1. Il Cristianesimo e il dialogo con le altre religioni: il problema.
La
relazione che sussiste tra il cristianesimo e le altre religioni costituisce
uno dei problemi principali della missione pastorale della Chiesa e uno degli argomenti
oggetto di maggiore approfondimento e confronto nell’àmbito della ricerca
teologica. Il nodo principale, oggetto di vivaci discussioni, ruota intorno al
problema di come conciliare la consueta affermazione dell’unicità di Cristo,
come salvatore, con il riconoscimento di una pluralità di offerte di salvezza
mediate attraverso le religioni presenti nel mondo.
Il
problema aveva trovato una facile soluzione fin quando le religioni diverse da
quella cristiana erano state intese come il frutto dell’azione del demonio
nella storia per contrastare l’azione salvifica di Dio in favore dell’umanità.
La visione dell’unicità salvifica di Cristo trova il suo fondamento in
espliciti riferimenti biblici. L’apostolo Pietro il giorno dopo la guarigione
dello storpio alla porta bella del Tempio, comparso davanti al sommo sacerdote,
agli anziani e agli scribi, ebbe modo di affermare in riferimento a Gesù:
«in
nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato
agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At. 4,12).
A
sua volta l’apostolo Paolo, nella sua Prima
lettera a Timòteo afferma ancora più esplicitamente:
«Questa
è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che
tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio
e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti»
(1Tm. 2,3-6).
Questa
comprensione cristologica ha poi dato il via alla corrispondente convinzione
relativa alla necessaria mediazione della Chiesa per la salvezza di ogni uomo e
della conseguente negazione di ogni possibile riconoscimento di una funzione
salvifica alle altre religioni. Tale visione ecclesiologica è stata poi riassunta
nella formula tradizionale: «fuori della Chiesa non c’è salvezza».
La
nuova sensibilità che nell’epoca contemporanea è venuta maturando in àmbito
cristiano sulla scorta del confronto sempre più stringente con le diverse
culture e dell’ineludibile avvio di forme di dialogo con le altre religioni.
Ciò ha comportato una necessaria e seria riconsiderazione
dell’incontrovertibilità, nei confronti delle altre religioni, della
convinzione di detenere l’assolutezza della verità.
A
dire il vero, una tale evoluzione si è venuta determinando, prima sul piano
dell’esperienza concreta, e solo successivamente ha investito la riflessione
teologica e l’insegnamento delle Chiese. Le prime esperienze di dialogo e di pluriappartenenza
sono avvenute in contrasto con le indicazioni ufficiali e quindi hanno
comportato particolari difficoltà dottrinali, e sono state occasione di sofferenze
e di dolorosi traumi. La teologia, successivamente, in forma autonoma e senza
tener conto delle esperienze religiose nel frattempo vissute, è venuta lentamente
maturando una nuova comprensione della realtà della salvezza, che ha permesso
una diversa valutazione delle altre tradizioni religiose e una lettura di una
loro possibile funzione nel piano della salvezza. E ciò ha consentito una valorizzazione
delle sofferte esperienze di dialogo condotte. D’altro canto, il fascino
esercitato dall’oriente, in particolare quello delle religioni di origine
indiana, si è poi venuto man mano negli ultimi decennî sempre più ampliando in
àmbito cattolico, di modo che la testimonianza dei pionieri del dialogo e della
pluriappartenenza religiosa rappresenta oggi un punto di riferimento davvero
stimolante.
Le
esperienze di Jules Monchanin, di Henri Le Saux, di Bede Griffiths sono
espressione dei tentativi d’inculturazione indiana dell’esperienza monastica
cristiana. I casi di Raimon Pannikar, di Paul Knitter, di Michael Amaladoss, in
àmbito cattolico sono solo gli ultimi, ma significativi, esempî di una serie
che registra già numerosi nomi. Può, a tal proposito, essere sufficiente
ricordare come Paul Knitter, nel suo Senza
Budda non potrei essere cristiano abbia affermato:
«con
prudenza ma con altrettanta fermezza, che il mio rapporto con Budda ha chiarito
e approfondito il mio impegno nei confronti di Cristo. Confido che possa fare
la stessa cosa per molti dei miei fratelli e sorelle cristiani» (Paul Knitter, Senza Budda non potrei essere cristiano)[1].
Il
tema delle relazioni tra il cristianesimo e le altre tradizioni religiose ha,
tuttavia, assunto un’inedita fisionomia da quando il Concilio ecumenico
Vaticano 2° (1962-1965) ha proposto una nuova comprensione del pluralismo
religioso, guardando alle varie religioni come possibili vie di salvezza
tracciate da Dio secondo le diverse tradizioni storiche e le varie sensibilità
culturali. Dopo il Concilio, il dialogo interreligioso è divenuto così una
delle dimensioni essenziali della missione ecclesiale, come è stato posto in
evidenza anche da successivi documenti del magistero ecclesiale e confermato da
molteplici iniziative poste in essere dalle chiese cristiane negli ultimi
decennî. Il Concilio, in realtà si configura come l’autentico spartiacque che
ha permesso sull’argomento un autentico sviluppo teologico che oggi si presenta
come vero ‘e proprio salto di paradigma di comprensione.
Per
cercare di comprendere lo spessore reale di questo passaggio, davvero epocale,
nella comprensione teologica del fenomeno del pluralismo religioso può
risultare utile soffermarci, in successione, sui seguenti temi: riflettere sul
significato dell’opzione conciliare di assumere la storia come “luogo
teologico”; passare poi a ricostruire le modalità con cui nei lavori del
Concilio si è venuta a determinare la nascita della teologia delle religioni;
concludere, infine, con una rapida disamina dei varî orientamenti di ricerca
emersi negli ultimi decennî nell’àmbito della teologia delle religioni.
2. L’assunzione della storia come “luogo teologico”.
Uno
degli approdi teologici e culturali di maggiore spessore raggiunti dal Concilio
ecumenico Vaticano 2° consiste nella maturazione della consapevolezza che anche la Chiesa, la liturgia e le
tradizioni dottrinali fanno i conti con la storia e risentono necessariamente
delle sue leggi e dei condizionamenti derivanti dai processi storici. Nel corso
dei dibattiti sviluppatisi tra i Padri conciliari si manifesto, infatti, una
sempre più diffusa consapevolezza della necessità di aggiornare la dottrina e
la prassi della Chiesa in ragione dei profondi mutamenti storici venutisi a
determinare nel corso dei secoli.
Giuseppe
Ruggieri pone in evidenza come «l’attenzione alla storia» possa essere ritenuto
come «l’aspetto più innovativo dell’evento conciliare», da cui discende
l’individuazione della storia stessa come «luogo teologico»[2].
In
effetti numerosi sono i riflessi della maturazione di una coscienza storica
ecclesiale riscontrabili nella redazione dei documenti conciliari. Con ogni probabilità,
quello di maggior rilievo è riscontrabile allorché s’individua la Rivelazione,
non tanto nella manifestazione di verità teoriche, quanto nell’indicazione
della via della salvezza lungo il dipanarsi della storia umana.
Ruggieri
chiarisce poi il senso più autentico di questa percezione della Rivelazione:
«Non
si tratta della verità nel senso scientifico del termine, come enunciato corrispondente
allo stato delle cose che viene espresso nella formula impiegata, ma della
“verità che Dio ha voluto che fosse consegnata per la nostra salvezza nelle
sacre lettere” (Dei Verbum, 11).
Questo sta a significare che l’ispirazione (e quindi l’inerranza) (…) si
estende a tutta la Scrittura, ma non al
tenore materiale delle affermazioni, bensì al motivo formale per cui esse
sono state fatte, cioè in quanto adatte a
comunicarci la volontà di Dio di accoglierci»[3].
La
conseguenza più rilevante per la riflessione che stiamo tentando di condurre è
che con il Concilio è la storia stessa ad assumere la dignità di “luogo teologico”.
Con la riscoperta della categoria dei "segni dei tempi" si è infatti
determinato il superamento di una pratica
della ricerca teologica, imperniata in maniera prevalente, se non addirittura
esclusiva, su una metodologia deduttiva, rivelatasi alla prova dei fatti incapace
di comprendere i problemi sempre nuovi che si pongono agli uomini d'oggi.
Ciò
ha provocato un'inversione di metodo teologico, da deduttivo ad induttivo. Le
situazioni storiche sono divenute “luogo teologico" di un discernimento
guidato dalla lettura evangelica dei "segni dei tempi".
I
lavori del Concilio, proponendo la lettura dei "segni dei tempi", hanno
cioè sottolineato come l'essere nel mondo rientri nella natura stessa della Chiesa.
Le civiltà e le culture (e dunque anche le religioni), che si susseguono nel corso
della storia, rappresentano il corpo e il linguaggio nei quali la parola di Dio
e la fede s'incarnano e s'esprimono. E' nella vicenda storica, infatti, che si
realizza il mistero dell'incontro tra Dio e l'uomo. La parola di Dio, 1ungi dal
darci un'interpretazione scientifica del mondo, può, però, invece, svelarcene
il significato profondo, mostrandoci il senso della nostra "chiamata"
in esso. "Segni dei tempi" diviene perciò la novità dello sforzo
creativo dei cristiani nel l'interpretazione della società. Ciò ha significato
spianare dinanzi al concreto “far teologia” dei credenti spazî amplissimi di
lavoro e di ricerca Concentrarsi sulla lettura della storia porta a scoprire in
alcuni eventi una dimensione simbolica, allorquando esprimano le attese di
molte persone. E questo vale in particolar modo in relazione alle grandi
tradizioni religiose.
3. La Costituzione dogmatica Lumen gentium.
Al delicato tema delle relazioni con le altre tradizioni
religiose l’assise conciliare ha scelto di dedicare un documento di grande
rilevanza, la Dichiarazione Nostra aetate
[Nae], nella quale si
affronta proprio il delicato problema
delle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.
Il tema delle
relazioni con le altre religioni era tuttavia già stato, in qualche modo,
oggetto dei lavori conciliari in particolare nella Costituzione dogmatica sulla
Chiesa Lumen gentium [Lg], quando al suo interno si
approfondisce il significato teologico della comprensione della comunità
ecclesiale come “Popolo di Dio”.
«Tutti gli uomini sono chiamati a formare
il popolo di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve
estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l'intenzione
della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e volle
infine radunare insieme i suoi figlî dispersi (cf. Gv. 11,52). A questo scopo
Dio mandò il Figlio suo, al quale conferì il dominio di tutte le cose (cf. Eb.
1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo del nuovo e
universale popolo dei figlî di Dio. Per questo infine Dio mandò lo Spirito del
Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per tutta la Chiesa e per tutti e
singoli i credenti è principio di associazione e di unità, nell'insegnamento
degli apostoli e nella comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle
preghiere (cf. At. 2,42).
In tutte quindi le nazioni della terra è
radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i
cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi
per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così “chi
sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra” (cf. Giovanni Crisostomo, Omelie
sul vangelo di Giovanni, 65,1). Siccome dunque il regno di Cristo non è di
questo mondo (cf. Gv. 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo
questo regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al
contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di
vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le
consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con
quel Re, al quale sono state date in eredità le genti (cf. Sal. 2,8), e nella
cui città queste portano i loro doni e offerte (cf. Sal. 71 (72),10; Is.
60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di
Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e
senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in
Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui (cf. Ireneo di Lione, Adversus Haereses, 3., 16, 6; 3., 22, 1-3).
In virtù di questa cattolicità, le singole
parti portano i proprî doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che
il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e
per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo
di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si
compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per
ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro
fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso,
tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i
loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro
il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione
universale di carità (cf. Ignazio
d’Antiochia, Lettera ai romani,
Prefazione), tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è
particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E infine
ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima comunione
circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse materiali. I
membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i beni e anche
alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: «Da bravi
amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a servizio degli
altri il dono che ha ricevuto» (1Pt. 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia i
fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini
senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza» [Lg. 13].
La Costituzione Lumen gentium sottolinea con forza che tutti gli uomini sono chiamati a formare il
popolo di Dio, che, pur restando unico, è desinato a diffondersi in ogni
luogo e in ogni epoca, affinché sia compiuta la volontà di Dio che in principio
creò l’unica natura umana e volle radunare insieme i suoi figlî che si erano
dispersi (cf. Gv. 11,51-52).
«Questo però [Caifa] non lo disse da se
stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva
morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire
insieme i figlî di Dio, che erano dispersi» (Gv. 11,51-52).
A tale scopo Dio ha inviato nel mondo il suo Figlio, al
quale ha conferito il dominio su tutte le cose (cf. Eb. 1,1-2), affinché fosse
maestro, re e sacerdote di tutti e capo del nuovo e universale popolo dei figlî
di Dio.
«Dio, che molte volte e in diversi modi nei
tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in
questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di
tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb. 1,1-2).
Allo stesso modo Dio ha pure inviato lo Spirito che è
principio di unione e di unità.
«Infine, quanto a quelli che non hanno
ancora ricevuto il Vangelo, anch'essi in varî modi sono ordinati al popolo di
Dio (cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 3., q. 8, a. 3, ad.
1). In primo luogo quel popolo al quale furono-dati i testamenti e le promesse
e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cf. Rm. 9,4-5), popolo molto amato
in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di
Dio sono irrevocabili (cf. Rm. 11,28-29). Ma il disegno di salvezza abbraccia
anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i
musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un
Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non
è neppure lontano dagli altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le
immagini, poiché egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cf. At.
1,7,25-26), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cf. 1Tm.
2,4). Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa
ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll'aiuto della grazia si sforzano
di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta attraverso il dettame
della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna (cf. Sacra Congregazione del Sant’Offizio, Lettera all’Arcivescovo di Boston, Denz.
3869-72). Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessarî alla salvezza a
coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e riconoscimento di
Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta.
Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro è ritenuto dalla
Chiesa come una preparazione ad accogliere il Vangelo (cf. Eusebio di Cesarea, Praeparatio Evangelica, 1., 1), e come dato da colui che illumina
ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita. Ma molto spesso gli uomini, ingannati
dal maligno, hanno errato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità
divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cf. Rm.
1,21 e 25), oppure, vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti
alla disperazione finale. Perciò la Chiesa per promuovere la gloria di Dio e la
salute di tutti costoro, memore del comando del Signore che dice: “Predicate il
Vangelo ad ogni creatura” (Mc. 16,15), mette ogni cura nell'incoraggiare e sostenere
le missioni» [Lg. 16].
La Lumen gentium afferma con chiarezza che
anche quanti non hanno ricevuto il Vangelo sono in vario modo posti in
relazione con il popolo di Dio (cf. Tommaso
d’Aquino, Summa theologiae,
3., q. 8, a. 3, ad. 1). In primo luogo è il caso del popolo ebraico dal quale
Cristo è nato secondo la carne. Il popolo ebraico è indicato quale destinatario
delle promesse di Dio e, quindi, è carissimo alla Chiesa in virtù dei padri e
dell’elezione divina, ben sapendo che i doni e la vocazione di Dio sono
irrevocabili (cf. Rm. 11,28-29).
«Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per
vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei
padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm. 11,28-29).
Il disegno della salvezza coinvolge comunque anche quanti
riconoscono Dio come creatore, e, tra questi, in particolare i musulmani che
professano di seguìre la fede del comune patriarca Abramo, e adorano come i
cristiani un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno
finale.
Secondo la Lumen
gentium Dio non è lontano nemmeno da quanti, attraverso le altre tradizioni
religiose ricercano il Dio ignoto, poiché è ben vero che Dio dà a tutti la vita
e il respiro (cf. At. 17,24-28), e come Salvatore vuole che tutti gli uomini si
salvino (cf. 1Tm. 2,3-4).
«Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò
che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi
costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se
avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e
ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché
abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei
tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e
là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi.
In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni
dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”» (At. 17,24-28).
«Questa è cosa bella e gradita al cospetto
di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e
giungano alla conoscenza della verità» (1Tm. 2,3-4).
La Chiesa è, inoltre, consapevole che anche quanti senza
propria responsabilità non conoscono il Vangelo, ma cercano con sincerità Dio
e, con l’aiuto della grazia, si sforzano di compiere la sua volontà seguendo le
indicazioni della propria coscienza possano raggiungere la salvezza (cf. Sacra Congregazione del Sant’Offizio, Lettera all’Arcivescovo di Boston, Denz.
3869-72).
Né possono essere negati gli aiuti necessarî alla
salvezza anche a quanti che, pur non essendo giunti al riconoscimento di Dio,
si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Infatti
quanto di buono e di vero si trova nella loro esperienza è in sostanza una vera
‘e propria preparazione al Vangelo, data da Colui che illumina ogni uomo,
affinché abbia finalmente la vita (cf. Eusebio di Cesarea, Praeparatio Evangelica, 1., 1).
La ricerca umana su Dio tuttavia in molti casi non è
riuscita a conseguire una conoscenza autentica e veritiera su Dio e, talvolta,
porta alla determinazione di vivere prescindendo da Dio. Onde favorire per
tutti gli uomini la possibilità d’incontrarlo e di percepire i segni della Sua
gloria autentica, la Chiesa cercando di essere fedele al mandato del Signore
(«Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura» - Mc.
16,15), promuove con forza le missioni.
4. La Dichiarazione Nostra aetate.
Pur nella sua sinteticità, la Dichiarazione Nostra aetate delinea con chiarezza le
linee di fondo di un nuovo e inedito stile nell’impostazione delle relazioni
con le altre tradizioni religiose. La riflessione dei padri conciliari prende
le mosse dalla constatazione del processo di progressiva unificazione del
genere umano e di crescente interdipendenza tra i popoli, nonché dalla
consapevolezza del proprio dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli
uomini e tra i popoli. In ragione di questa constatazione e di questa consapevolezza,
l’assise conciliare non esita a manifestare come la Chiesa sia impegnata a
esaminare tutto quanto gli uomini hanno in comune, a comprendere pienamente
quanto li spinge a vivere insieme il loro comune destino, e, infine, a
considerare con attenzione la natura delle proprie relazioni con le altre
tradizioni religiose.
«Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l'interdipendenza tra i varî popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l'unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino.
I varî popoli costituiscono infatti una
sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare
l'intero genere umano su tutta la faccia della terra (cf. At. 17,26) hanno anche un solo fine
ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di
salvezza si estendono a tutti (cf. Sap.
8,1; At. 14,17; Rm. 2,6-7; 1Tm. 2,4) finché gli eletti saranno riuniti nella città santa,
che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce (cf.
Ap. 21,23-24).
Gli uomini attendono dalle varie religioni la
risposta ai reconditi enigmi della condizione umana, che ieri come oggi turbano
profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della
nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e lo scopo del dolore, la via per
raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la
morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza,
donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo» (Concilio ecumenico
Vaticano 2°, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate [Nae], n. 1).
I padri conciliari fondano i lineamenti di una teologia delle religioni, capace di portare alla comprensione della funzione delle altre religioni nell’àmbito dell’universale disegno di salvezza che Dio propone a tutta l’umanità, da un lato, su alcuni contenuti biblici di rilevanza primaria e, dall’altro, conducendo un esame spassionato delle altre esperienze religiose senza pregiudizî. In primo luogo, viene brevemente riepilogata la visione che dell’umanità propone la Scrittura, che innanzitutto richiama una comune origine dell’intero genere umano:
«Egli creò da uno solo tutte le nazioni
degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha
stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio» (At. 17,26).
Gli uomini tutti non condividono solo una comune origine.
Strettamente legato alla comune provenienza è presentato dai testi biblici anche il comune fine ultimo. A più
riprese gli autori biblici mostrano come i segni della bontà di Dio e la
prospettiva di salvezza sia rivolta a ogni uomo e ogni donna:
«La sapienza si
estende vigorosa da un'estremità all'altra e governa a meraviglia l'universo»
(Sap. 8,1).
«ma [Dio] non ha
cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge per
stagioni ricche di frutti e dandovi cibo in abbondanza per la letizia dei
vostri cuori» (At. 14,17).
«[Dio] renderà a ciascuno secondo le sue
opere: la vita eterna a coloro che, perseverando nelle opere di bene,
cercano gloria, onore, incorruttibilità» (Rm. 2,6-7).
«[Dio] vuole che tutti gli uomini siano
salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm. 2,4).
Anche la prefigurazione della finale città santa ove
saranno riuniti gli eletti mostra come essa sarà illuminata dalla gloria di Dio
e, in essa, cammineranno tutte le genti della terra:
«La città non ha bisogno della luce del
sole, / né della luce della luna: / la gloria di Dio la illumina / e la sua
lampada è l'Agnello. / Le nazioni cammineranno alla sua luce, / e i re della
terra a lei porteranno il loro splendore» (Ap. 21,23-24).
Operando poi un
esame di massima delle varie esperienze religiose i padri del Concilio
verificano come in esse gli uomini di tutte le epoche abbiano ricercato e
ricerchino risposta a interrogativi profondi che interpellano la condizione degli
esseri umani. Segue qui una significativa esplicitazione di questi profondi interrogativi
esistenziali, che riguardano la comprensione di varî aspetti come: quale sia la
più autentica natura dell’uomo, quale sia il reale senso della vita e il suo
fine ultimo, quali siano le radici delle esperienze del “bene” e del “peccato”,
quale sia l’origine e lo scopo del dolore e della sofferenza, quale possa
essere la via per raggiungere la vera felicità, come si possa spiegare la
drammatica realtà della morte, se sia possibile pensare all’eventualità di un
giudizio e di una sanzione dopo l’esistenza terrena e, infine, l’interrogativo
primario, che in qualche modo riassume e ricomprende tutti quelli precedenti:
quale sia l’autentica origine dell’uomo e quale sia il destino finale verso cui
tende l’intera vicenda umana.
Questo complesso
d’interrogativi, riguardanti lo strato più intimo dell’umana esistenza e che
determinano l’orientamento di fondo della vita di ciascun uomo, viene così
individuato dai padri del Concilio come l’humus
comune di tutte le tradizioni religiose, come il terreno esistenziale sul quale
i diversi itinerarî di fede propongono visioni e comprensioni diverse.
Riassumendo, tre
sembrano le principali direttrici di riflessione, che emergono, già
dall’esordio del documento, nell’affrontare i temi delle relazioni con le altre
religioni: innanzitutto la ricerca appassionata dei tratti di fondo comuni e
condivisi con le altre tradizioni religiose, in secondo luogo la ricerca
instancabile nella Scrittura della vocazione più autentica dell’intera umanità
e del suo ruolo nel disegno divino di salvezza, infine l’assunzione di un
impegno di esame della realtà umana contemporanea ispirata alla comprensione e
alla ricerca appassionata della verità.
«Dai tempi più antichi fino ad oggi presso
i varî popoli si trova una certa sensibilità a quella forza arcana che è
presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi
talvolta vi riconosce la Divinità suprema o il Padre. Questa sensibilità e
questa conoscenza compenetrano la vita in un intimo senso religioso.
Quanto alle religioni legate al progresso
della cultura, esse si sforzano di rispondere alle stesse questioni con nozioni
più raffinate e con un linguaggio più elaborato. Così, nell'induismo gli uomini
scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei
miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle
angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia
nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. Nel
buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale
insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli
uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di
liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema per
mezzo dei proprî sforzi o con l'aiuto venuto dall'alto. Ugualmente anche le
altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in varî
modi, l'inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè dottrine,
precetti di vita e riti sacri.
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto
è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei
modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in
molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non
raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.
Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad
annunciare, il Cristo che è “via, verità e vita” (Gv. 14,6), in cui gli uomini
devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato
con se stesso tutte le cose (cf. 2Cor.
5,18-19).
Essa perciò esorta i suoi figlî affinché,
con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i
seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla
vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori
spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi» [Nae. 2].
I padri conciliari,
nel 2° paragrafo, passano a un esame rapido ed essenziale delle varie
esperienze religiose, riconoscendo come in esse, sin dai tempi più antichi, sia
riscontrabile una sensibilità intesa a riconoscere la forza arcana presente nel
corso delle cose e negli avvenimenti della vita umana, e di come in questa
forza arcana si possano riconoscere i tratti della Divinità suprema o del
Padre. Il Concilio riconosce che, nelle varie tradizioni, questa sensibilità e
la conoscenza che ne deriva, compenetrano la vita umana di un intimo senso
religioso.
Il documento si
rivolge poi a considerare tradizioni religiose particolari, svolgendo la
propria riflessione a cominciare da quelle originarie del lontano oriente che
ricercano risposte ai grandi interrogativi esistenziali, che abbiamo prima
ricordato, attraverso nozioni raffinate e un linguaggio elaborato.
In particolare si
considera con grande attenzione come nell’Induismo viene scrutato il mistero
divino e come questo venga espresso con penetranti sforzi di riflessione di
ordine filosofico, ma anche con tutte quelle esperienze con cui si ricerca la
liberazione dalle angosce della condizione umana, mediante forme di vita
ascetica, o con l’esercizio di una pratica profonda della meditazione, o,
ancora, attraverso il rifugio amorevole e confidente, in Dio.
Analoga e attenta
considerazione viene rivolta nei confronti del Buddhismo, di cui si apprezza in
modo particolare il riconoscimento della radicale insufficienza del mondo e
l’insegnamento agli uomini di una via, fatta di devozione e di confidenza,
lungo la quale essi possano conseguire la liberazione perfetta e
l’illuminazione suprema, grazie allo sforzo personale e all’aiuto dall’alto.
Il documento torna
poi, per un attimo, a considerare il complesso delle religioni, per apprezzare
le modalità e le forme varie con cui esse si sforzano per superare l’inquietudine
che alberga nel cuore umano, proponendo a tal proposito una pluralità di vie,
di dottrine, di precetti di vita e di riti sacri.
I padri del
Concilio tengono a sottolineare come la Chiesa, non solo consideri con grande
attenzione quanto di vero e santo è presente nelle varie religioni, ma rispetti
profondamente e con sincerità anche quei modi di agire e di vivere che, sia pur
differenti da quanto essa crede e propone, non di rado sono il riflesso di un
raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. Qui il Concilio riprende
un elemento di riflessione teologica che risale a uno dei primi padri della
Chiesa, quale Giustino di Nablus, che nel 2° sec. sviluppò la dottrina
del «Logos disseminato» (λόγος
σπερματικός, termine d’origine stoica) presente in tutti gli uomini, ai quali
permette di conoscere la verità, come sarebbe avvenuto per alcuni filosofi
antichi, È una dottrina comune all’apologetica del giudaismo del 1° e 2° sec.,
ma fu sviluppata da Giustino in modo da collocare questa sorta di rivelazione
fatta ad alcuni grandi pensatori greci (come Eraclito e Socrate) accanto alla
Rivelazione biblica. Ma il Logos disseminato negli uomini è, comunque, ritenuto
da Giustino come imperfetto e limitato. Esso, in realtà, sarebbe un mero
riflesso della ragione divina, il Verbo che s’è incarnato e rivelato in Gesù
Cristo.
Allo stesso tempo
il documento ricorda come la Chiesa sia impegnata a insegnare Cristo come «via,
verità e vita» (Gv. 14,6), nel quale Dio ha riconciliato con sé tutte le cose
(cf. 2Cor. 5,18-19), e a proporre a tutti gli uomini la possibilità di trovare
in Lui la pienezza della vita religiosa.
«Gli disse Gesù [a
Tommaso]: "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se
non per mezzo di me”» (Gv. 14,6).
«Tutto questo però viene da Dio, che ci ha
riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della
riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il
mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la
parola della riconciliazione» (2Cor. 5,18-19).
Ciononostante la
Chiesa non trascura di esortare i fedeli affinché, con un atteggiamento improntato
alla prudenza nonché alla carità, attraverso il dialogo e la collaborazione con
i seguaci delle altre religioni, senza trascurare di rendere testimonianza alla
fede e alla vita cristiana, s’impegnino a riconoscere, a conservare e a far
progredire i valori spirituali, morali e socioculturali che sono presenti
nell’esperienza religiosa di questi fratelli.
«La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l'unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra (Cf. Gregorio 7°, Epistula ad Anazir, regem Mauritaniae, 3., 21), che ha parlato agli uomini. Essi cercano di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti di Dio anche nascosti, come vi si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano tuttavia come profeta; onorano la sua madre vergine, Maria, e talvolta pure la invocano con devozione. Inoltre attendono il giorno del giudizio, quando Dio retribuirà tutti gli uomini risuscitati. Così pure hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio, soprattutto con la preghiera, le elemosine e il digiuno.
Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi
e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti
a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione,
nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia
sociale, i valori morali, la pace e la libertà» [Nae. 3].
Il documento attesta poi come la Chiesa nutra una stima particolare per i musulmani e pone in rilievo come essi si caratterizzino per l’adorazione dell’unico Dio, inteso come vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente. Sempre in merito alla comprensione islamica della divinità di Dio, il testo riconosce che anche in essa viene attribuita a Dio l’iniziativa d’interpellare gli uomini con la parola. A questo punto il testo, con il rinvio esplicito alla Lettera ad Anazir re di Mauritania di papa Gregorio 7°, fa capire come quest’atteggiamento di stima nei confronti della tradizione islamica non sia un dato del tutto inedito. La lettera citata è infatti un testo dell’11° sec., nel quale papa Gregorio espresse il rispetto dovuto alle nazioni che adorano, anche se in modi diversi, lo stesso Dio in cui credono anche i cristiani, confessandolo quale creatore e governatore del mondo e lodandolo e adorandolo quotidianamente.
Si sottolinea poi come i musulmani si sforzino di
sottomettersi incondizionatamente ai decreti di Dio, seguendo l’esempio del
comune padre e patriarca Abramo. Nonostante non riconoscano Gesù come Dio, lo
venerano come un autorevolissimo profeta; prestano poi grande onore a Maria di
Nàzareth, sua madre e vergine, che in alcuni casi è anche invocata con
devozione.
Continuando nell’individuazione degli elementi comuni, la
Dichiarazione Nostra aetate indica
l’attesa del giorno del giudizio, allorché Dio compenserà gli uomini
resuscitati, ma anche la stima nutrita dai musulmani per la vita morale e le caratteristiche del culto che essi rendono
a Dio, attraverso la preghiera, l’elemosina e il digiuno.
Dopo aver posto in rilievo i non privi di significato
punti comuni, il Concilio non passa sotto silenzio i numerosi dissensi e le
gravi inimicizie sviluppatesi, nel corso dei secoli, tra cristiani e musulmani,
ma ritiene doveroso esortare tutti a dimenticare il passato e a dar prova di
umana e reciproca comprensione, e a impegnarsi insieme per promuovere, a
servizio di tutta l’umanità, la giustizia sociale, la pace e la libertà.
«Scrutando il mistero della Chiesa, il sacro
Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è
spiritualmente legato con la stirpe di Abramo.
La Chiesa di Cristo infatti riconosce che
gli inizî della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il
mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.
Essa confessa che tutti i fedeli di Cristo,
figlî di Abramo secondo la fede (cf. Gal.
3,7), sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza
ecclesiale è misteriosamente prefigurata nell'esodo del popolo eletto dalla
terra di schiavitù. Per questo non può dimenticare che ha ricevuto la
rivelazione dell'Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella
sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l'Antica Alleanza, e che
essa stessa si nutre dalla radice dell'ulivo buono su cui sono stati innestati
i rami dell'ulivo selvatico che sono i gentili (cf. Rm. 11,17-24). La Chiesa crede, infatti, che Cristo, nostra
pace, ha riconciliato gli Ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due
ha fatto una sola cosa in se stesso (cf. Ef.
2,14-16). Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhî le parole
dell'apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe: “ai quali appartiene
l’adozione a figlî e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le
promesse, ai quali appartengono i Padri e dai quali è nato Cristo secondo la carne”
(Rm. 9,4-5), figlio di Maria vergine.
Essa ricorda anche che dal popolo ebraico
sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei
moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo.
Come attesta la sacra Scrittura,
Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata (cf. Lc. 19,44); gli Ebrei in gran parte non
hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua
diffusione (cf. Rm. 11,28).
Tuttavia secondo l'Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora
carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento (cf. Rm. 11,28-29; Lg.
20). Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che
solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola
voce e “lo serviranno sotto uno stesso giogo” (Sof. 3,9; cf. Is. 66,23; Sal. 66,4; Rm.
11,11-32).
Essendo perciò tanto grande il patrimonio
spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole
promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si
ottengono soprattutto con gli studî biblici e teologici e con un fraterno
dialogo.
E se autorità ebraiche con i proprî seguaci
si sono adoperate per la morte di Cristo (cf. Gv. 19,6), tuttavia quanto è stato commesso durante la sua
passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora
viventi, né agli Ebrei del nostro tempo.
E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo
di Dio, gli Ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio,
né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura. Curino
pertanto tutti che nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio non
si insegni alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello
Spirito di Cristo.
La Chiesa inoltre, che esecra tutte le
persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune
con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità
evangelica, deplora gli odî, le persecuzioni e tutte le manifestazioni
dell'antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque. In
realtà il Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del
suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a
causa dei peccati di tutti gli uomini e affinché tutti gli uomini conseguano la
salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di
annunciare la croce di Cristo come segno dell'amore universale di Dio e come
fonte di ogni grazia» [Nae. 4].
Dopo aver parlato dei musulmani, il documento conciliare dedica la propria attenzione agli ebrei, ponendo in risalto il particolare legame spirituale che unisce la Chiesa con la stirpe di Abramo. Il nucleo della fede e dell’elezione della Chiesa di Cristo sono in nuce rintracciabili nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.
I cristiani si
riconoscono figlî di Abramo secondo la fede (cf. Gal. 3,7) e considerano
propria la singolare vocazione di questo patriarca. Leggono poi nell’esodo del
popolo eletto dalla schiavitù in terra d’Egitto una misteriosa prefigurazione
della proposta salvifica cristiana.
«Riconoscete dunque che figlî di Abramo
sono quelli che vengono dalla fede» (Gal. 3,7).
Per questi motivi
la Chiesa non può ignorare come essa stessa abbia ricevuto la rivelazione del
Primo Testamento proprio attraverso il popolo ebraico, col quale Dio ha stretto
la prima Alleanza. La Chiesa è altresì consapevole che essa, come ramo di ulivo
selvatico, riceve nutrimento spirituale dalle radici dell’ulivo buono, su cui è
stata innestata (cf. Rm. 11,17-24).
«Se però alcuni rami sono stati tagliati e
tu, che sei un olivo selvatico, sei stato innestato fra loro, diventando così
partecipe della radice e della linfa dell'olivo, non vantarti contro i rami! Se
ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che
porta te. Dirai certamente: i rami sono stati tagliati perché io vi fossi
innestato! Bene; essi però sono stati tagliati per mancanza di fede, mentre tu
rimani innestato grazie alla fede. Tu non insuperbirti, ma abbi timore! Se infatti
Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà
te! Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità verso quelli
che sono caduti; verso di te invece la bontà di Dio, a condizione però che tu
sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai tagliato via. Anch'essi,
se non persevereranno nell'incredulità, saranno innestati; Dio infatti ha il
potere di innestarli di nuovo! Se tu infatti, dall'olivo selvatico, che eri
secondo la tua natura, sei stato tagliato via e, contro natura, sei stato
innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della medesima natura,
potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo!» (Rm. 11,17-24).
Rientra nella fede
della Chiesa la convinzione che Gesù Cristo, con la sua morte sulla croce, ha
riconciliato ebrei e gentili, portandoli a unità in se stesso (cf. Ef. 2,14-16).
«Egli infatti è la nostra pace, / colui che
di due ha fatto una cosa sola, / abbattendo il muro di separazione che li
divideva, / cioè l'inimicizia, per mezzo della sua carne. / Così egli ha abolito
la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, / per creare in se stesso, dei
due, un solo uomo nuovo, / facendo la pace» (Ef. 2,14-16).
La Chiesa ha
comunque presenti le affermazioni di Paolo sugli Ebrei in Rm. 9,4-5.
«Essi sono Israeliti e hanno l'adozione a
figlî, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro
appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli che
è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen.» (Rm. 9,4-5).
E poi non è certo
possibile ignorare che dal popolo ebraico sono venuti gli apostoli e la quasi
totalità dei primi discepoli, che hanno, per primi, annunciato il Vangelo al
mondo.
È tuttavia vero che
Gerusalemme non è riuscita a riconoscere il tempo in cui è stata visitata (cf.
Lc. 19,43-44) e che in gran numero gli Ebrei non hanno accettato il Vangelo e
che si sono opposti alla sua diffusione (cf. Rm. 11,28-29 e Lg. 16).
«Per te [Gerusalemme] verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno
di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno
te e i tuoi figlî dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché
non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc. 19,43-44).
«Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per
vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei
padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm. 11,28-29).
«Infine, quanto a quelli che non hanno
ancora ricevuto il Vangelo, anch'essi in varî modi sono ordinati al popolo di
Dio (cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, 3., q. 8, a. 3, ad.
1). In primo luogo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse
e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cf. Rm. 9,4-5), popolo molto amato
in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di
Dio sono irrevocabili (cf. Rm. 11,28-29). […]» [Lg.
16].
Ciononostante la
Chiesa, con l’apostolo Paolo e con i profeti dell’antico Israele, è in fervente
attesa del giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli all’unisono
acclameranno il Signore (Sof. 3,9; cf. Is. 66,18-23; Sal.
66,4; Rm. 11,11-32).
«Allora io darò ai
popoli un labbro puro, / perché invochino tutti il nome del Signore / e lo
servano tutti sotto lo stesso giogo» (Sof. 3,9).
«Io verrò a radunare tutte le genti e tutte
le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e
manderò i loro superstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros,
Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno
visto la mia gloria; essi annunceranno la mia gloria alle genti. Ricondurranno
tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli,
su carri, su portantine, su muli, su dromedarî, al mio santo monte di
Gerusalemme - dice il Signore -, come i figlî d'Israele portano l'offerta in
vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra loro mi prenderò sacerdoti leviti,
dice il Signore. Sì, come i nuovi cieli e la nuova terra, che io farò,
dureranno per sempre davanti a me - oracolo del Signore -, così dureranno la
vostra discendenza e il vostro nome. In ogni mese al novilunio, e al sabato di
ogni settimana, verrà ognuno a prostrarsi davanti a me, dice il Signore» (Is. 66,18-23).
«A te si prostri tutta la terra, / a te
canti inni, canti al tuo nome» (Sal.
66,4).
«Ora io dico: forse inciamparono per cadere
per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta
alle genti, per suscitare la loro gelosia. Se la loro caduta è stata ricchezza
per il mondo e il loro fallimento ricchezza per le genti, quanto più la loro
totalità! A voi, genti, ecco che cosa dico: come apostolo delle genti, io
faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli
del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro essere rifiutati è
stata una riconciliazione del mondo, che cosa sarà la loro riammissione se non
una vita dai morti? Se le primizie sono sante, lo sarà anche l'impasto; se è
santa la radice, lo saranno anche i rami. Se però alcuni rami sono stati tagliati
e tu, che sei un olivo selvatico, sei stato innestato fra loro, diventando così
partecipe della radice e della linfa dell'olivo, non vantarti contro i rami! Se
ti vanti, ricordati che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che
porta te. Dirai certamente: i rami sono stati tagliati perché io vi fossi
innestato! Bene; essi però sono stati tagliati per mancanza di fede, mentre tu
rimani innestato grazie alla fede. Tu non insuperbirti, ma abbi timore! Se
infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno
risparmierà te! Considera dunque la bontà e la severità di Dio: la severità
verso quelli che sono caduti; verso di te invece la bontà di Dio, a condizione
però che tu sia fedele a questa bontà. Altrimenti anche tu verrai tagliato via.
Anch'essi, se non persevereranno nell'incredulità, saranno innestati; Dio
infatti ha il potere di innestarli di nuovo! Se tu infatti, dall'olivo
selvatico, che eri secondo la tua natura, sei stato tagliato via e, contro
natura, sei stato innestato su un olivo buono, quanto più essi, che sono della
medesima natura, potranno venire di nuovo innestati sul proprio olivo! Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero,
perché non siate presuntuosi: l'ostinazione di una parte d'Israele è in atto
fino a quando non saranno entrate tutte quante le genti. Allora
tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: “Da Sion uscirà il liberatore,
/ egli toglierà l'empietà da Giacobbe. / Sarà questa la
mia alleanza con loro / quando distruggerò i loro peccati”. Quanto al
Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla scelta di Dio,
essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono
irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete
ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch'essi ora
sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta,
perché anch'essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella
disobbedienza, per essere misericordioso verso tutti!» (Rm. 11,11-32).
Dall’indiscutibile
consistenza del patrimonio spirituale comune, il Concilio fa emergere l’invito
a promuovere la mutua conoscenza e la reciproca stima tra ebrei e cristiani, da
realizzare attraverso l’approfondimento degli studî biblici e teologici e lo
sviluppo del dialogo fraterno. A questo punto il documento affronta il tema
forse più delicato che nei secoli ha appesantito drammaticamente le relazioni
tra ebrei e cristiani e che ha costituito il background su cui man mano si è
venuta costruendo la formidabile e spaventosa accusa di deicidio formulata nei confronti degli ebrei: il contributo dato
dagli ebrei nel determinare la condanna a morte di Gesù. Il Concilio affronta
il tema confrontandosi con i dati storici, dai quali emerge che, se è vero che
una parte delle autorità ebraiche con i loro seguaci hanno dato il loro
contributo alla passione e morte di Gesù (cf. Gv. 19,6), è pur vero che quanto
è stato allora commesso non può essere imputato a “tutti” gli ebrei del tempo,
né agli ebrei delle epoche successive.
«Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le
guardie gridarono: "Crocifiggilo! Crocifiggilo!". Disse loro Pilato:
"Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa"» (Gv.
19,6).
Per noi cristiani
la Chiesa è certamente il nuovo popolo di Dio, da ciò tuttavia non ne deriva
che gli ebrei siano stati rigettati e maledetti da Dio. Il Concilio, a tal
proposito, invita con forza a che, nella catechesi e nella predicazione, siano
evitate descrizioni di tal genere degli ebrei e, soprattutto, che si escluda
nella forma più chiara che tali espressioni siano indicate come derivanti dalla
Scrittura.
A partire dalla
consapevolezza di condividere con gli ebrei un grande patrimonio spirituale, i
padri dal Concilio non trascurano di esprimere una profonda esecrazione,
dettata da una religiosa carità evangelica, per tutte le persecuzioni, per
tutte le forme di odio e di antisemitismo dirette contro gli ebrei in tutta la
storia e da chiunque (quindi comprese le chiese e i cristiani).
La Chiesa infatti
ha sempre sostenuto e sostiene che Gesù Cristo, in realtà, in forza del suo
amore immenso, si è volontariamente sottomesso alla prova della passione e
della morte, in ragione dei peccati di tutti gli uomini e affinché a tutti gli
uomini venisse offerta la possibilità di conseguire la salvezza. Nella sua predicazione
la Chiesa è quindi chiamata ad annunciare la croce di Cristo quale segno
dell’amore universale di Dio per tutti gli uomini e come fonte di ogni grazia.
In questa universale proposta d’amore non c’è, né può esservi, spazio alcuno
per la coltivazione dell’odio nei confronti di alcuno.
«Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio. L'atteggiamento dell'uomo verso Dio Padre e quello dell'uomo verso gli altri uomini suoi fratelli sono talmente connessi che la Scrittura dice: “Chi non ama, non conosce Dio” (1Gv. 4,8).
Viene dunque tolto il fondamento a ogni
teoria o prassi che introduca tra uomo e uomo, tra popolo e popolo,
discriminazioni in ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne
promanano.
In conseguenza la Chiesa esecra, come
contraria alla volontà di Cristo, qualsiasi discriminazione tra gli uomini e
persecuzione perpetrata per motivi di razza e di colore, di condizione sociale
o di religione. E quindi il sacro Concilio, seguendo le tracce dei santi
apostoli Pietro e Paolo, ardentemente scongiura i cristiani che, “mantenendo
tra le genti una condotta impeccabile” (1Pt. 2,12), se è possibile, per quanto
da loro dipende, stiano in pace con tutti gli uomini (cf. Rm. 12,18), affinché
siano realmente figlî del Padre che è nei cieli (cf. Mt. 5,45)» [Nae. 5].
Partendo dal principio generale, appena espresso nel paragrafo 4, che ha riconosciuto nell’amore incondizionato il connotato primario della vicenda storico-salvifica innescata dall’incarnazione di Gesù e dalla sua passione, morte e resurrezione, e riprendendo la lezione primotestamentaria della creazione a immagine di Dio, i padri conciliari ne traggono le conseguenze inscindibili, quali, l’impossibilità d’invocare Dio come Padre di tutti gli uomini se ci si rifiuta di comportarci da fratelli riguardo anche a un solo gruppo di uomini creati a immagine del Padre. Si sottolinea dunque l’intima connessione sussistente tra l’atteggiamento dell’uomo verso Dio e l’atteggiamento verso i fratelli, gli altri uomini, tanto che nella Prima Lettera di Giovanni leggiamo che «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv. 4,8). Viene così destituita di qualsiasi fondamento ogni teoria o pratica che punti a giustificare o a introdurre tra gli uomini o tra i popoli forme di discriminazione per ciò che riguarda la dignità umana e i diritti che ne derivano. La Chiesa dunque dichiara come contraria alla volontà di Cristo ogni discriminazione e persecuzione condotta in nome della razza, del colore della pelle, della condizione sociale e del credo religioso professato.
Il Concilio
conclude allora il documento con un invito esplicito e appassionato a tutti i
credenti perché si pongano alla scuola degli apostoli Pietro e Paolo,
mantenendo nelle relazioni umane una condotta impeccabile (1Pt. 2,12) e adoperandosi
per costruire relazioni pacifiche con gli altri uomini (cf. Rm. 12,18), solo
così si realizza in concreto la relazione di figliolanza con Dio (cf. Mt. 5,43-48).
«Tenete una condotta esemplare fra i pagani
perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere
diano gloria a Dio nel giorno della sua visita» (1Pt. 2,12).
«Se possibile, per quanto dipende da voi,
vivete in pace con tutti» (Rm. 12,18).
«Avete inteso che fu detto: Amerai il
tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici
e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate
figlî del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi
e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti,
se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i
pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di
straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come
è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt. 5,43-48).
Il documento
conciliare appena esaminato, pur nella sua brevità, esprime tuttavia indubbî
caratteri di equilibrio pastorale, di densità di contenuti e una profonda
ispirazione spirituale. La sua lettura mostra la capacità, allo stesso tempo,
sia di far emergere la gioia dell’annuncio della proposta cristiana di salvezza,
sia di far sgorgare sentimenti fraterni di stima e di amicizia con quanti nella
storia scelgono itinerarî diversi di fede e di cultura. E questo elemento è
affermato non per un’esigenza, di per sé già doverosa e auspicabile, di buon
vicinato e di pacifica convivenza, ma come un dato essenziale per vivere e
incarnare in forma autentica la fede cristiana. Più semplicemente potremmo dire
che non si è buoni cristiani se non si amano coloro che cristiani non sono.
Fare teologia delle religioni,
dunque, non significa tanto sviluppare una branca particolare degli studî
teologici, comporta piuttosto fare teologia a tutto tondo e compiere un cammino
che, in definitiva, permette una più piena comprensione dell’esperienza di
fede.
Sintetizzando è
possibile delineare le indicazioni di metodo derivanti dall’approfondimento
della Dichiarazione Nostra aetate:
1. sforzo
appassionato di comprensione esistenziale del dato di fede nella sua
autenticità;
2. segnali
autentici di attenzione, di stima e di amicizia rivolti a quanti, singoli e
comunità, professano un diverso credo religioso;
3. verifica della
sostanziale convergenza dei due passaggî precedenti;
4. ricerca e
valorizzazione degli elementi comuni con altre tradizioni;
5. onesta
individuazione delle differenze, dei dissensi e delle contrapposizioni tra le
diverse fedi;
6. sincera
assunzione di responsabilità circa possibili errori commessi nel passato e nel
presente nei confronti di fratelli di altra fede;
7. ricerca
appassionata di terreni comuni d’impegno.
Tuttavia aiuta la comprensione di un documento come Nostra aetate, affiancare alla sua
lettura anche una sua contestualizzazione dinamica, attraverso una sua pur
veloce ricostruzione del clima in cui ebbero a svolgersi i lavori conciliari in
seno ai quali vennero alla luce documenti come quello in questione.
Fino al Concilio l’approccio teologico alla comprensione
delle relazioni con le altre religioni era in grande prevalenza ispirata e
condizionata da un’impostazione apologetica di matrice neoscolastica,
articolata in tre fasi:
1. un primo gradino, denominato demonstratio religiosa, in cui si operava una riflessione razionale
per addivenire a una ragionevole dimostrazione dell’esistenza di Dio;
2. un secondo gradino, denominato demonstratio christiana, nel quale tra le molteplici proposte
religiose storicamente determinatesi, si ricercavano i criterî utili per
individuare la “vera” religione, e quelli, in particolare, per riconoscere come
“vera” religione quella cristiana;
3. un terzo gradino era dato, infine, della demonstratio catholica, che ricercava
tra le varie denominazioni cristiane quale fosse quella affermante legittimamente
una sintonia autentica, in termini di comprensione, di tradizione e di
successione apostolica, con il messaggio evangelico e con l’evento
dell’incarnazione.
Questo approccio
classico alle altre religioni era senza dubbio ampiamente conosciuto dai padri
conciliari e aveva in qualche modo influenzato anche la predisposizione degli
schemi preparatorî dei lavori. Eppure non è difficile constatare una sostanziale assenza dall’impianto
complessivo del documento della prospettiva di riflessione proposta
dall’argomentazione apologetica di derivazione neoscolastica, riassunta nel
trattato classico De vera religione.
Anche se in più
punti si sottolinea, a ragione, il dovere per la Chiesa di testimoniare
l’unicità e l’universalità della salvezza proposta da Gesù Cristo, nel
documento non compare il concetto di “vera religione”, centrale
nell’apologetica neoscolastica, che anzi è del tutto assente dall’impianto
generale della Dichiarazione Nostra
aetate. E ciò non può essere stato determinato in forma casuale, ma è stato
di certo l’esito di una valutazione operata dai padri conciliari che non hanno
rintracciato nell’impianto metodologico apologetico gli strumenti essenziali per
inaugurare una stagione di dialogo con le altre tradizioni religiose.
Vico Equense, lì 5 gennaio 2014
Nessun commento:
Posta un commento