L’altro
ieri ho avuto la ventura di ascoltare una dichiarazione televisiva dell’attuale
presidente della Confindustria, Squinzi, che ha affermato che il nostro paese,
nell’attuale fase storica, sta in effetti vivendo al di sopra delle proprie
possibilità.
All’udire
il maggior rappresentante della più autorevole organizzazione imprenditoriale
italiana auspicare un’ulteriore contrazione del tenore di vita del popolo
italiano sono, per la verità, rimasto di sasso. Al di là delle questioni di
principio e di valore, che pur hanno il loro peso, ciò che una siffatta
affermazione mi ha nell’immediato fatto maggiormente sobbalzare è la sensazione
di una sostanziale inadeguatezza della cultura economica che è attualmente
espressa dalla Confindustria.
Mi
chiedo se agli occhî del presidente Squinzi appaia chiaro cosa implicherebbe
un’ulteriore riduzione del potere d’acquisto degli italiani proprio per gli
interessi che egli si propone di rappresentare e tutelare, quelli delle imprese
italiane. L’effetto sia immediato, ma anche di medio e di lungo periodo,
sarebbe quello di una più pesante riduzione dei consumi, una contrazione della
domanda aggregata, e quindi ulteriori e maggiori difficoltà strutturali per le
imprese italiane, con conseguenti drammatici effetti di aggravamento della
crisi economica. La sensazione che ho avuto è stata molto simile a quella che
può provare chi si trova in cammino nel corso di un violento temporale in
compagnia di qualcuno che anziché sperare in una sua attenuazione ne auspica
invece la trasformazione in un vero ‘e proprio uragano.
Quando
si parla di un vivere al di sopra delle proprie possibilità, bisognerebbe quanto
meno aver cura di chiarire a quali categorie di persone ci si voglia riferire,
cosa che il presidente Squinzi si è ben guardato dal fare. Di certo penso che
si può convenire che a condurre la bella vita o a fare “i bagordi” non sono
certo i lavoratori dipendenti privati o pubblici, o quanti sono alla ricerca
del lavoro, o ancora quanti studiano e s’impegnano per il bene comune, o gli
anziani non autosufficienti, o gli ammalati e gli invalidi. Non sono di certo
queste categorie a solcare i mari a bordo di yacht lussuosi, inquinando per
mero diletto e senza ragione le risorse marine del pianeta. Non sono loro a
frequentare i saloni scintillanti delle case da gioco. Non sono loro ancora a
giocare con costosi giocattoli per nababbi sulle piste dei circuiti di Formula
uno a consumare per mero divertimento enormi quantità di risorse energetiche
non rinnovabili. Non sono loro, infine, a dissipare enormi flussi di risorse
finanziarie in sponsorizzazioni di realtà dell’economia del futile, dell’inutile,
del temporaneo e del dannoso.
Sarebbe
quindi opportuno che il presidente Squinzi, nella sua ricerca di quanti vivono
al di sopra delle proprie possibilità, abbia cura di guardare in altre direzioni.
Certo desta
una certa preoccupazione constatare il grave ritardo di cultura economica
espresso da un’associazione che nel campo, invece, dovrebbe essere all’avanguardia.
Una cultura economica che fa fatica a guardare in faccia la dura realtà della
crisi, concentrandosi su prospettive secondarie, anziché affrontare il nocciolo
del problema. Forse se proviamo a metterci nei panni dei semplici consumatori
possiamo verificare come agli occhî di questi ultimi appare molto chiaro come,
nell’ultimo ventennio, i beni e i servizî prodotti dalle aziende italiane abbiano
subìto un pesante e grave ridimensionamento qualitativo, anche in settori
tradizionalmente distintivi del made in
Italy. È questo un problema che va preso sul serio e non può essere scongiurato
elemosinando, per altro con poca dignità, ulteriori politiche di sgravio
fiscale e di alleggerimento dei costi del lavoro, rinunciando in cambio a
significativi e legittimi aspetti di autonomia d’impresa. Non è invocando l’intervento
assistenzialistico dello stato che è possibile scongiurare gli effetti negativi
di un dato strutturale quale quello della perdita di qualità produttiva, che,
alla lunga, nonostante gli eventuali pannicelli caldi dell’assistenzialismo di
stato non mancherà di produrre i suoi nefasti effetti se non sarà preso, e per
tempo, in carico sul serio da chi di dovere.
Il
problema su cui concentrare l’attenzione, oggi non domani, è quello di prendere
coscienza che il problema centrale da aggredire per uscire dalla crisi è quello
della qualità del made in Italy,
quello di operare un deciso recupero di professionalità imprenditoriale. È infatti
il fattore imprenditoriale a fare la differenza. Non si può negare che gli
imprenditori italiani, soprattutto quelli di terza o quarta generazione, abbiano
perso gran parte dello smalto che contraddistingueva i padri fondatori, che
hanno giocato l’intera propria esistenza nella costruzione delle proprie aziende.
Risulta di ampia evidenza come l’imprenditoria italiana sia stata nell’ultimo
ventennio succube del fascino della prospettiva di “far soldi”, facendo “poca
impresa”, o, se possibile, “senza fare impresa”. Sono, infatti, nei ricordi di
molti di noi gli applausi a scena aperta tributati dalle assemblee nazionali di
Confindustria alle teorie di promozione delle politiche di espansione della finanza
creativa che, solo alcuni anni fa, venivano con forza propagandate da
autorevoli personalità politiche del nostro paese.
Il
problema della qualità dei beni e dei servizî offerti dalle aziende italiane
richiede che gli imprenditori italiani prendano coscienza di recuperare la
voglia di “fare impresa”, di riprendere a cercare di “far profitto” “facendo
seriamente impresa”, rischiando quotidianamente in azienda senza frequentare i
salotti del potere politico, impegnando le proprie capacità, le proprie competenze,
la propria creatività, per calcare sentieri inesplorati e percorrere le
faticose vie dell’innovazione.
Da
diversi anni l’intero paese è impegnato a fare i conti in maniera solidale per
uscire dalla crisi. I lavoratori e le lavoratrici dipendenti, sia pubblici che
privati, stanno facendo con grande dignità la loro parte sostenendo grandi
sacrificî e accettando in molti casi il mancato rinnovo dei contratti
collettivi di lavoro. Le persone in cerca di lavoro, vivono una condizione di
grande disagio, ma partecipano al contenimento del peso del debito pubblico,
sopportando le varie forme di tassazione diretta che sono previste per
partecipare ai concorsi e alle selezioni pubbliche. Più si ricerca lavoro e più
balzelli fiscali o parafiscali si è tenuti a pagare. Gli studenti sono
costretti a studiare e a impegnarsi senza serie prospettive di futuro e, pur
tuttavia, non fanno mancare segni di grande impegno, fantasia e creatività.
Addirittura anche gli ammalati e le persone non autosufficienti non fanno
mancare il loro apporto sopportando la riduzione dei servizî e dei supporti del
servizio sanitario. E invece è innegabile che sinora è stata registrata una
sostanziale riluttanza del mondo delle imprese a partecipare a questo sforzo,
preferendo nella maggior parte dei casi condurre una vita da nababbi nell’aurea mediocritas del mondo dorato del “jet
set” internazionale, venendo meno all’impegno richiesto a tutti dall’art. 2
della Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua
personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale» (art. 2).
La
solidarietà politica, economica e sociale è indicato dai padri costituzionali
come un dovere inderogabile che impegna tutti i cittadini e tutte le formazioni
sociali. Gli imprenditori, in forma singola e associata, non possono pertanto far
mancare il proprio contributo concreto per portare il paese fuori dalla crisi.
È quindi
il momento per il mondo delle imprese e per le sue espressioni organizzate di
prendere coscienza di tale dovere e di onorarlo, scendendo in campo
concretamente al fianco delle altre componenti sociali già impegnate su questo
fronte, semplicemente facendo (ma “sul serio”) il proprio mestiere, quello di “fare
impresa”, impresa di qualità, superando l’illusorietà dello sventurato mito
liberista di “far soldi” senza fare impresa, che ha precipitato le economie
occidentali nell’attuale drammatica crisi.
Sono
convinto che le energie migliori e più vive del mondo imprenditoriale non
mancheranno nel rispondere positivamente all’appello loro rivolto dal paese.
In caso
contrario sarò costretto a dar, mio malgrado, ragione a un proverbio diffuso
dalle mie parti: «’O sazio nun crere ’o
riune» [Il sazio non crede a chi sta digiuno]. Ma io sono convinto che
dalla crisi si può uscire mettendo insieme le capacità, la creatività, la competenza e
la generosità di tutti. “Insieme si esce dalla crisi”!
Vico Equense, domenica 31 agosto 2014
Sergio Sbragia
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