Queste parole di un celebre inno ecclesiale, mi sono
tornate nella mente nelle ultime settimane, quando, in sèguito a iniziative
poste in essere da alcune comunità cristiane sul terreno del riconoscimento di
un ruolo ecclesiale ai fratelli nella fede che vivono la condizione omosessuale
(celebrazioni di matrimonî tra credenti omosessuali), ho avuto modo di avere
varî scambî d’idee sul tema che si rivela, a dire il vero, una questione davvero
delicata e di grande rilevanza, che è bene che nelle comunità cristiane venga
affrontato apertamente, con franchezza e senza reticenze.
Nelle chiese cristiane è ampiamente diffusa la convinzione
che la condizione omosessuale implichi di per sé un collegamento con il peccato
di sodomìa, largamente condannato da testi del primo e del secondo testamento.
Da qui, è breve il passo all’adozione di un atteggiamento di condanna sia della
manifestazione aperta di un orientamento omosessuale, sia dell’assunzione di
una pratica di vita che, nelle relazioni interpersonali, faccia proprio tale
orientamento. Ne consegue un atteggiamento di chiusura che nega la possibilità
di ogni sperimentazione di nuove forme di presenza dei fratelli omosessuali
nelle nostre comunità ecclesiali, sia sul piano del riconoscimento delle loro
unioni, sia su quello del loro possibile accesso alle funzioni ministeriali. E
queste posizioni vengono per altro assunte nella convinzione di seguire il più
autentico insegnamento di Gesù.
Le discussioni che ho avuto in questi giorni mi hanno
permesso di verificare che lo stato effettivo della questione si pone in forma
molto diverso.
Come ho sempre dichiarato pubblicamente sono un cattolico
conciliare ed ecumenico e sono fermamente convinto che, all'interno
dell'ecumene cristiano, dovremmo scegliere di chiudere l'epoca delle condanne aprioristiche.
Sarebbe, a mio parere, preferibile cercare di comprendere le ragioni che
inducono alcune comunità cristiane a inaugurare nuovi sentieri di autentica
testimonianza cristiana. Non credo che le comunità cristiane siano asservite a
ideologie alla moda, ma ricerchino (anche sperimentando e rischiando) nel
concreto della storia di rispondere ai problemi a volte tragici e drammatici
delle donne e degli uomini del nostro tempo. Più delle condanne è utile la
comprensione e il coraggio di inaugurare nuove rotte per la testimonianza della
novità cristiana.
Sono inoltre convinto che la sperimentazione di nuovi itinerarî
di testimonianza cristiana possa essere definita pregiudizialmente come un cedimento
alla licenziosità e all'immoralità. Credo che il centro del messaggio
cristiano, testimoniato dalla Scrittura, non stia tanto in una pluralità di
precetti legalistici, ma nell'annunzio che "dove c'è amore lì c'è
Dio". Ciò che è decisivo, a mio modo di vedere, non è la dimensione
esteriore dei comportamenti, ma ciò che nell'intimo di ogni donna e uomo li
determina. E se all'origine c'è l'amore oblativo e incondizionato, ciò risponde
alla volontà di Dio. In questo filosofie e sistemi di pensiero secolari c'entrano
ben poco. Non è possibile poi tracciare una distinzione legalistica tra un
amore divino umanizzato e un amore umano divinizzato. L'amore, se autentico e
non frutto di mera ricerca di piacere o di potere, ma dimentico di sé e
totalmente dedito all'altro, viene senz'altro da Dio. E questo avviene non
nella dimensione esteriore delle norme giuridiche, ma nell'intimo delle
coscienze. Le relazioni tra le persone umane, poco importa se etero- o
omo-sessuali, se nascono dall'egoismo ricadono necessariamente nell'àmbito del
peccato, se si collocano nella dimensione dell'amore incondizionato meritano la
benedizione di Dio. Le definizioni esteriori dei comportamenti dicono ben poco.
E' dall'interno dell'uomo che nasce la dimensione decisiva dell'essere o meno
in comunione con Dio.
Oggi si accusa con forza la cultura gender di voler imporre pratiche concrete di vita inconciliabili
con il messaggio dei vangeli. A dire il vero, credo che le filosofie umane, che lungo i secoli si succedono
l’una all’altra nell’esprimere gli esiti della riflessione dell’uomo sulle
proprie condizioni di vita, abbiano in realtà poca attinenza con l'amore, unico
e riassuntivo comandamento divino (come ci viene annunciato da Gesù proprio nel
discorso del monte, e come ci è ampiamente testimoniato da Giovanni). E' semmai
la precettistica esteriore che è molto debitrice alle contingenti visioni
culturali e filosofiche, che si alternano sulla scena dei secoli presenti che
si susseguono lungo la vicenda storica dell'umanità. Discernere l'autentico
soffio dello Spirito di Dio è l'impegno entusiasmante cui siamo chiamati se
vogliamo seguire Gesù sui sentieri della storia. E questo non si realizza nella
meccanicistica osservanza di precetti esteriori prodotti da impostazioni di
pensiero di derivazione giusnaturalistica e, nella sostanza, esterni
all'annuncio cristiano. Fare la volontà di Dio, qui e ora, in realtà significa
trovare le strade concrete (nella concretezza dei problemi e dei drammi esistenziali)
per affidarsi a Dio e servire gli uomini e le donne che incontriamo sulla
nostra strada.
Probabilmente è proprio la condanna aprioristica
dell'inclinazione omosessuale a essere pregiudiziale e debitoria nei confronti
di linee di pensiero culturali e filosofiche esterne al messaggio evangelico,
nel quale non è possibile rintracciare alcuna parola attribuibile a Gesù di
esplicita condanna dell'inclinazione omosessuale. Va da sé che le relazioni
omosessuali, al pari di quelle eterosessuali, sono tenute a realizzarsi sul
piano della totale dedizione all'altro, e non chiudersi nella ricerca del
piacere e del potere (è su questo piano che si scade nella pratica della
lussuria e della sopraffazione). Quanto a testi del primo e del secondo
testamento che si esprimono nel merito della questione, va ricordato che
rispetto a essi Gesù ha proclamato una radicale innovazione, richiamando
l'esigenza di superare un atteggiamento di mera e formalistica osservanza
esteriore dei precetti. E' sufficiente ricordare il suo insegnamento
sull'osservanza sabatica: l'uomo vale più del sabato. Credo, pertanto, che le
sperimentazioni e le coraggiose scelte compiute da varie comunità cristiane sul
tema della condizione dei fratelli che vivono la realtà dell'inclinazione
omosessuale siano da guardare con attenzione e simpatia. Certo è un terreno
difficile, ed è possibile talvolta compiere scelte eccessive e, per generosità,
un po' avventate (sarebbe, a mio avviso, preferibile in questi casi non parlare
di "matrimonio" ma di "benedizione di unioni"). Quello in
questione è un tema delicatissimo che è all'ordine del giorno e provoca
lacerazioni in tutte le chiese cristiane (non esclusa la stessa chiesa
cattolica, anzi!). Nel tema sono implicati tanti aspetti a dir poco delicati,
sarebbe pertanto utile una discussione aperta, franca e solidale. Una
discussione tra fratelli in Cristo, per trovare insieme le strade migliori per
testimoniare oggi la fede. Una discussione sui contenuti, senza condanne
preliminari, da realizzarsi nella condivisione, nella simpatia e nel comune
sforzo di ricerca della verità, che non è monopolio di nessuno (anzi, rispetto
alla "verità" tutti ne siamo debitori rispetto a Gesù). Ciò che, a
mio avviso, dobbiamo evitare è di ripercorrere la strada che nei secoli ha
prodotto tante sofferenze, tanti lutti e tanta controtestimonianza all'amore
cristiano, parlo della facile strada delle condanne pregiudiziali, delle
reciproche scomuniche, dei roghi e delle guerre di religione. Un retaggio
storico che pesa sulle nostre spalle di credenti del 21° sec. Una cosa di cui
dobbiamo chiedere perdono al Signore, ma che al contempo ci chiede pressantemente
di cambiare strada onde non ripetere gli stessi tremendi errori (in tal caso il
nostro peccato sarebbe ben più grave di quello dei nostri fratelli dei secoli
passati).
Nella lettura dei testi evangelici provo a chiedermi quale
sarebbe stato l’atteggiamento di Gesù se, nell’episodio di Mt. 15,21-28, a
chiedergli di lasciare ai cagnolini le briciole che cadono dal tavolo, anziché
la donna cananea, fosse stato un gay?
«Partito di là, Gesù si ritirò verso la zona
di Tiro e di Sidone. Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione,
si mise a gridare: "Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è
molto tormentata da un demonio". Ma egli non le rivolse neppure una
parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono:
"Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!". Egli rispose:
"Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa
d'Israele". Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo:
"Signore, aiutami!". Ed egli rispose: "Non è bene prendere il
pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". "È vero, Signore - disse la
donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei
loro padroni". Allora Gesù le replicò: "Donna, grande è la tua fede!
Avvenga per te come desideri". E da quell'istante sua figlia fu guarita» (Mt.
15,21-28).
Oppure
quale sarebbe stata la sua reazione se, in Gv. 8,3-11, i farisèi e gli scribi,
in luogo, della donna adultera, gli avessero presentato una lesbica e richiesto
quale sorte fosse giusto riservarle per il suo comportamento?
«Allora gli scribi e i
farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli
dissero: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora
Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne
dici?". Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di
accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia,
poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: "Chi di voi è
senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei". E, chinatosi di
nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando
dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si
alzò e le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". Ed
ella rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù disse: "Neanch'io ti condanno;
va' e d'ora in poi non peccare più"» (Gv. 8,3-11).
Non
credo di operare alcuna indebita forzatura se mi permetto di ipotizzare che
Gesù non avrebbe mancato di ricorrere a gesti di grande misericordia, come per
altro, ponendosi nella più autentica tradizione del primo testamento, ci ha
chiaramente indicato in Mt. 12,1-8.
«In quel tempo Gesù passò,
in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e
cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle. Vedendo ciò, i farisei gli
dissero: "Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito
fare di sabato". Ma egli rispose loro: "Non avete letto quello che
fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? Egli entrò nella casa di
Dio e mangiarono i pani dell'offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito
mangiare, ma ai soli sacerdoti. O non avete letto nella Legge che nei giorni di
sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? Ora
io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. 7Se
aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici
, non avreste condannato persone senza colpa. Perché il Figlio dell'uomo è
signore del sabato"» (Mt. 12,1-8).
Siamo
senza dubbio chiamati, come persone e come comunità, a conferire nella nostra
vita il primato alla misericordia, cercando di riconoscere nella nostra epoca i
segni del dolore e della sofferenza. L’anelito espresso in tante e multiformi
riprese dai fratelli e dalle sorelle che vivono la condizione omosessuale ci
chiede, come cristiani e come chiese, di compiere una grande opera di
discernimento spirituale, su come incarnare oggi l’amore cristiano.
Penso,
sinceramente, che non sia più possibile negare l’invocazione comunitaria della benedizione
di Dio alle unioni di fratelli omosessuali, che scelgano, alla pari di quanto
richiesto ordinariamente ai coniugi cristiani, di anteporre alla pur legittima
ricerca del piacere fisico, l’amorevole dedizione reciproca all’altro e alla
comunità e la pratica della fedeltà, nella certezza che, come giustamente canta
l’inno ecclesiale citato all’inizio “Dov’è carità e
amore, lì c’è Dio!”.
Non solo
sono anche convinto che ne deriverebbe un grande arricchimento alla vita
ecclesiale se ai talenti di questi fratelli e di queste sorelle fosse data l’opportunità
di portare liberamente frutto, se fosse operata un’apertura tale da consentir
loro di accedere ai ministeri ecclesiali.
Ho
fiducia che i padri sinodali, nell’imminente Assemblea mondiale del Sinodo dei Vescovi,
sappiano con sapienza individuare le strade più opportune per inaugurare sul
tema un itinerario di autentica misericordia.
Vico Equense, domenica 3 agosto 2014
Sergio Sbragia
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