lunedì 21 aprile 2014

Il significato di lavorare nel mondo delle biblioteche



Gli amici che mi onorano di seguire le riflessioni, che ogni tanto mi permetto di rendere pubbliche, avranno di certo notato i due poli tematici intorno a cui sono solito focalizzare la mia attenzione: da un lato, le attività delle biblioteche, e, dall’altro, l’approfondimento del senso e del significato della mia esperienza di fede nel mondo di oggi.
Questi due poli, pur nella piena consapevolezza della loro rispettiva autonomia, non sono nella mia esperienza due vasi non comunicanti. In effetti nella concitata vita di oggi si tende, e per certi versi si è anche portati, a vivere in contesti diversificati che sono, di regola, contrassegnati da culture e logiche specifiche, e spesso facciamo fatica a “fare sintesi”, correndo il rischio di vivere in una modalità schizofrenica, passando ogni giorno dalla vita lavorativa a quella civile e familiare, nello stesso modo con cui un subacqueo passa da un sottomarino al mare aperto, attraversando uno o più compartimenti stagni.
La scelta di fede implica la decisione libera di seguire nella mia vita Gesù di Nàzareth, entrando in dialogo con gli uomini e le donne che incontro quotidianamente sulle strade del mondo. Da molti anni, parte essenziale della mia esperienza umana è data dal lavoro nel mondo delle biblioteche. Non posso dunque sfuggire al chiaro invito formulatoci dall’apostolo Pietro a essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt. 3,15), interrogandomi intorno a quale senso abbia, alla luce della fede, il mio impegno al servizio delle biblioteche.
La fede, in effetti, mi chiama al servizio sulla base dell’esempio offerto dallo stesso Gesù quando, in occasione dell’ultimo pasto condiviso con i discepoli, si chinò a lavar loro i piedi. La fede mi chiede quindi di vivere la realtà del lavoro per le biblioteche assumendo tutte le tensioni che attorno alla realtà concreta delle stesse biblioteche vengono sviluppandosi. E siccome le biblioteche non sono meri luoghi inerti, ma spazî reali d’azione di persone in carne e ossa, questo vuol dire far proprie tensioni e inquietudini delle menti e dei cuori di quanti nelle biblioteche operano e alle biblioteche si rivolgono.
È questa una sfida di grande impegno, che cerco in qualche modo di raccogliere e rispetto alla quale risulto quotidianamente alquanto insolvente. Eppure svolgere quotidianamente il proprio compito comporta anche scegliere una partecipazione viva e cosciente alle prove e ai problemi che interessano il mondo delle biblioteche come pienamente afferenti al nucleo centrale di tutta la questione culturale e del suo enorme rilievo sociale.
E di prove da affrontare e problemi da risolvere le biblioteche ne hanno un bel po’. Prove e problemi che dunque sono anche miei, anche nostri.
Provo brevemente a riassumere.
Con ogni probabilità la missione centrale di una biblioteca è quella di “garantire a tutti il pieno diritto di accesso  alle fonti della conoscenza e dell’informazione”. Questo valore primario dell’istituzione “biblioteca” presenta senza dubbio una profonda e reale assonanza di contenuto con la fede cristiana, ha infatti un orientamento universale (è rivolto a tutti) e mostra un’opzione preferenziale verso coloro che hanno minori opportunità e possibilità per accedere alla conoscenza e all’informazione (e la fede ci chiede di guardare in primo luogo ai piccoli, ai deboli, agli ultimi, ai poveri).
E, in proposito, le biblioteche hanno svolto, e tutt’ora svolgono, un compito di altissimo valore. Hanno posto a disposizione della libera fruizione pubblica un patrimonio enorme di conoscenza e informazione. Si sono disseminate ampiamente sul territorio, anche se non sempre in modo uniforme ed equilibrato. È stata comunque realizzata una grande azione di diffusione culturale, che, se nel mondo occidentale, può essere sotto certi aspetti considerata una generosa e meritevole operazione pioneristica del passato, nei paesi del terzo e quarto mondo è  pienamente in corso e ha di fronte ancora grandi sfide da affrontare e decisivi traguardi da conseguire.
Oltre alla disponibilità materiale di libri, le biblioteche si sono sempre fatte parte attiva per superare gli ostacoli materiali e culturali alla conoscenza. Penso alle innumerevoli attività di alfabetizzazione e di motivazione alla lettura. Penso alle molteplici e spesso anche fantasiose e geniali soluzioni per portare i libri nei luoghi di vita (e talora anche di sofferenza) dei potenziali lettori (scaffali a carrello negli ospedali, banchetti volanti nei mercati, biblioteche circolanti sulle spiagge, biblioteche nelle carceri).   
Le biblioteche si sono poi configurate come il luogo fisico di condensazione della conoscenza, il luogo dove il patrimonio culturale, lentamente e progressivamente costruito dall’umanità, si è depositato e stratificato per essere trasmesso alle generazioni future.
Ma le biblioteche sono anche luogo della socialità, luogo del crescere insieme, luogo ove si realizzano itinerarî di comune crescita culturale che arricchiscono tanto i lettori quanto i professionisti che erogano i servizî di pubblica lettura.
Il libro nella biblioteca pubblica, passando da un lettore all’altro, perde, poi, il connotato detenuto per secoli di oggetto status simbol, per divenire un oggetto condiviso protagonista di un percorso da compiere assieme, mano nella mano.
Questi e altri sono i grandi valori intorno ai quali si è declinata e si declina la professione bibliotecaria, che però da alcuni anni deve fare i conti con nuove sfide che includono anche una riconfigurazione, se non una comprensione del tutto inedita, della professione stessa, dell’istituzione (la biblioteca) e dello stesso oggetto di riferimento (il libro).
Le nuove tecnologie dell’odierna società della comunicazione, con l’offerta di inedite, molteplici, flessibili opportunità di comunicazione in rete, nonché di strumenti tecnici di grande familiarità e maneggevolezza, stanno ponendo in discussione la sopravvivenza stessa di un’istituzione come la biblioteca e di un oggetto nobile come il libro, che in un futuro non molto lontano potrebbero non esistere più, o, quantomeno avere una connotazione molto diversa da quella a cui siamo abituati.
Ho già avuto modo di sottolineare che questo aspetto, che di certo mi intriga, non mi spaventa, perché al di là delle istituzioni e dei formati materiali, l’umanità continuerà comunque a produrre conoscenza, a condensarla in formati reali (sia pur digitali), a trasmetterla, a conservarla per il futuro. Ciò che mi preoccupa, e mi preoccupa sia come credente sia come operatore del mondo delle biblioteche, sono i processi di potere che tentano di strumentalizzare le trasformazioni paradigmatiche che sono in corso nel campo della comunicazione sul piano del linguaggio e delle opportunità offerte dalla rete. Non che questi fenomeni non siano stati (e non siano) presenti nel mondo tradizionale della conoscenza trasmessa attraverso la carta, ma dobbiamo, in effetti constatare che nel processo di diffusione dei formati digitali, sul piano delle normative che ne disciplinano i diritti di diffusione, sono in atto dei processi di limitazione e discriminazione all’accesso universale, molto spesso poco trasparenti e, per altro, poco percepiti dalla cittadinanza e dall’opinione pubblica. Anzi sono di solito pericolosamente sottovalutati, in quanto abilmente mimetizzati entro un’acritica presentazione laudativa delle potenzialità comunicative globali della rete, ove ci si si guarda bene dallo stimolare un’adeguata riflessione sui costi dei diritti di accesso e sui limiti reali che all’accesso stesso vengono frapposti.
Il pesante impatto delle nuove tecnologie sul piano dei processi di formazione, condensazione e trasmissione della conoscenza e la sempre più incalzante proposta di inediti paradigmi di comprensione dei processi e dei contenuti culturali, fanno a mio avviso appello a una nuova e stimolante autocoscienza della professione bibliotecaria, che può di certo configurarsi, per chi crede, come un concreto luogo storico entro cui approfondire e sperimentare un’autentica esperienza di fede.
Ho fatto prima riferimento a quella dimensione della professione bibliotecaria protesa nell’azione di superamento di ogni forma d’ostacolo alla conoscenza. È proprio a questa dimensione promozionale della nostra professione che la nuova società dell’informazione propone una sfida che non è possibile ignorare. In realtà sul piano dell’accesso alla conoscenza, oggi, appaiono in atto processi di discriminazione, di marginalizzazione, di concentrazione e di degrado, che urge discernere, interpretare, porre in evidenza e concretamente contrastare. È un’esigenza che ha grande rilevanza, sia sul piano deontologico e professionale, sia nella prospettiva della declinazione concreta di valori etici assoluti. Ne va, infatti, dell’autenticità stessa della natura democratica delle nostre società e dell’effettivo rispetto dei valori basilari della dignità umana.
La discriminazione conoscitiva si manifesta sotto svariate spoglie. Una prima sua concretizzazione si determina sul piano materiale tra chi ha concreto e agevole accesso alle tecnologie dell’informazione e chi ne è privo o ne dispone in forma carente. È questo il fenomeno che, con un termine mutuato dall’ambiente anglosassone siamo soliti indicare come digital divide. E qui si apre lo scenario dell’azione delle biblioteche per porre a disposizione dei lettori opportunità pratiche di accesso alla rete e itinerarî assistiti per acquisire la capacità di fruirne.
Un secondo fenomeno discriminatorio è, per certi versi, una sorta di conseguenza dell’apparente disponibilità di un’enorme quantità di fonti informative e conoscitive, disponibilità rispetto alla quale non tutti sono in possesso di adeguati strumenti e capacità di orientamento, analisi, discernimento e scelta. Si tratta di ciò che comunemente chiamiamo information divide, che spesso prescinde anche dallo stesso livello di scolarizzazione dei singoli e che, come sfida, offre sconfinate praterie d’azione all’esercizio di pratiche mirate ed efficaci d’information literacy, volte a diffondere la comprensione dei bisogni informativi e la capacità d’identificare, individuare, valutare, organizzare, utilizzare e comunicare le informazioni e la conoscenza. Probabilmente è proprio l’information literacy la nuova frontiera della professione bibliotecaria quale autentico servizio al lettore per fornirgli, ogni qual volta sia necessario, l’ausilio professionale per dare risposta ai proprî bisogni di conoscenza, sia nella rete che nelle raccolte tradizionali.
Con il progressivo estendersi della rilevanza dei contenuti digitali sta manifestandosi una sempre più forte tendenza a monopolizzare la conoscenza, facendo leva sul principio in sé valido della giusta retribuzione della produzione intellettuale, ma estendendolo in forma impropria e senza alcuna preoccupazione di garantire l’altrettanto doverosa garanzia del libero accesso pubblico alle fonti d’informazione e di conoscenza. Mentre sul piano delle norme di tutela dei diritti d’autore nel campo della conoscenza scritta, di norma, le leggi prevedono costi d’ordine solo forfettario per le attività di accesso alla conoscenza realizzate nelle biblioteche (in particolare le biblioteche di pubblica lettura), questo principio appare del tutto dimenticato nelle normative che via via si stanno diffondendo al fine di regolamentare il mercato della distribuzione della conoscenza digitale. Il rischio che appare decisamente concreto, man mano che la comunicazione digitale allarga la sua influenza, è che alla fine risulterà del tutto scompensata la relazione, pur necessaria, tra la tutela del diritto d’autore e la garanzia dell’accesso universale alla cultura. A soffrirne, per altro, non saranno solo i potenziali lettori esclusi per carenza di reddito e di potere, ma anche la stessa produzione culturale che ai fini della conservazione nel tempo di un alto livello qualitativo non può prescindere da un ampio e diversificato feedback da parte dei lettori. Se ragioni di reddito o di potere escluderanno ampie fette della popolazione dalla produzione culturale corrente, questa tenderà a divenire prerogativa specifica di ristrette elites specialistiche, ma tutto sommato ripiegate su se stesse e, alla lunga, condannate a un respiro culturale inevitabilmente ristretto. Ciò che, in realtà, sfugge a questi meccanismi di mercato, o meglio, di potere (tutto sommato ottusi) è che la cultura non può essere assimilata a un “talento” da sotterrare in un forziere di un lontano paradiso fiscale. Senza la contaminazione del confronto con chi legge, la produzione culturale, anche quella di maggior livello, alla fine isterilisce e si autocondanna all’imbalsamazione. Solo se viene seminata, solo se può entrare in contatto con il terreno fertile e disperdersi nel suo seno, solo allora può germogliare, crescere e dare frutto. I non tanto impliciti paralleli evangelici che ho appena evocato non mi sembrano affatto surrettizî, né fuori luogo. Sussiste a mio avviso una profonda relazione di analogia tra la  umana realtà della conoscenza e l’esperienza di fede che si nutre nell’ascolto della parola di Dio.
In effetti, l’esperienza di fede sperimenta una relazione di significato primario con il fenomeno della parola e con la capacità umana dell’apprendimento.
L’itinerario di fede dei singoli e delle comunità si gioca infatti sull’ascolto, sulla comprensione e sulla messa in pratica della parola di Dio. Parola di Dio che si esprime e si comunica agli uomini e alle donne, assumendo in pieno la realtà e la struttura della parola umana. La parola è il primo strumento utilizzato dagli uomini per comunicare ed entrare in comunicazione vicendevole. E questa realtà, la parola, è assunta da Dio per comunicare con l’umanità. La parola umana, come dimostrano gli studî, di filosofia del linguaggio, presenta una pluralità di dimensioni. È senz’altro la facoltà decisiva che segna l’ingresso nell’universo umano, è lo strumento con cui l’essere umano esprime la propria facoltà di ordinare concettualmente la realtà che si trova di fronte. Una realtà che può essere davanti agli occhî, ma che diviene comunicabile solo quando la si può denominare, definire e descrivere attraverso la parola. Ma non è solo la realtà esterna ad acquisire senso, grazie alla parola l’uomo diventa capace di comprendere se stesso, di incamminarsi nel mistero della propria interiorità, d’investigare, senza mai riuscire a definire in pieno, il mistero di essere uomo. Tutti avvertiamo infatti la necessità di rimetterci alla disciplina della parola per comprenderci ed esprimerci, anche se siamo consapevoli, che nessuna parola umana sedimenta al proprio interno il significato pieno dell’esistenza. Ma la parola è anche lo strumento primario per entrare in relazione con gli altri per comunicare. Si può quindi parlare almeno di una triplice funzione della parola. Una funzione informativa: mediante la parola è possibile dar conto di fatti, cose, avvenimenti, persone. È questa una dimensione che ha una prevalente tendenza all’oggettivazione, a fissare contenuti conoscitivi e comunicabili. È la dimensione su cui fanno perno primariamente la comunicazione scientifica, didattica e storica.
Ma la parola umana ha anche una funzione espressiva: ciascuno di noi, nell’atto stesso di parlare, “esprime” inevitabilmente qualcosa di sé. E questo avviene anche quando la finalità espressiva è di proposito esclusa dalla comunicazione. Tutti avvertiamo, quando ci càpita di ascoltare un  annuncio informativo in un luogo pubblico, la differenza che sussiste tra una comunicazione formulata dal vivo da una concreta voce umana e un messaggio pre-registrato e sintetizzato automaticamente. Anche per una semplice comunicazione, per una mera esigenza d’informazione, fosse anche il semplice indicare la strada a un passante che ce lo chiede, dobbiamo mettere in moto il nostro essere, rischiare l’uscita dalla nostra interiorità, disporci a una pur minima manifestazione di noi stessi. Sperimentiamo poi delle esperienze limite in cui la funzione espressiva della parola primeggia, pensiamo alle mille forme di manifestazione della sorpresa, della gioia, della paura, della passione, dell’amore. Pensiamo solo alla realtà della poesia e della lirica.
Infine, la parola umana dice essenzialmente relazione con l’altro: essa è inevitabilmente “appello”, per sua natura cerca gli altri esseri umani, è rivolta agli uomini e alle donne che incontriamo sulla nostra strada, perché la nostra esperienza è innanzitutto “relazione”. Cerchiamo quotidianamente di rendere percepibile agli altri la nostra interiorità e, allo stesso tempo, tentiamo di accogliere l’autenticità di quanto esprimono tutti coloro con i quali entriamo in relazione. La parola allora è l’autentico trait-d’union tra l’“io” e il “tu”, il principio e l’elemento costitutivo e ineliminabile di ogni comunicazione, sia essa “parlata”, “scritta” o… “digitale”. Sono tuttavia i contesti della passione umana, sentimentale, etica e civile, quello della ricerca conoscitiva sino allo spasimo dell’intelletto, quello dell’amicizia e quello dell’amore a costituire gli ambienti elettivi in cui la “parola umana” trova lo spazio per la sintesi espressiva più alta e nobile.
Quest’altissima funzione non impedisce tuttavia che nel concreto si diano esperienze di contraffazione della parola, quando essa diventa “menzogna” o quando degenera in “etichetta” o, ancora, diventa strumento d’offesa. Se attraverso la parola non emerge più la meravigliosa potenzialità creativa della relazione umana, se le parole utilizzate non vengono di continuo riprese, ricomprese, attualizzate, la relazione umana interpersonale è esposta a un progressivo quanto inevitabile degrado.
Se poi ci soffermiamo a riflettere un  po’ su quella realtà, la parola di Dio, alla quale nella visione cristiana viene riconosciuta una centralità per molti versi assoluta, possiamo agevolmente verificare come essa assuma e comprenda tutte le dimensioni della parola umana. Essa, infatti, allo stesso tempo è informazione, è espressione, è appello.
Dio, sin dai primordî, sceglie lo strumento della parola umana per parlare ai progenitori nel giardino dell’Eden, per chiamare Abramo e gli altri patriarchi, per guidare Mosè nella liberazione del popolo dalla schiavitù in terra d’Egitto, per additare ai profeti i sentieri della loro missione. Con Gesù, poi, la sapienza di Dio appare sulla terra per conversare direttamente con gli uomini in uno stile di amicizia.
Attraverso l’uso della parola umana, Dio parla agli uomini usando il linguaggio dell’amicizia e dell’amore, puntando all’instaurazione di una relazione di profonda intimità con ciascuno di noi:
-       Dio chiama: con la parola ci chiama, c’interpella, c’invita a seguirlo “se vuoi, lascia tutto e seguimi”. L’invito è chiaro: quello di anteporre la sua sequela a ogni altra cosa o preoccupazione, impostare la vita avendo come riferimento primario la sua sequela. Ma quest’invito è preceduto da una pre-condizione: “se vuoi”. La sequela di Gesù è frutto di una scelta libera e responsabile. Una scelta operata nella libertà. Un invito, quello di Gesù, rivolto a una libertà. Ciascuno di noi, in quanto destinatario di quell’invito, forte e deciso, ma pienamente rispettoso della libera sfera decisionale dell’uomo, è interpellato nella propria più nobile e piena sfera di decisionalità: quella di decidere liberamente e responsabilmente l’orientamento di fondo della propria vita. È questo in sostanza una mirabile concretizzazione della funzione “appellativa” della parola umana.
-   Dio racconta e interpreta: ma Dio lungo l’intera storia della salvezza rappresenta anche all’uomo stesso quale sia la sua funzione nella storia, quale sia la sua origine. Gli annuncia quale sia l’autentica natura dell’essere umano. Gli addita poi instancabilmente il destino di salvezza a cui è chiamato. E qui abbiamo il ricorso pieno alla funzione “informativa” della parola umana.
-       Dio s’esprime, parla di sé: con la parola Dio, infine, rivela se stesso agli uomini, manifesta la sua vita più intima, il suo essere “amore”. Abbiamo qui decisamente, e in pienezza, la funzione “espressiva” della parola umana.
La parola di Dio, che costituisce il centro della rivelazione cristiana, è nella sua autenticità molto lontana da una verità astratta o dal costituire un complesso di verità concettuali. È innanzitutto una realtà personale che cerca ogni uomo e ogni donna, li chiama, li invita. È una realtà, la parola di Dio, che richiede innanzi tutto l’ascolto, l’ascolto di un interlocutore che si fa presente nella vita delle persone. L’ascolto è di fatto la premessa di ogni dialogo e il primo passo di una nobile attitudine umana: l’apprendimento. Un apprendimento sapienziale, che sia capace di attingere a una conoscenza vitale, pienamente assaporata, che faccia ricorso a tutte le facoltà dell’essere umano e che approdi a un’adesione libera, convinta e pienamente coinvolta. A tal proposito mi piace andare col ricordo a un suggestivo racconto del Vangelo di Luca:  

«Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizî. Allora si fece avanti e disse: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma il Signore le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta"» (Lc. 10,38-42).

La scelta di Maria di Betània di porsi in ascolto ai piedi di Gesù viene definita da Gesù stesso come la “parte migliore”. Una “parte migliore” che si concretizza nell’assunzione di un atteggiamento di ascolto della parola di Gesù per farne proprio l’insegnamento. Un atteggiamento di ascolto che ha, certamente, un connotato eminentemente religioso, ma che affonda tuttavia le sue radici in una struttura fondante della psicologia umana: la capacità di apprendere. Ed è a questa capacità di apprendere che fa direttamente appello Gesù nella sua missione di maestro itinerante sui sentieri della Galilèa, della Giudèa e della Samarìa ed entrando nelle case dei discepoli che gli offrivano ospitalità. Un appello che invita all’ascolto e a mettere in moto una nobile facoltà umana che, attraverso l’ascolto, la riflessione, il discernimento, permette di conoscere, comprendere, maturare, crescere e scegliere. Un processo che mantiene tutto il suo valore e la sua intrinseca pregnanza tanto sul piano di un itinerario di fede, quanto sul piano di un laico e meramente umano percorso di apprendimento e di acquisizione di conoscenza.
E la biblioteca, non importa se raccolta fisica e materiale o concreta realtà virtuale e di rete, è comunque uno dei luoghi elettivi  ove i processi di accesso alle fonti della conoscenza e di apprendimento possono concretamente aver luogo. Un luogo dove il porsi in atteggiamento di ascolto e di ricerca può autenticamente assurgere, foss’anche sul semplice piano umano, a configurarsi come la “parte migliore”, cioè come una delle dimensioni più nobili dell’esperienza umana.  
Nel lavorare al servizio delle biblioteche, quotidianamente mi trovo fianco a fianco a condividere l’impegno professionale anche con donne e uomini che hanno diversa ispirazione di fede o riconoscono altri valori assoluti. Tuttavia non posso non riconoscere la realtà concreta di trovarmi con essi a sperimentare concreti valori di solidarietà e fraternità, intorno allo stesso banco di lavoro e al servizio dell’umanità, in particolare quella che, affinché ne sia pienamente riconosciuta e affermata la dignità, ha maggiore impellenza ad accedere alle fonti della conoscenza.
Allora non posso non formulare un invito rivolto a tutti, a quanti operano nelle biblioteche e in tutte le istituzioni culturali, affinché ciascuno, a partire dalla propria irrinunciabile scelta di fede e di valori umani e culturali, sia partecipe di un comune impegno mirante ad affermare che il diritto di accesso pubblico alla conoscenza sia universalmente tutelato e garantito. Questo è un impegno di grandissima rilevanza nell’attuale contesto storico che, apparentemente, sembra offrire sul piano della conoscenza un’inedita sovrabbondanza di opportunità, di offerte e di stimoli,  e che allo stesso tempo pone in atto poderosi processi di contaminazione, presentando (anzi degradando) la conoscenza con le vesti invadenti e manipolatrici del messaggio pubblicitario. Ed è proprio qui che affonda le proprie radici etiche e deontologiche un impegno professionale, perché la parola umana della conoscenza non sia degradata a “menzogna”, a “etichetta”, a “finzione”, a strumento convenzionale per la cattura del facile consenso, a spot ammiccante, ma sia proposta autentica di una strada per crescere, per maturare e per ridurre le distanze sociali. La cultura è, infatti, in se stessa un fattore di uguaglianza e di promozione della dignità umana e non può essere ridotta a strumento per determinare e  accrescere la stratificazione e la discriminazione sociale.

Sergio Sbragia
Vico Equense, lunedì 21 aprile 2014

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