domenica 26 gennaio 2014

Una Chiesa “in uscita”




Una Chiesa “in uscita”


«La Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte l’ansietà per guardare negli occhî e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per accompagnare chi è rimasto al bordo della strada. A volte è come il padre del figlio prodigo, che rimane con le porte aperte perché quando ritornerà possa entrare senza difficoltà» (Papa Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium [EG.], 46).

In questi giorni sto leggendo l’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco. Ieri pomeriggio al ritorno dal lavoro, in treno, ho avuto l’opportunità di leggerne i paragrafi 46-49. E sono davvero rimasto illuminato dalla parole di papa Francesco.
L’idea della Chiesa “in uscita”, mi sembra davvero un’idea-guida di grande spessore evangelico. La dimensione ecclesiologica che viene proposta è quella di una comunità dalle “porte aperte” che sa soffermarsi a dialogare con gli uomini e con le donne del nostro tempo, soprattutto con quanti hanno un passo più lento. Il richiamo è alla figura evangelica del padre saggio che lascia la porta di casa aperta in attesa fiduciosa del ritorno del figlio.
Papa Francesco, sul tema delle “porte aperte”, insiste anche nei paragrafi successivi. Per esempio, nel paragrafo 47, invita a scongiurare il rischio che qualcuno nella sua sincera ricerca di Dio possa trovarsi dinanzi alla «freddezza di una porta chiusa» e sottolinea che «ci sono altre porte che neppure si devono chiudere», poiché «tutti possono far parte della comunità». Questo vale anche per i sacramenti, sia per il Battesimo (sacramento “porta” della Chiesa), sia per l’Eucarestia, che «non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli». Ci ricorda poi che «di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori», dimenticando che «la Chiesa non è una dogana», ma «la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa».
Al paragrafo 48, papa Francesco ci ricorda che la Chiesa «deve arrivare a tutti, senza eccezioni», in particolare ai poveri, agli infermi, a «coloro che spesso sono disprezzati e dimenticati», a coloro che non hanno da ricambiare (cf. Lc. 14,14). I poveri, dunque, «sono i destinatarî privilegiati del Vangelo». È quindi doveroso «affermare senza giri di parole che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri».
Nel successivo paragrafo 49, papa Francesco, chiarisce ulteriormente la propria visione della comunità ecclesiale: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze». Ci indica, inoltre, quale debba essere la nostra principale preoccupazione: «se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita».
Quella che ci propone papa Francesco è l’avventura del navigare in “mare aperto”. Si può preferire di accontentarsi delle acque protette e tranquille di una baia ben riparata, della quale si conosce ogni anfratto e l’ordinario andamento delle correnti. Oppure si può raccogliere la sfida dell’uscire in “mare aperto”, del confrontarsi con venti e correnti poco conosciuti, se non addirittura ignoti. Qui, la navigazione è, di certo, meno facile e più pericolosa. Ma è il “mare aperto” il luogo dove si tempra “il marinaio” e si forma “lo sperimentatore di nuove rotte”. Certo, c’è il pericolo del fallimento, ma abbiamo anche la certezza che la scelta di “nascondere il talento” è, in definitiva, quella che è realmente priva di prospettive (cf. Mt. 25,14-30).

Consiglio a tutti la lettura dell’Evangelii gaudium. È un testo scritto in un linguaggio facile (il che non guasta), che però dispensa in ogni paragrafo vere “ricchezze” per la fede e per la vita.

Grazie, papa Francesco!

Vico Equense, venerdì 24 gennaio 2014.

lunedì 6 gennaio 2014

I «GIUDÈI» E IL DISCORSO NELLA SINAGOGA DI CAFÀRNAO (6,22-71)




Il giorno dopo, la folla, rimasta dall'altra parte del mare, vide che c'era soltanto una barca e che Gesù non era salìto con i suoi discepoli sulla barca, ma i suoi discepoli erano partiti da soli. Altre barche erano giunte da Tiberìade, vicino al luogo dove avevano mangiato il pane, dopo che il Signore aveva reso grazie. Quando dunque la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: "Rabbì, quando sei venuto qua?".
Gesù rispose loro: "In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo". Gli dissero allora: "Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?". Gesù rispose loro: "Questa è l'opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato".
Allora gli dissero: "Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno­­­ mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo". Rispose loro Gesù: "In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo". Allora gli dissero: "Signore, dacci sempre questo pane". Gesù rispose loro: "Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai! Vi ho detto però che voi mi avete visto, eppure non credete. Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno".
Allora i Giudèi si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: "Io sono il pane disceso dal cielo". E dicevano: "Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: "Sono disceso dal cielo"?".
Gesù rispose loro: "Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: E tutti saranno istruiti da Dio. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo".
Allora i Giudèi si misero a discutere aspramente fra loro: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?". Gesù disse loro: "In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno".
Gesù disse queste cose, insegnando nella sinagoga a Cafàrnao. Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: "Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?". Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: "Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima?  È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono". Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: "Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre".
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: "Volete andarvene anche voi?". Gli rispose Simon Pietro: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio". 70Gesù riprese: "Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!". Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici (6,22-71).

 In questo brano il termine «i Giudèi» ricorre due volte, nei vv. 41 e 52, nel quadro di un contrasto che vede Gesù impegnato in polemica prima con una non ben determinata “folla”, poi con i “Giudèi” e, infine con “molti dei suoi discepoli”.
La scena di questa polemica è la sinagoga di Cafàrnao. Siamo sempre in Galilèa, sulle rive del lago di Gennèsaret, nella città di Cafàrnao, quella città in cui Gesù, all'inizio dei suo ministero, lasciando Nàzareth, scelse di andare ad abitare, una città presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali (cf. Mt. 4,13). Questo semplice cambio di residenza per Gesù significò lasciare il minuscolo villaggio, luogo della tranquillità. delle abitudini semplici e degli orizzonti ristretti, per scendere in una città più aperta e più complessa, centro di commercî e traffici e punto d'incontro di culture diverse, ove si trovò ad affrontare un nuovo modo di vivere e le connesse insicurezze. In termini attuali, potremmo dire che, scendendo a Càfarnao, Gesù si confrontò con la modernità e la complessità. Egli accettò con gioia questo cambio, Cafarnao divenne la sua "città", ma ciò non gli impedì dì essere libero e critico verso di essa, evidenziandone le colpe anche con dure invettive. Il tutto origina da una condivisione piena del destino e delle sofferenze della sua gente.
La scena si svolge nella sinagoga. Questo porta a escludere la partecipazione di gentili.
I dialoghi che si snodano in questo capitolo si articolano, un po’ come quelli esaminati in precedenza, tra un piano letterale e materiale della concreta esperienza di vita e un piano che fa riferimento a un significato che travalica le apparenze materiali, che tuttavia fa rifermento alla relazione autentica con Dio. Ed è questo il piano che Gesù ìndica ai suoi interlocutori, come quello autenticamente reale e meritevole di essere ricercato.
Il primo dialogo si ha appunto con la “folla”. Il giorno successivo alla moltiplicazione dei nani (6,1-15), la folla che aveva intravisto in Gesù “il profeta che deve venire nel mondo” (cf. 6,14), lo cerca e si pone in cammino per rintracciarlo, attraversando in barca un braccio del lago di Tiberìade. Una volta raggiunto a Cafàrnao, la folla interpella Gesù, che la istruisce sulle ragioni autentiche della loro ricerca.
In primo luogo Gesù richiama quanti lo hanno seguìto fino a Cafàrnao a cercare di comprendere il senso autentico del segno di cui sono stati testimonî. È esplicito l’invito a darsi «da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell'uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo» (6,27). A questo invito di Gesù, corrisponde da parte della folla una prima reazione ispirata a un atteggiamento di ricerca autentico, che si estrinseca prima nella richiesta di «che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?» (6,28) e poi nell’invocazione «Signore, dacci sempre questo pane» (6,34). Quest’atteggiamento, richiama in qualche maniera l’atteggiamento assunto, nel cap. 4, dalla donna samaritana che chiede dove poter attingere l’acqua, preannunciata da Gesù, capace di dissetare in maniera autentica. A quest’atteggiamento Gesù risponde proponendosi come l’autentico pane capace di estinguere la fame e la sete di quanti sceglieranno di seguirlo.
Il brano non permette tuttavia di chiarire l’evoluzione di questo inziale atteggiamento di ricerca mostrato dalla «folla», se esso sfocia in un’opzione di adesione a Gesù o se resta solo un primo orientamento solo abbozzato, che poi non riesce a trovare una concreta traduzione nel concreto.
In effetti, il dialogo con la «folla», senz’alcuna inserzione redazionale, tracima con una decisa virata nella polemica con «i Giudèi».
La figura dei «Giudèi» irrompe sulla scena con una mormorazione, fondata su un realismo materiale che contesta a Gesù la pretesa di “venire dal cielo”, in nome dei dati anagrafici a piena conoscenza degli astanti «costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre?» (6,42). Il riferimento ai dati familiarî di Gesù è un’ulteriore indicazione che «i Giudèi» in campo in questo episodio sono in realtà Galilèi, che si propongono come fedeli osservanti del culto giudaico. Ricorre anche qui la rilevazione della difficoltà e dell’incapacità a passare dal segno alla sua comprensione autentica, senza rimanere prigionieri della sola apparenza materiale del segno stesso.
I «Giudèi» passano dalla “mormorazione” (6,41), a un’“aspra discussione tra loro” (6,52). Ciò mostra come il gruppo in realtà non fosse del tutto omogeno, che al suo interno dovevano essere presenti opinioni diverse e atteggiamenti non univoci, da un lato chi in qualche maniera era disponibile a un’apertura di credito nei confronti di Gesù, dall’altro chi rifiutava a Gesù qualsiasi credibilità, in nome dell’evidente assurdità della pretesa di Gesù di proporsi come nutrimento degli uomini («Come può costui darci la sua carne da mangiare?» - 6,52).
Ancora una volta, resta sospeso l’esito del dialogo con i «Giudèi», la scena è conquistata dalla polemica con i discepoli, che obiettano la durezza della proposta formulata da Gesù (6,60). Gesù allora richiama a prendere sul serio il fatto che è lo Spirito a dare la vita (6,63). L’adesione incondizionata alla libera azione dello Spirito è il fattore decisivo per la resurrezione (6,40), che sarà infine testimoniata da Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (6,68).
Il passaggio stilistico dal dialogo con un interlocutore a un altro, senza che ciascun dialogo sia pienamente definito nei suoi esiti, lascia in sospeso molti interrogativi, da un lato, e accresce, dall’altro, l’aspettativa dei lettori interessati a comprendere più a fondo il senso pieno della proposta di Gesù, che, comunque, nonostante il variare degli interlocutori, resta la stessa: Seguire Gesù vorrà dire non avere più fame né sete d’altro. Questo è vero per la «folla», per i «Giudèi» e per i «discepoli».
A conclusione dell’analisi di questo brano emergono alcuni spunti di riflessione, su cui sarà opportuno ritornare. In primo luogo sembra legittimo formulare l’ipotesi di una particolare “sim-patia” di Gesù con la «folla», della quale si evidenzia un’iniziale atteggiamento di ricerca, del cui esito non si dà conto, ma non viene del tutto escluso una possibile evoluzione positiva. In merito ai «Giudèi», in secondo luogo, sembra emergere una composizione variegata e mobile del gruppo, testimoniata dalle discussioni aspre insorte nel loro seno, che, almeno per questo episodio, impedisce di riconoscere in essi un gruppo omogeneo di avversarî di Gesù, anche se ciò è decisamente affermabile per una parte (maggioritaria?). Emerge, infine, la radicalità della scelta proposta ai discepoli. Una scelta che, alla fine, non tutti si sentono di accogliere. Molti non se la sentiranno, ma alcuni (i Dodici) aderiranno con convinzione (ma non tutti).
La proposta di adesione a Gesù è dunque rivolta a tutti (la «folla», i «Giudèi», i «discepoli», i «Dodici», «noi»). Non è una scelta intellettuale, ma vitale, da declinare quotidianamente nell’esistenza storica con la consapevolezza che è lo Spirito a dare la vita. 

Vico Equense, lunedì 6 gennaio 2014

I «GIUDÈI» E LA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI (Gv. 6,1-15)




«Dopo questi fatti, Gesù passò all'altra riva del mare di Galilèa, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compìva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudèi. 
Allora Gesù, alzàti gli occhî, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: "Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?". Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: "Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo". Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: "C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?". Rispose Gesù: "Fateli sedere". C'era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: "Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto". Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: "Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!". Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo» (6,1-15).


In questo brano il riferimento a «i Giudèi» ricorre una sola volta, al v. 4. Anche qui l’espressione svolge la funzione di contestualizzare l’episodio nel corso della festa della Pasqua («Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudèi»). E anche in questo caso, in riferimento a «la festa dei Giudèi», possono essere operate nella sostanza riflessioni analoghe a quelle formulate a margine del brano su «i Giudèi», la Pasqua e la purificazione del Tempio di 2,13-25 e in ordine alla prima ricorrenza nel brano “La guarigione dell’infermo alla piscina di Betzatà” di 5,1-18.

I fatti narrati si svolgono lontano dalla Giudèa, per la precisione in Galilèa nelle località rivierasche del lago di Gennèsaret. Gli interlocutori che Gesù si trova dinanzi, con ogni probabilità non sono Giudèi, nel senso etnico del termine di “abitanti della Giudèa”, ma Giudèi nel senso religioso dell’espressione. Anche se è legittimo presumere che tra i numerosi presenti al “segno” della moltiplicazione dei pani (cinquemila?) numerosi siano stati anche i gentili, se si tien conto che l’episodio si svolge a poca distanza dalla città di Tiberìade. La città, intitolata da Erode Antipa all’imperatore romano Tiberio, centro amministrativo della tetrarchia e abitata in prevalenza da gentili. È pertanto del tutto plausibile che un certo numero di essi siano stati testimonî della moltiplicazione.
Nel sèguito del brano l’espressione «i Giudèi» non ricorre. L’episodio raccontato influenza tuttavìa notevolmente il contrasto con «i Giudèi» che Gesù avrà il giorno dopo nella Sinagoga di Cafàrnao, che prenderà le mosse proprio dalla difficoltà di percepire il significato autentico del “segno” operato a Tiberìade sulla riva del mare di Galilèa. Un segno operato intorno all’elemento simbolico del “pane”, che induce la gente che ne è stata testimone a dire: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!» (6,14), che costituirà tuttavìa il giorno dopo, nella sinagoga di Cafàrnao, l’argomento da cui prenderà avvìo il contrasto tra Gesù e i Giudèi.

Vico Equense, lunedì 6 gennaio 2014