martedì 2 novembre 2021

La guerra è inutile

           Il recente epilogo della ventennale avventura americana in Afghanistan, con le drammatiche conseguenze che ha determinato per le condizioni di vita del popolo afghano, dovrebbe costituire un’ulteriore occasione per operare una seria riflessione sull’utilità dei conflitti armati. Da decenni assistiamo, almeno in Occidente, a un confronto tra uno schieramento che propone una cultura della pace e del disarmo e uno contrapposto, che, in nome di un preteso realismo politico, vede negli armamenti e nell’uso della forza una necessità per la salvaguardia della sicurezza e della stessa pace, sulla base dell’antico saggio “se vuoi la pace prepara la guerra”. Si tratta di un confronto di grande significato, condotto sul piano di valori etici di fondo, quali la pace, la convivenza mondiale, il futuro dell’umanità e dello stesso nostro pianeta.

Oggi tuttavia sono convinto che, fermo restando in tutto il suo spessore e significato etico e umano, il rifiuto della guerra e del ricorso alle armi possa arricchirsi di una valutazione storica.

Se infatti vogliamo lo sguardo al passato possiamo constatare come la Seconda guerra mondiale si sia venuta a configurare come uno spartiacque storico sull’utilità della guerra. Non si può negare infatti che, pur con tutte le connesse sofferenze e ingiustizie, i conflitti armati sino alla metà del secolo scorso hanno in qualche modo raggiunto degli obiettivi. Solo per fare degli esempi: numerosi paesi (compreso il nostro) si sono liberati dalle dominazioni straniere e hanno conseguito l’unità nazionale, sono stati sconfitti il fascismo e il nazismo. Anche quando l’esito non è stato positivo, comunque si sono avuti dei vincitori e degli sconfitti, con l’emissione di una sentenza della storia sui fatti, il prevalere di un impero sull’altro, l’assunzione del potere da parte di una delle forze in campo.

Con la conclusione del secondo conflitto mondiale le cose cambiano radicalmente. Oggi, trascorsi 75 anni dalla sua conclusione, disponiamo di una prospettiva storica che inizia a permetterci di poter operare una valutazione circa la persistenza o meno di un’utilità del ricorso alle armi per il conseguimento di un obiettivo politico, prescindendo dal suo valore etico.

Se, ad esempio, facciamo riferimento alla drammatica questione delle relazioni israelo-palestinesi, che proprio dalla fine del conflitto mondiale, non fa altro che disseminare sofferenza e morte nella terra di Gesù, pur apparendo indiscutibile la superiorità militare e organizzativa degli israeliani, non si può negare che, all’indomani di ogni affermazione di forza e di ogni sconfitta palestinese, lo stato d’Israele non ha potuto cantare vittoria e si è ritrovato, e tuttora si ritrova, a dover fare i conti con il popolo palestinese. Ad ogni vittoria, Israele, un po’ come nel gioco dell’oca, si ritrova alla casella di partenza. La superiorità militare non basta a Israele per risolvere il problema. Occorre altro.

Ma al di là delle caratteristiche del tutto singolari del conflitto israelo-palestinese, possiamo giungere a un’analoga conclusione se prestiamo attenzione alle vicende della prima potenza militare del mondo, gli Stati uniti d’America. Usciti vincitori indiscussi dal conflitto mondiale e, a tutt’oggi detentori della maggiore forza militare disponibile sul pianeta, non si può negare che da vari decenni hanno inanellato una serie di “figuracce” quando hanno scelto, passando dalle parole ai fatti, di “far parlare le armi”. E qui è sufficiente ricordare la dura sconfitta patita in Vietnam, ma anche il disastroso esito delle due avventure militari in Iraq, che se hanno determinato la caduta di Saddam Hussein, hanno poi aperto le porte al Califfato islamico. In questa stessa logica si è poi inscritta anche l’invasione dell’Afghanistan, che in venti anni non è riuscita ad aver ragione dei talebani, che alla fine sono rimasti padroni del campo, più forti e baldanzosi che mai.

Il tutto coltivando il mito ingannevole e illusorio, ma profondamente fatto proprio dai circoli militaristici, della “guerra lampo” (un po’ sulla scia del mussoliniano “spezzeremo le reni alla Grecia”) e ponendo nel dimenticatoio che l’unica e fondamentale affermazione conseguita nel dopoguerra, quella nei confronti della dittatura sovietica, è stata determinata proprio dalla scelta di non far parlare le armi e di dar voce al diritto alla libera circolazione degli uomini e delle idee.

Allora penso che sia giunto il momento di riporre le armi nel cassetto. Alla luce dei fatti si sono rivelate inutili e controproducenti. Quando sono state usate hanno prodotto morte e distruzione, ma non hanno portato nemmeno alla vittoria (giusta o ingiusta che fosse). Realismo vuole che si cambi strada. Negli ultimi decenni in realtà i cambiamenti più significativi si sono avuti senza il ricorso alle armi. Ho già citato l’esito del confronto est-ovest del secolo scorso, un confronto che si è giocato molto sul gonfiare i muscoli, ma che ha almeno avuto la saggezza di non far parlare (almeno in forma diretta) le armi. Ma non è il solo caso. Basti pensare al processo d’integrazione europea. Lo so che oggi non va molto di moda parlare di Europa. Ma è un dato storico che in un settantennio i paesi dell’Europa (almeno quelli dell’area occidentale) hanno maturato una coscienza di appartenenza a una cultura comune. Negli ultimi secoli non si è mai avuto tra i paesi dell’Europa occidentale un periodo così lungo di assenza di conflitti armati e di coesistenza pacifica. E questo non è poca cosa, nonostante tutti i problemi che l’Unione europea si trova dinanzi ed è chiamata ad affrontare. L’aver fatto tacere le armi e parlare i cuori e i cervelli è stata una scelta giusta e anche un buon affare.

Far parlare i cuori e i cervelli è anche la prospettiva per far crescere la consapevolezza e il riconoscimento più universale dei diritti umani. Un segnale incoraggiante lo abbiamo avuto, per esempio, dai recenti giochi olimpici, dove abbiamo potuto constatare l’allargamento della partecipazione femminile anche nelle delegazioni dei paesi islamici. Favorire la circolazione delle persone, sviluppare il confronto culturale e delle idee, promuovere la costruzione di percorsi migratori legali, sicuri e garantiti, è la strada più efficace per esportare la democrazia. La libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti non s’impongono con le armi, hanno in sé la forza per affermarsi è sufficiente incontrarsi, confrontarsi e cercare di risolvere assieme i problemi. Nel confronto i diritti umani prendono forza e si affermano.

 Vico Equense, lì 2 novembre 2021

Sergio Sbragia

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