mercoledì 3 novembre 2021

Potrebbe essere l’ora di una donna al Quirinale?

Sono ormai in corso le grandi manovre della politica di modesta statura in vista della non distante scadenza della scelta del nuovo Presidente della Repubblica. Un po’ tutte le forze politiche stanno approntando le proprie strategie in merito. Cominciano a essere fatti nomi di possibili candidati, con un occhio alle prevedibili ricadute in relazione alla successiva scadenza elettorale per il rinnovo delle aule parlamentari e alle connesse prospettive per la guida del governo nazionale. Tra il tanto parlare e la pluralità dei nomi ipotizzati, a meno che non mi sia sfuggito qualcosa, non mi sembra di aver sentito proporre per la più alta carica dello stato il nome di una donna. Eppure siamo nel terzo decennio del nuovo millennio, in ogni dichiarazione politica non si tralascia di sottolineare con forza la necessità di un forte impegno sull’esigenza di garantire in pienezza il principio delle pari opportunità e di favorire la piena partecipazione delle donne nella gestione della cosa pubblica. Sarebbe davvero un segnale di grande significato se il prossimo inquilino del Quirinale potesse essere una donna. Delude non poco il fatto che sinora nessuno ha avvertito l’esigenza di conferire tale spessore alla prossima scadenza dell’elezione del nuovo capo dello stato. Eppure, nonostante la diffusa carenza nell’attuale universo politico di personalità di alta levatura etica, politica e culturale, non mancano figure femminili di alto rilievo. Anzi, a mio personale giudizio, forse nonostante la prevalenza numerica maschile, è proprio tra le donne che è più facile rintracciare personalità di notevole valore e non in una sola area politica. È sufficiente guardare con attenzione all’attuale panorama politico. Non è difficile trovare nomi e persone che potrebbero positivamente rispondere alle necessità del paese. Sarà sufficiente guardare senza pregiudizi alle persone, alle loro esperienze, ai contributi dati da esse in questi anni, e sono certo che potrebbero essere fatte delle scoperte significative. Non perdiamo questa occasione, per ostinarci in una politica di piccolo cabotaggio. Pensiamo innanzitutto al meglio per il paese.


Vico Equense, lì 3 novembre 2021

Sergio Sbragia

martedì 2 novembre 2021

La guerra è inutile

           Il recente epilogo della ventennale avventura americana in Afghanistan, con le drammatiche conseguenze che ha determinato per le condizioni di vita del popolo afghano, dovrebbe costituire un’ulteriore occasione per operare una seria riflessione sull’utilità dei conflitti armati. Da decenni assistiamo, almeno in Occidente, a un confronto tra uno schieramento che propone una cultura della pace e del disarmo e uno contrapposto, che, in nome di un preteso realismo politico, vede negli armamenti e nell’uso della forza una necessità per la salvaguardia della sicurezza e della stessa pace, sulla base dell’antico saggio “se vuoi la pace prepara la guerra”. Si tratta di un confronto di grande significato, condotto sul piano di valori etici di fondo, quali la pace, la convivenza mondiale, il futuro dell’umanità e dello stesso nostro pianeta.

Oggi tuttavia sono convinto che, fermo restando in tutto il suo spessore e significato etico e umano, il rifiuto della guerra e del ricorso alle armi possa arricchirsi di una valutazione storica.

Se infatti vogliamo lo sguardo al passato possiamo constatare come la Seconda guerra mondiale si sia venuta a configurare come uno spartiacque storico sull’utilità della guerra. Non si può negare infatti che, pur con tutte le connesse sofferenze e ingiustizie, i conflitti armati sino alla metà del secolo scorso hanno in qualche modo raggiunto degli obiettivi. Solo per fare degli esempi: numerosi paesi (compreso il nostro) si sono liberati dalle dominazioni straniere e hanno conseguito l’unità nazionale, sono stati sconfitti il fascismo e il nazismo. Anche quando l’esito non è stato positivo, comunque si sono avuti dei vincitori e degli sconfitti, con l’emissione di una sentenza della storia sui fatti, il prevalere di un impero sull’altro, l’assunzione del potere da parte di una delle forze in campo.

Con la conclusione del secondo conflitto mondiale le cose cambiano radicalmente. Oggi, trascorsi 75 anni dalla sua conclusione, disponiamo di una prospettiva storica che inizia a permetterci di poter operare una valutazione circa la persistenza o meno di un’utilità del ricorso alle armi per il conseguimento di un obiettivo politico, prescindendo dal suo valore etico.

Se, ad esempio, facciamo riferimento alla drammatica questione delle relazioni israelo-palestinesi, che proprio dalla fine del conflitto mondiale, non fa altro che disseminare sofferenza e morte nella terra di Gesù, pur apparendo indiscutibile la superiorità militare e organizzativa degli israeliani, non si può negare che, all’indomani di ogni affermazione di forza e di ogni sconfitta palestinese, lo stato d’Israele non ha potuto cantare vittoria e si è ritrovato, e tuttora si ritrova, a dover fare i conti con il popolo palestinese. Ad ogni vittoria, Israele, un po’ come nel gioco dell’oca, si ritrova alla casella di partenza. La superiorità militare non basta a Israele per risolvere il problema. Occorre altro.

Ma al di là delle caratteristiche del tutto singolari del conflitto israelo-palestinese, possiamo giungere a un’analoga conclusione se prestiamo attenzione alle vicende della prima potenza militare del mondo, gli Stati uniti d’America. Usciti vincitori indiscussi dal conflitto mondiale e, a tutt’oggi detentori della maggiore forza militare disponibile sul pianeta, non si può negare che da vari decenni hanno inanellato una serie di “figuracce” quando hanno scelto, passando dalle parole ai fatti, di “far parlare le armi”. E qui è sufficiente ricordare la dura sconfitta patita in Vietnam, ma anche il disastroso esito delle due avventure militari in Iraq, che se hanno determinato la caduta di Saddam Hussein, hanno poi aperto le porte al Califfato islamico. In questa stessa logica si è poi inscritta anche l’invasione dell’Afghanistan, che in venti anni non è riuscita ad aver ragione dei talebani, che alla fine sono rimasti padroni del campo, più forti e baldanzosi che mai.

Il tutto coltivando il mito ingannevole e illusorio, ma profondamente fatto proprio dai circoli militaristici, della “guerra lampo” (un po’ sulla scia del mussoliniano “spezzeremo le reni alla Grecia”) e ponendo nel dimenticatoio che l’unica e fondamentale affermazione conseguita nel dopoguerra, quella nei confronti della dittatura sovietica, è stata determinata proprio dalla scelta di non far parlare le armi e di dar voce al diritto alla libera circolazione degli uomini e delle idee.

Allora penso che sia giunto il momento di riporre le armi nel cassetto. Alla luce dei fatti si sono rivelate inutili e controproducenti. Quando sono state usate hanno prodotto morte e distruzione, ma non hanno portato nemmeno alla vittoria (giusta o ingiusta che fosse). Realismo vuole che si cambi strada. Negli ultimi decenni in realtà i cambiamenti più significativi si sono avuti senza il ricorso alle armi. Ho già citato l’esito del confronto est-ovest del secolo scorso, un confronto che si è giocato molto sul gonfiare i muscoli, ma che ha almeno avuto la saggezza di non far parlare (almeno in forma diretta) le armi. Ma non è il solo caso. Basti pensare al processo d’integrazione europea. Lo so che oggi non va molto di moda parlare di Europa. Ma è un dato storico che in un settantennio i paesi dell’Europa (almeno quelli dell’area occidentale) hanno maturato una coscienza di appartenenza a una cultura comune. Negli ultimi secoli non si è mai avuto tra i paesi dell’Europa occidentale un periodo così lungo di assenza di conflitti armati e di coesistenza pacifica. E questo non è poca cosa, nonostante tutti i problemi che l’Unione europea si trova dinanzi ed è chiamata ad affrontare. L’aver fatto tacere le armi e parlare i cuori e i cervelli è stata una scelta giusta e anche un buon affare.

Far parlare i cuori e i cervelli è anche la prospettiva per far crescere la consapevolezza e il riconoscimento più universale dei diritti umani. Un segnale incoraggiante lo abbiamo avuto, per esempio, dai recenti giochi olimpici, dove abbiamo potuto constatare l’allargamento della partecipazione femminile anche nelle delegazioni dei paesi islamici. Favorire la circolazione delle persone, sviluppare il confronto culturale e delle idee, promuovere la costruzione di percorsi migratori legali, sicuri e garantiti, è la strada più efficace per esportare la democrazia. La libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti non s’impongono con le armi, hanno in sé la forza per affermarsi è sufficiente incontrarsi, confrontarsi e cercare di risolvere assieme i problemi. Nel confronto i diritti umani prendono forza e si affermano.

 Vico Equense, lì 2 novembre 2021

Sergio Sbragia

sabato 2 ottobre 2021

È una sfida di civiltà

In queste settimane è uscita dall'attenzione dei mass media la drammatica vicenda delle violenze perpetrate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo alcuni giorni di interesse, per altro superficiale e ripetitivo, i riflettori sono stati spostati in altre direzioni, e l’argomento è stato, per così dire, archiviato e posto nel dimenticatoio. E invece penso che al tema vada prestata la massima attenzione. Non si tratta di qualcosa che interessa solo una porzione marginale e secondaria della popolazione, forse la fetta ritenuta meno meritevole di considerazione, perché autrice o complice di gravi atti lesivi della civile convivenza, che siamo portati a considerare come un peso e un pericolo per la nostra collettività e che è sostanzialmente meritevole della sorte che le tocca, secondo il famoso detto popolare “chi è causa del proprio male pianga sé stesso”. Anzi, a ben vedere, siamo portati a ritenere, che di fronte ai gravi danni e ai durissimi dolori che il fenomeno criminale provoca, il complesso delle pene attualmente previsto sia sostanzialmente insufficiente e poco dissuasivo dall’opzione di permanere in atteggiamenti offensivi della legalità. Di qui l’atteggiamento prevalente che esige un rigoroso isolamento di quanti commettono reati, auspica il loro essere rinchiusi in carceri sicuri, di cui, anche se non lo si dice apertamente, si auspica “che vengano buttate le chiavi”. Quello che avviene tra le mura delle carceri interessa poco o niente, in fondo “lo hanno voluto loro” e quindi “se lo meritano”. In definitiva è meglio pensare ad altro.

Proprio perché la criminalità rappresenta uno dei più gravi problemi con cui la nostra società si trova a fare i conti, il problema delle condizioni di vita nelle carceri deve invece essere tenuto nella massima considerazione. Gli episodi come quelli di Santa Maria Capua Vetere, in realtà, sono solo un campanello d’allarme che dovrebbe scuotere con forza la coscienza civile del nostro paese. Così non è stato. Eppure non si tratta di un fenomeno isolato e limitato al solo istituto di Santa Maria Capua Vetere. Le condizioni di vita nelle carceri del nostro paese risultano, da quanto emerge da numerose ricerche operate in merito, particolarmente dure e poco rispettose della dignità umana delle persone. La cosa, per altro, è stata posta in evidenza anche da autorevoli pronunce di organismi sovranazionali. Proprio le durissime condizioni di vita oggi registrabili nel nostro sistema carcerario e il connesso problema del sovraffollamento, se analizziamo con attenzione e senza pregiudizi la cosa, contribuiscono notevolmente a far sì che gran parte di quanti ne fanno la dura esperienza siano portati a perseverare in comportamenti illegali e a reiterare reati.

E questo in barba ai principî di alta civiltà proclamati dalla nostra Costituzione in proposito. All’art. 13 («è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà») viene esplicitamente stabilito che dal sistema carcerario sia bandito qualsivoglia uso della violenza fisica e morale sulle persone. Fatti di cronaca come quello di Santa Maria Capua Vetere testimoniano invece come tale obbligo costituzionale sia di frequente disatteso. La Costituzione poi all’art. 27 («le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), indica con grande chiarezza il valore del carattere rieducativo della pena. Una prescrizione, quest’ultima, ritenuta “una pia illusione” da un’opinione che, sia pur silenziosa, è molto diffusa tra di noi. E, invece, si tratta di un’indicazione di altissimo valore che ci è stata donata dai nostri impareggiabili padri costituenti. È un tema, un valore, sul quale “sta o cade la nostra democrazia”. Ricorrentemente diamo giustamente vita a momenti e giornate di ricordo delle vittime della criminalità organizzata, con il legittimo intento di promuovere la massima diffusione di una cultura della vita civile e della legalità. Ricordiamo il generale Dalla Chiesa, i giudici Falcone e Borsellino, e tanti altri che, come loro, hanno pagato duramente con la vita. Nelle scuole si moltiplicano le iniziative di formazione in tal senso. Ma tutto ciò rischia di ridursi solo a una periodica sterile riproposizione di principî teorici che non trovano concreto riscontro nella vita quotidiana di tutti i giorni. Se la comunità democratica dei cittadini italiani, lo stato democratico, non riesce nei fatti concreti a bandire la violenza dalla vita quotidiana delle carceri, se non si garantiscono negli istituti di detenzione condizioni pienamente rispettose della dignità umana, se non si conferisce il dovuto ruolo ai percorsi rieducativi da realizzare in essi, la battaglia dello stato contro la criminalità organizzata non potrà essere vinta. Se lo stato contro la criminalità non sa far di meglio che lasciare che nelle carceri sia usata la violenza, di fatto sancisce la propria sconfitta. Se alla violenza criminale, si risponde con la stessa arma della violenza, si finisce per riconoscere implicitamente la violenza come l’unico fattore capace di regolamentare la vita sociale, e questo in piena sintonia con una mentalità criminale. Lo stato finisce per far propria la cultura della criminalità.

E invece come cittadini siamo chiamati a raccogliere con entusiasmo la sfida che ci è stata proposta dai nostri padri costituenti, rendere umane le condizioni di vita nelle carceri, attuare tutte le possibili iniziative per garantire il carattere effettivamente rieducativo delle pene. Rendere possibile a ogni cittadino che abbia sbagliato di poter percorrere concreti itinerari di ritorno a una cultura della legalità e della socialità, deve diventare un obiettivo centrale e prioritario della nostra agenda politica. Nella nostra comunità civile, soprattutto tra le nuove generazioni, esistono le spinte valoriali, la consapevolezza dell’importanza del tema e l’entusiasmo necessari per misurarsi nell’impresa. Sono significativamente diffuse anche le competenze culturali e professionali all’uopo essenziali. Valorizzarle potrebbe anche avere una positiva ricaduta in termini di crescita occupazionale e di sviluppo economico e sociale.

Tra le previste riforme connesse al Piano nazionale di ripresa e resilienza rientra anche una riforma della giustizia, che sta compiendo i suoi passi istituzionali. Ho tuttavia l’impressione che nei testi attualmente in preparazione il tema delle condizioni di vita nelle carceri stia un po’ in disparte. Questo è, a mio avviso, un pesante limite dell’attuale iniziativa del governo in proposito. Sarebbe decisivo non perdere l’occasione del PNRR per dare una concreta e decisiva spinta nella direzione di potenziare la capacità rieducativa del nostro ordinamento giudiziario, potenziando i percorsi educativi e formativi del personale addetto, favorendo l’allargamento delle misure alternative alla detenzione, riducendo l’affollamento delle strutture, pluralizzando e ampliando le opportunità di efficaci percorsi di recupero.

È un impegno di civiltà che un paese autenticamente democratico non può disattendere, chiediamo con forza e convinzione che sia assunto con entusiasmo e responsabilità.

Vico Equense, 2 ottobre 2021

Sergio Sbragia


mercoledì 29 settembre 2021

Domenica le elezioni amministrative


Ormai ci si prepara allo sprint finale per le elezioni amministrative di domenica prossima. Purtroppo la sensazione che ho di questo imminente passaggio elettorale è abbastanza deludente. Lo scenario generale mi sembra profondamente caratterizzato un po’ ovunque da una visione individualistica, molto lontana da un necessario senso comunitario di corresponsabilità della conduzione della “cosa pubblica”. Un po’ in tutte le località interessate, dalle grandi città ai centri medio-piccoli, abbiamo registrato la presentazione di molte candidature individuali per la funzione di sindaco e la moltiplicazione oltre ogni immaginazione del numero di liste di appoggio. Un fenomeno questo, quello della fioritura di tante tantissime liste, che accomuna la procedura elettorale per i comuni e quella per le regioni. In occasione di queste scadenze elettorali si registra un fenomeno diffuso di nascita, pochi mesi prima dell’appuntamento elettorale, di improvvisate aggregazioni politiche, che poi, nella quasi totalità dei casi, si dissolvono immediatamente dopo le elezioni. Fiori che non mettono radici, che non riescono a maturare un’esperienza politica, che alla fin fine non fanno storia. Solo uno strumento momentaneo e fugace di raccolta del consenso, che non costruisce quasi mai reti condivise di protagonismo sociale e politico. È questo a mio avviso un limite molto grave del sistema elettorale che dagli anni ’90 è stato scelto per i Comuni. Oggi, a quasi trent’anni dalla sua introduzione, abbiamo a disposizione una prospettiva storica di quasi tre decenni per poter adeguatamente valutare i limiti delle regole elettorali vigenti per le nostre comunità locali.

A mio parere non sembrano raggiunti gli obiettivi di stabilità amministrativa che ci si attendeva all’epoca della loro introduzione. Uno sguardo, anche rapido, alle serie storiche delle sindacature delle principali città mostra senz’ombra di dubbio l’assenza di miglioramenti rispetto alla fase precedente, con dall’altro invece un decremento nella partecipazione politica dei cittadini e un diffuso allargamento del disinteresse per la vita associata.

La crescita dei nostri centri ha necessità di uno spirito di partecipazione, di corresponsabilità, di senso di appartenenza, che viene di fatto scoraggiato dall’impostazione individualistica delle attuali regole elettorali, che favoriscono solo la nascita di fugaci aggregazioni di breve respiro e ispirate a una logica del “mordi e fuggi”.

Un’impostazione che alla fine impedisce alle comunità locali di essere vere protagoniste di crescita sociale e civile, manifestando una sostanziale debolezza nei confronti delle istanze del potere centrale. L’individualismo di qualche sindaco, che ogni tanto fa la voce grossa negli strumenti di comunicazione, in realtà dimostra solo la debolezza delle nostre comunità locali. L’assenza di un protagonismo sociale, frutto di una società civile matura, responsabile e coinvolta, non può essere surrogato dall’agitarsi di una sola persona e questo con grande gioia per le spinte centralizzatrici.

D’altronde anche il protagonismo turistico dei leaders delle forze politiche nazionali, in questi giorni un po’ tutti impegnati a fare su e giù perb la penisola, a parole con l’intento di sostenere i propri candidati in lizza localmente, mostra invece la diffusa disattenzione per lo sviluppo delle nostre comunità locali. Di fatto questo interventismo verticistico delle istanze nazionali nello svolgimento dei confronti elettorali locali costituisce una mancanza di rispetto per l’autonomia locale, che dovrebbe invece essere oggetto del massimo rispetto da parte dei livelli nazionali. Sono convinto che quando un leader nazionale, disertando gli impegni istituzionali e/o di parte di cui è titolate a livello centrale, interviene nel dibattito politico locale viola in concreto l’autonomia di quanti nella realtà locale quotidianamente vivono e sono impegnati, in primis l’autonomia e i diritti di quanti in quella realtà locale si riconoscono nella stessa area di opinione del leader in visita.

Personalmente sono convinto che sia giunta l’ora di operare un’approfondita riflessione finalizzata a individuare una diversa e alternativa disciplina elettorale per le nostre comunità locale. Penso che sia arrivato il momento per aprire in proposito un serio tavolo di confronto e approfondimento.

Vico Equense, 29 settembre 2021

Sergio Sbragia

giovedì 29 luglio 2021

La nostra quotidiana sbornia pubblicitaria

È davvero piacevole poter degustare un buon vino. Nel nostro paese abbiamo la fortuna di poter scegliere tra una varietà ricchissima di denominazioni. Il lavoro dei nostri viticoltori ci offre infatti la possibilità di fare delle degustazioni eccezionali, dandoci l'opportunità di meglio gustare i nostri pasti, con gioia per i nostri sensi. Ma se nel consumo di vino andiamo oltre la quantità sopportata dal nostro fisico, il piacere del gusto si trasforma nell'esperienza poco piacevole di una sbronza. Se poi il consumo di vino in quantità eccessiva diviene abituale, corriamo il rischio di acquisire una dipendenza e di diventare alcolisti. Così la bella esperienza di levare in alto i calici, se va oltre i ragionevoli limiti fisiologici, può trasformarsi addirittura in una pesante sofferenza. 

Lo stesso principio di un uso quantitativamente accorto, vale anche per l'assunzione dei farmaci. Se ci atteniamo ai quantitativi prescritti dal medico, possiamo curare la malattia con cui ci stiamo misurando, se andiamo oltre, rischiamo di andare incontro a seri problemi.

Penso, in definitiva, che il prestare attenzione alla ragionevolezza dei quantitativi sia in sostanza un principio cui sia giusto attenersi un po' in tutti i nostri ambiti di vita. I quantitativi eccessivi, anche di cose di per sé buone, possono essere spesso dannosi e anche seriamente pericolosi. 

A questo proposito negli ultimi decenni tutti noi stiamo facendo l'esperienza di essere sottoposti a un incessante bombardamento pubblicitario, che sperimentiamo quotidianamente, dalla mattina quando apriamo gli occhi sino a sera allorché andiamo a riposare. 

La promozione pubblicitaria di prodotti e servizi è di certo un'attività di grande utilità sociale e riveste un rilievo significativo sul piano economico, tuttavia sono convinto che negli ultimi anni abbia assunto dimensioni di gran lunga eccessive, dannose per noi cittadini, ma a ben vedere anche controproducenti per le stesse attività che la pubblicità si propone di promuovere. Stranamente devo tuttavia constatare che poca o nessuna attenzione viene prestata a questo problema dal dibattito politico, dalla comunicazione sociale, dal mondo della cultura e anche da noi cittadini. La sensazione è che la pubblicità sia da noi avvertita come un dato di fatto indiscusso e indiscutibile, che fa parte naturalmente del paesaggio contemporaneo e non viene in mente pressoché a nessuno di sottolineare l’esigenza di contenerla in ambiti dimensionali fisiologicamente sopportabili dalle persone e dalla convivenza sociale. Sono però convinto che sia giunto, e da un bel po’, il momento di porre il tema all’ordine del giorno di una riflessione sul piano del confronto culturale e politico, anche se l’argomento potrà risultare un po’, indigesto per gli ambienti miopi legati alle lobbies del potere pubblicitario.

 

 

La pubblicità telefonica.

 

Penso che tutti noi quasi ogni giorno riceviamo telefonate, sia sull'apparecchio fisso che sul cellulare, nelle quali ci vengono formulate proposte commerciali. Spesso queste telefonate vengono anche effettuate con messaggi preregistrati in forma automatica. Personalmente ritengo davvero offensivo che si tenti di contattare telefonicamente le persone, non attraverso un contatto gestito da persone, ma mediante forme automatizzate di messaggistica preregistrata. Un colloquio telefonico è per sua natura una comunicazione interpersonale, che richiede per sua natura l’interazione tra due persone. Il tentare di promuovere per via telefonica un prodotto o un servizio, superando la relazione interpersonale che è alla base del colloquio telefonico, lo ritengo offensivo. Tale pratica andrebbe, a mio avviso, esplicitamente e chiaramente vietata.

Nessuna difficoltà invece incontro nel confrontarmi telefonicamente con proposte di fruizione di servizi o di prodotti formulate da persone. L’unico problema è dato dal numero di proposte che vengono formulate. In alcune mattinate il telefono è davvero bollente. Non è mio costume chiudere le conversazioni in maniera scortese, ma spesso il numero di telefonate pubblicitarie ricevute mette seriamente in discussione il tempo disponibile per le ordinarie attività della vita personale.

 

 

Una marea di volantini.

 

Un altro versante problematico della nostra relazione con la pubblicità è rappresentato quotidianamente dal numero di volantini pubblicitari che riceviamo nella nostra cassetta postale o quando ci rechiamo a fare la spesa. Leggere qualche volantino non è un problema, ma trovare molto spesso la cassetta postale piena di volantini e priva di spazio per l’ordinaria corrispondenza è altra cosa. Molto spesso poiché la cassetta è già piena, i volantini vengono solo appoggiati sulla cassetta stessa o lasciati a terra. E allora anche un leggero alito di vento li disperde per strada. Diviene allora necessario raccattarli e porli in una busta, in attesa del giorno settimanale dedicato allo smaltimento della carta. In tale giorno ho la possibilità di verificare nel concreto che la busta ad hoc è per oltre metà occupata da volantini pubblicitari. Vista la quantità eccessiva ho posto sulla cassetta postale un avviso col quale ho chiesto di non recapitarmi pubblicità. Ma tale avviso non ha sortito effetto alcuno, i volantini hanno continuato ad arrivare per cui, alla fine, ho tolto l’avviso. Non sarebbe il caso di prevedere un limite quantitativo alla distribuzione di questi volantini? Ciò avrebbe senza dubbio una ricaduta positiva sul consumo complessivo di carta.

 

 

La promozione in linea.

 

La pubblicità poi non tralascia lo spazio che forse più caratterizza la nostra epoca, cioè l’ambito della comunicazione in linea. La nostra navigazione in rete è pesantemente condizionata dalla presenza pubblicitaria. Sono consapevole che molta della comunicazione in Internet è possibile solo grazie agli introiti pubblicitari, ma credo che anche in tal caso sia giusto non giungere ad eccessi quantitativi, che alla fine, per il fastidio provocato agli utenti, genera atteggiamenti reattivi di rifiuto degli stessi prodotti e servizi reclamizzati. Personalmente ho scelto di evitare la consultazione di siti dove la pubblicità è eccessiva e la sua presenza ridondante danneggia la regolare fruizione dei contenuti offerti e quando è data la possibilità (che, a mio avviso, sarebbe doverosa sempre) di oscurare gli annunci, in genere mi avvalgo di tale facoltà. Nell’uso della comunicazione c.d. social (per es. Facebook) evito il più possibile l’uso e il ricorso agli strumenti promozionali ad essi connessi. In rete tuttavia la pubblicità non risparmia anche quella che è diventata oggi la nostra principale, e forse più importante forma comunicativa, cioè la posta elettronica, che posso affermare senza ragionevole ombra di dubbio, ha di fatto soppiantato la tradizionale comunicazione postale. La posta elettronica oggi, per ciascuno di noi non è un’opzione in più, ma è un riferimento obbligato e necessario (basti solo pensare che quasi tutti noi abbiamo ricevuto la convocazione per il vaccino mediante una mail). Non avere un recapito di posta elettronica, oppure non usarlo o non consultarlo con regolarità, costituisce per tutti noi una grave limitazione nelle ordinarie relazioni sociali e comunicative. Non sono lontano dal vero dicendo che il suo non uso, rasenta l’irraggiungibilità. Però è altrettanto vero che la posta elettronica risulta invasa dalla pubblicità, che per la eccessiva quantità spesso copre o nasconde la messaggistica vera. A parte l’enorme numero di messaggi pubblicitari che vanno quotidianamente ad aggiungersi ai messaggi veri e utili (il loro inserimento tra gli spam, ne limita solo molto parzialmente il quantitativo totale). Un po’ tutte piattaforme di posta elettronica, poi, permettono la lettura dei messaggi solo se affiancata o contornata da messaggi pubblicitari e facciamo così fatica a leggere e a prestare la dovuta attenzione al contenuto del messaggio pervenuto, con il rischio concreto e reale che qualche messaggio importante possa non venir letto.

Personalmente non avrei nulla contro la presenza affiancata di un messaggio pubblicitario, ma spesso siamo costretti a leggere i messaggi in una schermata dove sono contemporaneamente presenti 4-5-6 messaggi promozionali sulle cose più diverse. L’eccesso a mio avviso è sempre dannoso e anche controproducente. Sarebbe pertanto utile l’adozione di misure normative adeguate che tutelino l’uso della posta elettronica dai possibili danni derivanti ai cittadini dall’eccessiva presenza di messaggi pubblicitari nei recapiti di posta elettronica.

 

 

La stampa e la pubblicità.

 

La pubblicità poi tradizionalmente condiziona la stampa periodica e quotidiana. Alcune testate, in particolare tra i periodici, dedicano pagine intere alla pubblicità, tanto che la loro paginazione, se fosse considerata al netto della tara pubblicitaria risulterebbe percentualmente molto inferiore a quella effettiva. Anche in questo caso l’eccesso pubblicitario, oltre ad appesantire la pubblicazione, si traduce in un eccesso di consumo di carta. Personalmente ho l’onore collaborare con una piccola rivista, che però, per precisa scelta editoriale, non fa ricorso alla pubblicità e vive solo ed esclusivamente grazie al sostegno riconosciutole dai propri lettori grazie agli abbonamenti sottoscritti e all’acquisto dei numeri pubblicati. È un’esperienza piccola, ma nella quale crediamo e sinora i nostri lettori ci hanno permesso di operare. I conti non sono in rosso, non possiamo fare lussi, ma andiamo avanti con fiducia. Fare a meno della pubblicità, o, in alternativa, farne poca in una quantità umanamente accettabile è cosa possibile, basta volerlo e crederci.

 

 

E, infine, la pubblicità in tv.

 

E veniamo, infine, veniamo al campo dove la pervasività pubblicitaria si manifesta nella forma, a mio avviso, più pesante e invasiva nella nostra quotidianità, cioè quello della comunicazione televisiva. Nella programmazione televisiva la presenza della pubblicità è ormai pressoché continua. Gli spot interrompono ripetutamente le trasmissioni e messaggi pubblicitari sono presenti nelle stesse trasmissioni e nelle fiction. Personalmente ho scelto di non seguire le cosiddette tv commerciali che ufficialmente dovrebbero reggersi solo sugli introiti derivanti dalla pubblicità. Per la verità sono stato aiutato in questa scelta dal carattere decisamente scadente della loro programmazione. La pubblicità tuttavia in tutte le tv danneggia gravemente sia gli utenti, che sono materialmente bombardati da messaggi, sia la qualità delle trasmissioni, che viene con difficoltà gustata dagli ascoltatori, sia, infine, la stessa finalità promozionale della pubblicità per la generazione di un pesante feedback di rifiuto derivante dall’eccesso comunicativo.

Oltre la quantità eccessiva, nella pubblicità televisiva si registrano anche altre modalità di erogazione che offendono gli ascoltatori.

Numerosi spot vengono ripetuti tantissime volte a poca distanza temporale. Nel corso di una stessa sera ci si ritrova a seguire a più riprese lo stesso identico messaggio promozionale. È vero, come dicevano gli antichi latini “repetita iuvant”, è altrettanto vero, come completiamo noi napoletani in latino maccheronico che “sed… scocciant”. Non sarebbe una cattiva idea quella almeno di limitare le ripetizioni.

È poi ormai abbastanza normale che la tv accompagni i nostri pasti quotidiani. E allora può capitare che mentre si sta gustando un piatto appetitoso, puntualmente arrivi uno spot promozionale di un medicinale lassativo o lenitivo della prostatite, e allora il piacere della tavola va a farsi benedire. Non ci vorrebbe molta capacità programmatoria per evitare la messa in onda nelle ore, abitualmente destinati ai pasti, di pubblicità poco adatte a tali momenti.

La messa in onda di spot pubblicitari si accompagna, pressoché sempre a un consistente e spesso fastidioso aumento dell’audio, che ci costringe a dover ricorrere al telecomando per la conseguente sua regolazione, sia all’inizio che alla fine dell’interruzione pubblicitaria. Non sarebbe, anche in questo caso, preferibile evitare di modificare il livello dell’audio? La cosa per altro avrebbe anche l’effetto di ridurre che il ricorso al telecomando, sia per noi anche l’occasione per una carrellata sulle programmazioni contemporanee di altre emittenti, col risultato di vanificare o almeno spezzettare gli stessi messaggi pubblicitari.

 

 

È necessario che i pubblici poteri intervengano.

 

Personalmente penso che a noi telespettatori debba essere riconosciuto il diritto sacrosanto di poter decidere, di volta in volta, se vedere o meno la pubblicità, e di quale quantità fruirne. Credo che sia un diritto indiscutibile di noi cittadini il poter decidere di poter fruire di messaggi pubblicitari, o di decidere di non fruirne, o ancora di decidere di fruirne nei tempi e nelle quantità volute. Sono pertanto convinto che le istituzioni democratiche debbano affrontare con serietà questo problema e operare affinché venga approntata e approvata una legislazione che superi lo spezzettamento pulviscolare della pubblicità, disponendo la necessità e l’obbligatorietà di concentrarla in modalità tempistiche di erogazione (debitamente programmate e pubblicizzate) che consenta agli ascoltatori di poter scegliere se fruirne o meno. Ciascuno di noi così potrà scegliere se seguire o meno la pubblicità e di seguirne la quantità desiderata e nei propri tempi di gradimento. Non credo che tale provvedimento determinerebbe una fuga dalla fruizione della programmazione pubblicitaria, sarebbe a mio avviso, oltre che un doveroso atto di rispetto per un diritto indiscutibile di noi cittadini, anche una ghiotta occasione per un miglioramento della qualità dei prodotti pubblicitari, decisamente fatta calare a picco dall’eccesso quantitativo. Una maggiore cura della qualità unita a una concentrazione temporale e a una riduzione dell’eccesso quantitativo non mancherà di incidere positivamente sulla potenzialità promozionale e sulla capacità di attrarre telespettatori.

Mi auguro che in un prossimo futuro si possa sperare di poter lasciare la nostra attuale condizione di massa di “dipendenza da spot” per addivenire a una matura e libera opportunità di essere fruitori di una comunicazione promozionale pubblicitaria responsabile e di qualità. Anche la nostra economia ne guadagnerà senza dubbio. Le cose buone vanno gustate nei giusti modi e nella giusta quantità.

 

Vico Equense, lì 29 luglio 2021

Sergio Sbragia

martedì 19 gennaio 2021

Consiglio di “guerra” permanente

Mentre formulo queste riflessioni è in corso nell’aula del Senato il confronto tra le forze politiche per dare o negare la fiducia al governo. Non conosco quindi l’esito della seduta. Ma sono spinto a prendere posizione da notizie di stampa che parlano dell’attivazione da parte dei leaders del centro-destra di una sorta di «consiglio di guerra permanente» per poter porre pienamente a punto tutte le capacità e le iniziative della propria coalizione al fine di scongiurare a Palazzo Madama il riconoscimento della fiducia al governo Conte.

Naturalmente non è mio intendimento porre in discussione la legittimità per le forze politiche di manifestare nel modo più aperto e libero la propria posizione su tutti i temi e su tutte le azioni che riguardano il governo del paese.

Sono però decisamente contrario a che nel dibattito politico di un paese democratico si faccia ricorso, anche in termini solo metaforici, a un linguaggio che usa simboli di guerra e di violenza. La  contrapposizione politica può essere rappresentata efficacemente anche senza richiamare la “guerra”.

Oggi nel mondo in tanti paesi sono in corso conflitti bellici, con i conseguenti carichi di lutti e di rovine. Il solo rispetto per tanta sofferenza dovrebbe indurre a far sì che il confronto democratico sia condotto in forma serrata, ma mettendo al bando anche sul solo piano del linguaggio ogni riferimento alla cultura della guerra e della violenza, tenendo sempre alta la considerazione del valore civile che, per il bene del paese e dei cittadini, è rivestito dalla qualità del dibattito politico.

Tra pochi giorni celebreremo la “giornata della memoria”, il ricordo dei tragici frutti dell’ultimi conflitto mondiale e dell’odio razziale dovrebbe spronare noi tutti a mettere definitivamente in soffitta anche la sola idea di “guerra”.

So benissimo che non era nelle intenzioni di chi ha coniato l’espressione «consiglio di guerra permanente» il dar vita a operazioni militari o violente, e che l’espressione si colloca su un piano di carattere puramente metaforico, ma sarebbe, a mio avviso, del tutto opportuno, porre al bando della comunicazione politica ogni riferimento alla guerra e alla violenza, nonché rifuggire dal genere dell’insulto e dai toni della prepotenza e del bullismo mediatico. Sono i contenuti a definire la distinzione tra le proposte politiche in campo, non l’aggressività mediatica. La concorrenza è auspicabile che venga indirizzata verso il meglio e non verso il peggio.

D'altronde solo qualche settimana fa abbiamo avuto modo di vedere come in America, il ricorso ai toni aggressivi e violenti da parte del presidente Trump, abbia avuto degli esiti (di certo non voluti) di estrema gravità per il sistema democratico statunitense. La cosa è certamente andata ben oltre le intenzioni del presidente Trump, ma nell’attuale epoca di comunicazione globale è necessario essere molto prudenti e attenti a non cedere a derive (anche non volute) di incitamento alla violenza.

La lingua italiana ha una grande ricchezza (quest’anno ricordiamo il grande contributo di Dante) e ci offre un’infinità di modi per esprimere con forza, con chiarezza e con determinazione le nostre idee e le nostre proposte. Evitiamo d’imbarbarire il confronto politico con il linguaggio della violenza e della prepotenza. È una questione di civiltà politica.


Vico Equense, martedì 19 gennaio 2021

Sergio Sbragia