sabato 2 ottobre 2021

È una sfida di civiltà

In queste settimane è uscita dall'attenzione dei mass media la drammatica vicenda delle violenze perpetrate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo alcuni giorni di interesse, per altro superficiale e ripetitivo, i riflettori sono stati spostati in altre direzioni, e l’argomento è stato, per così dire, archiviato e posto nel dimenticatoio. E invece penso che al tema vada prestata la massima attenzione. Non si tratta di qualcosa che interessa solo una porzione marginale e secondaria della popolazione, forse la fetta ritenuta meno meritevole di considerazione, perché autrice o complice di gravi atti lesivi della civile convivenza, che siamo portati a considerare come un peso e un pericolo per la nostra collettività e che è sostanzialmente meritevole della sorte che le tocca, secondo il famoso detto popolare “chi è causa del proprio male pianga sé stesso”. Anzi, a ben vedere, siamo portati a ritenere, che di fronte ai gravi danni e ai durissimi dolori che il fenomeno criminale provoca, il complesso delle pene attualmente previsto sia sostanzialmente insufficiente e poco dissuasivo dall’opzione di permanere in atteggiamenti offensivi della legalità. Di qui l’atteggiamento prevalente che esige un rigoroso isolamento di quanti commettono reati, auspica il loro essere rinchiusi in carceri sicuri, di cui, anche se non lo si dice apertamente, si auspica “che vengano buttate le chiavi”. Quello che avviene tra le mura delle carceri interessa poco o niente, in fondo “lo hanno voluto loro” e quindi “se lo meritano”. In definitiva è meglio pensare ad altro.

Proprio perché la criminalità rappresenta uno dei più gravi problemi con cui la nostra società si trova a fare i conti, il problema delle condizioni di vita nelle carceri deve invece essere tenuto nella massima considerazione. Gli episodi come quelli di Santa Maria Capua Vetere, in realtà, sono solo un campanello d’allarme che dovrebbe scuotere con forza la coscienza civile del nostro paese. Così non è stato. Eppure non si tratta di un fenomeno isolato e limitato al solo istituto di Santa Maria Capua Vetere. Le condizioni di vita nelle carceri del nostro paese risultano, da quanto emerge da numerose ricerche operate in merito, particolarmente dure e poco rispettose della dignità umana delle persone. La cosa, per altro, è stata posta in evidenza anche da autorevoli pronunce di organismi sovranazionali. Proprio le durissime condizioni di vita oggi registrabili nel nostro sistema carcerario e il connesso problema del sovraffollamento, se analizziamo con attenzione e senza pregiudizi la cosa, contribuiscono notevolmente a far sì che gran parte di quanti ne fanno la dura esperienza siano portati a perseverare in comportamenti illegali e a reiterare reati.

E questo in barba ai principî di alta civiltà proclamati dalla nostra Costituzione in proposito. All’art. 13 («è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà») viene esplicitamente stabilito che dal sistema carcerario sia bandito qualsivoglia uso della violenza fisica e morale sulle persone. Fatti di cronaca come quello di Santa Maria Capua Vetere testimoniano invece come tale obbligo costituzionale sia di frequente disatteso. La Costituzione poi all’art. 27 («le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), indica con grande chiarezza il valore del carattere rieducativo della pena. Una prescrizione, quest’ultima, ritenuta “una pia illusione” da un’opinione che, sia pur silenziosa, è molto diffusa tra di noi. E, invece, si tratta di un’indicazione di altissimo valore che ci è stata donata dai nostri impareggiabili padri costituenti. È un tema, un valore, sul quale “sta o cade la nostra democrazia”. Ricorrentemente diamo giustamente vita a momenti e giornate di ricordo delle vittime della criminalità organizzata, con il legittimo intento di promuovere la massima diffusione di una cultura della vita civile e della legalità. Ricordiamo il generale Dalla Chiesa, i giudici Falcone e Borsellino, e tanti altri che, come loro, hanno pagato duramente con la vita. Nelle scuole si moltiplicano le iniziative di formazione in tal senso. Ma tutto ciò rischia di ridursi solo a una periodica sterile riproposizione di principî teorici che non trovano concreto riscontro nella vita quotidiana di tutti i giorni. Se la comunità democratica dei cittadini italiani, lo stato democratico, non riesce nei fatti concreti a bandire la violenza dalla vita quotidiana delle carceri, se non si garantiscono negli istituti di detenzione condizioni pienamente rispettose della dignità umana, se non si conferisce il dovuto ruolo ai percorsi rieducativi da realizzare in essi, la battaglia dello stato contro la criminalità organizzata non potrà essere vinta. Se lo stato contro la criminalità non sa far di meglio che lasciare che nelle carceri sia usata la violenza, di fatto sancisce la propria sconfitta. Se alla violenza criminale, si risponde con la stessa arma della violenza, si finisce per riconoscere implicitamente la violenza come l’unico fattore capace di regolamentare la vita sociale, e questo in piena sintonia con una mentalità criminale. Lo stato finisce per far propria la cultura della criminalità.

E invece come cittadini siamo chiamati a raccogliere con entusiasmo la sfida che ci è stata proposta dai nostri padri costituenti, rendere umane le condizioni di vita nelle carceri, attuare tutte le possibili iniziative per garantire il carattere effettivamente rieducativo delle pene. Rendere possibile a ogni cittadino che abbia sbagliato di poter percorrere concreti itinerari di ritorno a una cultura della legalità e della socialità, deve diventare un obiettivo centrale e prioritario della nostra agenda politica. Nella nostra comunità civile, soprattutto tra le nuove generazioni, esistono le spinte valoriali, la consapevolezza dell’importanza del tema e l’entusiasmo necessari per misurarsi nell’impresa. Sono significativamente diffuse anche le competenze culturali e professionali all’uopo essenziali. Valorizzarle potrebbe anche avere una positiva ricaduta in termini di crescita occupazionale e di sviluppo economico e sociale.

Tra le previste riforme connesse al Piano nazionale di ripresa e resilienza rientra anche una riforma della giustizia, che sta compiendo i suoi passi istituzionali. Ho tuttavia l’impressione che nei testi attualmente in preparazione il tema delle condizioni di vita nelle carceri stia un po’ in disparte. Questo è, a mio avviso, un pesante limite dell’attuale iniziativa del governo in proposito. Sarebbe decisivo non perdere l’occasione del PNRR per dare una concreta e decisiva spinta nella direzione di potenziare la capacità rieducativa del nostro ordinamento giudiziario, potenziando i percorsi educativi e formativi del personale addetto, favorendo l’allargamento delle misure alternative alla detenzione, riducendo l’affollamento delle strutture, pluralizzando e ampliando le opportunità di efficaci percorsi di recupero.

È un impegno di civiltà che un paese autenticamente democratico non può disattendere, chiediamo con forza e convinzione che sia assunto con entusiasmo e responsabilità.

Vico Equense, 2 ottobre 2021

Sergio Sbragia


Nessun commento:

Posta un commento