«Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo,
domandò ai suoi discepoli: "La gente, chi dice che sia il Figlio
dell'uomo?". Risposero: "Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa,
altri Geremìa o qualcuno dei profeti". Disse
loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu
sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". E Gesù gli disse: "Beato
sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno
rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su
questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non
prevarranno su di essa. A te darò le
chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei
cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli"» (Mt.
16,13-19).
Quando leggiamo questo brano del Vangelo di Matteo siamo abituati, da una
lunga attitudine di natura apologetica, a concentrare la nostra attenzione prevalentemente
sui vv. 18-19 («E io a te dico: tu sei
Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi
non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò
che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai
sulla terra sarà sciolto nei cieli"»), piuttosto che su quelli
precedenti. In effetti in essi siamo abituati a riconoscere un fondamento
evangelico al ministero petrino e al primato universale della chiesa di Roma.
La ricerca storica sui Vangeli ci ha però messi
nelle condizioni di renderci conto che, nella sua itinerante missione pubblica,
Gesù non si è riproposto la fondazione di una nuova comunità religiosa
(Chiesa). Ripetutamente i Vangeli ci testimoniano come Gesù partecipasse
attivamente alle pratiche cultuali del giudaismo del suo tempo, festività,
tradizioni religiose, vita di sinagoga. Giunge anche a sottolineare che «la salvezza viene dai Giudèi» (Gv.
4,22). Nei confronti del giudaismo Gesù, lungo tutti i Vangeli, in realtà
richiama a una riscoperta dei motivi centrali e più autentici della fede dei
padri, già ampiamente richiamati per molti versi dalla tradizione profetica. La
riscoperta della dimensione più autentica della fede d’Israele, passava per
Gesù, attraverso un’adesione alla sua testimonianza e alla sua persona e comportava
un’universalizzazione dell’annuncio di salvezza. Questi ultimi due elementi
rappresentavano di certo delle autentiche innovazioni rispetto alla comune
comprensione del giudaismo contemporaneo a Gesù, ma da un’attenta lettura dei
Vangeli non emergono elementi significativi che testimoniano una volontà di
Gesù di distaccarsi dall’esperienza di fede d’Israele. Come abbiamo visto, i
vangeli testimoniano invece ripetutamente come Gesù partecipasse attivamente
(anche se in una forma che oggi definiremmo “critica”) alla vita di fede
giudaica. Alla luce di tali considerazioni, il testo dei vv. 18-19 appare con
ogni probabilità come il frutto di una riflessione operata dalla comunità
post-pasquale, anzi a ben riflettere di qualche anno ancora successivo. Tale
testo appare in realtà posticipabile a un’epoca nella quale fosse già
necessario distinguere tra una tradizione cristiana autentica da altre non
considerate tali e in cui le strade delle comunità cristiane e quelle delle
comunità giudaiche, per ragioni storiche, avevano già iniziato il processo
storico di progressiva divaricazione.
Questo testo, lungo la storia del
cristianesimo, è stato usato ampiamente in chiave apologetica per sottolineare,
nei confronti delle altre esperienze cristiane che, in definitiva, quella di
Roma fosse l’unica e autentica chiesa fondata da Gesù.
Questa preoccupazione pregiudiziale di natura
apologetica ha finito per portare inconsapevolmente a mettere in ombra il dato
decisivo e affascinante contenuto nei precedenti vv. 13-17 («Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di
Filippo, domandò ai suoi discepoli: "La gente, chi dice che sia il Figlio
dell'uomo?". Risposero: "Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa,
altri Geremìa o qualcuno dei profeti". Disse loro: "Ma voi, chi dite
che io sia?". Rispose Simon Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del
Dio vivente". E Gesù gli disse: "Beato sei tu, Simone, figlio di
Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è
nei cieli»). Queste poche righe contengono in realtà il resoconto di uno
dei passaggî più affascinanti dell’itinerante missione di maestro condotta da
Gesù sui sentieri della Giudèa, della Galilèa e della Samarìa.
In primo luogo abbiamo il riscontro dell’esistenza
di un clima di attenzione e di curiosità nei confronti di Gesù. Gesù si rende
conto, in effetti, di essere oggetto, da parte di quanti lo incontravano o ne
sentivano parlare, di uno sforzo di comprensione delle caratteristiche più
autentiche della sua azione. A fronte dello spessore spirituale della sua
azione, in effetti, doveva essere diffuso tra le donne e gli uomini del tempo,
un chiaro interrogativo se egli fosse Giovanni il Battista (che dobbiamo,
dunque, supporre già morto in questa fase della missione di Gesù), se fosse
Elìa, Geremìa o un altro dei profeti, se potesse, infine, essere il Cristo (il
Messìa), o comunque un nuovo grande profeta. Era infatti diffusa l’attenzione
all’azione e alla predicazione di personalità carismatiche, che in forma stanziale
o itinerante, proponevano una pratica autentica della fede giudaica.
Nell’antico Israele erano presenti forti tradizioni riguardanti le figure testé
richiamate.
Non va dimenticato che sulla scorta dell’annuncio
di un futuro profeta uguale a Mosè contenuto in Dt. 18,15.18 («Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in
mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto.
[…] Io susciterò loro un profeta in mezzo
ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io
gli comanderò»), nel popolo d’Israele era viva l’attesa della figura
escatologica del profeta. Non solo, ma anche un’altra dimensione di attesa appare
ampiamente documentata negli ambienti giudaici del tempo: quella relativa al
profeta Elìa che, secondo Ml. 3,22-24, doveva preparare l’arrivo del «giorno
del Signore» («Tenete a mente la legge
del mio servo Mosè, / al quale ordinai sull'Oreb / precetti e norme per tutto
Israele. / Ecco, io invierò il profeta Elìa prima che giunga / il giorno grande
e terribile del Signore: / egli convertirà il cuore dei padri verso i figlî e
il cuore dei figlî verso i padri, / perché io, venendo, / non colpisca / la
terra con lo sterminio»). Il giudaismo, infatti, aveva molto sviluppato
l’intero racconto biblico relativo al profeta Elìa, creando e moltiplicando
racconti intorno alla sua figura, collocandolo in una delle serie degli angeli,
ritenendolo il sommo sacerdote della fine dei tempi e ponendo, soprattutto,
l’accento sulla sua venuta escatologica. Al suo rapimento misterioso, secondo 2Re.
2,1-18, corrisponderà infatti un suo ritorno escatologico con il mandato di
ricondurre il cuore dei padri verso i figlî e il cuore dei figlî verso i loro
padri. Ma l’attesa per eccellenza che caratterizzava tutta la millenaria
esperienza religiosa del popolo ebraico era costituita, sia pur attraverso una
molteplicità di forme diverse, dall’attesa per la figura del Messìa.
Da quanto detto ne deriva da un lato la
possibilità di dedurre la presenza e l’azione di gruppi, in particolare negli
ambienti del potere civile e religioso, che esprimevano una tensione sostanzialmente
negativa, attenta a ogni movimento nuovo che veniva nell’àmbito dell’esperienza
religiosa di Israele onde scongiurarne le potenzialità destabilizzatrici rispetto
agli assetti di potere politico e religioso esistenti. Dall’altro è innegabile
la constatazione di una tensione positiva, che cercava di leggere nei singoli
eventi della storia le tracce del compimento delle promesse di Dio al suo
popolo, che la Legge e le tradizioni profetica e sapienziale avevano consegnato
alla fede delle generazioni successive. La missione itinerante di Gesù, in
realtà, farà continuamente i conti con queste due contrapposte valenze
dell’attesa giudaica. Anche se, nel caso del brano in questione, dal tono degli
interrogativi riproposti, mi sembra di poter percepire la prevalenza di una
tensione positiva, che spera di riconoscere nella predicazione del falegname di
Nàzareth i segni dell’azione di Dio, un atteggiamento che, in linguaggio moderno,
potremmo definire da scrutatori dei segni dei tempi.
E Gesù mostra una grande attenzione rispetto a
questo atteggiamento di ricerca e di attesa che comunque era presente nel
popolo d’Israele. Anzi è su questa tensione d’attesa che costruisce la sua
relazione diretta con le persone che incontra e in particolare con quelle che
scelgono di seguirlo ("Ma voi, chi
dite che io sia?"). È con questo interrogativo diretto che Gesù chiede ai proprî interlocutori di
prendere con libertà, ma con decisione, una precisa posizione nei suoi confronti.
È su questo piano, quello di una relazione interpersonale, che Gesù chiede a
ciascuna donna e a ciascun uomo di ogni tempo e di ogni latitudine di scegliere
liberamente di seguirlo. La scelta della fede è quindi in primo luogo, non una
scelta intellettuale o una valutazione razionale, ma una decisione esistenziale
di fronte a una persona concreta, un’intuizione della decisività del rapporto
con lui per l’esistenza di ciascuno di noi “qui e ora”. Intelletto e ragione
non sono assenti da questa opzione, ma non sono il punto di partenza della
scelta, che invece prende avvio e s’innesta sul piano dell’intuizione e
dell’illuminazione interiore. Quella sfera che indurrà Simon Pietro a ribattere
tempestivamente: «Tu sei il Cristo, il
Figlio del Dio vivente». Un’affermazione questa, che non è l’esito di una
riflessione razionale, ma il frutto della relazione interpersonale con il
Maestro Gesù di Nàzareth, che egli ha scelto di seguire sui sentieri della
Galilèa, della Giudèa e della Samarìa e che si traduce in una formula di
riconoscimento sintetica, ma compiutamente espressiva della persona Gesù. Simon
Pietro perviene a questa sintesi, senza avere alle spalle un passato di frequentazione
degli ambienti culturali giudaici, ma solo l’esperienza di una pratica di vita
al sèguito di un maestro itinerante, condotta insieme alla comunità dei seguaci
dello stesso maestro. In questa comunità in forma spontanea, cioè in quelle
modalità prive di regìa, e comunque antecedenti a qualsivoglia approfondimento
di psicologia dei gruppi, ha assunto un ruolo capace di esprimere e di far
sintesi dei sentimenti comuni vissuti ed esperiti dal gruppo dei discepoli. Un
ruolo reso possibile dalla condivisione piena della vita della comunità, dalla
partecipazione ai problemi e alle difficoltà di ciascuno dei componenti, dallo
spirito di servizio immediato e generoso che Simon Pietro nei Vangeli mostra
ripetutamente di porre in opera in forma del tutto spontanea. È questo il fondamento
più autentico del ministero petrino. Un ministero di servizio, di ascolto del
popolo di Dio, e di piena immersione in esso, ma con la capacità di contemplare
senza soluzione di continuità il volto del Signore Gesù, il Figlio del Dio
vivente. E questa capacità di sintesi espressa con immediatezza da Simon
Pietro, viene da Gesù riportata sotto il genere della beatitudine («Beato sei tu, Simone, figlio di Giona,
perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli»).
A mio avviso non è per niente casuale che in questo episodio sulle labbra di
Gesù ricorra un genere letterario, che risulta centrale in un altro testo di
altissimo valore, quale quello del Discorso del Monte (Mt. 5,1-12), dove in
maniera plastica e altamente espressiva Gesù celebra alcune categorie di
persone per la felicità a esse accordata e pone in evidenza il motivo di tale
felicità, declinandolo alla luce dell’incommensurabile novità da lui
annunciata: l’irruzione del Regno di Dio nella storia concreta dell’umanità.
Anche nel nostro caso, a mio avviso, la
dichiarazione di beatitudine va letta nel quadro della nuova logica introdotta
nella storia umana dalla relato del Regno di Dio. Gesù, attraverso la
dichiarazione della beatitudine, celebra Pietro per la particolare condizione di
felicità che gli è stata accordata e tiene a porre in evidenza la ragione di
tale felicità. In particolare pone in evidenza che la felice intuizione di
Pietro, è ragione di gioia autentica, perché non è frutto di sforzo razionale o
di azione umana, ma perché diretto dono del Padre. È l’adesione alla novità
costituita dal Regno di Dio, che permette di riconoscere i segni dell’azione di
Dio nella vita degli uomini.
L’adesione al Regno appare pertanto un evento
esperienziale che va ben oltre gli aspetti razionali, e coinvolge la persona umana nella sua
totalità. È questo totale coinvolgimento nella logica del Regno che pone nella
condizione di leggere la logica dell’azione di Dio nella storia.
Il ministero petrino allora, nel più autentico
insegnamento di Gesù, appare pertanto un dato che va molto oltre una mera
definizione giuridica di primato. Si rivela piuttosto come una grande funzione
di servizio e di dedizione al popolo di Dio che si esplicita e sostanzia nella capacità
di riconoscere che dove due o più persone sono riunite nel nome di Gesù, lì
Gesù stesso è presente in mezzo a loro (Mt. 18,20).
La proclamazione della beatitudine di Pietro
della capacità di riconoscere, nella persona di Gesù di Nàzareth, il Cristo, il
Figlio del Dio vivente, ci invita in definitiva a riscoprire una modalità di
scoprire la volontà del Signore, che lungo i secoli abbiamo un po’ dimenticato
e che, lo Spirito, grazie ai padri del Concilio ci ha permesso di riscoprire,
quella di “leggere i segni dei tempi”, che invece ai tempi di Gesù i più
autentici fedeli del giudaismo non ignoravano. Siamo stati abituati in materia
di fede a un atteggiamento meramente deduttivo, dove una certa teologia di scuola
ci ha mostrato come da un complesso di verità definite sia possibile dedurre
indicazioni per incarnare il messaggio cristiano nella nostra vita di credenti.
La deduzione è certamente una facoltà razionale di grande utilità, ma non è
l’unica. Essa è di grande utilità per evidenziare aspetti impliciti del messaggio
cristiano, ma l’esperienza ecclesiale degli ultimi secoli ci ha ampiamente
mostrato la sua insufficienza.
È importante allora ricordare quanto
sottolineato da Gesù nel Vangelo di Luca: «Diceva
ancora alle folle: "Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito
dite: "Arriva la pioggia", e così accade. E quando soffia lo
scirocco, dite: "Farà caldo", e così accade. Ipocriti! Sapete
valutare l'aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete
valutarlo?» (Lc. 12,54-56). Questo bellissimo richiamo di Gesù a “saper
valutare il tempo”, ci mostra l’esigenza di affiancare alla teologia di scuola
una “teologia della strada”, che, ricordando che la rivelazione non si riduce
ai contenuti di un messaggio ma è anche un evento, affianchi alla via della
deduzione quella della scoperta, del coraggio di battere sentieri nuovi e
inesplorati in compagnia dell’umanità di oggi. Chissà che sperimentando
itinerarî che, a partire dall’osservazione partecipe della condizione degli
ultimi e degli esclusi, avvalendosi di metodologie induttive e inferenziali e
valorizzando pienamente il contributo dell’intuizione profetica, non sia possibile
fare esperienza, sul piano personale e comunitario, della gioia di riconoscere
negli occhî dei nostri fratelli il volto autentico del Cristo, il Figlio del
Dio vivente.
Vico Equense, sabato 2
agosto 2014
Sergio Sbragia
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