martedì 29 aprile 2014

Suggerimento di lettura : Il Vangelo della famiglia









Sempre sul tema delicatissimo dell’interdizione dalla mensa eucaristica attualmente vigente nei confronti dei fedeli divorziati e risposati, in questi giorni ho avuto la significativa opportunità di leggere un altro contributo di grande rilievo, del quale consiglio senza dubbio la lettura:

Papa Francesco – Primo concistoro : Il Vangelo della famiglia : La relazione Kasper e il dibattito sulla comunione ai divorziati risposati / Giovanni Cereti. – «Il Regno : quindicinale di attualità e documenti : Attualità», 59. (2014) 06, p. 148-150.

Come per il pezzo di Raniero La Valle, del quale ho dato conto alcuni giorni fa, anche quest’articolo di Giovanni Cereti (che ai temi della famiglia e del matrimonio ha dedicato anni studio e di riflessione) prende l’avvio dalla scelta di papa Francesco di conferire, nel quadro della prospettiva di rinnovamento complessivo che sta proponendo all’intera comunità ecclesiale, una priorità e un rilievo del tutto particolari ai temi del matrimonio e della famiglia, che senza dubbio oggi sono investiti da dinamiche e tensioni che, sul piano ecclesiale, non è possibile sottovalutare né continuare a ignorare.
Segno di quest’orientamento di papa Francesco è la convocazione dell’Assemblea straordinaria del Sinodo mondiale di vescovi, che si aprirà nel prossimo autunno e dovrà concludersi nella seconda metà del 2015, e che, per le modalità inedite di preparazione poste in atto e quelle di svolgimento previste, sembra destinato a produrre, su tali temi di grande delicatezza umana e pastorale, delle decisioni ampiamente sentite e condivise nel corpo ecclesiale.
Nella consapevolezza della rilevanza nel quadro della vita cristiana dei temi del matrimonio e della famiglia e della necessità di un adeguato tempo di maturazione per consentire su tali temi un’autentica metànoia, papa Francesco ha scelto che la riflessione in proposito fosse aperta da sùbito, già nel Concistoro dello scorso febbraio, ove il tema è stato introdotto dal card. Walter Kasper.
Nella sua relazione introduttiva, in effetti, il card. Kasper ha posto in evidenza come sia particolarmente importante essere capaci di riscoprire la lieta novella di Gesù intorno alla famiglia. E questo è particolarmente vero nell’odierna crisi antropologica e culturale che, accanto a un grande numero di positive esperienze familiari, registra anche tanti casi di paura a dar vita a una nuova famiglia, nonché tanti fallimenti di progetti di vita avviati anche sotto i migliori auspicî.
Nella prima parte della sua presentazione, dedicata alla «famiglia nell’ordine del creato», il card. Kasper, richiamandosi all’insegnamento dell’apostolo Paolo in Rm. 2,14-15 («Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono»), prende le mosse da una riflessione che considera la famiglia una realtà e un istituto di diritto naturale, un’impostazione questa che può favorire il dialogo intorno al rispetto della dignità di ogni persona umana  anche all’interno della famiglia. Il card. Kasper, tuttavia, precisa che quanto è riconosciuto sul piano del diritto naturale, riceve un’interpretazione concreta nella rivelazione, nella seconda tavola del Decalogo, ma soprattutto grazie ai due racconti della creazione di Genesi (cc. 1-2), che offrono la rivelazione del disegno di Dio sull’uomo e sulla donna, creati a immagine di Dio e donati da Dio l’uno per l’altra. Ciò non toglie che la Scrittura pone in evidenza anche l’esperienza umana del peccato, che travolge anche i rapporti fra uomo e donna e la stessa realtà della famiglia. La rivelazione cristiana mostra poi come Gesù assuma il matrimonio e la famiglia nell’ordine della redenzione dell’umanità, tanto che «l’alleanza stretta tra i coniugi diventa segno e sacramento dell’alleanza di Dio con il suo popolo che si è compiuta in Gesù Cristo».
Entrando più nel merito degli aspetti di maggiore problematicità del matrimonio, che come sacramento è sia via di guarigione dal peccato, sia àmbito di effusione della grazia, il card. Kasper sottolinea come afferisca alla dimensione più piena della dignità della persona umana la possibilità di poter assumere delle decisioni definitive, che contrassegnano in forma permanente la storia personale.  È tuttavia verificabile che è concreta esperienza umana anche il venir talora meno a scelte di dimensioni definitive. Ciononostante  è necessario aver presente che, grazie alla misericordia di Dio, sono sempre possibili il perdono, la guarigione e un nuovo inizio.
A questo punto, nel quadro della presentazione della famiglia come chiesa domestica, si ricorda «che ogni cristiano, sposato o no, abbandonato dal proprio partner o cresciuto da bambino o da giovane  senza contatti con la propria famiglia, non è mai solo o smarrito, è di casa in una nuova famiglia di fratelli e sorelle», la comunità ecclesiale. In effetti, il Vangelo della famiglia trova la sua concretizzazione nella chiesa domestica e non bisogna dimenticare che la chiesa dei primi secoli si è incarnata proprio nelle chiese domestiche, che, sia pur in forme diverse si sono riproposte in tutte le epoche e fino a oggi.
Giungendo ad affrontare il problema dei divorziati risposati, il card. Kasper, pur evidenziando che si tratta di un problema relativamente nuovo, sorto dopo l’introduzione nelle nostre società dell’istituto del matrimonio civile, sottolinea con forza che è un problema che va affrontato nel contesto di una pastorale matrimoniale e familiare globalmente considerata. A questo proposito assume una posizione molto chiara: «tutti sanno che esistono situazioni in cui ogni ragionevole tentativo di salvare un matrimonio risulta vano. L’eroismo dei coniugi abbandonati che rimangono soli e vanno avanti da soli merita la nostra ammirazione e sostegni. Ma molti coniugi abbandonati dipendono, per il bene dei figlî, da un nuovo rapporto e da un matrimonio civile, al quale non possono rinunciare senza nuove colpe. Spesso, dopo le esperienze amare del passato, queste relazioni fanno provare loro nuova gioia, addirittura talvolta vengono percepite, come dono dal cielo».
Di fronte a questa realtà il card. Kasper sottolinea la piena consapevolezza del non poter venir meno alle parole del Signore sul matrimonio e alla tradizione viva della Chiesa, ma anche dell’esigenza di essere pienamente fedeli alla misericordia di Dio, per la quale non esiste situazione umana che sia assolutamente priva di speranza e di soluzione. Questa situazione ricorda, secondo il card. Kasper, una situazione in parte analoga con quella vissuta dalla comunità ecclesiale all’epoca del Concilio ecumenico Vaticano 2°. Anche allora, in  merito a temi di grande rilevanza quali l’ecumenismo e la libertà religiosa, ci si venne a trovare dinanzi a encicliche e decisioni del Sant’Uffizio che sembravano precludere ogni possibile evoluzione. L’assemblea conciliare, di fronte alle sollecitazioni ineludibili provenienti dalla società dell’epoca, con l’assistenza dello Spirito, seppe individuare i sentieri più adatti per rispondere alle nuove esigenze proposte dalla storia senza venir meno alla tradizione della fede apostolica.
Un compito analogo si pone oggi dinanzi alla comunità ecclesiale proprio a proposito della questione dei fedeli divorziati e risposati. Rispetto a questa sfida il card. Kasper, premettendo che non si può individuare una soluzione univoca valida per ogni caso, visto che i casi sono notevolmente differenti tra loro, propone due possibili piste di soluzione.

La prima ipotesi di soluzione riguarda l’attività dei tribunali ecclesiastici nel giudicare le eventuali ragioni di nullità matrimoniale, nei cui riguardi sottolinea l’esigenza di considerare se può realmente sussistere la realtà sacramentale del matrimonio, se questo viene contratto senza fede o senza la piena e consapevole accettazione dei valori della fedeltà e dell’indissolubilità quali tratti essenziali del matrimonio cristiano.
In merito a questa prima pista di soluzione, proposta dal card. Kasper, mi sembra opportuno richiamare la sostanziale messa in guardia operata da Raniero La Valle nel suo contributo Gesù e la donna dai cinque mariti, di cui ho dato conto mia riflessione di sabato 26 aprile scorso. La Valle sostiene che quella dell’estensione oltre misura dei casi di nullità matrimoniale sarebbe una falsa soluzione. Negando la piena realtà sacramentale di un maggior numero di matrimonî, rispetto a quanto avviene oggi, solo in apparenza si darebbe una risposta al vero problema che si pone. Certamente molti coniugi cristiani potrebbero risposarsi, le componenti ecclesiali contrarie a un’evoluzione dottrinale vedrebbero pienamente salvaguardato il principio dell’indissolubilità e la struttura istituzionale della Chiesa manterrebbe la potestà di pronunciarsi al più alto livello in materia di validità e nullità matrimoniale. Ma, a giudizio di La Valle, sul piano etico è di certo più significativo un divorzio contrassegnato dalla sofferenza e dal riconoscimento di un insuccesso piuttosto che la possibile finzione di un matrimonio reale e ricco di valori negato come non sussistente sin dall’origine. D’altronde anche lo stesso card. Kasper è convinto che «molti divorziati non vogliono la dichiarazione di nullità. Dicono: abbiamo vissuto insieme, abbiamo avuto figlî; questa era una realtà, che non si può dichiarare nulla, spesso solo per ragione di mancanza di forma canonica del primo matrimonio». Allora appare inevitabile confrontarsi con la vera questione, che è quella dell’avvenuta dissoluzione di un matrimonio tra battezzati, pienamente valido sotto il profilo della disciplina canonica, che tuttavia non è riuscito a mantenere nel tempo la stabilità del legame coniugale.

La seconda pista di soluzione, suggerita dal card. Kasper, fa invece diretto riferimento alla prassi penitenziale della Chiesa antica, che soleva offrire un’opportunità di salvezza anche ai responsabili dei peccati più gravi. È il caso, per esempio, dell’atteggiamento assunto nei confronti di fedeli che avevano compiuto gesti oggetto di grave considerazione morale, quali l’apostasia nel corso di una persecuzione (è il caso dei cosiddetti lapsi) e l’adulterio, inteso come abbandono del coniuge per contrarre un altro matrimonio. Questo atteggiamento di tolleranza è testimoniato da varî padri della Chiesa, poiché questa prassi assunse una notevole rilevanza nel corso della controversia con l’impostazione rigorista praticata dai novaziani (seguaci dell’antipapa Novaziano del 3° sec.), che escludevano nella forma più assoluta dalla comunione apostati, omicidi e adulteri, anche se profondamente pentiti. Questa linea pastorale tollerante fu inoltre riconfermata, sempre in contrapposizione ai novaziani, anche nel Concilio di Nicea. Il canone 8 di questo Concilio, subordinava la riammissione dei novaziani alla comunione ecclesiale all’esplicita sottoscrizione di un impegno a «essere in comunione (ecclesiale ed eucaristica, secondo il nostro linguaggio) con coloro che vivono un secondo matrimonio e con coloro che sono caduti nella persecuzione, una volta che hanno osservato il tempo della penitenza e sono stati riconciliati».

La realtà della Chiesa del 4° sec. (epoca del Concilio di Nicea) presenta un singolare aspetto di analogia con la situazione attuale. Allora, come oggi, i cristiani vivevano in un contesto sociale variegato, ove pagani ed ebrei ammettevano normalmente forme di scioglimento del matrimonio (sia che fosse la pratica del ripudio e quella del divorzio). Di conseguenza era frequente che i cristiani si trovassero, anche nelle stesse comunità, fianco a fianco con fedeli che potevano aver fatto esperienza di scioglimento del vincolo matrimoniale. Rispetto a questa realtà il canone 8 di Nicea costituisce una chiara attestazione di una prassi consolidata nella Chiesa cattolica e apostolica dell’epoca in base alla quale si riammetteva nella comunità, dopo un preciso itinerario penitenziale, gli apostati nella persecuzione e quanti vivevano un secondo matrimonio (tra i quali numerosi dovevano essere anche quanti oggi chiameremmo divorziati risposati).
Prendere sul serio quanto a suo tempo riconosciuto con il canone 8 di Nicea, significherebbe, a giudizio di Giovanni Cereti, «riconoscere alla Chiesa il potere di rimettere tutti i peccati, compreso il gravissimo peccato definito come adulterio nell’Evangelo. Gesù ha ricordato come la monogamia assoluta sia conforme al disegno del Creatore, ma non ha mai dichiarato che questo peccato di adulterio debba essere considerato un peccato contro lo Spirito Santo, non remissibile da chi nella Chiesa ha ricevuto il potere di legare e di sciogliere, per cui questo potere veniva a ragione rivendicato dalla Chiesa dei primi secoli».
Le proposte avanzate dal card. Kasper nel corso del Concistoro hanno naturalmente sollevato numerose obiezioni da parte delle componenti ecclesiali più intransigenti. Nella riflessione che nei prossimi mesi vedrà impegnato l’intero corpo ecclesiale, Giovanni Cereti, sottolineando che nessuno intende porre in discussione il valore dell’indissolubilità di un matrimonio sacramentale rato e consumato, invita a che questo insegnamento sia compreso in piena coerenza con il messaggio di Gesù sull’infinita misericordia di Dio per chiunque si converte. L’altro invito è quello a tener conto dell’intera tradizione della Chiesa che, come abbiamo visto, sull’argomento in questione non è così unilineare, come a prima vista potrebbe sembrare.
In conclusione, il contributo di Giovanni Cereti si segnala un ottimo approfondimento del delicato tema della possibile riammissione alla mensa eucaristica dei fratelli divorziati e risposati. Fornisce una ricca messe d’informazioni circostanziate. È davvero consigliabile leggerlo per avere un quadro chiaro della questione.
La comunità ecclesiale nel lontano 4° secolo seppe reagire con sapienza pastorale alle derive rigoriste d’ispirazione novaziana. Saprà fare altrettanto la Chiesa del 21° secolo? Io sono convinto di sì!

Sergio Sbragia
Vico Equense, martedì 29 aprile 2014

sabato 26 aprile 2014

Suggerimento di lettura : Gesù e la donna dai cinque mariti







Sull’ultimo numero di «Rocca», che è davvero un’autentica miniera di stimoli e provocazioni  di alto profilo, sono stato davvero conquistato dal contributo di Raniero La Valle:



Gesù e la donna dai cinque mariti / Raniero La Valle. – «Rocca : Quindicinale della Pro Civitate Christiana», 73. (2014) 08, p. 43-46.



La Valle prende di petto la sofferenza prodotta nella comunità ecclesiale dall’interdizione dalla mensa eucaristica attualmente vigente nei confronti dei fedeli divorziati e risposati, in vista della prossima Assemblea straordinaria del Sinodo mondiale dei vescovi, convocata da papa Francesco sui temi della famiglia e per la cui preparazione è stata avviata una consultazione d’ampiezza davvero inedita.

L’autore si confronta con l’ipotesi formulata dal cardinal Walter Kasper nel corso del Concistoro dello scorso febbraio, che ha prefigurato un possibile itinerario per la riammissione alla mensa eucaristica delle persone divorziate e risposate, dopo aver seguìto un percorso penitenziale.

La Valle riconosce alla proposta del card. Kasper il merito di riportare la riflessione ecclesiale sulla dottrina dell’indissolubilità del matrimonio alla fonte da cui essa è scaturita, cioè il Vangelo, che, Tommaso d’Aquino, non è una legge scritta ma è dono della grazia dello Spirito santo. L’autore non si nasconde le difficoltà che la proposta Kasper si trova dinanzi  e dà conto delle reazioni che sono già venute alla luce da parte di quelle componenti della comunità ecclesiale contrarie a ogni evoluzione della vigente disciplina canonica sul matrimonio, perché convinte che non sia nel potere della Chiesa modificare tale impalcatura normativa, che è ritenuta come pienamente radicata nello stesso insegnamento di Gesù.

Secondo La Valle, invece, la Chiesa non «dovrebbe avere paura di rimettersi in condizione di povertà e di rinnovata disponibilità all’ascolto della Parola, di fronte alla propria stessa dottrina dell’indissolubilità del matrimonio quale si è andata strutturando e irrigidendosi nei secoli». A tal proposito appare pertanto necessario ricordare che la dottrina e la fede non sono due realtà del tutto coincidenti. La dottrina, lungi dall’esaurire l’intera dimensione della fede, è piuttosto il modo in cui la fede viene presentata nel tempo e del tempo risente necessariamente i condizionamenti. Si rivela pertanto urgente comprendere nella sua profondità la dottrina ed enunciarne la verità nei modi richiesti dalla nostra epoca. E per far questo «occorre interrogare il Vangelo, come se fosse scritto per gli uomini d’oggi».

A tal proposito La Valle pone senza mezzi termini in evidenza i limiti della lettura della realtà del matrimonio operata dall’Esortazione apostolica Familiaris consortio di papa Giovanni Paolo 2°, che appare prevalentemente polarizzata sulla presentazione del matrimonio cristiano indissolubile quale simbolo dell’unione indissolubile di Cristo con la Chiesa. L’indicazione di tale funzione simbolica nell’Esortazione apostolica di papa Wojtyla assume, ad avviso di La Valle, un rilievo del tutto esclusivo relegando ai margini ogni considerazione sul «matrimonio come realtà terrena, umana, storica, sociale». La riflessione cristiana, lungo i secoli, per indicare la relazione misteriosa e inscindibile sussistente tra Gesù Cristo e la Chiesa ha fatto ricorso, oltre alla realtà dell’unione coniugale uomo-donna, anche all’uso simbolico  di molteplici altre realtà umane, che possono dare un’idea calzante (sia pur sempre imperfetta) della realtà unica e per molti aspetti del tutto ineffabile della comunione della Chiesa in Cristo (la relazione tra il capo e le membra dello stesso corpo, la vigna, il popolo, il gregge, l’ovile, ecc.). «Ma nel caso dell’immagine coniugale la metafora si scambia con la realtà e subisce una curiosa inversione, una sorta di ritorno di fiamma esplosivo; se l’unità in una sola carne della coppia sposata è presa all’inizio come umanissimo simbolo delle nozze tra Cristo e la Chiesa, il modello si rovescia e l’unità soprannaturale tra Cristo e la Chiesa diventa il modello obbligante dell’unità naturale del matrimonio tra battezzati, investiti così di un compito pubblico di “rappresentazione reale del rapporto tra Cristo e la Chiesa”, il cui peso sulla loro vita privata può diventare schiacciante».

L’indissolubilità del matrimonio, pur presentata come dono di Dio ai coniugi cristiano, assume talora la dimensione della vocazione vitale e talaltra quella del comandamento. Quest’ultimo aspetto finisce tuttavia per predominare sull’altro quando s’indica la testimonianza dell’indissolubilità come uno dei doveri più preziosi e urgenti delle coppie cristiane di oggi.

«Ma in questo modo – osserva ancora Raniero La Valle – il dono di Dio diventa vincolo, […] che se da Dio giunge all’uomo come dono, dall’uomo torna a Dio come olocausto». E questa presentazione della scelta gioiosa di uomini e donne di unire, nel concreto della vita, il proprio destino appare a La Valle riduttiva e in qualche modo è percepita come stridente con la più autentica volontà di Dio, che dice «misericordia voglio, non sacrificî».

Riprendendo l’invito di papa Francesco (Evangelii gaudium, 47), Raniero La Valle sostiene poi la convinzione che le porte dei sacramenti non debbano venir chiuse per ragioni non adeguatamente fondate. Quanto poi all’eucarestia sottolinea l’esigenza di dar luce al suo essere rimedio e alimento per i deboli, più che premio per i perfetti. È opportuno, aggiungo io, che il vitello grasso fu messo a tavola per il ritorno del figlio prodigo e non per la perseveranza del figlio rimasto a casa.

A questo punto La Valle apre un sentiero di riflessione esegetica davvero stimolante, attraverso la proposizione di una rilettura attualizzante della risposta evangelica di Gesù sul tema del “ripudio”, ben sapendo che «non è il Vangelo che cambia, ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio». È su questo testo che tradizionalmente si fa risalire la fondazione dell’indiscutibilità della dottrina dell’indissolubilità, come elemento voluto dallo stesso Gesù. «L'uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mt. 19,3) è questa l’affermazione di Gesù, che sottolinea anche che se Mosè aveva permesso una deroga in proposito, ciò era dovuto alla «durezza dei cuori» degli uomini. La Valle esordisce ponendo in evidenza che la «durezza di cuore» denunciata da Gesù era riferita all’istituto del ripudio della donna parte dell’uomo e non al divorzio (che, nell’Israele del 1° secolo non esisteva) e poi sottolinea come anche in questo caso Gesù evita accuratamente la tentazione della casistica nella quale in più occasioni tentano di farlo cadere e riporta il discorso sul piano essenziale, quello dell’originario ordine della creazione. Riprendendo un’omelia di papa Francesco (Santa Marta, 28 febbraio 2014), La Valle fa presente come Gesù abbia nell’occasione riportato il rapporto tra l’uomo e la donna al capolavoro della creazione, al dato essenziale della creazione come maschî e femmine, al fatto che Dio non abbia voluto l’uomo da solo, ma con la sua compagna di cammino. E qui l’argomentazione di La Valle si fa stringente «se in tal modo si torna “all’inizio della rivelazione”, si vede che in quel quadro descritto dalla Genesi ed evocato da Gesù non c’è una comunità umana di uomini e di donne in cui possa darsi fedeltà o infedeltà, adulterio, divorzio o ripudio. Lì ci sono solo un uomo e una donna prototipo degli universi maschile e femminile che avrebbero abitato la terra, e il problema antropologico che da lì avrebbe attraversato tutti i luoghi e tutti i tempi  non era che l’uomo non scegliesse un’altra donna che non c’era, ma che l’uomo non ripudiasse la donna come aiuto simile a lui, e che mai si rompesse l’alleanza tra l’uomo e la donna in tutto il corso della storia a venire, perché se questo fosse avvenuto l’ordine della creazione ne sarebbe stato sconvolto, e la catastrofe umanitaria sarebbe sopravvenuta fin dal principio. Ciò che tiene in piedi il mondo è infatti l’unità inscindibile, della donna e dell’uomo». Di conseguenza l’invito di Gesù a non separare ciò che Dio ha unito, anziché essere costretto in una lettura riduttiva di natura giuridica sull’indissolubilità di ogni legame matrimoniale, è molto più verosimilmente un grande invito a prendere sul serio  la realtà di una dignità femminile ancora ampiamente oltraggiata nella società odierna. «Le parole di Gesù possono perciò essere lette non tanto come un vincolo imposto al singolo matrimonio monogamico, ma come il divino appello a non rompere l’alleanza ontologica tra uomini e donne, dalla forza dell’Eros e da quella dell’Agape, e come tale veramente figura del rapporto indissolubile tra Dio e l’umanità intera».

Raniero La Valle conclude, infine, il suo intervento richiamando l’episodio dell’incontro di Gesù con la donna di Samarìa, richiamato al capitolo 4° del Vangelo di Giovanni, dove Gesù, non solo, non si fa condizionare dal pregiudizio che imponeva di non parlare con una donna, ma non esita a presentarsi come messia a una donna che aveva avuto cinque mariti e che, al momento, stava con un uomo che non era suo marito. E a una tale donna, che oggi non avrebbe diritto alla comunione, Gesù fa la rivelazione decisiva sull’autenticità del rapporto con Dio «Ma viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano» (Gv. 4,23).



Sergio Sbragia

Vico Equense, sabato 26 aprile 2014

lunedì 21 aprile 2014

Suggerimento di lettura: "Non c'è andata senza ritorno : Gianluca e Massimiliano De Serio"


Segnalo senz'altro il numero di aprile di "Art e dossier"

«Art e Dossier», 20. (2014) 309. - Firenze : Giunti, 2014.

Il numero, oltre a comprendere l'inserto redazionale di Antonio Mazzotta "Leonardeschi : Leonardo e gli artisti lombardi", è ampiamente dedicato al genere della "caricatura" con saggi dedicati a Jacovitti, ad Andrea Pazienza, alla rivista "Frigidaire", a Henri Gustave Jossot, a Wilhelm Busch, a Honoré Daumier, all’accademia milanese dei “facchini”, a Leonardo e a Quentin Metsys.
Tra i contributi su altri argomenti suggerisco senz'alcun dubbio l'articolo presentato nella rubrica "L'arte in coppia":

Cristina Baldacci, "Non c'è andata senza ritorno : Gianluca e Massimiliano De Serio", p. 12-15.

E' una bella presentazione di due giovani artisti torinesi, i gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio, che attraverso la propria produzione hanno seguìto un accattivante itinerario d’indagine sulla condizione umana, esaminata secondo una prospettiva etnico-culturale e socio-politica, che li ha visti privilegiare figure esemplari di comunità marginali. La loro produzione documentaristica rivela, come acutamente osserva Cristina Baldacci, è «uno sguardo lucido, compassionevole e partecipe, ma non ideologico, su una realtà che riguarda tanto la periferia geografica e urbana, quanto quella dell’animo».
Il più recente approdo della ricerca di questi autentici videoartisti, con le videoinstallazioni “Un ritorno” ed “Esecuzione” li ha portati a percorrere il sentiero introspettivo del ricorso all’ipnosi, che li vede ritornare sui proprî passi, senza smettere di guardare avanti. Giustamente la Baldacci conclude che «i De Serio uniscono impegno sociale e cura estetica, senza dimenticarsi del soffio poetico, che è la chiave per riuscire a mostrare anche gli aspetti più crudi della vita e rendere un’opera universalmente accessibile».

Per chi ne avesse la possibilità proprio queste due recenti opere dei due artisti torinesi sono visibili presso alcuni tra i più significativi musei di arte contemporanea.
Sia “Un ritorno” sia “Esecuzione” sono in proiezione sino al prossimo 4 maggio al MACRO, Museo d’arte contemporanea di Roma. “Un ritorno”, invece, può essere ammirato, fino al 2 maggio, anche al MA*GA, Fondazione Galleria di arte contemporanea Silvio Zanella di Gallarate (Va), e fino al 12 maggio al MUSMA, Museo della scultura contemporanea di Matera.

Il significato di lavorare nel mondo delle biblioteche



Gli amici che mi onorano di seguire le riflessioni, che ogni tanto mi permetto di rendere pubbliche, avranno di certo notato i due poli tematici intorno a cui sono solito focalizzare la mia attenzione: da un lato, le attività delle biblioteche, e, dall’altro, l’approfondimento del senso e del significato della mia esperienza di fede nel mondo di oggi.
Questi due poli, pur nella piena consapevolezza della loro rispettiva autonomia, non sono nella mia esperienza due vasi non comunicanti. In effetti nella concitata vita di oggi si tende, e per certi versi si è anche portati, a vivere in contesti diversificati che sono, di regola, contrassegnati da culture e logiche specifiche, e spesso facciamo fatica a “fare sintesi”, correndo il rischio di vivere in una modalità schizofrenica, passando ogni giorno dalla vita lavorativa a quella civile e familiare, nello stesso modo con cui un subacqueo passa da un sottomarino al mare aperto, attraversando uno o più compartimenti stagni.
La scelta di fede implica la decisione libera di seguire nella mia vita Gesù di Nàzareth, entrando in dialogo con gli uomini e le donne che incontro quotidianamente sulle strade del mondo. Da molti anni, parte essenziale della mia esperienza umana è data dal lavoro nel mondo delle biblioteche. Non posso dunque sfuggire al chiaro invito formulatoci dall’apostolo Pietro a essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt. 3,15), interrogandomi intorno a quale senso abbia, alla luce della fede, il mio impegno al servizio delle biblioteche.
La fede, in effetti, mi chiama al servizio sulla base dell’esempio offerto dallo stesso Gesù quando, in occasione dell’ultimo pasto condiviso con i discepoli, si chinò a lavar loro i piedi. La fede mi chiede quindi di vivere la realtà del lavoro per le biblioteche assumendo tutte le tensioni che attorno alla realtà concreta delle stesse biblioteche vengono sviluppandosi. E siccome le biblioteche non sono meri luoghi inerti, ma spazî reali d’azione di persone in carne e ossa, questo vuol dire far proprie tensioni e inquietudini delle menti e dei cuori di quanti nelle biblioteche operano e alle biblioteche si rivolgono.
È questa una sfida di grande impegno, che cerco in qualche modo di raccogliere e rispetto alla quale risulto quotidianamente alquanto insolvente. Eppure svolgere quotidianamente il proprio compito comporta anche scegliere una partecipazione viva e cosciente alle prove e ai problemi che interessano il mondo delle biblioteche come pienamente afferenti al nucleo centrale di tutta la questione culturale e del suo enorme rilievo sociale.
E di prove da affrontare e problemi da risolvere le biblioteche ne hanno un bel po’. Prove e problemi che dunque sono anche miei, anche nostri.
Provo brevemente a riassumere.
Con ogni probabilità la missione centrale di una biblioteca è quella di “garantire a tutti il pieno diritto di accesso  alle fonti della conoscenza e dell’informazione”. Questo valore primario dell’istituzione “biblioteca” presenta senza dubbio una profonda e reale assonanza di contenuto con la fede cristiana, ha infatti un orientamento universale (è rivolto a tutti) e mostra un’opzione preferenziale verso coloro che hanno minori opportunità e possibilità per accedere alla conoscenza e all’informazione (e la fede ci chiede di guardare in primo luogo ai piccoli, ai deboli, agli ultimi, ai poveri).
E, in proposito, le biblioteche hanno svolto, e tutt’ora svolgono, un compito di altissimo valore. Hanno posto a disposizione della libera fruizione pubblica un patrimonio enorme di conoscenza e informazione. Si sono disseminate ampiamente sul territorio, anche se non sempre in modo uniforme ed equilibrato. È stata comunque realizzata una grande azione di diffusione culturale, che, se nel mondo occidentale, può essere sotto certi aspetti considerata una generosa e meritevole operazione pioneristica del passato, nei paesi del terzo e quarto mondo è  pienamente in corso e ha di fronte ancora grandi sfide da affrontare e decisivi traguardi da conseguire.
Oltre alla disponibilità materiale di libri, le biblioteche si sono sempre fatte parte attiva per superare gli ostacoli materiali e culturali alla conoscenza. Penso alle innumerevoli attività di alfabetizzazione e di motivazione alla lettura. Penso alle molteplici e spesso anche fantasiose e geniali soluzioni per portare i libri nei luoghi di vita (e talora anche di sofferenza) dei potenziali lettori (scaffali a carrello negli ospedali, banchetti volanti nei mercati, biblioteche circolanti sulle spiagge, biblioteche nelle carceri).   
Le biblioteche si sono poi configurate come il luogo fisico di condensazione della conoscenza, il luogo dove il patrimonio culturale, lentamente e progressivamente costruito dall’umanità, si è depositato e stratificato per essere trasmesso alle generazioni future.
Ma le biblioteche sono anche luogo della socialità, luogo del crescere insieme, luogo ove si realizzano itinerarî di comune crescita culturale che arricchiscono tanto i lettori quanto i professionisti che erogano i servizî di pubblica lettura.
Il libro nella biblioteca pubblica, passando da un lettore all’altro, perde, poi, il connotato detenuto per secoli di oggetto status simbol, per divenire un oggetto condiviso protagonista di un percorso da compiere assieme, mano nella mano.
Questi e altri sono i grandi valori intorno ai quali si è declinata e si declina la professione bibliotecaria, che però da alcuni anni deve fare i conti con nuove sfide che includono anche una riconfigurazione, se non una comprensione del tutto inedita, della professione stessa, dell’istituzione (la biblioteca) e dello stesso oggetto di riferimento (il libro).
Le nuove tecnologie dell’odierna società della comunicazione, con l’offerta di inedite, molteplici, flessibili opportunità di comunicazione in rete, nonché di strumenti tecnici di grande familiarità e maneggevolezza, stanno ponendo in discussione la sopravvivenza stessa di un’istituzione come la biblioteca e di un oggetto nobile come il libro, che in un futuro non molto lontano potrebbero non esistere più, o, quantomeno avere una connotazione molto diversa da quella a cui siamo abituati.
Ho già avuto modo di sottolineare che questo aspetto, che di certo mi intriga, non mi spaventa, perché al di là delle istituzioni e dei formati materiali, l’umanità continuerà comunque a produrre conoscenza, a condensarla in formati reali (sia pur digitali), a trasmetterla, a conservarla per il futuro. Ciò che mi preoccupa, e mi preoccupa sia come credente sia come operatore del mondo delle biblioteche, sono i processi di potere che tentano di strumentalizzare le trasformazioni paradigmatiche che sono in corso nel campo della comunicazione sul piano del linguaggio e delle opportunità offerte dalla rete. Non che questi fenomeni non siano stati (e non siano) presenti nel mondo tradizionale della conoscenza trasmessa attraverso la carta, ma dobbiamo, in effetti constatare che nel processo di diffusione dei formati digitali, sul piano delle normative che ne disciplinano i diritti di diffusione, sono in atto dei processi di limitazione e discriminazione all’accesso universale, molto spesso poco trasparenti e, per altro, poco percepiti dalla cittadinanza e dall’opinione pubblica. Anzi sono di solito pericolosamente sottovalutati, in quanto abilmente mimetizzati entro un’acritica presentazione laudativa delle potenzialità comunicative globali della rete, ove ci si si guarda bene dallo stimolare un’adeguata riflessione sui costi dei diritti di accesso e sui limiti reali che all’accesso stesso vengono frapposti.
Il pesante impatto delle nuove tecnologie sul piano dei processi di formazione, condensazione e trasmissione della conoscenza e la sempre più incalzante proposta di inediti paradigmi di comprensione dei processi e dei contenuti culturali, fanno a mio avviso appello a una nuova e stimolante autocoscienza della professione bibliotecaria, che può di certo configurarsi, per chi crede, come un concreto luogo storico entro cui approfondire e sperimentare un’autentica esperienza di fede.
Ho fatto prima riferimento a quella dimensione della professione bibliotecaria protesa nell’azione di superamento di ogni forma d’ostacolo alla conoscenza. È proprio a questa dimensione promozionale della nostra professione che la nuova società dell’informazione propone una sfida che non è possibile ignorare. In realtà sul piano dell’accesso alla conoscenza, oggi, appaiono in atto processi di discriminazione, di marginalizzazione, di concentrazione e di degrado, che urge discernere, interpretare, porre in evidenza e concretamente contrastare. È un’esigenza che ha grande rilevanza, sia sul piano deontologico e professionale, sia nella prospettiva della declinazione concreta di valori etici assoluti. Ne va, infatti, dell’autenticità stessa della natura democratica delle nostre società e dell’effettivo rispetto dei valori basilari della dignità umana.
La discriminazione conoscitiva si manifesta sotto svariate spoglie. Una prima sua concretizzazione si determina sul piano materiale tra chi ha concreto e agevole accesso alle tecnologie dell’informazione e chi ne è privo o ne dispone in forma carente. È questo il fenomeno che, con un termine mutuato dall’ambiente anglosassone siamo soliti indicare come digital divide. E qui si apre lo scenario dell’azione delle biblioteche per porre a disposizione dei lettori opportunità pratiche di accesso alla rete e itinerarî assistiti per acquisire la capacità di fruirne.
Un secondo fenomeno discriminatorio è, per certi versi, una sorta di conseguenza dell’apparente disponibilità di un’enorme quantità di fonti informative e conoscitive, disponibilità rispetto alla quale non tutti sono in possesso di adeguati strumenti e capacità di orientamento, analisi, discernimento e scelta. Si tratta di ciò che comunemente chiamiamo information divide, che spesso prescinde anche dallo stesso livello di scolarizzazione dei singoli e che, come sfida, offre sconfinate praterie d’azione all’esercizio di pratiche mirate ed efficaci d’information literacy, volte a diffondere la comprensione dei bisogni informativi e la capacità d’identificare, individuare, valutare, organizzare, utilizzare e comunicare le informazioni e la conoscenza. Probabilmente è proprio l’information literacy la nuova frontiera della professione bibliotecaria quale autentico servizio al lettore per fornirgli, ogni qual volta sia necessario, l’ausilio professionale per dare risposta ai proprî bisogni di conoscenza, sia nella rete che nelle raccolte tradizionali.
Con il progressivo estendersi della rilevanza dei contenuti digitali sta manifestandosi una sempre più forte tendenza a monopolizzare la conoscenza, facendo leva sul principio in sé valido della giusta retribuzione della produzione intellettuale, ma estendendolo in forma impropria e senza alcuna preoccupazione di garantire l’altrettanto doverosa garanzia del libero accesso pubblico alle fonti d’informazione e di conoscenza. Mentre sul piano delle norme di tutela dei diritti d’autore nel campo della conoscenza scritta, di norma, le leggi prevedono costi d’ordine solo forfettario per le attività di accesso alla conoscenza realizzate nelle biblioteche (in particolare le biblioteche di pubblica lettura), questo principio appare del tutto dimenticato nelle normative che via via si stanno diffondendo al fine di regolamentare il mercato della distribuzione della conoscenza digitale. Il rischio che appare decisamente concreto, man mano che la comunicazione digitale allarga la sua influenza, è che alla fine risulterà del tutto scompensata la relazione, pur necessaria, tra la tutela del diritto d’autore e la garanzia dell’accesso universale alla cultura. A soffrirne, per altro, non saranno solo i potenziali lettori esclusi per carenza di reddito e di potere, ma anche la stessa produzione culturale che ai fini della conservazione nel tempo di un alto livello qualitativo non può prescindere da un ampio e diversificato feedback da parte dei lettori. Se ragioni di reddito o di potere escluderanno ampie fette della popolazione dalla produzione culturale corrente, questa tenderà a divenire prerogativa specifica di ristrette elites specialistiche, ma tutto sommato ripiegate su se stesse e, alla lunga, condannate a un respiro culturale inevitabilmente ristretto. Ciò che, in realtà, sfugge a questi meccanismi di mercato, o meglio, di potere (tutto sommato ottusi) è che la cultura non può essere assimilata a un “talento” da sotterrare in un forziere di un lontano paradiso fiscale. Senza la contaminazione del confronto con chi legge, la produzione culturale, anche quella di maggior livello, alla fine isterilisce e si autocondanna all’imbalsamazione. Solo se viene seminata, solo se può entrare in contatto con il terreno fertile e disperdersi nel suo seno, solo allora può germogliare, crescere e dare frutto. I non tanto impliciti paralleli evangelici che ho appena evocato non mi sembrano affatto surrettizî, né fuori luogo. Sussiste a mio avviso una profonda relazione di analogia tra la  umana realtà della conoscenza e l’esperienza di fede che si nutre nell’ascolto della parola di Dio.
In effetti, l’esperienza di fede sperimenta una relazione di significato primario con il fenomeno della parola e con la capacità umana dell’apprendimento.
L’itinerario di fede dei singoli e delle comunità si gioca infatti sull’ascolto, sulla comprensione e sulla messa in pratica della parola di Dio. Parola di Dio che si esprime e si comunica agli uomini e alle donne, assumendo in pieno la realtà e la struttura della parola umana. La parola è il primo strumento utilizzato dagli uomini per comunicare ed entrare in comunicazione vicendevole. E questa realtà, la parola, è assunta da Dio per comunicare con l’umanità. La parola umana, come dimostrano gli studî, di filosofia del linguaggio, presenta una pluralità di dimensioni. È senz’altro la facoltà decisiva che segna l’ingresso nell’universo umano, è lo strumento con cui l’essere umano esprime la propria facoltà di ordinare concettualmente la realtà che si trova di fronte. Una realtà che può essere davanti agli occhî, ma che diviene comunicabile solo quando la si può denominare, definire e descrivere attraverso la parola. Ma non è solo la realtà esterna ad acquisire senso, grazie alla parola l’uomo diventa capace di comprendere se stesso, di incamminarsi nel mistero della propria interiorità, d’investigare, senza mai riuscire a definire in pieno, il mistero di essere uomo. Tutti avvertiamo infatti la necessità di rimetterci alla disciplina della parola per comprenderci ed esprimerci, anche se siamo consapevoli, che nessuna parola umana sedimenta al proprio interno il significato pieno dell’esistenza. Ma la parola è anche lo strumento primario per entrare in relazione con gli altri per comunicare. Si può quindi parlare almeno di una triplice funzione della parola. Una funzione informativa: mediante la parola è possibile dar conto di fatti, cose, avvenimenti, persone. È questa una dimensione che ha una prevalente tendenza all’oggettivazione, a fissare contenuti conoscitivi e comunicabili. È la dimensione su cui fanno perno primariamente la comunicazione scientifica, didattica e storica.
Ma la parola umana ha anche una funzione espressiva: ciascuno di noi, nell’atto stesso di parlare, “esprime” inevitabilmente qualcosa di sé. E questo avviene anche quando la finalità espressiva è di proposito esclusa dalla comunicazione. Tutti avvertiamo, quando ci càpita di ascoltare un  annuncio informativo in un luogo pubblico, la differenza che sussiste tra una comunicazione formulata dal vivo da una concreta voce umana e un messaggio pre-registrato e sintetizzato automaticamente. Anche per una semplice comunicazione, per una mera esigenza d’informazione, fosse anche il semplice indicare la strada a un passante che ce lo chiede, dobbiamo mettere in moto il nostro essere, rischiare l’uscita dalla nostra interiorità, disporci a una pur minima manifestazione di noi stessi. Sperimentiamo poi delle esperienze limite in cui la funzione espressiva della parola primeggia, pensiamo alle mille forme di manifestazione della sorpresa, della gioia, della paura, della passione, dell’amore. Pensiamo solo alla realtà della poesia e della lirica.
Infine, la parola umana dice essenzialmente relazione con l’altro: essa è inevitabilmente “appello”, per sua natura cerca gli altri esseri umani, è rivolta agli uomini e alle donne che incontriamo sulla nostra strada, perché la nostra esperienza è innanzitutto “relazione”. Cerchiamo quotidianamente di rendere percepibile agli altri la nostra interiorità e, allo stesso tempo, tentiamo di accogliere l’autenticità di quanto esprimono tutti coloro con i quali entriamo in relazione. La parola allora è l’autentico trait-d’union tra l’“io” e il “tu”, il principio e l’elemento costitutivo e ineliminabile di ogni comunicazione, sia essa “parlata”, “scritta” o… “digitale”. Sono tuttavia i contesti della passione umana, sentimentale, etica e civile, quello della ricerca conoscitiva sino allo spasimo dell’intelletto, quello dell’amicizia e quello dell’amore a costituire gli ambienti elettivi in cui la “parola umana” trova lo spazio per la sintesi espressiva più alta e nobile.
Quest’altissima funzione non impedisce tuttavia che nel concreto si diano esperienze di contraffazione della parola, quando essa diventa “menzogna” o quando degenera in “etichetta” o, ancora, diventa strumento d’offesa. Se attraverso la parola non emerge più la meravigliosa potenzialità creativa della relazione umana, se le parole utilizzate non vengono di continuo riprese, ricomprese, attualizzate, la relazione umana interpersonale è esposta a un progressivo quanto inevitabile degrado.
Se poi ci soffermiamo a riflettere un  po’ su quella realtà, la parola di Dio, alla quale nella visione cristiana viene riconosciuta una centralità per molti versi assoluta, possiamo agevolmente verificare come essa assuma e comprenda tutte le dimensioni della parola umana. Essa, infatti, allo stesso tempo è informazione, è espressione, è appello.
Dio, sin dai primordî, sceglie lo strumento della parola umana per parlare ai progenitori nel giardino dell’Eden, per chiamare Abramo e gli altri patriarchi, per guidare Mosè nella liberazione del popolo dalla schiavitù in terra d’Egitto, per additare ai profeti i sentieri della loro missione. Con Gesù, poi, la sapienza di Dio appare sulla terra per conversare direttamente con gli uomini in uno stile di amicizia.
Attraverso l’uso della parola umana, Dio parla agli uomini usando il linguaggio dell’amicizia e dell’amore, puntando all’instaurazione di una relazione di profonda intimità con ciascuno di noi:
-       Dio chiama: con la parola ci chiama, c’interpella, c’invita a seguirlo “se vuoi, lascia tutto e seguimi”. L’invito è chiaro: quello di anteporre la sua sequela a ogni altra cosa o preoccupazione, impostare la vita avendo come riferimento primario la sua sequela. Ma quest’invito è preceduto da una pre-condizione: “se vuoi”. La sequela di Gesù è frutto di una scelta libera e responsabile. Una scelta operata nella libertà. Un invito, quello di Gesù, rivolto a una libertà. Ciascuno di noi, in quanto destinatario di quell’invito, forte e deciso, ma pienamente rispettoso della libera sfera decisionale dell’uomo, è interpellato nella propria più nobile e piena sfera di decisionalità: quella di decidere liberamente e responsabilmente l’orientamento di fondo della propria vita. È questo in sostanza una mirabile concretizzazione della funzione “appellativa” della parola umana.
-   Dio racconta e interpreta: ma Dio lungo l’intera storia della salvezza rappresenta anche all’uomo stesso quale sia la sua funzione nella storia, quale sia la sua origine. Gli annuncia quale sia l’autentica natura dell’essere umano. Gli addita poi instancabilmente il destino di salvezza a cui è chiamato. E qui abbiamo il ricorso pieno alla funzione “informativa” della parola umana.
-       Dio s’esprime, parla di sé: con la parola Dio, infine, rivela se stesso agli uomini, manifesta la sua vita più intima, il suo essere “amore”. Abbiamo qui decisamente, e in pienezza, la funzione “espressiva” della parola umana.
La parola di Dio, che costituisce il centro della rivelazione cristiana, è nella sua autenticità molto lontana da una verità astratta o dal costituire un complesso di verità concettuali. È innanzitutto una realtà personale che cerca ogni uomo e ogni donna, li chiama, li invita. È una realtà, la parola di Dio, che richiede innanzi tutto l’ascolto, l’ascolto di un interlocutore che si fa presente nella vita delle persone. L’ascolto è di fatto la premessa di ogni dialogo e il primo passo di una nobile attitudine umana: l’apprendimento. Un apprendimento sapienziale, che sia capace di attingere a una conoscenza vitale, pienamente assaporata, che faccia ricorso a tutte le facoltà dell’essere umano e che approdi a un’adesione libera, convinta e pienamente coinvolta. A tal proposito mi piace andare col ricordo a un suggestivo racconto del Vangelo di Luca:  

«Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizî. Allora si fece avanti e disse: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma il Signore le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta"» (Lc. 10,38-42).

La scelta di Maria di Betània di porsi in ascolto ai piedi di Gesù viene definita da Gesù stesso come la “parte migliore”. Una “parte migliore” che si concretizza nell’assunzione di un atteggiamento di ascolto della parola di Gesù per farne proprio l’insegnamento. Un atteggiamento di ascolto che ha, certamente, un connotato eminentemente religioso, ma che affonda tuttavia le sue radici in una struttura fondante della psicologia umana: la capacità di apprendere. Ed è a questa capacità di apprendere che fa direttamente appello Gesù nella sua missione di maestro itinerante sui sentieri della Galilèa, della Giudèa e della Samarìa ed entrando nelle case dei discepoli che gli offrivano ospitalità. Un appello che invita all’ascolto e a mettere in moto una nobile facoltà umana che, attraverso l’ascolto, la riflessione, il discernimento, permette di conoscere, comprendere, maturare, crescere e scegliere. Un processo che mantiene tutto il suo valore e la sua intrinseca pregnanza tanto sul piano di un itinerario di fede, quanto sul piano di un laico e meramente umano percorso di apprendimento e di acquisizione di conoscenza.
E la biblioteca, non importa se raccolta fisica e materiale o concreta realtà virtuale e di rete, è comunque uno dei luoghi elettivi  ove i processi di accesso alle fonti della conoscenza e di apprendimento possono concretamente aver luogo. Un luogo dove il porsi in atteggiamento di ascolto e di ricerca può autenticamente assurgere, foss’anche sul semplice piano umano, a configurarsi come la “parte migliore”, cioè come una delle dimensioni più nobili dell’esperienza umana.  
Nel lavorare al servizio delle biblioteche, quotidianamente mi trovo fianco a fianco a condividere l’impegno professionale anche con donne e uomini che hanno diversa ispirazione di fede o riconoscono altri valori assoluti. Tuttavia non posso non riconoscere la realtà concreta di trovarmi con essi a sperimentare concreti valori di solidarietà e fraternità, intorno allo stesso banco di lavoro e al servizio dell’umanità, in particolare quella che, affinché ne sia pienamente riconosciuta e affermata la dignità, ha maggiore impellenza ad accedere alle fonti della conoscenza.
Allora non posso non formulare un invito rivolto a tutti, a quanti operano nelle biblioteche e in tutte le istituzioni culturali, affinché ciascuno, a partire dalla propria irrinunciabile scelta di fede e di valori umani e culturali, sia partecipe di un comune impegno mirante ad affermare che il diritto di accesso pubblico alla conoscenza sia universalmente tutelato e garantito. Questo è un impegno di grandissima rilevanza nell’attuale contesto storico che, apparentemente, sembra offrire sul piano della conoscenza un’inedita sovrabbondanza di opportunità, di offerte e di stimoli,  e che allo stesso tempo pone in atto poderosi processi di contaminazione, presentando (anzi degradando) la conoscenza con le vesti invadenti e manipolatrici del messaggio pubblicitario. Ed è proprio qui che affonda le proprie radici etiche e deontologiche un impegno professionale, perché la parola umana della conoscenza non sia degradata a “menzogna”, a “etichetta”, a “finzione”, a strumento convenzionale per la cattura del facile consenso, a spot ammiccante, ma sia proposta autentica di una strada per crescere, per maturare e per ridurre le distanze sociali. La cultura è, infatti, in se stessa un fattore di uguaglianza e di promozione della dignità umana e non può essere ridotta a strumento per determinare e  accrescere la stratificazione e la discriminazione sociale.

Sergio Sbragia
Vico Equense, lunedì 21 aprile 2014