, poi, che la presentazione del disegno di legge, poi approvato dalla aule parlamentari, predisposta a cura del Dipartimento per le riforme istituzioni della Presidenza del Consiglio dei Ministri (consultabile in rete alla pagina http://www.riformeistituzionali.gov.it/media/1312/editing-dossier-riduzparl-22lug-norev.pdf), nell’operare un raffronto delle rappresentanze parlamentari in àmbito europeo, indica l’Italia come il paese con il numero di parlamentari più alto d’Europa (cf. pag. 2). Si dice infatti che in Italia sono previsti 945 parlamentari, contro i 700 della Germania, i 650 del Regno Unito (che oggi non è più nell’Unione europea) e i poco meno dei 600 della Francia. Questa presentazione, tuttavia, evita attentamente, e, a mio avviso, del tutto scorrettamente sul piano della completezza informativa, di porre in relazione questi dati con la popolazione di ciascun paese. Se operiamo tale correlazione emerge che in Italia abbiamo un parlamentare ogni 64 mila abitanti, mentre in Germania uno ogni 117mila e in Francia uno ogni 121mila. I parlamenti di questi paesi, a ben vedere, hanno un requisito di minore rappresentatività democratica rispetto al nostro. Sono questi parlamenti che avrebbero davvero bisogno di modifiche sul piano del grado di rappresentatività democratico, molto più del nostro. Interventi, naturalmente, di segno inverso. In questa classifica europea, però, l’Italia, pur precedendo i paesi che ho appena citato, ricopre solo il 22° posto, preceduta da molti altri paesi (per la precisione 21), come per es. il Belgio (1 parlamentare ogni 54mila ab.), l’Ungheria (1 ogni 48mila), il Portogallo (1 ogni 47mila), l’Austria (1 ogni 35mila), la Danimarca (1 ogni 32mila), la Svezia (1 ogni 28mila), la Finlandia (1 ogni 27 mila). E questo solo per citarne alcuni. Una parte dei parlamenti di questi paesi rivela un grado di operatività istituzionale migliore, proprio grazie a un rapporto meno sproporzionato in termini numerici tra eletti ed elettori. Mentre le aule parlamentari di Francia e Germania, prese improvvidamente come esempio, soffrono sostanzialmente degli stessi problemi che riscontriamo in Italia.

Siamo sempre soliti criticare l’invasività dei maggiori paesi europei, quando ci chiedono di allinearci ai paradigmi finanziari dell’Unione, mi sorprende quindi che noi cittadini oggi veniamo invitati a imitare Francia e Germania in un àmbito ove conseguono un evidente esito peggiore del nostro. E quest’invito guarda caso ci arriva anche da forze politiche fortemente critiche verso Parigi e Berlino. Questo mi fa molto pensare.

Il rapporto attualmente vigente in Italia (1 parlamentare ogni 64mila abitanti), tenuto anche conto delle dimensioni territoriali del paese, appare quello fisiologicamente più rispondente a garantire un corretto rapporto eletti-elettori. Ridurlo porterebbe a una dimensione eccessiva delle aule parlamentari. Aumentarlo, come si propone la legge oggetto del referendum, significa introdurre un anco più radicale isolamento degli eletti dalla cittadinanza rappresentata, riducendo la relazione alla sola rappresentazione fornita dai mezzi di massa e dai social.

Personalmente, inoltre, non condivido nemmeno la logica politica che ha portato all’approvazione della legge di modifica costituzionale in discussione. Mi sembra giusto evidenziare anche il mio personale dissenso nei confronti di una diffusa modalità, utilizzata da più parti politiche, per presentare il referendum come una preziosa occasione, per operare attraverso l’espressione del “si” allo stesso tempo un utile risparmio per le sofferenti casse dello stato e una diminuzione del numero di “poltrone”. Quest’approccio al tema referendario gioca con chiarezza a fare l’occhiolino all’insofferenza di molti nei confronti della classe politica, nella ricerca di raccogliere con tale mezzuccio il consenso sufficiente per assicurarsi la conferma popolare della modifica. Ma quest’invito proviene proprio dalla “classe politica” che, a parole, si dice di voler combattere. Su questo c’è molto da riflettere. Non credo a questa mobilitazione contro il degrado della politica, promossa proprio dalle forze politiche più direttamente espressione di tale degrado. È mai possibile che stiano remando contro se stesse?

Un provvedimento di riforma costituzionale richiede un’attenzione particolare e non il ricorso mezzucci di piccolo cabotaggio. Le riforme costituzionali hanno un’incidenza sulla vita politica di medio-lungo termine e non possono essere analizzate superficialmente nell’ottica di corto respiro sottesa al pur legittimo duello politico, quale quello attualmente in corso tra maggioranza e opposizione.

Mi chiedo, infatti, una cosa: quando il Presidente del Consiglio dei ministri, i singoli ministri o i leaders delle forze politiche prendono la parola in Parlamento, ritengono di parlare a un’Assemblea dei rappresentanti liberamente eletti dai cittadini, oppure davanti a un consesso di “poltrone”?

Con tutti i limiti e le contraddizioni della vita politica, ritengo sia davvero scorretto definire “poltrone” i seggi parlamentari, che sono invece lo strumento democratico di manifestazione della volontà dei cittadini nell’esercizio della sovranità popolare. Questo non vuol dire “chiudere gli occhî” su un uso scorretto della funzione parlamentare. Ma è necessario sottolineare che è attraverso il mandato parlamentare, e solo attraverso di esso, che i cittadini possono esercitare la propria sovranità, in ossequio all’art. 1 della Costituzione.

Purtroppo gran parte delle forze politiche non ha avuto in questi giorni la saggezza di rispettare l’autonoma libertà di scelta dei cittadini, evitando indicazioni di natura verticistica. Tra i sostenitori di tutte le forze politiche ci sono cittadini favorevoli alla modifica delle norme costituzionali in gioco e cittadini contrari alla loro modifica. I partiti, tenuto conto che in Parlamento non hanno raggiunto la maggioranza costituzionalmente prevista per la piena entrata in vigore, avrebbero dovuto avere la sensibilità di rimettersi in pienezza alla libera espressione del voto popolare, senza dare indicazioni di voto. Nel referendum è in gioco molto di più della permanenza o della caduta di un governo, ma la qualità della democrazia nel nostro paese per i prossimi decenni. Qualunque sarà l’esito delle urne non potrà essere interpretato come un verdetto positivo o negativo nei confronti del governo in carica. La cosa non è contenuta nel quesito referendario. Operare una tale lettura significa compiere una manipolazione della sovranità popolare offensiva del dettato dell’art. 1 della Costituzione.

Ricordiamoci che la democrazia è autentica solo, se tutti hanno il pieno diritto di esprimere e sostenere le proprie idee, le proprie convinzioni e i propri valori, e se tutti osservano pienamente il dovere di rispettare le idee, le convinzioni e i valori diversi dai propri. Facciamo sì, che la prossima scadenza referendaria abbia in pienezza queste caratteristiche.

In conclusione, in coerenza con quanto sin qui esposto e nel pieno rispetto di quanti hanno un’opinione diversa dalla mia, sono orgoglioso di dire che, domenica 20 settembre, sarò onorato di votare “no” per dire la mia contrarietà all’entrata in vigore delle modifiche costituzionali approvate lo scorso anno in Parlamento con maggioranza non sufficiente.

Pur con tutti i suoi limiti, mobilitiamoci per difendere la Costituzione e la Democrazia!