domenica 27 settembre 2015

Caro Matteo, ma non è che hai sbagliato partito?




Lettera aperta a Matteo Renzi


Caro Matteo,
sono un sostenitore e un elettore del Partito democratico. Alle ultime primarie di partito non ho votato per te. E, col senno di poi, visto lo svolgimento successivo degli eventi politici, sono molto contento di non averlo fatto.
Mi devi perdonare la crudezza, è infatti mia abitudine esprimere le mie personali posizioni in forma pubblica e con la massima franchezza e chiarezza, ma, allo stesso tempo, nella massima correttezza e con tutto il rispetto dovuto a chi la pensa in diverso modo. Penso che questo sia un dovere per tutti coloro che hanno una sollecitudine autentica per il bene comune e non solo un’attenzione esclusivamente ritagliata alla cura del proprio bene particolare.
È passato un periodo di tempo sufficientemente ampio dalla tua elezione a segretario di partito e dal tuo successivo insediamento alla guida del governo del Paese, per poter avere una visione d’assieme della tuta esperienza alla guida del partito e del paese.
Confesso che già questo primo punto presenta una certa difficoltà, perché risulta abbastanza arduo distinguere, nella tua esperienza politica di questi due anni, gli aspetti che sono riconducibili al governo del paese da quelli che invece sono relativi alla vita di partito. La scelta, da me già a suo tempo indicata come errata, di cumulare sulla tua persona gli incarichi di segretario del partito e di premier, impedisce, nonostante tutte le arrampicate di specchî in cui ti cimenti in ogni comunicazione pubblica, di distinguere il programma e l’azione del Partito democratico dal programma e dell’iniziativa di governo. Si tratta di due realtà che non coincidono e non possono coincidere. La confusione creata dal sovraccarico sulla stessa persona finisce per danneggiare sia il partito sia il governo. Ogni qual volta prendi la parola, parli a nome del partito o del governo? Noi cittadini avremmo il diritto di saperlo e il mondo della politica ha il dovere di renderlo chiaro. D’altronde nel partito, anche nella componente a te più vicina sono presenti personalità di grande rilievo e capacità che potrebbero assumere l’uno o l’altro incarico, qualora tu dovessi maturare la decisione, da me auspicata, di lasciarne uno. Una decisione che non sarebbe di certo una tua sconfitta, ma la maturazione di una saggia opzione per aprire al partito e al paese prospettive di crescita e sviluppo adeguate, facilitate dalla più specifica finalizzazione dell’impegno politico personale, di due distinte persone, una allo sviluppo e all’affermazione del programma di partito, e, l’altra, alla realizzazione di un programma di governo che abbia a tema esclusivamente il bene dell’Italia.
Devo dire che già ben prima delle primarie, con cui sei stato scelto quale segretario del Pd, non condividevo molto la tua pratica di cavalcare contemporaneamente due cavalli. Mentre eri sindaco di Firenze, già ti allenavi per altri traguardi. Stavi materialmente a Palazzo vecchio, ma la tua fantasia viaggiava altrove. E spesso anche tu materialmente eri in tutt’altro luogo, magari alla Leopolda o ad Arcore a colloquio con Berlusconi. Penso che la carica di Sindaco di una grande città, e nel caso specifico di una capitale culturale del mondo, richieda l’attenzione esclusiva della persona che è chiamata a tale incarico e che questa sia poi tenuta ad assolverlo in tale forma esclusiva sino all’ultimo giorno, all’ultima ora, all’ultimo minuto, all’ultimo secondo. Ritengo davvero scandaloso il fenomeno, che spesso si ripete, di sindaci che lasciano anzi tempo la loro funzione, per passare ad altro incarico. Il sindaco di una città viene scelto dai proprî concittadini attraverso una forma elettorale maggioritaria focalizzata sulla sua persona. I contribuenti per la sua scelta spesso devono sostenere la spesa di un doppio appuntamento elettorale (primo turno e ballottaggio). Alla persona prescelta viene riconosciuto un ampio spazio di decisionalità personale. Può liberamente scegliere i componenti dell’esecutivo municipale sulla base di valutazioni personali. A questo investimento di fiducia sulla sua persona, non può a mio avviso far sèguito una distrazione delle proprie energie per altri àmbiti politici di ordine sovra locale e, men che mai, l’abbandono anzi tempo dell’incarico (fatte naturalmente salve le ragioni di forza maggiore, per esempio la salute personale). Quindi quando ti ho visto affilare le armi per partecipare alla competizione per la segreteria del partito, mentre a Palazzo Vecchio qualcun altro a tuo nome e in incognito svolgeva di fatto il lavoro di primo cittadino non ho condiviso questa tua scelta. E ancor meno ho condiviso la scelta di abbandonare Palazzo vecchio prima della naturale scadenza del mandato.
Come ti ho detto non ho votato per te e allora compii tale scelta, non per motivi di linea politica, ma proprio perché in quel momento eri ancora il Sindaco di Firenze e non potevo condividere la tua intenzione di tradire il mandato di fiducia a te conferito dai cittadini della città di Firenze.
Non condivisi naturalmente la scelta compiuta nelle urne delle primarie dalla maggioranza dei sostenitori del partito, ma me ne feci una ragione nella convinzione che il nostro partito è una realtà plurale fondata sulla scommessa che diverse culture politiche possono dar vita a un grande progetto di futuro per il paese e per il popolo italiano, fatto di democrazia, tolleranza, lavoro, cultura e impegno solidale per la nostra casa comune e per le future generazioni, senza discriminazioni e valorizzando il contributo di tutti e di ciascuno, senza cedimenti alle culture dello scarto e della rottamazione. Un elemento questo che segnava e segna la differenza tra il nostro partito e altre forze politiche di destra, a titolarità personalistica, monarchica e autoritaria (siano esse di vecchio o di nuovo conio).
Invece quando le vicende politiche ti hanno portato a Palazzo Chigi, ho ricevuto dai fatti la conferma della validità della scelta da me compiuta alle urne delle primarie, quando optai per non votare in tuo favore. Se in quell’occasione avevi tradito gli elettori di Firenze che avevano riposto in te la loro fiducia, con l’assunzione dell’incarico di Presidente del Consiglio dei ministri, hai operato un nuovo tradimento, venendo meno alla fiducia a te riconosciuta dai sostenitori e dagli elettori del Pd. Sono infatti sufficientemente adulto per sapere che le due funzioni non sono materialmente e realisticamente svolgibili da una sola persona. Il solo incarico di capo del governo ha un grado di coinvolgimento tale, che esige, anzi impone, una dedizione totale. Ne deriva che le energie e le possibilità operative residue sono quasi inesistenti e comunque del tutto insufficienti per svolgere in qualche modo le funzioni di segretario del partito. Di conseguenza  questa funzione da quel momento è di fatto svolta da altri a tuo nome e in incognito. Qui mi corre anche l’obbligo etico di mettere in evidenza che, all’interno del partito, coloro che a tuo nome e in incognito stanno svolgendo le funzioni che dovrebbero essere svolte dalla tua persona, stanno compiendo un atto di grave disonestà politica, di cui dovranno rispondere dinanzi alla propria coscienza. Le azioni politiche vanno compiute con la propria faccia e con il proprio nome. Nella mia città, a Napoli, si ha poca stima per chi lancia la pietra e nasconde la mano, ma credo che sia una convinzione ampiamente condivisa ben oltre gli orizzonti campani.
Fatta questa premessa relativa ai limiti iniziali della tua duplice esperienza di segretario e di premier, veniamo alla successiva gestione concreta sia del partito che del governo del paese.
Iniziamo dalla comunicazione pubblica. Dal tuo insediamento nei due incarichi hai dato la stura a un diluvio di comunicazioni mediali e monodirezionali, occupando gran parte della comunicazione pubblica, in cui non hai mai tralasciato, da un lato, di insultare quanti, all’interno del partito e nel paese, non condividono le tue posizioni e la tua azione politica, e, dall’altro, ti sei impegnato in un bombardamento di messaggî di autoglorificazione (di per sé l’autoglorificazione è un comportamento di poco stile, a Napoli si dice che “il vantarsi è da cafoni”), dove immancabilmente ti presenti come il più bravo, il più bello, il più simpatico e il più intelligente.
È questo un aspetto non secondario e non certamente privo di significato, in quanto l’approccio comunicazionale esprime con chiarezza la visione che tu personalmente hai scelto d’incarnare del tuo impegno politico.
E questo perché quando nel confronto con opinioni diverse, sia all’interno del partito sia all’esterno, dal piano nobile e culturalmente elevato della diversità delle idee e delle opinioni si scade sul piano degli insulti, per cui chi la pensa in modo diverso può essere definito “gufo” o in altro modo. Con un tale comportamento in effetti, caro Matteo, finisci col dimenticare che la diversità di opinione è uno dei fondamenti e dei pilasti della democrazia, e il confronto tra posizioni diverse è il sale insostituibile della vita democratica. L’impegno continuo, permanente e instancabile a confrontarsi appassionatamente con chi la pensa diversamente, costituisce la diversità vincente di una forza che sceglie il bene comune del paese, rispetto all’atteggiamento ottusamente ostruzionistico delle attuali forze politiche di centro destra della cordata antidemocratica che va da Grillo a Berlusconi e dalla Meloni a Salvini. La scelta di dire “mi confronto con tutti, purché alla fine si faccia ciò che ho già deciso di fare” ha uno stile molto poco democratico, e in quanto tale incompatibile con il tuo ruolo di segretario del Partito “democratico”. Dove l’aggettivo “democratico” della nostra forza politica non costituisce un’etichetta posticcia e priva di significato, ma una differenza specifica che dice tutta la diversità che segna l’identità stessa del nostro partito rispetto agli altri. Pertanto la democraticità del comportamento del segretario dovrebbe essere di tutta evidenza anche nelle presenze mediatiche del segretario. E invece… il carattere sostanzialmente arrogante dei tuoi riferimenti pubblici rispetto a chi ti muove delle obiezioni di contenuto, sminuisce pesantemente la percezione della tua lealtà alla cultura democratica che ci contraddistingue.
Ma anche il pervicace bombardamento mediatico, dove in maniera continua e meramente declamatoria, vieni ripetendo l’assoluta validità delle scelte da te compiute. In una modalità di insistente e testarda ripetizione di slogan, nelle dichiarazioni televisive, nell’uso dei social media (scorrettamente usati in forma rigorosamente monodirezionale, negandone di fatto la loro natura sociale e di comunità), con la preoccupazione di evitare accuratamente ogni spunto di approfondimento e ogni opportunità di scendere sul terreno dei contenuti proprî dei temi in discussione. Questo tuo atteggiamento insistito e ripetitivo, in effetti, sul piano psicologico mi dice con chiarezza che il primo a non essere convinto e a non credere nella validità delle tue scelte sei proprio tu. E questa tua evidente insicurezza appare di tutta evidenza a ogni tua nuova presa di posizione pubblica. Tutti gli accorgimenti mediatici, a cui maldestramente fai ricorso, non fanno altro che manifestare il tuo terrore che le tue opzioni siano sbagliate. Più gigionate poni in campo e più lo rendi chiaro. Se fossi davvero convinto della validità delle tue scelte, avresti a loro proposito, un approccio mediatico meno insistito e più disponibile al confronto di contenuto.
Sul piano poi del contenuto delle tue scelte politiche, devo anzitutto sottolineare gli aspetti su cui mi trovo in accordo con la tua linea, si tratta della posizione sull’Europa (a un tempo europeista, ma proprio  per questo esigente di un reindirizzo di politica economica finalizzato alla crescita), della posizione di sostanziale accoglienza sul tema dell’immigrazione e dell’indicazione dell’autorevolissima figura di Sergio Mattarella per il Quirinale.
Ma qui si ferma il mio accordo con te.
Iniziamo dai propositi di modifiche alla Costituzione. Per la rilevanza di un tema del genere il principale pericolo da evitare sarebbe la frettolosità. La normativa costituzionale è il fondamento della nostra convivenza, il porvi mano (che è cosa giusta e necessaria) richiede però alta consapevolezza, rigore tematico e attenzione estrema a garantire l’equilibrio dei poteri. La frettolosità e la superficialità con cui invece si posto mano alle riforma costituzionale, a leggere i materiali in campo, hanno prodotto i famosi figlî ciechi della gatta richiamata dalla saggezza popolare. Quella del Senato, per esempio, appare, a dire il vero, un’autentica “riformicchia”, che svilisce un organo costituzionale di grande rilievo in un organismo sottratto (nella migliore delle ipotesi in campo “in gran parte”) all’elettività popolare. Questo appare poco comprensibile in una fase in cui una parte dell’opinione pubblica, a mio avviso sbagliando, chiede l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Come mai allora s’imbocca la strada di rendere non eleggibile (almeno in parte) un organo costituzionale che sinora ha avuto questo requisito? Personalmente preferisco un ordinamento che prevede un Parlamento a due polmoni, ma se ridotto alle condizioni delineate dalla tua “riformicchia”, sarebbe di gran lunga preferibile una scelta monocamerale, almeno sarebbe una prospettiva (da me non condivisa), ma coraggiosa.
E che dire poi del catastrofico fallimento del “Jobs act”, che tutto ha prodotto tranne la piena occupazione. E le pietose valutazioni di successo da te millantate sul preteso progresso di alcuni indicatori economici, progressi limitati alla seconda cifra dopo la virgola, presi al di fuori di una seria analisi economica di contesto, fanno pensare a una sostanziale inadeguatezza dell’esecutivo sul piano della politica economica. Un esecutivo inadeguato in quanto incapace di porre in atto una seria e lungimirante azione di rilancio del “made in  Italy”, non con semplici dichiarazioni formali né con interventi assistenzialistici a favore dell’imprenditoria decotta e di scarsa qualità. La strada invece è quella di indicare a chiare lettere che la via del rilancio è proprio quella della qualità, la qualità vera, quella che manca al “made in Italy” (nonostante le tante consapevolmente false dichiarazioni contrarie). Se il “made in Italy” oggi fosse di qualità, non saremmo in crisi. Quello che serve oggi è indicare con chiarezza agli imprenditori nostrani che la strada è quella di rimboccarsi le maniche, di incamminarsi sul sentiero impegnativo, ma remunerativo, della qualità, della ricerca e della competenza e, allo stesso tempo, di abbandonare senza rimpianti la pratica di elemosinare assistenzialismo e sgravi fiscali e del costo del lavoro, via che ha precipitato il paese nel baratro economico in cui si è ritrovato. Abbiamo davvero bisogno di un’imprenditoria seria e professionale, che purtroppo negli ultimi anni ha lasciato (o ha dovuto lasciare) il campo a un’imprenditoria predatoria e improvvisata che ha profondamente lacerato il tessuto economico del paese, con la complice assenza del potere pubblico. Di fronte a questa esigenza inevitabile, il “Jobs act” non è nemmeno un pannicello caldo, ma la sostanziale riproposizione di scelte fallimentari e peggiorative di una realtà già grave. È necessario avere la statura politica di rendersi conto della necessità d’invertire la strada, di scegliere l’opzione dell’impegno e della serietà, continuare ad autocongratularsi prima o poi ti costringerà a un triste risveglio. La statura politica di uno statista sta anche nel saper individuare da lontano i vicoli ciechi che si sono imboccati.
Anche se guardiamo alla concreta produzione legislativa non posso fare a meno di rilevare la sua scarsissima qualità materiale. È sufficiente fare l’esempio della Legge 125 del 2015. Un capolavoro di illeggibilità, infarcito per altro di autentiche offese alla morfologia, alla grammatica e alla sintassi. Non sto esagerando, basta una lettura diretta del testo sulla Gazzetta Ufficiale per constatare la fondatezza delle mie affermazioni. Una legge miscellanea che tratta frammentariamente ed episodicamente (e sempre con la ormai consueta e dannosa frettolosità) tanti temi e problemi, ma al di fuori di una logica di seria riforma di alcunché, e con il rischio serio di frammentare il corpo legislativo del nostro paese, dove la disciplina legislativa dei varî àmbiti perde inevitabilmente unitarietà, per il ripetersi dell’introduzione di mini norme in testi di legge che non tengono conto dei contesti specifici che vanno a modificare. Sarebbe ora di mettere da parte le leggi miscellanea, per passare a una legislazione tematizzata, che affronti uno per uno, ma compiutamente e coerentemente, i tanti temi che hanno urgente necessità di essere adeguatamente ridefiniti.
A dir la verità, potrei continuare a lungo con una serie di esemplificazioni dello stesso tenore. Ma quel che mi sembra fondamentale è richiamare alla tua attenzione, l’esigenza che tu prenda coscienza che sei il segretario del Partito democratico, non il segretario del Partito “antidemocratico”. La democraticità del comportamento, soprattutto da parte di chi il partito lo rappresenta, non è un’opzione secondaria o semplicemente tattica, è l’elemento decisivo su cui il partito c’è, oppure cade. Voglio invitarti pertanto a voler riflettere con grande saggezza, sull’esigenza di cambiare rotta, o per dirla con un tuo slogan, di “cambiare verso”, ricollegandoti al grande patrimonio democratico del nostro partito, rispetto al quale purtroppo attualmente sei fuori.
La saggezza popolare ci dice che “sbagliare è umano, ma perseverare nell’errore è diabolico”. Sarebbe davvero un atto di responsabilità e di grande previdenza politica una tua scelta di concentrarti pienamente sulla sfida di governare il paese, lasciando ad altra autorevole personalità la guida del partito. Sarebbe il primo passo indicativo di un cambiamento di rotta. Il vero capitano è quello che sa quale sia il momento giusto di virare e cambiare rotta.
Mi auguro che tu voglia prendere in considerazione questa mia, un po’ rude, sollecitazione. Un mio difetto è quello di dire con chiarezza quello che penso. Ma il parlar chiaro è fatto per gli amici. Sono ovviamente disponibile ad approfondire nel modo più ampio possibile i temi che ho posto in discussione, perché dal confronto di idee diverse nasce sempre una sintesi produttiva. Il fronte contro fronte, invece, determina sempre stasi dannose e improduttive.
Naturalmente io sono un sostenitore del Partito democratico, che continuerò nonostante tutto a votare e sostenere, nella convinzione che il grande patrimonio democratico del partito alla lunga avrà ragione della stagione di pratica politica deteriore alla quale al momento lo stai riducendo. Puoi rimediare, sta a te la scelta.
In caso contrario, posso solo dirti che probabilmente hai sbagliato partito. Credo di non sbagliarmi se ti dico che saresti stato il miglior successore di Silvio Berlusconi alla guida di Forza Italia.
Voglio comunque concludere queste mie riflessioni, augurandoti il meglio sul piano personale e auspicando per il Paese un percorso positivo di uscita dalla crisi e di risposta alle sofferenze di quella parte di società che si trova a fare i conti con i problemi più drammatici.
Un cordialissimo saluto,

Vico Equense, domenica 27 settembre 2015
Sergio Sbragia


lunedì 14 settembre 2015

Italiaccia? No, grazie! Nonostante tutto: Italia!



Italiaccia? No, grazie! Nonostante tutto: Italia!
Lettera aperta a Giampaolo Pansa

Egregio dott. Giampaolo Pansa,
Qualche giorno fa, sulla rete televisiva La7, nella trasmissione “Otto e mezzo”, ho avuto modo di ascoltare un Suo confronto di approfondimento politico con la parlamentare Pina Picerno. Nel corso del dibattito ha fatto riferimento alla sua recente fatica di saggista e attento osservatore politico (“L’Italiaccia senza pace : misteri, amori e delitti del dopoguerra” / Giampaolo Pansa. – Milano : Rizzoli, 2015). Libro che, quanto prima non mancherò di leggere. Vorrei tuttavia manifestarLe le mie perplessità su due Sue affermazioni fatte nel corso della trasmissione.
La prima è la mia sorpresa per la Sua dichiarazione di non essersi recato alle urne nelle ultime tornate elettorali. Di certo Le riconosco l’onestà intellettuale di aver manifestato pubblicamente tale Suo comportamento. È un atto di chiarezza e onestà intellettuale che non è da tutti. Ciò tuttavia non mi esime da una riflessione sul comportamento di astensione dal voto in quanto tale, in particolare da parte di chi è professionalmente impegnato nell’analisi politica. Sono convinto che il voto sia allo stesso tempo un diritto e un dovere. La cura del bene comune, a mio parere, è cosa che in una civile convivenza deve riguardare e coinvolgere tutti, nessuno escluso. In una società civile, le singole persone non possono curare solo il bene individuale, ma tutti (nessuno escluso) sono tenuti a contribuire, in proporzione alle proprie possibilità e responsabilità, al bene comune. La Costituzione della Repubblica Italiana, dal canto suo, riconosce pienamente questo principio sia all’art. 2, dove con chiarezza si dice che «La Repubblica (…) richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»; sia all’art. 48, ove si statuisce che «il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». Di conseguenza la scelta di non recarsi alle urne, costituisce di fatto una palese violazione di un preciso dettato costituzionale. E questa violazione assume un peso etico di grande rilevanza quando un tale comportamento viene posto in essere da personalità, che per il proprio ruolo sociale e professionale, sono impegnate nell’analisi politica e quindi non possono non essere consapevoli della rilevanza costituzionale e istituzionale di un tale comportamento.
Sul piano personale poi sono convinto che la diserzione delle urne, da parte di molti cittadini, sia un grave fenomeno di corruzione (dal latino “corruptio”) del comportamento politico, della stessa gravità dei comportamenti disonesti di una parte della classe politica, imprenditoriale e dirigenziale. Il voto e il coinvolgimento nella decisionalità intorno alla “cosa pubblica” non è un’opzione priva di rilevanza intrinseca. Non equivale alla scelta del programma televisivo che si preferisce seguire, operando la selezione sul telecomando, dove è certamente legittimo lasciare spento l’apparecchio televisivo.
Né ritengo che la responsabilità possa essere fatta ricadere solo e univocamente sulla classe politica. Certo quest’ultima ha le sue pesantissime colpe, ma è pur vero che una parte di noi cittadini ha contribuito e contribuisce al malaffare politico, con la delega in bianco, il disinteresse, il rifuggire dell’impegno diretto, lo scarico delle responsabilità, per non parlare della ricerca del favore personale.
Né penso che possa tranquillizzare la coscienza il non ritrovare nell’offerta politica, una proposta pienamente rispondente alle proprie aspettative e alle proprie convinzioni. Penso che la considerazione che il non gradimento delle posizioni e della proposte politiche materialmente in campo non rappresenti affatto una giustificazione per la scelta di disertare le urne. Anzi, per la verità costituisce una ragione cogente per un impegno ulteriore. I cittadini che non ritrovano le proprie ragioni negli schieramenti politici in campo, sono in verità chiamati, ad andare oltre il mero momento elettorale, per scendere direttamente in campo e impegnarsi nella costruzione di nuovi soggetti politici, capaci di conferire rappresentanza alle loro posizioni. E questo è vieppiù richiesto a chi pratica quotidianamente e professionalmente l’analisi politica. Altro che astensione!
L’altra mia perplessità è riferita a ripetute Sue affermazioni, formulate prevalentemente nella parte finale della trasmissione, con le quali ha manifestato una sorta di scetticismo sulla reale possibilità, per il nostro paese, di riuscire a riprendersi dal grave stato in cui si ritrova. Una posizione scettica e pessimista che fatica a intravedere una positiva via di uscita dalla crisi. Ebbene in proposito mi sento personalmente di dissentire da questo sentimento di sfiducia e di rassegnazione al peggio. Certo sono pienamente consapevole della gravità dei problemi che affliggono l’Italia, ma sono altrettanto convinto che il peggior modo per affrontarli è quello della mancanza di convinzione sulla concreta possibilità di una positiva prospettiva futura. Piuttosto che la rassegnazione alla sconfitta, penso sia essenziale accettare la sfida d’impegnarsi in forma solidale per rilanciare il paese. La via è quella di mettere in campo le capacità, le competenze, la fantasia, la genialità degli italiani. Si, non credo d’illudermi, se confido nell’esistenza e  sussistenza del “genio italiano”, quello stesso genio che lungo i secoli ha fatto dell’Italia un faro di cultura e civiltà nel mondo, e questo ce lo riconoscono in tanti. Ma bisogna scegliere di scendere in campo, di rimboccarsi le maniche, di mettersi in gioco. Solo rischiando di andare in mare aperto, si può compiere un lungo e costruttivo viaggio. Se invece ci si lascia vincere dalla paura, dalla pigrizia, dalla scarsa fiducia in se stessi, si finisce invischiati nella rassegnazione e ci si dichiara sconfitti prima di dare inizio alla partita. Di questa partita non posso conoscere il risultato in anticipo, ma non potremo mai vincerla se non diamo il calcio di inizio. Se ce la mettiamo tutta, non è escluso che possa finire: Italia 4, Germania 3. Pertanto ritengo ingeneroso, soprattutto, nei confronti delle generazioni più giovani il predicare rassegnazione, anziché infondere coraggio e fiducia. Questo non è velleitarismo né assenza di realistica consapevolezza dei proprî mezzi. È la determinazione di chi è convinto che il talento non va sotterrato, ma messo in gioco con fiducia, gioia ed entusiasmo.
Infine, mi permetta una nota su quella parola “Italiaccia” che ha usato nel titolo della Sua ultima fatica letteraria. Di certo ritengo sia l’esito di un artificio retorico, ma quell’espressione dispregiativa in tutta sincerità mi ferisce, perché sono convinto che la nostra Italia, ha tanti difetti, e noi italiani tanti limiti, ma nel corso della storia, l’Italia ha saputo venir fuori da tante tragedie. In tante occasioni, in cui sembrava che il paese fosse perduto, gli italiani e l’Italia hanno saputo trovare in se stessi le forze e le capacità per reagire. E questa non è un’Italiaccia, ma nonostante tutto è: l’Italia.

Voglia gradire i segni della mia più sincera stima e i miei saluti più cordiali,

Vico Equense, lunedì 14 settembre 2015
Sergio Sbragia

domenica 13 settembre 2015

Le capacità mimetiche del razzismo!

A sèguito delle evoluzioni registrate nelle posizioni di alcuni paesi europei (con in testa la Germania) in ordine alla possibile accoglienza per ragioni umanitarie di quote di migranti profughi, ho avuto in più occasioni l’opportunità di sentire, sia da comuni cittadini sia dagli strumenti della grande comunicazione pubblicitaria e consumista, affermazioni del seguente tenore: “può essere ammissibile accogliere i profughi siriani che in genere sono affidabili, mentre quelli provenienti dall’Africa invece sono…”.
Un simile affermazione, che in apparenza sembra rivestire le sembianze di una posizione di natura concessiva da parte di chi solo ventiquattrore prima era radicalmente contrario a ogni forma di accoglienza di profughi, che anzi si aveva cura di definire più genericamente clandestini, a un esame solo un po’ più attento si rivela per quel che in realtà è: visto che non è più sostenibile una posizione di drastica opposizione all’accoglienza, e dovendo in qualche modo piegarsi a far buon viso a cattivo gioco, si cerca di cavarsela alla meno peggio, mettendo in scena un goffo espediente per distinguere superficialmente migranti accettabili da quelli da rifuggire assolutamente. In realtà nulla di nuovo, se non la riedizione, in salsa di 21° secolo, dell’antico adagio “Dividit et impera”. E tutti noi possiamo sentir risuonare nelle nostre orecchie espressioni del tipo: “gli immigrati provenienti dal Veneto sono educati, laboriosi e sostanzialmente affidabili; i napoletani, invece, non hanno voglia di lavorare e i siciliani sono tutti mafiosi”. Ciascuno di noi, attraverso le proprie relazioni familiari, può facilmente recuperare testimonianze autentiche di profonde sofferenze materiali e morali provocate dall’impatto in terra straniera con frettolose e pregiudiziali posizioni di tal genere sperimentate dolorosamente sulla propria pelle da parenti diretti o indiretti.
Anzi, se è possibile, una tale posizione è ben più grave della posizione di rifiuto generalizzato dell’accoglienza. E questo per almeno due ragioni.
Una prima ragione sta nel suo dividere i richiedenti asilo e nella sua potenzialità destabilizzatrice, che può innescare contrapposizioni e conflitti tra gli stessi migranti, ponendosi così all’origine di ulteriori violenze e sopraffazioni. In proposito mi viene in mente una scena del famoso film “Il marchese del Grillo”, dove il protagonista, impersonato da Alberto Sordi, dall’alto della loggia del palazzo signorile lancia delle monete roventi a un gruppo di disperati in attesa di un’elemosina, generando tra questi una sorta di rissa per appropriarsi di qualche moneta. Appropriazione premiata poi da una tragica scottatura. Una riedizione (ma questa volta operata nella realtà vera e non nella finzione cinematografica) di questa scena l’abbiamo vista in questi giorni in Ungheria, dove la polizia magiara si è molto onorevolmente impegnata nel lancio di panini all’interno di un recinto ov’erano ammassati tantissimi profughi. C’è di che andar fieri!
La seconda ragione sta nell’assunzione indebita di un potere di giudizio che, pretende a distanza, senza conoscenza delle vicende personali, pretende di stabilire chi può avere diritto all’elemosina dell’ingresso in Europa e chi no. È questa una pretesa che esprime in realtà una volontà di potenza che pretende di intervenire autoritariamente sui destini di altri esseri umani colpevoli solo di essere già vittime di violenza, ingiustizia e sopraffazione. Ci si sente in grado di stabilire che sia degno di venire tra di noi e chi noi. Una sorta di pretesa di avere diritto a una discrezionalità sovrumana, quasi di ordine divino. Ci sentiamo in grado di giudicare, dall’esterno, i poveri e i diseredati (e poi semmai siamo comprensivi, servizievoli, sottomessi e complici rispetto ai ricchi, ai potenti e ai prepotenti, anzi, persino, li invidiamo, vorremmo essere al loro posto). Eppure basterebbe ricordare un insegnamento, che riteniamo parte della nostra identità culturale europea, ma chissà perché dimentichiamo spesso (troppo spesso) di applicarlo:

Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: "Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio", mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello (Lc. 6,41-42).

Siamo molto solleciti e bravi nel definirci cristiani, ma siamo abilissimi a dimenticarne gl’insegnamenti centrali.
Eppure in Europa dovremmo essere vaccinati rispetto al virus del razzismo. Nel corso dell’ultimo secolo abbiamo sperimentato come sia facile che sentimenti razzisti che, all’inizio sembravano addirittura ragionevoli e giustificati, portino in realtà a esiti orribili. In Germania, in un primo tempo, un certo pregiudizio anti ebraico appariva del tutto non pericoloso, era ampiamente condiviso e  sembrava  giustificato da comportamenti esosi attribuiti agli stessi ebrei. La storia ci ha poi mostrato, purtroppo, dove si può arrivare. Anche queste poche settimane di emergenza profughi, nella nostra Europa, che si pavoneggia democratica e in prima linea nella promozione dei diritti umani e della libertà (anche se forse solo della libertà finanziaria), ha mostrato con chiarezza come sia facile che la spirale degli abusi e delle prevaricazioni a danno dei più deboli prenda drammaticamente il via. Immediatamente sono scesi i campo i costruttori di muri (semmai addobbati di uncini, scaglie di vetro e oggetti in grado di pungere e ferire, vera riedizione della “corona di spine”). La storia non dovrebbe essere “maestra di vita”?
Il razzismo è una mala pianta che può attecchire e svilupparsi rapidamente, va pertanto individuato e sradicato alle sue prime, e anche apparentemente giustificate, manifestazioni. Occorre mobilitare tutta la nostra capacità di discernimento per individuare le sue apparizioni, anche quelle che possono mostrarsi come apparentemente innocue e addirittura legittimate da ragioni di giustizia sociale. Sappiamo che se s’imbocca il sentiero della discriminazione e del misconoscimento della dignità umana, in fondo alla strada ci sono i lager e i gulag. Un popolo civile deve saper mettere in campo la propria vigilanza democratica per dire stop alle spirali di violenze e sopraffazioni che inevitabilmente portano a esiti orrendi. Tornare indietro quando si sarà percorso un lungo tragitto in tale direzione, potrebbe essere non facile, se non addirittura impossibile, senza la riedizione di tragedie di vastissime dimensioni.
In tutte le occasioni, allora, richiamiamo al senso di responsabilità, alla capacità di mettere in campo il meglio delle nostre capacità, quelle capacità che nei secoli hanno reso l’Italia faro di cultura e di civiltà nel mondo, nelle arti, nella cultura, nella musica, nelle lettere, nelle relazioni tra i popoli. Dobbiamo solo saltare a piè pari la paura e raccogliere la sfida di scendere in mare aperto. La storia ci dimostra che vocazione dell’Italia è quella delle relazioni tra nord e sud, tra occidente e oriente. L’Italia è un ponte, non un muro. Bisogna crederci, abbandonare la paura e mettere in campo “il genio italiano” (che c’è e non si è smarrito, dipende da noi, da ciascuno di noi), senza prestare ascolto ai gufi e ai profeti di sventura della santa (si fa per dire) alleanza del razzismo funzionale agli interessi della pirateria finanziaria.
Diventiamo avvocati dei più deboli e dei reietti tra i popoli, riscopriamo le nostre radici abramitiche, recuperiamo quella grande attitudine che il nostro padre nella fede, Abramo, seppe mettere in campo dinanzi a Dio per scongiurare la distruzione di Sodoma:

Abramo gli si avvicinò e gli disse: "Davvero sterminerai il giusto con l'empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l'empio, così che il giusto sia trattato come l'empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?". Rispose il Signore: "Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell'ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo". Abramo riprese e disse: "Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?". Rispose: "Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque". Abramo riprese ancora a parlargli e disse: "Forse là se ne troveranno quaranta". Rispose: "Non lo farò, per riguardo a quei quaranta". Riprese: "Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta". Rispose: "Non lo farò, se ve ne troverò trenta". Riprese: "Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti". Rispose: "Non la distruggerò per riguardo a quei venti". Riprese: "Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci". Rispose: "Non la distruggerò per riguardo a quei dieci" (Gen. 18,23-32).

In questa meravigliosa pagina della Scrittura, vediamo come Abramo cerchi in tutti i modi le ragioni per implorare la misericordia di Dio sugli uomini e le donne di Sòdoma. Dobbiamo allora ricercare dentro di noi le ragioni per richiamare con forza, con capacità di convincimento e di coinvolgimento, alle ragioni della solidarietà e dell’accoglienza, per mettere in campo una reazione popolare e civile, capace di contrastare con ragionevolezza ed efficacia la mobilitazione politica e mediatica, ampiamente dispiegata per promuovere l’isolazionismo razzista, mascherato demagogicamente su false e infondate ragioni di prudenza, di pericolo per il modesto benessere posseduto, di difesa della sicurezza pubblica, di pigrizia di pensiero e di propensione al disimpegno. Non sono i profughi il vero pericolo per la nostra civile convivenza, ma gli egoismi politici e la pirateria finanziaria.
E non dimentichiamo che un domani qualcuno potrebbe chiederci: “Un giorno sono naufragato, straniero su una vostra spiaggia. Mi avete accolto?”. Cosa potremo rispondere?
Dipende da noi, da ciascuno di noi, rifuggire dalla rassegnazione, dal disimpegno, dallo scegliere di andare mentalmente in pensione”, dal sotterrare “il talento”, dal rintanarsi in una melanconica “aurea mediocritas”, per imboccare invece il sentiero dell’entusiasmo, dell’impegno, della fantasia, della gioia di vivere e del mettersi in gioco, nel lavoro, nelle relazioni umane, nella società, nella comunicazione, nella riflessione politica. Lanciamo il cuore oltre l’ostacolo! Certo, potremo anche fallire, ma almeno ci avremo provato. La scelta opposta è invece la certezza del fallimento!

Vico Equense, domenica 13 settembre 2015
Sergio Sbragia