domenica 30 agosto 2015

I «Giudèì» e Gesù durante la festa delle Capanne (Gv. 7,1-24)


Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilèa; infatti non voleva più percorrere la Giudèa, perché i Giudèi cercavano di ucciderlo.
Si avvicinava intanto la festa dei Giudèi, quella delle Capanne. I suoi fratelli gli dissero: "Parti di qui e va' nella Giudèa, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!". Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. Gesù allora disse loro: "Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto". Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilèa.
Ma quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto. I Giudèi intanto lo cercavano durante la festa e dicevano: "Dov'è quel tale?". E la folla, sottovoce, faceva un gran parlare di lui. Alcuni infatti dicevano: "È buono!". Altri invece dicevano: "No, inganna la gente!". Nessuno però parlava di lui in pubblico, per paura dei Giudèi.
Quando ormai si era a metà della festa, Gesù salì al tempio e si mise a insegnare. I Giudèi ne erano meravigliati e dicevano: "Come mai costui conosce le Scritture, senza avere studiato?". Gesù rispose loro: "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato. Chi vuol fare la sua volontà, riconoscerà se questa dottrina viene da Dio, o se io parlo da me stesso. Chi parla da se stesso, cerca la propria gloria; ma chi cerca la gloria di colui che lo ha mandato è veritiero, e in lui non c'è ingiustizia. Non è stato forse Mosè a darvi la Legge? Eppure nessuno di voi osserva la Legge! Perché cercate di uccidermi?". Rispose la folla: "Sei indemoniato! Chi cerca di ucciderti?". Disse loro Gesù: "Un'opera sola ho compiuto, e tutti ne siete meravigliati. Per questo Mosè vi ha dato la circoncisione - non che essa venga da Mosè, ma dai patriarchi - e voi circoncidete un uomo anche di sabato. Ora, se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la legge di Mosè, voi vi sdegnate contro di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!" (7,1-24).

In questo primo brano del capitolo settimo del Vangelo di Giovanni, il termine «Giudèi» ricorre cinque volte (per la precisione nei versetti 1, 2, 11, 13 e 15) e per due volte appare l’espressione «Giudèa» (ai versetti 1 e 3). Questo brano presenta alcuni evidenti problemi di non coerente collocazione testuale almeno di una sua sezione (i vv. 2-9), che sembra non tenere conto di alcuni segni già operati da Gesù proprio a Gerusalemme. In questa riflessione tuttavia non mi soffermerò su quest’aspetto. L’episodio in questione è posto in stretta relazione con la festa ebraica detta «delle Capanne», che dura otto giorni e celebra il ricordo della lunga permanenza del popolo nel deserto dopo l’uscita dall’Egitto. Infatti, in una prima parte (vv. 2-9) si dà conto di una certa riluttanza di Gesù a recarsi a Gerusalemme in tale occasione; in una sezione intemedia (vv. 10-13), si delinea una certa atmosfera di attesa che a Gerusalemme si manifesta nei riguardi di Gesù; nel terzo scorcio (vv. 14-24), si riferisce dell’arrivo di Gesù alla festa e dell’innescarsi di una sua nuova disputa con i «Giudèi». Anche nei riguardi della festa delle Capanne, ricorre l’abituale ambivalenza che abbiamo già rilevato in altre occasioni nel testo del Vangelo di Giovanni, dove allo stesso tempo si sottolinea la piena partecipazione di Gesù alle festività ebraiche, ma dall’altro si tiene a sottolineare che si tratta di “feste dei Giudèi”, come a segnare una distinzione da una tradizione cultuale dalla quale ci si vuole in qualche modo distanziare.
Al versetto 1 abbiamo la prima ricorrenza sia del termine «Giudèi», sia dell’espressione «Giudèa» («Dopo questi fatti, Gesù se ne andava per la Galilèa; infatti non voleva più percorrere la Giudèa, perché i Giudèi cercavano di ucciderlo» - 7,1). È questo un testo di carattere redazionale che tende a porre in relazione il racconto precedente di quanto avvenuto nella Sinagoga di Cafàrnao, con le successive vicende legate alla festa delle Capanne. Nella disputa sinagogale (6,22-71) Gesù si è confrontato con un composito gruppo di «Giudèi», al cui interno erano presenti spinte alla ricerca, alla comprensione e anche all’adesione all’annuncio di Gesù, ma anche un chiaro atteggiamento di chiusura, contrapposizione  e rifiuto che faceva apertamente presagire alcunché di buono. Di qui una certa diffidenza manifestata da Gesù a recarsi in Giudèa, ove si aspettava di doversi confrontare con gruppi di «Giudèi» più direttamente controllati dalle classi dirigenti e quindi più compattamente e numerosamente schierati su posizioni di rifiuto e di ostilità. In questo primo versetto di certo l’espressione «Giudèa» ha una connotazione esclusivamente geografica. Nel termine «Giudèi» invece sembrano confluire, con diversa valenza, tre significati diversi dello stesso termine: da un lato, quello più ovvio di abitanti della regione della «Giudèa» (essendo in discussione l’opportunità o meno di recarsi in Giudèa, è naturale riferirsi anche agli abitanti del luogo); sotto un altro aspetto, tuttavia il termine appare riferito al gruppo sociale più esplicitamente fedele alle regole cultuali giudaiche (se tale gruppo è presente e attivo nella decentrata Galilèa, è certamente presente in forma più ampia in Giudèa); infine, il terzo riferimento, anche se implicito chiama in causa la classe dirigente religiosa raccolta intorno al Tempio, che ha già manifestato chiara ostilità nei confronti di Gesù (cf. 5,16-18). Se, come accennato, questo influente gruppo di potere religioso e politico riesce a far sentire il suo peso sino in Galilèa, quanto più la sua influenza sarà diretta, stringente e pericolosa in “casa propria”, dove la sua capacità di controllo è da considerarsi di certo maggiore. D’altronde il testo richiama con chiarezza, per la seconda volta, la volontà di uccidere Gesù attribuita a tale componente, già richiamata in 5,16-18. Anche qui però l’espressione è riportata al di fuori della vera ‘e propria narrazione di un fatto specifico e, quindi, appare giustificato poterla riportare, anche in questo caso, a un riferimento alle ragioni di contrasto che opponevano il ceto dirigente giudaico all’alta cristologia giovannea.


1. Il confronto tra Gesù e «i suoi fratelli».

Un primo duro confronto Gesù lo sperimenta con i suoi fratelli (vv. 2-10). Qui non mi impegnerò sulla spinosa questione della concreta identità di questi «suoi fratelli», cioè se ci troviamo di fronte a fratelli nel senso stretto del termine nel contesto proprio e diretto di una famiglia monogamica, oppure se si tratta di un’accezione di «fratelli», nell’àmbito di una struttura familiare più allargata, che tende a comprendere al proprio interno anche legami di parentela più larga (cugini, etc.). Non nego che si tratti di una questione di notevole rilievo che interpella le relazioni tra le diverse tradizioni cristiane, che tuttavia esula dal campo d’interesse della presente riflessione. Quello che mi interessa è invece il contenuto della polemica che s’innesca a Nàzareth tra Gesù e i fratelli.
L’occasione del confronto è dato dall’imminenza della già richiamata festa delle Capanne, in occasione della quale, era consuetudine anche dalle regioni più distanti recarsi in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme: una pratica devozionale molto diffusa tra i Giudèi più osservanti. E su questo i fratelli si pongono in un chiaro atteggiamento di sfida. Lo invitano a recarsi a Gerusalemme e a dar prova, lì nel cuore autentico del culto giudaico, del suo potere speciale. Lo stimolano a compiere in tale occasione gesti chiari e inequivocabili, onde suscitare la fede. È questo un atteggiamento che incontriamo spesso nei Vangeli, sino a culminare nel racconto della passione che incontriamo nel Vangelo di Marco, dove ci confrontiamo con l’atteggiamento dei sacerdoti e degli scribi, che sbeffeggiano Gesù e lo invitano a dar prova del suo potere sfidandolo a scendere dalla croce.

Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: "Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!". E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano (Mc. 15,31-32).

Un modo di rapportarsi a Gesù che, solo qualche versetto più avanti, viene concretamente capovolto e contraddetto dalla figura del centurione («Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: "Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!"» - Mc. 15,37-39). Abbiamo qui due modi d’intendere e vivere la fede: la fede di chi, per credere, chiede di verificare con i proprî occhî e con le proprie mani la grandezza e la straordinarietà della persona che si trova davanti, e poi la fede di chi riconosce la grandezza di Gesù proprio nella sua debolezza, nella sua sofferenza, nel suo farsi piccolo e abbassarsi, nel suo condividere il dolore della condizione umana. Una distinzione che Gesù pone in evidenza anche nel Vangelo di Giovanni, in occasione della sua manifestazione gloriosa a Tommaso.

Gesù gli disse [a Tommaso]: "Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!" (20,29).

Gesù dichiara il grande valore della fede di chi non chiede prove e lo segue nella sofferenza, li definisce “beati”. Egli, tuttavia, non rifiuta una fede che chiede prove (Tommaso in definitiva resta nella cerchia dei Dodici), ma pone in guardia rispetto a rischî a cui ci si espone con un tale atteggiamento, chiamando a un chiaro discernimento tra un’onesta, sia pur appassionata, ricerca della verità, da un lato, e la presunzione di poter dettare delle condizioni operative per verificare l’eventuale aderenza a una verità di cui ci si ritiene già detentori, semmai in forma esclusiva. È qui che sta il discrimine autentico tra “il credere” e “il non credere”.
L’atteggiamento dei fratelli di Gesù manifesta, in realtà, un chiaro tono di sfida, un’accusa di mancanza di coraggio, in definitiva, una scarsa stima del proprio congiunto. Gli dicono senza mezzi termini che se è davvero chi dice di essere, e se è realmente capace di compiere gesti come quelli compiuti nel proprio villaggio e in quelli vicini, deve allora avere il coraggio di uscire allo scoperto, deve manifestarsi, non nella delocalizzata e periferica Galilèa, ma nel centro del culto giudaico a Gerusalemme, confrontandosi apertamente con i capi del giudaismo. È, a loro modo di vedere, una questione di coraggio e di aderenza alla verità. Questo era un chiaro segno, come riportato dall’evangelista, che essi non credevano in Gesù. Gesù, dal canto suo, replica sottolineando la specificità della propria missione, che ha una sua logica interna. È questo, a mio avviso, uno dei sensi principali delle espressioni usate da Gesù  («Il mio tempo non è ancora venuto» [v. 6] e «non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto» [v. 8]). Qui Gesù richiama una particolare visione del tempo (in greco: kairòs), per intendere una “scadenza precisa”, un “tempo opportuno”, cioè un particolare momento della storia in cui l’uomo, immerso nella propria vicenda storica e terrena, incontra il dono dell’azione di salvezza di Dio. La constatazione di Gesù, rivolto ai fratelli, è quella di porre in luce la loro incapacità di uscire dalla logica quotidiana e ripetitiva della consuetudine e della cultualità esteriore, per riconoscere la novità del tempo che si preannuncia in Gesù stesso. Un tempo che, non è ancora venuto in pienezza, ma che è alle porte, e la cui manifestazione è imminente. L’imminenza non vuol dire tuttavìa un’approssimazione indeterminata e non definibile, perché Gesù, nonostante abbia affermato di non andare alla festa perché il suo tempo non fosse ancora giunto, decide quasi immediatamente, sia pur di nascosto, di andare comunque a Gerusalemme per l’imminente festa delle Capanne. Un tempo, quello propizio per l’annuncio concreto del Regno, che dunque può fare irruzione nella vicenda umana in ogni circostanza, l’importante è che ci sia lo sforzo di superare le precomprensioni e una sostanziale apertura all’ascolto.


2. Gesù giunge con discrezione in una Gerusalemme, che, in qualche modo, lo attende.

Nonostante la contraria indicazione data ai suoi “fratelli” di Nàzareth, Gesù sceglie comunque di recarsi a Gerusalemme per l’imminente festa delle Capanne. Questo è un ulteriore segnale dell’attenzione che Gesù non manca di rimarcare nel comportamento una grande attenzione per l’autentico culto giudaico. Elemento questo, che l’autore del vangelo non manca di porre in evidenza.
A Gerusalemme, tuttavìa, in qualche maniera, Gesù è atteso. L’evangelista, infatti, ci dà conto di due personaggî collettivi («i Giudèi» e la «folla») che si chiedono se Gesù è intervenuto alla festa e lo ricercano tra i tanti pervenuti per l’occasione in città.
In questa ricorrenza, il riferimento al gruppo de «i Giudèi» appare indirizzato al gruppo dirigente religioso e politico della città, un gruppo che appare rivestito da una chiara detenzione di una sfera di potere. Tant’è vero che è capace di determinare nell’altro personaggio collettivo, la «folla», una sensazione di “paura” (7,13). Qui «i Giudèi» sono richiamati e descritti come impegnati a cercare Gesù tra la folla. Una ricerca connotata da una posizione sostanzialmente prevenuta chiaramente espressa dal riferimento a Gesù con l’espressione un po’ sprezzante “quel tale” (7,11).
La folla, invece, manifesta un interesse notevole nei confronti di Gesù, un interesse bipolare: da un lato chi è convinto che “Gesù è buono”, dall’altro quanti ritengono che egli “inganni la gente” (7,12). In ogni caso sia estimatori che detrattori, sono tutti interessati a incontrare Gesù e a sapere di più intorno a lui. Un interesse, però, dissimulato, fatto alla chetichella, un’attenzione quasi clandestina, “per paura dei Giudèi” (7,13), che dovevano di certo aver dato indicazioni pubbliche tendenti a inibire, a scoraggiare, in una parola a vietare di avere rapporti con Gesù e a prestargli ascolto.
Al di là della sapiente impostazione narrativa del brano con cui l’autore del Vangelo introduce il successivo discorso al Tempio di Gesù, che attraverso il richiamo dell’attesa sia pur contraddittoria di Gesù de «i Giudèi» e della folla, finisce per stimolare in pieno anche l’attesa del lettore, che è così portato con naturalezza a incuriosirsi sul tipo di accoglienza che gli insegnamenti di Gesù troveranno da parte delle persone con cui egli si troverà a interloquire.


3. Gesù al Tempio si confronta con «i Giudèi» e con la folla.

Finalmente, a metà della festa, si arriva al confronto, così abilmente preannunciato dal narratore sin dalla Galilèa, tra Gesù, «i Giudèi» e la «folla». La scena si svolge nel tempio, mentre Gesù conduce un’attività d’insegnamento (7,14). Ed è proprio questa suo insegnare che desta la “meraviglia” dei «Giudèi», per la sua vasta conoscenza delle Scritture nonostante egli non avesse compiuto degli studî tali da giustificarla. Questo approccio, sulle prime, non appare caratterizzato da un atteggiamento apertamente ostile dei «Giudèi» nei confronti di Gesù. Essi sono anzi sorpresi dalla profonda conoscenza delle Scritture dimostrata da Gesù e non sanno spiegarsene l’origine. Naturalmente non sanno spiegarsene l’origine e restano in qualche maniera spiazzati.
Gesù a questa incapacità, mostrata dai «Giudèi», di comprendere l’altezza dell’insegnamento proposto, rende in forma circostanziata e compiuta ragione della profondità del suo insegnare. La verità del suo insegnamento affonda le sue radici non in una dottrina elaborata da Gesù stesso, ma in una dottrina proposta da colui che lo ha inviato (7,16). E qui il riferimento, implicito, è a Dio. E questo riferimento è reso evidente al versetto successivo (7,16), là dove Gesù sottolinea che chi s’impegna a fare la volontà di Dio, è in grado di riconoscere se una determinata dottrina viene da Lui o se ha un’origine meramente terrena. E questo è un’indiretta accusa polemica nei confronti dei «Giudèi», che, se non sono in grado di riconoscere l’origine divina dell’insegnamento di Gesù, ciò vuol dire che, in realtà, non sono autenticamente impegnati nella loro vita a compiere la volontà di Dio. Gesù poi passa a rendere ragione delle motivazioni esistenziali alla base del suo insegnare. Se l’insegnamento proposto da un uomo fosse solo il frutto di una propria riflessione individuale, ciò non sarebbe altro che l’espressione di una ricerca di gloria personale. Se invece un uomo è impegnato dare gloria a chi lo ha inviato in una particolare missione, questo è il segno che quell’uomo è veritiero e in lui non c’è ingiustizia (7,17-19). Qui, nelle parole di Gesù, ricorre un velato richiamo al Salmo 92.

Il giusto fiorirà come palma,
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atrî del nostro Dio.
Nella vecchiaia daranno ancora frutti,
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c'è malvagità (Sal. 92,13-16).

Secondo il salmista, chi sceglie di annunciare la rettitudine del Signore, nel quale non c’è malvagità, e sceglie di considerare il Signore il fondamento (la roccia) della propria esistenza è un giusto che fiorirà come una palma e crescerà come un cedro del Libano.
Tra i due testi, tuttavia, ricorre, uno slittamento nell’attribuzione dell’assenza di malvagità/ingiustizia che in Sal. 92,16 è chiaramente riferita a Dio e invece in questo testo (7,18) Gesù l’autoconferisce a se stesso, sottolineando il rilevo assoluto della continuità tra il valore della dottrina ricevuta da Dio e l’azione nella storia umana di chi quella dottrina proclama e promuove. È questa coerenza tra l’insegnamento proclamato e il comportamento concreto a dar conto dell’auteticità dell’annuncio proclamato.
Qui Gesù passa a formulare accuse precise nei confronti dei «Giudèi», ai quali rimprovera con asprezza di non osservare la Legge di Dio che essi hanno ricevuto da Mosè. Gesù, inoltre, si chiede per quale ragione i «Giudèi», che si proclamano difensori della Legge di Dio, cerchino di ucciderlo, nonostante che l’insegnamento che egli va proponendo lungo le strade della Galilèa, della Giudèa e della stessa Gerusalemme abbia comunque la medesima origine in Dio (7,19).
A questo punto, a sorpresa, anziché, come sarebbe stato legittimo aspettarsi, non sono i «Giudèi» a replicare a Gesù, ma la folla, quella stessa folla che solo qualche versetto prima (7,12-13) abbiamo sentito parlare sommessamente di Gesù, divisa nei sui confronti tra un giudizio positivo e uno negativo, ma accomunata da un sentimento di paura e di sostanziale sottomissione ai «Giudèi», infatti parlava di Gesù solo di nascosto e non in pubblico. L’intervento in questo caso (7,20) è però pubblico, avviene nel tempio, alla presenza di una rappresentanza dei «Giudèi», pertanto la polarizzazione tra contrarî e favorevoli a Gesù non appare, anche se l’interlocuzione della folla esprime due contenuti, sotto i quali è possibile, con ogni probabilità, riconoscere le due componenti presenti al suo interno e prima richiamate. Di certo in chi rivolge a Gesù l’accusa di essere un indemoniato si riconoce chi, tra la folla in precedenza era convinto che egli ingannasse la gente. In chi invece gli chiede «chi cerca di ucciderti?» è possibile ipotizzare d’intravedere quelli che invece riconoscevano il suo essere «buono», solo che a causa della presenza dei «Giudèi» (dei quali avevano paura), dissimulavano la loro simpatia per Gesù, dirottando l’attenzione sull’accusa mossa da Gesù di essere oggetto di manovre miranti alla sua uccisione.
Gesù nella successiva replica, non si rivolge alla folla, ma riprende il filo della sua precedente polemica contro i «Giudèi», ricordando la precedente controversia nata in occasione della guarigione dell’infermo alla piscina di Betzatà (5,1-18) e sottolineando come quell’unico segno operato in Gerusalemme avesse destato tra i «Giudèi» notevole sorpresa. A tale proposito richiama la contraddittoria posizione dei «Giudèi» sul rispetto del sabato, notando come essi giustificassero una sospensione dell’osservanza del sabato in ragione dell’osservanza di un comandamento superiore quale quello della circoncisione, mentre si dimostrano incapaci di comprendere che anche la guarigione di un uomo, sebbene operata in giorno di sabato, risponde anch’essa all’obbedienza di un superiore insegnamento divino (7,21-23). L’invito finale di Gesù ai «Giudèi» è allora quello di andare oltre le apparenze immediate dei fatti, di giudicare «giusto giudizio», in sintesi di saper leggere quale sia, di volta in volta, la più piena e autentica volontà del Signore da realizzare, senza attaccarsi a schemi astratti e a casistiche precostituite (7,24). Sembra qui riecheggiare l’invito matteano a saper leggere i «segni dei tempi» (cf. Mt. 16,1-4).

I farisèi e i sadducèi si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma egli rispose loro: "Quando si fa sera, voi dite: "Bel tempo, perché il cielo rosseggia"; e al mattino: "Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo". Sapete dunque interpretare l'aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona". Li lasciò e se ne andò (Mt. 16,1-4).

Questa prima parte del confronto nel tempio, che ricorre al cap. 7, delinea tra i varî significati dell’espressione «i Giudèi» una decisa prevalenza per una comprensione del gruppo come identificativo del ceto dirigente religioso e politico di Gerusalemme. Un ceto, indicato anche con l’espressione «capi», che fonda il proprio potere su un nucleo religioso. Un aspetto, questo, che in questo brano è posto in luce soprattutto dai contenuti delle espressioni polemiche che Gesù rivolge nei loro confronti. Espressioni che prendono le mosse tutte da temi e contenuti di natura religiosa (osservanza della Legge, rispetto del sabato, pratica cultuale della circoncisione). Questo dà il segno che il personaggio/gruppo dei «Giudèi» si è venuto affermando come il depositario di una funzione di custodia e salvaguardia di una sorta di ortodossìa e di ortoprassi della fede giudaica. Un gruppo tuttavia che intorno alla funzione nucleica di natura religiosa ha saputo ed è riuscito a costruire anche un consistente potere politico di indirizzo e controllo della vita sociale, non solo a Gerusalemme e in Giudèa, ma anche in altre regioni che, benché distanti, tenevano a mantenere vivo il proprio legame con il culto del tempio di Gerusalemme.

Vico Equense, domenica 30 agosto 2015
Sergio Sbragia

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