Testo del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78, coordinato con la legge di conversione 6 agosto 2015, n. 125, recante: «Disposizioni urgenti in materia di enti territoriali. Disposizioni per garantire la continuità dei dispositivi di sicurezza e di controllo del territorio. Razionalizzazione delle spese del Servizio sanitario nazionale nonché norme in materia di rifiuti e di emissioni industriali».
È questa la denominazione formale, quella riportata
sulla “Gazzetta Ufficiale”, di un provvedimento legislativo di notevole
rilevanza di recente approvazione parlamentare ed entrato a tutti gli effetti “in
vigore” nel nostro ordinamento giuridico. Il problema è che dall’oggetto
formale a esso attribuito nessuna persona normale (che non ne sia già
informata per altre ragioni) può comprendere il suo reale contenuto.
A leggere l’oggetto virgolettato, chiunque è
portato a pensare a un provvedimento riguardante la sicurezza e il controllo
del territorio, il servizio sanitario, la gestione dei rifiuti e la
regolamentazione delle emissioni industriali.
Interessante è invece scoprire che all’interno
sono contenute tante disposizioni che nulla hanno a che vedere con gli
argomenti richiamati nell’oggetto. È il caso, per esempio, delle numerose
disposizioni innovative contenute nel
provvedimento e attinenti l’àmbito della
tutela dei beni culturali (tema del tutto assente dall’oggetto formale del
provvedimento legislativo). È sufficiente guardare all’Art. 16, a sua volta intitolato “Misure
urgenti per gli istituti
e luoghi della
cultura di appartenenza pubblica”.
Se poi si va a leggere il contenuto dell’articolo, anche qui s'incontrano
materie non rappresentate né comprese nel titolo dell’articolo. Si arriva a
introdurre norme innovative nella distribuzione delle competenze sulla tutela
dei beni culturali (“beni” che, nelle norme variate, non sono sempre e solo “istituti
e luoghi”, e spesso sono anche di proprietà privata e, quindi, non solo di “appartenenza
pubblica”).
Ritengo che gli organi costituzionali che
detengono il potere legislativo abbiano il dovere di denominare i provvedimenti
di legge emanati in forma chiara ed esattamente rappresentativa dell’argomento
che si va a normare. E l’interna denominazione subordinata di titoli, capi e
articoli dovrebbe essere coerente con i rispettivi contenuti di ciascuno di
essi. Si parla tanto di chiarezza e trasparenza, ma queste devono avere la
propria origine negli stessi testi di legge. Questo è un aspetto che le aule
parlamentari dovrebbero curare con la massima attenzione. E invece in nome
della frettolosità e per amore frenetico della comunicazione social (ma
unidirezionale), si dimentica l’essenziale dell’approfondimento rigoroso e
competente dei contenuti (in proposito basterebbe ricordare l’autentica
saggezza popolare: “la gatta per la fretta fece i figli ciechi”). Sarebbe l’ora
di superare la moda, invalsa negli ultimi anni, delle “leggi miscellanea”, cioè
leggi al cui interno si ritrova tutto e il contrario di tutto. Questa cattiva
abitudine assunta nella produzione legislativa, se ben analizzata, ha anche delle
pesanti ripercussioni economiche, perché l’errore e l’approssimazione
richiedono successive, lunghe e anche “costose” procedure di revisione e correzione.
Sarebbe il caso di quantificare questi costi.
D’altronde tutti sappiamo che se un insegnante
a scuola, assegna ai propri studenti un tema sul problema dei rifiuti e si
ritrova a correggere un elaborato che sconfina a trattare della gestione dei
beni culturali, la sua conclusione è quella che l’alunno è finito “fuori tema”,
e la votazione conseguente tiene in debito conto questo slittamento. Perché
questo principio chiaro, evidente, ma soprattutto “elementare”, che vale a
scuola, non si applica anche ai testi di legge approvati nelle aule parlamentari?
Sorprende anche che sulla stampa e nella grande
comunicazione mediatica, consumista e pubblicitaria, nessuna voce autenticamente
giornalistica ponga in evidenza questo problema. Ma tanto basta cantare le lodi
dell’Expo!
Vico
Equense, mercoledì 9 settembre 2015
Sergio Sbragia
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