sabato 2 agosto 2014

Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente





«Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: "La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?". Risposero: "Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti". Disse loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù gli disse: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli"» (Mt. 16,13-19).





Quando leggiamo questo brano del Vangelo di Matteo siamo abituati, da una lunga attitudine di natura apologetica, a concentrare la nostra attenzione prevalentemente sui vv. 18-19 («E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli"»), piuttosto che su quelli precedenti. In effetti in essi siamo abituati a riconoscere un fondamento evangelico al ministero petrino e al primato universale della chiesa di Roma.

La ricerca storica sui Vangeli ci ha però messi nelle condizioni di renderci conto che, nella sua itinerante missione pubblica, Gesù non si è riproposto la fondazione di una nuova comunità religiosa (Chiesa). Ripetutamente i Vangeli ci testimoniano come Gesù partecipasse attivamente alle pratiche cultuali del giudaismo del suo tempo, festività, tradizioni religiose, vita di sinagoga. Giunge anche a sottolineare che «la salvezza viene dai Giudèi» (Gv. 4,22). Nei confronti del giudaismo Gesù, lungo tutti i Vangeli, in realtà richiama a una riscoperta dei motivi centrali e più autentici della fede dei padri, già ampiamente richiamati per molti versi dalla tradizione profetica. La riscoperta della dimensione più autentica della fede d’Israele, passava per Gesù, attraverso un’adesione alla sua testimonianza e alla sua persona e comportava un’universalizzazione dell’annuncio di salvezza. Questi ultimi due elementi rappresentavano di certo delle autentiche innovazioni rispetto alla comune comprensione del giudaismo contemporaneo a Gesù, ma da un’attenta lettura dei Vangeli non emergono elementi significativi che testimoniano una volontà di Gesù di distaccarsi dall’esperienza di fede d’Israele. Come abbiamo visto, i vangeli testimoniano invece ripetutamente come Gesù partecipasse attivamente (anche se in una forma che oggi definiremmo “critica”) alla vita di fede giudaica. Alla luce di tali considerazioni, il testo dei vv. 18-19 appare con ogni probabilità come il frutto di una riflessione operata dalla comunità post-pasquale, anzi a ben riflettere di qualche anno ancora successivo. Tale testo appare in realtà posticipabile a un’epoca nella quale fosse già necessario distinguere tra una tradizione cristiana autentica da altre non considerate tali e in cui le strade delle comunità cristiane e quelle delle comunità giudaiche, per ragioni storiche, avevano già iniziato il processo storico di progressiva divaricazione.

Questo testo, lungo la storia del cristianesimo, è stato usato ampiamente in chiave apologetica per sottolineare, nei confronti delle altre esperienze cristiane che, in definitiva, quella di Roma fosse l’unica e autentica chiesa fondata da Gesù.

Questa preoccupazione pregiudiziale di natura apologetica ha finito per portare inconsapevolmente a mettere in ombra il dato decisivo e affascinante contenuto nei precedenti vv. 13-17 («Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: "La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?". Risposero: "Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti". Disse loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù gli disse: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»). Queste poche righe contengono in realtà il resoconto di uno dei passaggî più affascinanti dell’itinerante missione di maestro condotta da Gesù sui sentieri della Giudèa, della Galilèa e della Samarìa.

In primo luogo abbiamo il riscontro dell’esistenza di un clima di attenzione e di curiosità nei confronti di Gesù. Gesù si rende conto, in effetti, di essere oggetto, da parte di quanti lo incontravano o ne sentivano parlare, di uno sforzo di comprensione delle caratteristiche più autentiche della sua azione. A fronte dello spessore spirituale della sua azione, in effetti, doveva essere diffuso tra le donne e gli uomini del tempo, un chiaro interrogativo se egli fosse Giovanni il Battista (che dobbiamo, dunque, supporre già morto in questa fase della missione di Gesù), se fosse Elìa, Geremìa o un altro dei profeti, se potesse, infine, essere il Cristo (il Messìa), o comunque un nuovo grande profeta. Era infatti diffusa l’attenzione all’azione e alla predicazione di personalità carismatiche, che in forma stanziale o itinerante, proponevano una pratica autentica della fede giudaica. Nell’antico Israele erano presenti forti tradizioni riguardanti le figure testé richiamate.

Non va dimenticato che sulla scorta dell’annuncio  di un futuro profeta uguale a Mosè contenuto in Dt. 18,15.18 («Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto. […] Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò»), nel popolo d’Israele era viva l’attesa della figura escatologica del profeta. Non solo, ma anche un’altra dimensione di attesa appare ampiamente documentata negli ambienti giudaici del tempo: quella relativa al profeta Elìa che, secondo Ml. 3,22-24, doveva preparare l’arrivo del «giorno del Signore» («Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, / al quale ordinai sull'Oreb / precetti e norme per tutto Israele. / Ecco, io invierò il profeta Elìa prima che giunga / il giorno grande e terribile del Signore: / egli convertirà il cuore dei padri verso i figlî e il cuore dei figlî verso i padri, / perché io, venendo, / non colpisca / la terra con lo sterminio»). Il giudaismo, infatti, aveva molto sviluppato l’intero racconto biblico relativo al profeta Elìa, creando e moltiplicando racconti intorno alla sua figura, collocandolo in una delle serie degli angeli, ritenendolo il sommo sacerdote della fine dei tempi e ponendo, soprattutto, l’accento sulla sua venuta escatologica. Al suo rapimento misterioso, secondo 2Re. 2,1-18, corrisponderà infatti un suo ritorno escatologico con il mandato di ricondurre il cuore dei padri verso i figlî e il cuore dei figlî verso i loro padri. Ma l’attesa per eccellenza che caratterizzava tutta la millenaria esperienza religiosa del popolo ebraico era costituita, sia pur attraverso una molteplicità di forme diverse, dall’attesa per la figura del Messìa.

Da quanto detto ne deriva da un lato la possibilità di dedurre la presenza e l’azione di gruppi, in particolare negli ambienti del potere civile e religioso, che esprimevano una tensione sostanzialmente negativa, attenta a ogni movimento nuovo che veniva nell’àmbito dell’esperienza religiosa di Israele onde scongiurarne le potenzialità destabilizzatrici rispetto agli assetti di potere politico e religioso esistenti. Dall’altro è innegabile la constatazione di una tensione positiva, che cercava di leggere nei singoli eventi della storia le tracce del compimento delle promesse di Dio al suo popolo, che la Legge e le tradizioni profetica e sapienziale avevano consegnato alla fede delle generazioni successive. La missione itinerante di Gesù, in realtà, farà continuamente i conti con queste due contrapposte valenze dell’attesa giudaica. Anche se, nel caso del brano in questione, dal tono degli interrogativi riproposti, mi sembra di poter percepire la prevalenza di una tensione positiva, che spera di riconoscere nella predicazione del falegname di Nàzareth i segni dell’azione di Dio, un atteggiamento che, in linguaggio moderno, potremmo definire da scrutatori dei segni dei tempi.

E Gesù mostra una grande attenzione rispetto a questo atteggiamento di ricerca e di attesa che comunque era presente nel popolo d’Israele. Anzi è su questa tensione d’attesa che costruisce la sua relazione diretta con le persone che incontra e in particolare con quelle che scelgono di seguirlo ("Ma voi, chi dite che io sia?"). È con questo interrogativo diretto che Gesù chiede ai proprî interlocutori di prendere con libertà, ma con decisione, una precisa posizione nei suoi confronti. È su questo piano, quello di una relazione interpersonale, che Gesù chiede a ciascuna donna e a ciascun uomo di ogni tempo e di ogni latitudine di scegliere liberamente di seguirlo. La scelta della fede è quindi in primo luogo, non una scelta intellettuale o una valutazione razionale, ma una decisione esistenziale di fronte a una persona concreta, un’intuizione della decisività del rapporto con lui per l’esistenza di ciascuno di noi “qui e ora”. Intelletto e ragione non sono assenti da questa opzione, ma non sono il punto di partenza della scelta, che invece prende avvio e s’innesta sul piano dell’intuizione e dell’illuminazione interiore. Quella sfera che indurrà Simon Pietro a ribattere tempestivamente: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Un’affermazione questa, che non è l’esito di una riflessione razionale, ma il frutto della relazione interpersonale con il Maestro Gesù di Nàzareth, che egli ha scelto di seguire sui sentieri della Galilèa, della Giudèa e della Samarìa e che si traduce in una formula di riconoscimento sintetica, ma compiutamente espressiva della persona Gesù. Simon Pietro perviene a questa sintesi, senza avere alle spalle un passato di frequentazione degli ambienti culturali giudaici, ma solo l’esperienza di una pratica di vita al sèguito di un maestro itinerante, condotta insieme alla comunità dei seguaci dello stesso maestro. In questa comunità in forma spontanea, cioè in quelle modalità prive di regìa, e comunque antecedenti a qualsivoglia approfondimento di psicologia dei gruppi, ha assunto un ruolo capace di esprimere e di far sintesi dei sentimenti comuni vissuti ed esperiti dal gruppo dei discepoli. Un ruolo reso possibile dalla condivisione piena della vita della comunità, dalla partecipazione ai problemi e alle difficoltà di ciascuno dei componenti, dallo spirito di servizio immediato e generoso che Simon Pietro nei Vangeli mostra ripetutamente di porre in opera in forma del tutto spontanea. È questo il fondamento più autentico del ministero petrino. Un ministero di servizio, di ascolto del popolo di Dio, e di piena immersione in esso, ma con la capacità di contemplare senza soluzione di continuità il volto del Signore Gesù, il Figlio del Dio vivente. E questa capacità di sintesi espressa con immediatezza da Simon Pietro, viene da Gesù riportata sotto il genere della beatitudine («Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»). A mio avviso non è per niente casuale che in questo episodio sulle labbra di Gesù ricorra un genere letterario, che risulta centrale in un altro testo di altissimo valore, quale quello del Discorso del Monte (Mt. 5,1-12), dove in maniera plastica e altamente espressiva Gesù celebra alcune categorie di persone per la felicità a esse accordata e pone in evidenza il motivo di tale felicità, declinandolo alla luce dell’incommensurabile novità da lui annunciata: l’irruzione del Regno di Dio nella storia concreta dell’umanità.

Anche nel nostro caso, a mio avviso, la dichiarazione di beatitudine va letta nel quadro della nuova logica introdotta nella storia umana dalla relato del Regno di Dio. Gesù, attraverso la dichiarazione della beatitudine, celebra Pietro per la particolare condizione di felicità che gli è stata accordata e tiene a porre in evidenza la ragione di tale felicità. In particolare pone in evidenza che la felice intuizione di Pietro, è ragione di gioia autentica, perché non è frutto di sforzo razionale o di azione umana, ma perché diretto dono del Padre. È l’adesione alla novità costituita dal Regno di Dio, che permette di riconoscere i segni dell’azione di Dio nella vita degli uomini.

L’adesione al Regno appare pertanto un evento esperienziale che va ben oltre gli aspetti razionali,  e coinvolge la persona umana nella sua totalità. È questo totale coinvolgimento nella logica del Regno che pone nella condizione di leggere la logica dell’azione di Dio nella storia.

Il ministero petrino allora, nel più autentico insegnamento di Gesù, appare pertanto un dato che va molto oltre una mera definizione giuridica di primato. Si rivela piuttosto come una grande funzione di servizio e di dedizione al popolo di Dio che si esplicita e sostanzia nella capacità di riconoscere che dove due o più persone sono riunite nel nome di Gesù, lì Gesù stesso è presente in mezzo a loro (Mt. 18,20).

La proclamazione della beatitudine di Pietro della capacità di riconoscere, nella persona di Gesù di Nàzareth, il Cristo, il Figlio del Dio vivente, ci invita in definitiva a riscoprire una modalità di scoprire la volontà del Signore, che lungo i secoli abbiamo un po’ dimenticato e che, lo Spirito, grazie ai padri del Concilio ci ha permesso di riscoprire, quella di “leggere i segni dei tempi”, che invece ai tempi di Gesù i più autentici fedeli del giudaismo non ignoravano. Siamo stati abituati in materia di fede a un atteggiamento meramente deduttivo, dove una certa teologia di scuola ci ha mostrato come da un complesso di verità definite sia possibile dedurre indicazioni per incarnare il messaggio cristiano nella nostra vita di credenti. La deduzione è certamente una facoltà razionale di grande utilità, ma non è l’unica. Essa è di grande utilità per evidenziare aspetti impliciti del messaggio cristiano, ma l’esperienza ecclesiale degli ultimi secoli ci ha ampiamente mostrato la sua insufficienza.

È importante allora ricordare quanto sottolineato da Gesù nel Vangelo di Luca: «Diceva ancora alle folle: "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: "Arriva la pioggia", e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: "Farà caldo", e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l'aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?» (Lc. 12,54-56). Questo bellissimo richiamo di Gesù a “saper valutare il tempo”, ci mostra l’esigenza di affiancare alla teologia di scuola una “teologia della strada”, che, ricordando che la rivelazione non si riduce ai contenuti di un messaggio ma è anche un evento, affianchi alla via della deduzione quella della scoperta, del coraggio di battere sentieri nuovi e inesplorati in compagnia dell’umanità di oggi. Chissà che sperimentando itinerarî che, a partire dall’osservazione partecipe della condizione degli ultimi e degli esclusi, avvalendosi di metodologie induttive e inferenziali e valorizzando pienamente il contributo dell’intuizione profetica, non sia possibile fare esperienza, sul piano personale e comunitario, della gioia di riconoscere negli occhî dei nostri fratelli il volto autentico del Cristo, il Figlio del Dio vivente.



Vico Equense, sabato 2 agosto 2014

Sergio Sbragia

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