Gli amici che mi onorano di seguire le riflessioni, che ogni
tanto mi permetto di rendere pubbliche, avranno di certo notato i due poli
tematici intorno a cui sono solito focalizzare la mia attenzione: da un lato,
le attività delle biblioteche, e, dall’altro, l’approfondimento del senso e del
significato della mia esperienza di fede nel mondo di oggi.
Questi due poli, pur nella piena consapevolezza della loro
rispettiva autonomia, non sono nella mia esperienza due vasi non comunicanti.
In effetti nella concitata vita di oggi si tende, e per certi versi si è anche
portati, a vivere in contesti diversificati che sono, di regola, contrassegnati
da culture e logiche specifiche, e spesso facciamo fatica a “fare sintesi”,
correndo il rischio di vivere in una modalità schizofrenica, passando ogni
giorno dalla vita lavorativa a quella civile e familiare, nello stesso modo con
cui un subacqueo passa da un sottomarino al mare aperto, attraversando uno o
più compartimenti stagni.
La scelta di fede implica la decisione libera di seguire nella
mia vita Gesù di Nàzareth, entrando in dialogo con gli uomini e le donne che
incontro quotidianamente sulle strade del mondo. Da molti anni, parte
essenziale della mia esperienza umana è data dal lavoro nel mondo delle
biblioteche. Non posso dunque sfuggire al chiaro invito formulatoci dall’apostolo
Pietro a essere «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della
speranza che è in voi» (1Pt. 3,15), interrogandomi intorno a quale senso abbia,
alla luce della fede, il mio impegno al servizio delle biblioteche.
La fede, in effetti, mi chiama al servizio sulla base
dell’esempio offerto dallo stesso Gesù quando, in occasione dell’ultimo pasto
condiviso con i discepoli, si chinò a lavar loro i piedi. La fede mi chiede
quindi di vivere la realtà del lavoro per le biblioteche assumendo tutte le
tensioni che attorno alla realtà concreta delle stesse biblioteche vengono
sviluppandosi. E siccome le biblioteche non sono meri luoghi inerti, ma spazî
reali d’azione di persone in carne e ossa, questo vuol dire far proprie
tensioni e inquietudini delle menti e dei cuori di quanti nelle biblioteche
operano e alle biblioteche si rivolgono.
È questa una sfida di grande impegno, che cerco in qualche modo
di raccogliere e rispetto alla quale risulto quotidianamente alquanto
insolvente. Eppure svolgere quotidianamente il proprio compito comporta anche
scegliere una partecipazione viva e cosciente alle prove e ai problemi che
interessano il mondo delle biblioteche come pienamente afferenti al nucleo
centrale di tutta la questione culturale e del suo enorme rilievo sociale.
E di prove da affrontare e problemi da risolvere le biblioteche
ne hanno un bel po’. Prove e problemi che dunque sono anche miei, anche nostri.
Provo brevemente a riassumere.
Con ogni probabilità la missione centrale di una biblioteca è
quella di “garantire a tutti il pieno diritto di accesso alle fonti della conoscenza e
dell’informazione”. Questo valore primario dell’istituzione “biblioteca”
presenta senza dubbio una profonda e reale assonanza di contenuto con la fede
cristiana, ha infatti un orientamento universale (è rivolto a tutti) e mostra
un’opzione preferenziale verso coloro che hanno minori opportunità e
possibilità per accedere alla conoscenza e all’informazione (e la fede ci
chiede di guardare in primo luogo ai piccoli, ai deboli, agli ultimi, ai
poveri).
E, in proposito, le biblioteche hanno svolto, e tutt’ora
svolgono, un compito di altissimo valore. Hanno posto a disposizione della
libera fruizione pubblica un patrimonio enorme di conoscenza e informazione. Si
sono disseminate ampiamente sul territorio, anche se non sempre in modo
uniforme ed equilibrato. È stata comunque realizzata una grande azione di diffusione
culturale, che, se nel mondo occidentale, può essere sotto certi aspetti
considerata una generosa e meritevole operazione pioneristica del passato, nei
paesi del terzo e quarto mondo è pienamente in corso e ha di fronte ancora
grandi sfide da affrontare e decisivi traguardi da conseguire.
Oltre alla disponibilità materiale di libri, le biblioteche si
sono sempre fatte parte attiva per superare gli ostacoli materiali e culturali
alla conoscenza. Penso alle innumerevoli attività di alfabetizzazione e di
motivazione alla lettura. Penso alle molteplici e spesso anche fantasiose e
geniali soluzioni per portare i libri nei luoghi di vita (e talora anche di
sofferenza) dei potenziali lettori (scaffali a carrello negli ospedali,
banchetti volanti nei mercati, biblioteche circolanti sulle spiagge,
biblioteche nelle carceri).
Le biblioteche si sono poi configurate come il luogo fisico di
condensazione della conoscenza, il luogo dove il patrimonio culturale,
lentamente e progressivamente costruito dall’umanità, si è depositato e
stratificato per essere trasmesso alle generazioni future.
Ma le biblioteche sono anche luogo della socialità, luogo del
crescere insieme, luogo ove si realizzano itinerarî di comune crescita
culturale che arricchiscono tanto i lettori quanto i professionisti che erogano
i servizî di pubblica lettura.
Il libro nella biblioteca pubblica, passando da un lettore
all’altro, perde, poi, il connotato detenuto per secoli di oggetto status simbol, per divenire un oggetto
condiviso protagonista di un percorso da compiere assieme, mano nella mano.
Questi e altri sono i grandi valori intorno ai quali si è
declinata e si declina la professione bibliotecaria, che però da alcuni anni
deve fare i conti con nuove sfide che includono anche una riconfigurazione, se
non una comprensione del tutto inedita, della professione stessa,
dell’istituzione (la biblioteca) e dello stesso oggetto di riferimento (il
libro).
Le nuove tecnologie dell’odierna società della comunicazione,
con l’offerta di inedite, molteplici, flessibili opportunità di comunicazione
in rete, nonché di strumenti tecnici di grande familiarità e maneggevolezza,
stanno ponendo in discussione la sopravvivenza stessa di un’istituzione come la
biblioteca e di un oggetto nobile come il libro, che in un futuro non molto
lontano potrebbero non esistere più, o, quantomeno avere una connotazione molto
diversa da quella a cui siamo abituati.
Ho già avuto modo di sottolineare che questo aspetto, che di
certo mi intriga, non mi spaventa, perché al di là delle istituzioni e dei
formati materiali, l’umanità continuerà comunque a produrre conoscenza, a
condensarla in formati reali (sia pur digitali), a trasmetterla, a conservarla
per il futuro. Ciò che mi preoccupa, e mi preoccupa sia come credente sia come operatore
del mondo delle biblioteche, sono i processi di potere che tentano di
strumentalizzare le trasformazioni paradigmatiche che sono in corso nel campo
della comunicazione sul piano del linguaggio e delle opportunità offerte dalla
rete. Non che questi fenomeni non siano stati (e non siano) presenti nel mondo
tradizionale della conoscenza trasmessa attraverso la carta, ma dobbiamo, in
effetti constatare che nel processo di diffusione dei formati digitali, sul
piano delle normative che ne disciplinano i diritti di diffusione, sono in atto
dei processi di limitazione e discriminazione all’accesso universale, molto
spesso poco trasparenti e, per altro, poco percepiti dalla cittadinanza e dall’opinione
pubblica. Anzi sono di solito pericolosamente sottovalutati, in quanto
abilmente mimetizzati entro un’acritica presentazione laudativa delle
potenzialità comunicative globali della rete, ove ci si si guarda bene dallo
stimolare un’adeguata riflessione sui costi dei diritti di accesso e sui limiti
reali che all’accesso stesso vengono frapposti.
Il pesante impatto delle nuove tecnologie sul piano dei processi
di formazione, condensazione e trasmissione della conoscenza e la sempre più
incalzante proposta di inediti paradigmi di comprensione dei processi e dei
contenuti culturali, fanno a mio avviso appello a una nuova e stimolante
autocoscienza della professione bibliotecaria, che può di certo configurarsi,
per chi crede, come un concreto luogo storico entro cui approfondire e
sperimentare un’autentica esperienza di fede.
Ho fatto prima riferimento a quella dimensione della professione
bibliotecaria protesa nell’azione di superamento di ogni forma d’ostacolo alla
conoscenza. È proprio a questa dimensione promozionale della nostra professione
che la nuova società dell’informazione propone una sfida che non è possibile
ignorare. In realtà sul piano dell’accesso alla conoscenza, oggi, appaiono in
atto processi di discriminazione, di marginalizzazione, di concentrazione e di
degrado, che urge discernere, interpretare, porre in evidenza e concretamente
contrastare. È un’esigenza che ha grande rilevanza, sia sul piano deontologico
e professionale, sia nella prospettiva della declinazione concreta di valori
etici assoluti. Ne va, infatti, dell’autenticità stessa della natura
democratica delle nostre società e dell’effettivo rispetto dei valori basilari
della dignità umana.
La discriminazione conoscitiva si manifesta sotto svariate
spoglie. Una prima sua concretizzazione si determina sul piano materiale tra
chi ha concreto e agevole accesso alle tecnologie dell’informazione e chi ne è
privo o ne dispone in forma carente. È questo il fenomeno che, con un termine
mutuato dall’ambiente anglosassone siamo soliti indicare come digital divide. E qui si apre lo
scenario dell’azione delle biblioteche per porre a disposizione dei lettori
opportunità pratiche di accesso alla rete e itinerarî assistiti per acquisire
la capacità di fruirne.
Un secondo fenomeno discriminatorio è, per certi versi, una
sorta di conseguenza dell’apparente disponibilità di un’enorme quantità di
fonti informative e conoscitive, disponibilità rispetto alla quale non tutti sono
in possesso di adeguati strumenti e capacità di orientamento, analisi,
discernimento e scelta. Si tratta di ciò che comunemente chiamiamo information divide, che spesso prescinde
anche dallo stesso livello di scolarizzazione dei singoli e che, come sfida,
offre sconfinate praterie d’azione all’esercizio di pratiche mirate ed efficaci
d’information literacy, volte a
diffondere la comprensione dei bisogni informativi e la capacità d’identificare,
individuare, valutare, organizzare, utilizzare e comunicare le informazioni e
la conoscenza. Probabilmente è proprio l’information
literacy la nuova frontiera della professione bibliotecaria quale autentico
servizio al lettore per fornirgli, ogni qual volta sia necessario, l’ausilio
professionale per dare risposta ai proprî bisogni di conoscenza, sia nella rete
che nelle raccolte tradizionali.
Con il progressivo estendersi della rilevanza dei contenuti
digitali sta manifestandosi una sempre più forte tendenza a monopolizzare la
conoscenza, facendo leva sul principio in sé valido della giusta retribuzione
della produzione intellettuale, ma estendendolo in forma impropria e senza
alcuna preoccupazione di garantire l’altrettanto doverosa garanzia del libero
accesso pubblico alle fonti d’informazione e di conoscenza. Mentre sul piano
delle norme di tutela dei diritti d’autore nel campo della conoscenza scritta,
di norma, le leggi prevedono costi d’ordine solo forfettario per le attività di
accesso alla conoscenza realizzate nelle biblioteche (in particolare le
biblioteche di pubblica lettura), questo principio appare del tutto dimenticato
nelle normative che via via si stanno diffondendo al fine di regolamentare il
mercato della distribuzione della conoscenza digitale. Il rischio che appare
decisamente concreto, man mano che la comunicazione digitale allarga la sua
influenza, è che alla fine risulterà del tutto scompensata la relazione, pur
necessaria, tra la tutela del diritto d’autore e la garanzia dell’accesso
universale alla cultura. A soffrirne, per altro, non saranno solo i potenziali
lettori esclusi per carenza di reddito e di potere, ma anche la stessa
produzione culturale che ai fini della conservazione nel tempo di un alto
livello qualitativo non può prescindere da un ampio e diversificato feedback da parte dei lettori. Se
ragioni di reddito o di potere escluderanno ampie fette della popolazione dalla
produzione culturale corrente, questa tenderà a divenire prerogativa specifica
di ristrette elites specialistiche,
ma tutto sommato ripiegate su se stesse e, alla lunga, condannate a un respiro
culturale inevitabilmente ristretto. Ciò che, in realtà, sfugge a questi
meccanismi di mercato, o meglio, di potere (tutto sommato ottusi) è che la
cultura non può essere assimilata a un “talento” da sotterrare in un forziere
di un lontano paradiso fiscale. Senza la contaminazione del confronto con chi
legge, la produzione culturale, anche quella di maggior livello, alla fine
isterilisce e si autocondanna all’imbalsamazione. Solo se viene seminata, solo se
può entrare in contatto con il terreno fertile e disperdersi nel suo seno, solo
allora può germogliare, crescere e dare frutto. I non tanto impliciti paralleli
evangelici che ho appena evocato non mi sembrano affatto surrettizî, né fuori
luogo. Sussiste a mio avviso una profonda relazione di analogia tra la umana realtà della conoscenza e l’esperienza
di fede che si nutre nell’ascolto della parola di Dio.
In effetti, l’esperienza di fede sperimenta una relazione di
significato primario con il fenomeno della parola e con la capacità umana
dell’apprendimento.
L’itinerario di fede dei singoli e delle comunità si gioca
infatti sull’ascolto, sulla comprensione e sulla messa in pratica della parola
di Dio. Parola di Dio che si esprime e si comunica agli uomini e alle donne,
assumendo in pieno la realtà e la struttura della parola umana. La parola è il
primo strumento utilizzato dagli uomini per comunicare ed entrare in
comunicazione vicendevole. E questa realtà, la parola, è assunta da Dio per
comunicare con l’umanità. La parola umana, come dimostrano gli studî, di filosofia
del linguaggio, presenta una pluralità di dimensioni. È senz’altro la facoltà
decisiva che segna l’ingresso nell’universo umano, è lo strumento con cui
l’essere umano esprime la propria facoltà di ordinare concettualmente la realtà
che si trova di fronte. Una realtà che può essere davanti agli occhî, ma che
diviene comunicabile solo quando la si può denominare, definire e descrivere
attraverso la parola. Ma non è solo la realtà esterna ad acquisire senso,
grazie alla parola l’uomo diventa capace di comprendere se stesso, di
incamminarsi nel mistero della propria interiorità, d’investigare, senza mai
riuscire a definire in pieno, il mistero di essere uomo. Tutti avvertiamo
infatti la necessità di rimetterci alla disciplina della parola per comprenderci
ed esprimerci, anche se siamo consapevoli, che nessuna parola umana sedimenta
al proprio interno il significato pieno dell’esistenza. Ma la parola è anche lo
strumento primario per entrare in relazione con gli altri per comunicare. Si
può quindi parlare almeno di una triplice funzione della parola. Una funzione
informativa: mediante la parola è possibile dar conto di fatti, cose,
avvenimenti, persone. È questa una dimensione che ha una prevalente tendenza
all’oggettivazione, a fissare contenuti conoscitivi e comunicabili. È la
dimensione su cui fanno perno primariamente la comunicazione scientifica,
didattica e storica.
Ma la parola umana ha anche una funzione espressiva: ciascuno di
noi, nell’atto stesso di parlare, “esprime” inevitabilmente qualcosa di sé. E
questo avviene anche quando la finalità espressiva è di proposito esclusa dalla
comunicazione. Tutti avvertiamo, quando ci càpita di ascoltare un annuncio informativo in un luogo pubblico, la
differenza che sussiste tra una comunicazione formulata dal vivo da una
concreta voce umana e un messaggio pre-registrato e sintetizzato
automaticamente. Anche per una semplice comunicazione, per una mera esigenza
d’informazione, fosse anche il semplice indicare la strada a un passante che ce
lo chiede, dobbiamo mettere in moto il nostro essere, rischiare l’uscita dalla
nostra interiorità, disporci a una pur minima manifestazione di noi stessi.
Sperimentiamo poi delle esperienze limite in cui la funzione espressiva della
parola primeggia, pensiamo alle mille forme di manifestazione della sorpresa,
della gioia, della paura, della passione, dell’amore. Pensiamo solo alla realtà
della poesia e della lirica.
Infine, la parola umana dice essenzialmente relazione con l’altro:
essa è inevitabilmente “appello”, per sua natura cerca gli altri esseri umani,
è rivolta agli uomini e alle donne che incontriamo sulla nostra strada, perché
la nostra esperienza è innanzitutto “relazione”. Cerchiamo quotidianamente di rendere
percepibile agli altri la nostra interiorità e, allo stesso tempo, tentiamo di
accogliere l’autenticità di quanto esprimono tutti coloro con i quali entriamo
in relazione. La parola allora è l’autentico trait-d’union tra l’“io” e il “tu”, il principio e l’elemento
costitutivo e ineliminabile di ogni comunicazione, sia essa “parlata”, “scritta”
o… “digitale”. Sono tuttavia i contesti della passione umana, sentimentale,
etica e civile, quello della ricerca conoscitiva sino allo spasimo dell’intelletto,
quello dell’amicizia e quello dell’amore a costituire gli ambienti elettivi in
cui la “parola umana” trova lo spazio per la sintesi espressiva più alta e
nobile.
Quest’altissima funzione non impedisce tuttavia che nel concreto
si diano esperienze di contraffazione della parola, quando essa diventa “menzogna”
o quando degenera in “etichetta” o, ancora, diventa strumento d’offesa. Se
attraverso la parola non emerge più la meravigliosa potenzialità creativa della
relazione umana, se le parole utilizzate non vengono di continuo riprese,
ricomprese, attualizzate, la relazione umana interpersonale è esposta a un
progressivo quanto inevitabile degrado.
Se poi ci soffermiamo a riflettere un po’ su quella realtà, la parola di Dio, alla quale
nella visione cristiana viene riconosciuta una centralità per molti versi assoluta,
possiamo agevolmente verificare come essa assuma e comprenda tutte le
dimensioni della parola umana. Essa, infatti, allo stesso tempo è informazione,
è espressione, è appello.
Dio, sin dai primordî, sceglie lo strumento della parola umana
per parlare ai progenitori nel giardino dell’Eden, per chiamare Abramo e gli
altri patriarchi, per guidare Mosè nella liberazione del popolo dalla schiavitù
in terra d’Egitto, per additare ai profeti i sentieri della loro missione. Con
Gesù, poi, la sapienza di Dio appare sulla terra per conversare direttamente
con gli uomini in uno stile di amicizia.
Attraverso l’uso della parola umana, Dio parla agli uomini
usando il linguaggio dell’amicizia e dell’amore, puntando all’instaurazione di
una relazione di profonda intimità con ciascuno di noi:
- Dio
chiama: con la parola
ci chiama, c’interpella, c’invita a seguirlo “se vuoi, lascia tutto e seguimi”.
L’invito è chiaro: quello di anteporre la sua sequela a ogni altra cosa o preoccupazione,
impostare la vita avendo come riferimento primario la sua sequela. Ma quest’invito
è preceduto da una pre-condizione: “se vuoi”. La sequela di Gesù è frutto di una
scelta libera e responsabile. Una scelta operata nella libertà. Un invito,
quello di Gesù, rivolto a una libertà. Ciascuno di noi, in quanto destinatario
di quell’invito, forte e deciso, ma pienamente rispettoso della libera sfera
decisionale dell’uomo, è interpellato nella propria più nobile e piena sfera di
decisionalità: quella di decidere liberamente e responsabilmente l’orientamento
di fondo della propria vita. È questo in sostanza una mirabile concretizzazione
della funzione “appellativa” della parola umana.
- Dio
racconta e interpreta:
ma Dio lungo l’intera storia della salvezza rappresenta anche all’uomo stesso
quale sia la sua funzione nella storia, quale sia la sua origine. Gli annuncia
quale sia l’autentica natura dell’essere umano. Gli addita poi instancabilmente
il destino di salvezza a cui è chiamato. E qui abbiamo il ricorso pieno alla
funzione “informativa” della parola umana.
-
Dio
s’esprime, parla di sé:
con la parola Dio, infine, rivela se stesso agli uomini, manifesta la sua vita
più intima, il suo essere “amore”. Abbiamo qui decisamente, e in pienezza, la
funzione “espressiva” della parola umana.
La parola di Dio, che costituisce il centro della rivelazione
cristiana, è nella sua autenticità molto lontana da una verità astratta o dal
costituire un complesso di verità concettuali. È innanzitutto una realtà
personale che cerca ogni uomo e ogni donna, li chiama, li invita. È una realtà,
la parola di Dio, che richiede innanzi tutto l’ascolto, l’ascolto di un
interlocutore che si fa presente nella vita delle persone. L’ascolto è di fatto
la premessa di ogni dialogo e il primo passo di una nobile attitudine umana: l’apprendimento.
Un apprendimento sapienziale, che sia capace di attingere a una conoscenza
vitale, pienamente assaporata, che faccia ricorso a tutte le facoltà dell’essere
umano e che approdi a un’adesione libera, convinta e pienamente coinvolta. A
tal proposito mi piace andare col ricordo a un suggestivo racconto del Vangelo di Luca:
«Mentre erano in cammino, [Gesù] entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore,
ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizî. Allora
si fece avanti e disse: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi
abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma il Signore
le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di
una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le
sarà tolta"» (Lc. 10,38-42).
La scelta di Maria di Betània di porsi in ascolto ai piedi di
Gesù viene definita da Gesù stesso come la “parte migliore”. Una “parte
migliore” che si concretizza nell’assunzione di un atteggiamento di ascolto
della parola di Gesù per farne proprio l’insegnamento. Un atteggiamento di ascolto
che ha, certamente, un connotato eminentemente religioso, ma che affonda
tuttavia le sue radici in una struttura fondante della psicologia umana: la
capacità di apprendere. Ed è a questa capacità di apprendere che fa
direttamente appello Gesù nella sua missione di maestro itinerante sui sentieri
della Galilèa, della Giudèa e della Samarìa ed entrando nelle case dei
discepoli che gli offrivano ospitalità. Un appello che invita all’ascolto e a
mettere in moto una nobile facoltà umana che, attraverso l’ascolto, la
riflessione, il discernimento, permette di conoscere, comprendere, maturare,
crescere e scegliere. Un processo che mantiene tutto il suo valore e la sua
intrinseca pregnanza tanto sul piano di un itinerario di fede, quanto sul piano
di un laico e meramente umano percorso di apprendimento e di acquisizione di
conoscenza.
E la biblioteca, non importa se raccolta fisica e materiale o
concreta realtà virtuale e di rete, è comunque uno dei luoghi elettivi ove i processi di accesso alle fonti della conoscenza
e di apprendimento possono concretamente aver luogo. Un luogo dove il porsi in
atteggiamento di ascolto e di ricerca può autenticamente assurgere, foss’anche
sul semplice piano umano, a configurarsi come la “parte migliore”, cioè come
una delle dimensioni più nobili dell’esperienza umana.
Nel lavorare al servizio delle biblioteche, quotidianamente mi
trovo fianco a fianco a condividere l’impegno professionale anche con donne e uomini
che hanno diversa ispirazione di fede o riconoscono altri valori assoluti.
Tuttavia non posso non riconoscere la realtà concreta di trovarmi con essi a
sperimentare concreti valori di solidarietà e fraternità, intorno allo stesso
banco di lavoro e al servizio dell’umanità, in particolare quella che, affinché
ne sia pienamente riconosciuta e affermata la dignità, ha maggiore impellenza
ad accedere alle fonti della conoscenza.
Allora non posso non formulare un invito rivolto a tutti, a
quanti operano nelle biblioteche e in tutte le istituzioni culturali, affinché
ciascuno, a partire dalla propria irrinunciabile scelta di fede e di valori
umani e culturali, sia partecipe di un comune impegno mirante ad affermare che
il diritto di accesso pubblico alla conoscenza sia universalmente tutelato e
garantito. Questo è un impegno di grandissima rilevanza nell’attuale contesto
storico che, apparentemente, sembra offrire sul piano della conoscenza un’inedita
sovrabbondanza di opportunità, di offerte e di stimoli, e che allo stesso tempo pone in atto poderosi
processi di contaminazione, presentando (anzi degradando) la conoscenza con le
vesti invadenti e manipolatrici del messaggio pubblicitario. Ed è proprio qui
che affonda le proprie radici etiche e deontologiche un impegno professionale,
perché la parola umana della conoscenza non sia degradata a “menzogna”, a “etichetta”,
a “finzione”, a strumento convenzionale per la cattura del facile consenso, a
spot ammiccante, ma sia proposta autentica di una strada per crescere, per maturare
e per ridurre le distanze sociali. La cultura è, infatti, in se stessa un
fattore di uguaglianza e di promozione della dignità umana e non può essere
ridotta a strumento per determinare e accrescere la stratificazione e la
discriminazione sociale.
Sergio Sbragia
Vico Equense, lunedì 21
aprile 2014
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