In queste settimane è uscita dall'attenzione dei mass media la drammatica vicenda
delle violenze perpetrate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo alcuni
giorni di interesse, per altro superficiale e ripetitivo, i riflettori sono
stati spostati in altre direzioni, e l’argomento è stato, per così dire,
archiviato e posto nel dimenticatoio. E invece penso che al tema vada prestata
la massima attenzione. Non si tratta di qualcosa che interessa solo una
porzione marginale e secondaria della popolazione, forse la fetta ritenuta meno
meritevole di considerazione, perché autrice o complice di gravi atti lesivi
della civile convivenza, che siamo portati a considerare come un peso e un
pericolo per la nostra collettività e che è sostanzialmente meritevole della
sorte che le tocca, secondo il famoso detto popolare “chi è causa del proprio
male pianga sé stesso”. Anzi, a ben vedere, siamo portati a ritenere, che di
fronte ai gravi danni e ai durissimi dolori che il fenomeno criminale provoca,
il complesso delle pene attualmente previsto sia sostanzialmente insufficiente
e poco dissuasivo dall’opzione di permanere in atteggiamenti offensivi della
legalità. Di qui l’atteggiamento prevalente che esige un rigoroso isolamento di
quanti commettono reati, auspica il loro essere rinchiusi in carceri sicuri, di
cui, anche se non lo si dice apertamente, si auspica “che vengano buttate le
chiavi”. Quello che avviene tra le mura delle carceri interessa poco o niente,
in fondo “lo hanno voluto loro” e quindi “se lo meritano”. In definitiva è
meglio pensare ad altro.
Proprio perché la criminalità rappresenta uno dei più gravi problemi con
cui la nostra società si trova a fare i conti, il problema delle condizioni di
vita nelle carceri deve invece essere tenuto nella massima considerazione. Gli
episodi come quelli di Santa Maria Capua Vetere, in realtà, sono solo un
campanello d’allarme che dovrebbe scuotere con forza la coscienza civile del nostro
paese. Così non è stato. Eppure non si tratta di un fenomeno isolato e limitato
al solo istituto di Santa Maria Capua Vetere. Le condizioni di vita nelle
carceri del nostro paese risultano, da quanto emerge da numerose ricerche
operate in merito, particolarmente dure e poco rispettose della dignità umana
delle persone. La cosa, per altro, è stata posta in evidenza anche da autorevoli pronunce di organismi sovranazionali. Proprio le durissime condizioni di vita
oggi registrabili nel nostro sistema carcerario e il connesso problema del
sovraffollamento, se analizziamo con attenzione e senza pregiudizi la cosa, contribuiscono
notevolmente a far sì che gran parte di quanti ne fanno la dura esperienza
siano portati a perseverare in comportamenti illegali e a reiterare reati.
E questo in barba ai principî di alta civiltà proclamati dalla nostra
Costituzione in proposito. All’art. 13 («è punita
ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni
di libertà») viene esplicitamente stabilito che dal sistema carcerario sia bandito
qualsivoglia uso della violenza fisica e morale sulle persone. Fatti di cronaca
come quello di Santa Maria Capua Vetere testimoniano invece come tale obbligo
costituzionale sia di frequente disatteso. La Costituzione poi all’art. 27 («le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), indica con grande
chiarezza il valore del carattere rieducativo della pena. Una prescrizione,
quest’ultima, ritenuta “una pia illusione” da un’opinione che, sia pur
silenziosa, è molto diffusa tra di noi. E, invece, si tratta di un’indicazione
di altissimo valore che ci è stata donata dai nostri impareggiabili padri
costituenti. È un tema, un valore, sul quale “sta o cade la nostra democrazia”.
Ricorrentemente diamo giustamente vita a momenti e giornate di ricordo delle
vittime della criminalità organizzata, con il legittimo intento di promuovere
la massima diffusione di una cultura della vita civile e della legalità.
Ricordiamo il generale Dalla Chiesa, i giudici Falcone e Borsellino, e tanti
altri che, come loro, hanno pagato duramente con la vita. Nelle scuole si moltiplicano
le iniziative di formazione in tal senso. Ma tutto ciò rischia di ridursi solo a
una periodica sterile riproposizione di principî teorici che non trovano
concreto riscontro nella vita quotidiana di tutti i giorni. Se la comunità
democratica dei cittadini italiani, lo stato democratico, non riesce nei fatti
concreti a bandire la violenza dalla vita quotidiana delle carceri, se non si
garantiscono negli istituti di detenzione condizioni pienamente rispettose
della dignità umana, se non si conferisce il dovuto ruolo ai percorsi rieducativi
da realizzare in essi, la battaglia dello stato contro la criminalità
organizzata non potrà essere vinta. Se lo stato contro la criminalità non sa
far di meglio che lasciare che nelle carceri sia usata la violenza, di fatto
sancisce la propria sconfitta. Se alla violenza criminale, si risponde con la
stessa arma della violenza, si finisce per riconoscere implicitamente la
violenza come l’unico fattore capace di regolamentare la vita sociale, e questo
in piena sintonia con una mentalità criminale. Lo stato finisce per far propria
la cultura della criminalità.
E invece come cittadini siamo chiamati a raccogliere con entusiasmo la
sfida che ci è stata proposta dai nostri padri costituenti, rendere umane le
condizioni di vita nelle carceri, attuare tutte le possibili iniziative per
garantire il carattere effettivamente rieducativo delle pene. Rendere possibile
a ogni cittadino che abbia sbagliato di poter percorrere concreti itinerari di ritorno
a una cultura della legalità e della socialità, deve diventare un obiettivo
centrale e prioritario della nostra agenda politica. Nella nostra comunità
civile, soprattutto tra le nuove generazioni, esistono le spinte valoriali, la
consapevolezza dell’importanza del tema e l’entusiasmo necessari per misurarsi nell’impresa.
Sono significativamente diffuse anche le competenze culturali e professionali all’uopo
essenziali. Valorizzarle potrebbe anche avere una positiva ricaduta in termini
di crescita occupazionale e di sviluppo economico e sociale.
Tra le previste riforme connesse al Piano nazionale di ripresa e resilienza
rientra anche una riforma della giustizia, che sta compiendo i suoi passi
istituzionali. Ho tuttavia l’impressione che nei testi attualmente in
preparazione il tema delle condizioni di vita nelle carceri stia un po’ in
disparte. Questo è, a mio avviso, un pesante limite dell’attuale iniziativa del
governo in proposito. Sarebbe decisivo non perdere l’occasione del PNRR per
dare una concreta e decisiva spinta nella direzione di potenziare la capacità
rieducativa del nostro ordinamento giudiziario, potenziando i percorsi
educativi e formativi del personale addetto, favorendo l’allargamento delle
misure alternative alla detenzione, riducendo l’affollamento delle strutture, pluralizzando
e ampliando le opportunità di efficaci percorsi di recupero.
È un impegno di civiltà che un paese autenticamente democratico non può disattendere,
chiediamo con forza e convinzione che sia assunto con entusiasmo e
responsabilità.
Vico Equense, 2 ottobre 2021
Sergio Sbragia
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