domenica 31 agosto 2014

’O sazio nun crere ’o riune.






L’altro ieri ho avuto la ventura di ascoltare una dichiarazione televisiva dell’attuale presidente della Confindustria, Squinzi, che ha affermato che il nostro paese, nell’attuale fase storica, sta in effetti vivendo al di sopra delle proprie possibilità.
All’udire il maggior rappresentante della più autorevole organizzazione imprenditoriale italiana auspicare un’ulteriore contrazione del tenore di vita del popolo italiano sono, per la verità, rimasto di sasso. Al di là delle questioni di principio e di valore, che pur hanno il loro peso, ciò che una siffatta affermazione mi ha nell’immediato fatto maggiormente sobbalzare è la sensazione di una sostanziale inadeguatezza della cultura economica che è attualmente espressa dalla Confindustria.
Mi chiedo se agli occhî del presidente Squinzi appaia chiaro cosa implicherebbe un’ulteriore riduzione del potere d’acquisto degli italiani proprio per gli interessi che egli si propone di rappresentare e tutelare, quelli delle imprese italiane. L’effetto sia immediato, ma anche di medio e di lungo periodo, sarebbe quello di una più pesante riduzione dei consumi, una contrazione della domanda aggregata, e quindi ulteriori e maggiori difficoltà strutturali per le imprese italiane, con conseguenti drammatici effetti di aggravamento della crisi economica. La sensazione che ho avuto è stata molto simile a quella che può provare chi si trova in cammino nel corso di un violento temporale in compagnia di qualcuno che anziché sperare in una sua attenuazione ne auspica invece la trasformazione in un vero ‘e proprio uragano.
Quando si parla di un vivere al di sopra delle proprie possibilità, bisognerebbe quanto meno aver cura di chiarire a quali categorie di persone ci si voglia riferire, cosa che il presidente Squinzi si è ben guardato dal fare. Di certo penso che si può convenire che a condurre la bella vita o a fare “i bagordi” non sono certo i lavoratori dipendenti privati o pubblici, o quanti sono alla ricerca del lavoro, o ancora quanti studiano e s’impegnano per il bene comune, o gli anziani non autosufficienti, o gli ammalati e gli invalidi. Non sono di certo queste categorie a solcare i mari a bordo di yacht lussuosi, inquinando per mero diletto e senza ragione le risorse marine del pianeta. Non sono loro a frequentare i saloni scintillanti delle case da gioco. Non sono loro ancora a giocare con costosi giocattoli per nababbi sulle piste dei circuiti di Formula uno a consumare per mero divertimento enormi quantità di risorse energetiche non rinnovabili. Non sono loro, infine, a dissipare enormi flussi di risorse finanziarie in sponsorizzazioni di realtà dell’economia del futile, dell’inutile, del temporaneo e del dannoso.
Sarebbe quindi opportuno che il presidente Squinzi, nella sua ricerca di quanti vivono al di sopra delle proprie possibilità, abbia cura di guardare in altre direzioni.
Certo desta una certa preoccupazione constatare il grave ritardo di cultura economica espresso da un’associazione che nel campo, invece, dovrebbe essere all’avanguardia. Una cultura economica che fa fatica a guardare in faccia la dura realtà della crisi, concentrandosi su prospettive secondarie, anziché affrontare il nocciolo del problema. Forse se proviamo a metterci nei panni dei semplici consumatori possiamo verificare come agli occhî di questi ultimi appare molto chiaro come, nell’ultimo ventennio, i beni e i servizî prodotti dalle aziende italiane abbiano subìto un pesante e grave ridimensionamento qualitativo, anche in settori tradizionalmente distintivi del made in Italy. È questo un problema che va preso sul serio e non può essere scongiurato elemosinando, per altro con poca dignità, ulteriori politiche di sgravio fiscale e di alleggerimento dei costi del lavoro, rinunciando in cambio a significativi e legittimi aspetti di autonomia d’impresa. Non è invocando l’intervento assistenzialistico dello stato che è possibile scongiurare gli effetti negativi di un dato strutturale quale quello della perdita di qualità produttiva, che, alla lunga, nonostante gli eventuali pannicelli caldi dell’assistenzialismo di stato non mancherà di produrre i suoi nefasti effetti se non sarà preso, e per tempo, in carico sul serio da chi di dovere.
Il problema su cui concentrare l’attenzione, oggi non domani, è quello di prendere coscienza che il problema centrale da aggredire per uscire dalla crisi è quello della qualità del made in Italy, quello di operare un deciso recupero di professionalità imprenditoriale. È infatti il fattore imprenditoriale a fare la differenza. Non si può negare che gli imprenditori italiani, soprattutto quelli di terza o quarta generazione, abbiano perso gran parte dello smalto che contraddistingueva i padri fondatori, che hanno giocato l’intera propria esistenza nella costruzione delle proprie aziende. Risulta di ampia evidenza come l’imprenditoria italiana sia stata nell’ultimo ventennio succube del fascino della prospettiva di “far soldi”, facendo “poca impresa”, o, se possibile, “senza fare impresa”. Sono, infatti, nei ricordi di molti di noi gli applausi a scena aperta tributati dalle assemblee nazionali di Confindustria alle teorie di promozione delle politiche di espansione della finanza creativa che, solo alcuni anni fa, venivano con forza propagandate da autorevoli personalità politiche del nostro paese.
Il problema della qualità dei beni e dei servizî offerti dalle aziende italiane richiede che gli imprenditori italiani prendano coscienza di recuperare la voglia di “fare impresa”, di riprendere a cercare di “far profitto” “facendo seriamente impresa”, rischiando quotidianamente in azienda senza frequentare i salotti del potere politico, impegnando le proprie capacità, le proprie competenze, la propria creatività, per calcare sentieri inesplorati e percorrere le faticose vie dell’innovazione.
Da diversi anni l’intero paese è impegnato a fare i conti in maniera solidale per uscire dalla crisi. I lavoratori e le lavoratrici dipendenti, sia pubblici che privati, stanno facendo con grande dignità la loro parte sostenendo grandi sacrificî e accettando in molti casi il mancato rinnovo dei contratti collettivi di lavoro. Le persone in cerca di lavoro, vivono una condizione di grande disagio, ma partecipano al contenimento del peso del debito pubblico, sopportando le varie forme di tassazione diretta che sono previste per partecipare ai concorsi e alle selezioni pubbliche. Più si ricerca lavoro e più balzelli fiscali o parafiscali si è tenuti a pagare. Gli studenti sono costretti a studiare e a impegnarsi senza serie prospettive di futuro e, pur tuttavia, non fanno mancare segni di grande impegno, fantasia e creatività. Addirittura anche gli ammalati e le persone non autosufficienti non fanno mancare il loro apporto sopportando la riduzione dei servizî e dei supporti del servizio sanitario. E invece è innegabile che sinora è stata registrata una sostanziale riluttanza del mondo delle imprese a partecipare a questo sforzo, preferendo nella maggior parte dei casi condurre una vita da nababbi nell’aurea mediocritas del mondo dorato del “jet set” internazionale, venendo meno all’impegno richiesto a tutti dall’art. 2 della Costituzione: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2).
La solidarietà politica, economica e sociale è indicato dai padri costituzionali come un dovere inderogabile che impegna tutti i cittadini e tutte le formazioni sociali. Gli imprenditori, in forma singola e associata, non possono pertanto far mancare il proprio contributo concreto per portare il paese fuori dalla crisi.
È quindi il momento per il mondo delle imprese e per le sue espressioni organizzate di prendere coscienza di tale dovere e di onorarlo, scendendo in campo concretamente al fianco delle altre componenti sociali già impegnate su questo fronte, semplicemente facendo (ma “sul serio”) il proprio mestiere, quello di “fare impresa”, impresa di qualità, superando l’illusorietà dello sventurato mito liberista di “far soldi” senza fare impresa, che ha precipitato le economie occidentali nell’attuale drammatica crisi.
Sono convinto che le energie migliori e più vive del mondo imprenditoriale non mancheranno nel rispondere positivamente all’appello loro rivolto dal paese.
In caso contrario sarò costretto a dar, mio malgrado, ragione a un proverbio diffuso dalle mie parti: «’O sazio nun crere ’o riune» [Il sazio non crede a chi sta digiuno]. Ma io sono convinto che dalla crisi si può uscire mettendo insieme le capacità, la creatività, la competenza e la generosità di tutti. “Insieme si esce dalla crisi”!

Vico Equense, domenica 31 agosto 2014
Sergio Sbragia

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