mercoledì 28 ottobre 2015

Ancora Gesù e i Giudèi al Tempio (7,25-52)




Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: "Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov'è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia". Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: "Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato".
Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora. Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: "Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?".
I farisèi udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisèi mandarono delle guardie per arrestarlo. Gesù disse: "Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire". Dissero dunque tra loro i Giudèi: "Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? Che discorso è quello che ha fatto: "Voi mi cercherete e non mi troverete", e: "Dove sono io, voi non potete venire"?".
Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: "Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva". Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.
All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: "Costui è davvero il profeta!". Altri dicevano: "Costui è il Cristo!". Altri invece dicevano: "Il Cristo viene forse dalla Galilèa? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?". E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui.
Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisèi e questi dissero loro: "Perché non lo avete condotto qui?". Risposero le guardie: "Mai un uomo ha parlato così!". Ma i farisèi replicarono loro: "Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisèi? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!". Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: "La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?". Gli risposero: "Sei forse anche tu della Galilèa? Studia, e vedrai che dalla Galilèa non sorge profeta!". E ciascuno tornò a casa sua (7,25-53).

Nella seconda parte del settimo capitolo del Vangelo di Giovanni il termine Giudèi ricorre esplicitamente una sola volta al v. 35, ma si dà conto delle successive evoluzioni e degli sviluppi anche drammatici del confronto, sia nella stessa sede del tempio, sia nei successivi giorni della festa delle Capanne. Prosegue, infatti, il confronto che nella prima parte dello stesso capitolo si è determinato esplicitamente con i Giudèi. Un confronto che continua a incentrarsi sulla sua autentica identità, nella logica del piano divino di salvezza e che coinvolge anche alcuni altri personaggî collettivi quali «alcuni abitanti di Gerusalemme» (7,25), i «capi» (7,26), la «folla» (7,31), i «farisèi» (7,32), la «gente» (7,32), «i capi dei sacerdoti e i farisèi» (7,32), le «guardie» (7,32). Alla fine del brano torna, infine  in campo, un personaggio che abbiamo già incontrato in precedenza: Nicodèmo (3,1-15).



1. La perplessità di alcuni abitanti di Gerusalemme.

Intanto alcuni abitanti di Gerusalemme dicevano: "Non è costui quello che cercano di uccidere? Ecco, egli parla liberamente, eppure non gli dicono nulla. I capi hanno forse riconosciuto davvero che egli è il Cristo? Ma costui sappiamo di dov'è; il Cristo invece, quando verrà, nessuno saprà di dove sia". Gesù allora, mentre insegnava nel tempio, esclamò: "Certo, voi mi conoscete e sapete di dove sono. Eppure non sono venuto da me stesso, ma chi mi ha mandato è veritiero, e voi non lo conoscete. Io lo conosco, perché vengo da lui ed egli mi ha mandato" (7,25-29).
  
L’episodio del confronto nel Tempio che abbiamo visto nelle stesso capitolo (7,1-24), in realtà genera delle perplessità successive agli occhî almeno di una parte degli abitanti di Gerusalemme. Una perplessità generata dall’apparente assenza di reazioni esplicite, concrete ed immediate da parte dei Giudèi, all’insegnamento destabilizzante dello status quo proclamato da Gesù. Non sanno spiegarsi come mai, al Gesù di Nàzareth, che hanno ascoltato insegnare al Tempio, e che sembra sia davvero colui che i ceti dirigenti giudaici intendono uccidere, venga consentito di continuare a insegnare e parlare liberamente, senza che egli incontri alcuna opposizione materiale (7,25-26). Si fa strada tra i gerosolimitani l’ipotesi eversiva che i «capi» possano aver riconosciuto che egli sia davvero il Cristo (7,26). Ma poi le stesse persone trovano da soli una risposta tranquillizzante, di “buon senso”, e in grado di garantire il quieto vivere. L’ipotesi che Gesù di Nàzareth possa essere il Cristo, non sta in piedi, perché secondo l’insegnamento tradizionale del Cristo atteso nessuno conoscerà la provenienza, mentre di Gesù tutti sanno che viene da Nàzareth di Galilèa (7,27). Nel dar conto della propria perplessità, tuttavìa, questi abitanti di Gerusalemme si riferiscono ai Giudèi, definendoli «capi». Questa espressione, che per altro abbiamo già incontrato in precedenza, rende chiaro ancora una volta che quando si scende sul piano del conflitto che oppone Gesù ai Giudèi, questa espressione è riferita chiaramente al gruppo dirigente religioso e politico raccolto intorno al Tempio di Gerusalemme. La mancata immediata reazione d’autorità, che era tutto sommato prevedibile e in parte anche attesa, è tuttavìa il segno, che anche nello stesso gruppo dei Giudèi, le idee non fossero del tutto chiare e univoche, che dovevano essere presenti posizioni contrastanti e differenti valutazioni di opportunità e prudenza politica.
Gesù tuttavìa ribatte a tono, sia pure con tutta verosimiglianza in un successivo momento d’insegnamento al tempio, all’obiezione perplessa di questi gerosolimitani sulla palese origine di Gesù stesso, quale segno evidente, della non fondatezza della sua pretesa messianica. Gesù sposta allora l’attenzione dalla provenienza geografica alla provenienza personale, che non è l’esito di una decisione propria ma un preciso mandato conferito da chi, per eccellenza, è “veritiero”, cioè Dio. Se si riesce a cogliere in Gesù il suo essere un autentico inviato di Dio, non c’è più spazio per dubitare della sua veridicità, né per mettere in dubbio la sua parola su Dio, perché fondata sulla diretta conoscenza di Dio (7,28-29).


2. La progressiva radicalizzazione del confronto.


Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui, perché non era ancora giunta la sua ora. Molti della folla invece credettero in lui, e dicevano: "Il Cristo, quando verrà, compirà forse segni più grandi di quelli che ha fatto costui?".
I farisèi udirono che la gente andava dicendo sottovoce queste cose di lui. Perciò i capi dei sacerdoti e i farisèi mandarono delle guardie per arrestarlo. Gesù disse: "Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire". Dissero dunque tra loro i Giudèi: "Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? Che discorso è quello che ha fatto: "Voi mi cercherete e non mi troverete", e: "Dove sono io, voi non potete venire"? (7,30-36).

L’evangelista passa a illustrare la radicalizzazione del confronto, ma in forma impersonale («Cercavano allora di arrestarlo, ma nessuno riuscì a mettere le mani su di lui » - v. 31). Si dice, infatti, semplicemente «cercavano», senza indicare il soggetto, anche se il contesto del racconto porta quasi naturalmente a pensare ai Giudèi, ma il racconto evita di precisarlo e lascia in qualche maniera in sospeso la questione di definire meglio l’identità di chi s’impegna nel tentare di arrestare Gesù, senza tuttavìa riuscire a catturarlo. Ritorna qui il tema del “tempo” che abbiamo già incontrato nella disputa tra Gesù e i suoi fratelli a Nàzareth (7,5-8), l’evangelista lo richiama in riferimento al fatto che chi cercava di catturarlo non fosse riuscito nel suo intento, sostenendo che   «non era ancora giunta la sua ora» (7,30), cioè che il tempo per la manifestazione di Gesù non era ancora compiuto.

Allo stesso tempo sempre l’evangelista tiene a evidenziare che all’interno del personaggio collettivo «la folla», sono presenti persone che hanno scelto di credere in Gesù, fondando questa scelta sulla convinzione, nata dall’aver assistito a delle azioni operate da Gesù, che il Cristo, alla sua manifestazione, non avrebbe operato gesti più grandi di quelli compiuti da Gesù (7,31).

A questo punto entra in campo il gruppo dei farisèi che cercano di raccogliere le opinioni e le convinzioni su Gesù, che si sono formate e diffuse tra la folla. Un gruppo che quindi è molto preoccupato di conoscere gli umori che maturano tra la gente, per poterli conoscere, prevenire, orientarli e controllarli. Nella sostanza quindi si configura il profilo di un gruppo che tende ad assumere con consapevolezza un ruolo di direzione degli umori popolari e degli orientamenti prevalenti tra la popolazione, e questo come abbiamo potuto verificare nei varî episodî sin qui analizzati, per alcuni di essi costituiva la precauzione per non trovarsi spiazzati da posizioni impreviste che potevano porre in discussione i loro spazî di potere; per altri, invece, costituiva il modo per indirizzare verso una vita di fede coerente con la testimonianza della Legge e dei profeti. Qui però sembra che, ad aver il sopravvento, nel gruppo di farisèi siano coloro che hanno a cuore il proprio peso politico e hanno timore di perderlo, infatti, insieme ai capi dei sacerdoti decidono di mandare delle guardie per arrestare Gesù per neutralizzarne il potenziale pericolo. Abbiamo, pertanto, l’alleanza tra un influente gruppo sacerdotale e una componente dei farisèi, che potrebbero, assieme, costituire il gruppo comunemente definito «i Giudèi», e considerato dall’evangelista come il gruppo degli avversarî di Gesù.

Il racconto torna però a proporre i contenuti dei discorsi di Gesù al Tempio nel corso della festa e qui riporta alcune espressioni che, nel corso del Vangelo, ricorrono più volte sulle labbra di Gesù, il cui senso profondo sfugge ai suoi ascoltatori. Dinanzi al tentativo di procedere al suo arresto, Gesù, senza mezzi termini, sottolinea a coloro che i capi dei sacerdoti e i farisèi avevano incaricato di arrestarlo «Ancora per poco tempo sono con voi; poi vado da colui che mi ha mandato. Voi mi cercherete e non mi troverete; e dove sono io, voi non potete venire» (7,33-34).

In effetti, questo tema in cui Gesù avverte i suoi ascoltatori che sarà con loro ancora per poco tempo, che dovrà andare da colui che lo ha inviato, che sarà dai suoi interlocutori cercato, ma non riusciranno a trovarlo, perché dove sarà lui, essi non potranno andare, nel sèguito del Vangelo avremo modo d’incontrarlo più volte. E queste affermazioni non riusciranno a essere comprese da chi lo ascolta. Incontreremo espressioni di questo tenere nei successivi cap. 8 (8,14.21-22), 12 (12,35-36a), 13 (13,33), 14 (14,1-4.19).


Gesù rispose loro: «Anche se io do testimonianza di me stesso, la mia testimonianza è vera, perché so da dove sono venuto e dove vado. Voi invece non sapete da dove vengo o dove vado. […] Di nuovo disse loro: «Io vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io, voi non potete venire». Dicevano allora i Giudèi: «Vuole forse uccidersi, dal momento che dice: “Dove vado io, voi non potete venire”?» (8,14.21-22).

Anche in questo caso, che approfondiremo nel prossimo capitolo, Gesù si confronta con un gruppo d’interlocutori ostili, ai quali tiene a evidenziare che essi non possono sapere da dove egli venga, e dove vada. Non solo! Essi non potranno seguirlo là dove egli andrà. I Giudèi, a loro volta, non riusciranno a comprendere il significato delle sue affermazioni, sulle quali cercheranno di formulare delle ipotesi fondate sul senso comune.


Allora Gesù disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è tra voi. Camminate mentre avete la luce, perché le tenebre non vi sorprendano; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce, credete nella luce, per diventare figlî della luce» (12,35-36a).

Il riferimento al tempo limitato di presenza tra gli uomini ricorre anche in questo discorso rivolto alla folla del capitolo 12, nel quale Gesù ricorre alla metafora della luce e invita quanti lo ascoltano a trar profitto dalla presenza della luce per camminare, prima di essere sorpresi dalle tenebre: approfittare della luce, per credere nella luce e divenire figlî della luce.


Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudèi, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire (13,33).

Al capitolo 13 invece il riferimento di Gesù è rivolto ai proprî discepoli, ai quali riferisce un messaggio sostanzialmente analogo: egli sarà con loro ancora per poco, essi lo cercheranno, ma non potranno andare dove egli andrà.


Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via» […] Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete (14,1-4.19).

Finalmente nel capitolo 14 Gesù, rivolto anche qui ai discepoli, manifesta più apertamente il senso delle sue parole. Prende le mosse da un invito a superare il turbamento interiore e ad aver fede in Dio e in lui, perché presso il Padre sono disponibili molte dimore. Andando presso il Padre, Gesù preparerà un posto anche per i suoi discepoli, perché dove sarà lui, là saranno anche coloro che lo seguiranno. E del luogo dove egli sta per andare ormai i discepoli conoscono la strada. Tra un po’ il mondo non vedrà più Gesù, ma i discepoli lo vedranno, perché Gesù sarà vivo e anche i discepoli vivranno.

La fede in Dio e in Gesù dunque è la condizione per comprendere il senso autentico della realtà in cui ci si ritrova a vivere e il pre-requisito irrinunciabile per attingere il significato pieno delle parole di Gesù.


Tornando, dopo questa digressione, al brano che stiamo analizzando siamo ora in grado di comprendere come Gesù, con le affermazioni circa il limitato tempo che sarà ancora tra i suoi ascoltatori, il suo dover andare da colui che lo ha mandato, che sarà cercato, ma non trovato, perché non sarà possibile raggiungerlo, vuole in realtà porre in evidenza l’essenzialità della fede in Dio e in lui, quale inviato da Dio. Senza un atteggiamento di fede non sarà possibile comprendere il suo annuncio e prendere la decisione di seguirlo.
L’essenzialità della scelta di fede al fine di comprendere autenticamente il senso del messaggio di Gesù e per scegliere di seguirlo è, poi, confermata dall’evangelista col riportare i dubbî diffusi proprio nel gruppo dei Giudèi sul significato delle affermazioni di Gesù («Dissero dunque tra loro i Giudèi: "Dove sta per andare costui, che noi non potremo trovarlo? Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci? Che discorso è quello che ha fatto: "Voi mi cercherete e non mi troverete", e: "Dove sono io, voi non potete venire"?» - 7,35-36). La condizione di sostanziale non-fede che contraddistingue questo gruppo impedisce loro la comprensione della reale identità di Gesù.
Di qui il loro disperdersi in una pluralità ipotesi velleitarie e poco attendibili sulle reali intenzioni di Gesù («Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci» - 7,35). Il loro pensiero tende comunque a ricondurre il fenomeno nel campo tranquillizzante del conosciuto e del controllabile, pensando a una sua missione presso gli ebrei della diàspora ellenistica o, finanche, presso gli stessi Greci. Non fa capolino alcuno nelle loro riflessione l’apertura al mistero, all’eccezionalità dell’azione di Dio nella storia. Ciò che risulta accessibile, con grande facilità a tanti umili e semplici, resta precluso alle loro menti e ai loro cuori, nonostante essi siano, nei confronti del popolo della Giudèa, i custodi più rigorosi della tradizione della salvezza operata da Dio a favore dei Padri, in Egitto, nel deserto e nell’esilio di Babilonia.


3. L’ultimo giorno della festa.

Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: "Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva". Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato.
All'udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: "Costui è davvero il profeta!". Altri dicevano: "Costui è il Cristo!". Altri invece dicevano: "Il Cristo viene forse dalla Galilèa? Non dice la Scrittura: Dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di Davide, verrà il Cristo?". E tra la gente nacque un dissenso riguardo a lui. Alcuni di loro volevano arrestarlo, ma nessuno mise le mani su di lui (7,37-44).

Il culmine della vicenda si registra nell’ultimo giorno della festa, nel quale Gesù, con un implicito rimando alla visione della “sapienza” risalente al Libro dei Proverbî  («La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la voce» - Pr. 1,20), viene plasticamente descritto come “ritto in piedi” nell’atteggiamento di “gridare” e d’invitare con decisione tutti coloro che hanno “sete”, di accorrere presso di lui per poter bere, credendo in lui. Poi il riferimento alla Scrittura diviene, nelle parole di Gesù, esplicito, rivendicando con chiarezza a sé il ruolo di colui dal quale sgorga l’“acqua viva”. Riecheggiano qui fondamentali testi profetici di Isaia ed Ezechiele:

O voi tutti assetati, venite all'acqua,
voi che non avete denaro, venite,
comprate e mangiate; venite, comprate
senza denaro, senza pagare, vino e latte.
Perché spendete denaro per ciò che non è pane,
il vostro guadagno per ciò che non sazia?
Su, ascoltatemi e mangerete cose buone
e gusterete cibi succulenti.
Porgete l'orecchio e venite a me,
ascoltate e vivrete.
Io stabilirò per voi un'alleanza eterna,
i favori assicurati a Davide (Is. 55,1-3).

Poiché io verserò acqua sul suolo assetato,
torrenti sul terreno arido.
Verserò il mio spirito sulla tua discendenza,
la mia benedizione sui tuoi posteri (Is. 44,3).

Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre impurità e da tutti i vostri idoli, vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne (Ez. 36,25-26).

L’evangelista avverte allora che qui Gesù anticipa la comprensione post-pasquale della venuta dello Spirito («Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» - 7,39), ma, in realtà, noi abbiamo già avuto modo in forma implicita o esplicita, d’incontrare nel nostro percorso il tema dell’“acqua viva” in molti dei brani che abbiamo esaminato (cf. 1,19-28; 2,1-11; 2,13-25; 3,1-15; 3,22-36; 4,1-45; 5,1-18).
Le parole di Gesù sull’acqua viva, inducono nella folla che lo ascolta delle reazioni contrastanti. Alcuni lo riconoscono come un autentico profeta o, addirittura come il “Cristo” (7,40-41). Altri, invece, contestano quest’affermazione messianica, richiamando (7,42) un passo del Secondo libro di Samuele, dove il Signore incarica il profeta Natan di annunziare a Davide che quando i suoi «giorni saranno compiuti e tu [Davide] dormirai con i tuoi padri, io [il Signore] susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile il trono del suo regno per sempre» (2Sam. 7,12-13).


4. La sorpresa delle guardie.

Le guardie tornarono quindi dai capi dei sacerdoti e dai farisèi e questi dissero loro: "Perché non lo avete condotto qui?". Risposero le guardie: "Mai un uomo ha parlato così!". Ma i farisèi replicarono loro: "Vi siete lasciati ingannare anche voi? Ha forse creduto in lui qualcuno dei capi o dei farisèi? Ma questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!" (7,45-49).

Assistiamo ora all’epilogo fallimentare del tentativo posto in atto di arrestare Gesù. Le guardie, incaricate di procedere all’arresto, tornano a mani vuote da coloro che avevano loro commissionato l’operazione: i capi dei sacerdoti e i farisèi, cioè il gruppo di potere che, con grande probabilità, comprende i Giudèi che sono l’obiettivo polemico di Gesù. Questi chiedono alle guardie il motivo per cui non hanno proceduto all’arresto di Gesù. La risposta data dalle guardie è però davvero sorprendente. Anziché cercare una giustificazione del tipo “non lo abbiamo trovato”, “è fuggito”, “siamo stati ingannati”, “ha fatto resistenza”, “i suoi ce lo hanno impedito”, le guardie confessano di aver scientemente scelto di non procedere all’arresto perché «"Mai un uomo ha parlato così!"» (7,46). Un gruppo quale quello delle guardie, che nell’accezione ordinaria è inteso come un gruppo sociale avvezzo a un atteggiamento di mera, puntuale, e spesso anche pedissequa esecuzione degli ordini ricevuti, e, invece…, si trova posto in crisi dalle parole di Gesù e sceglie di sospendere il proprio comportamento e di recedere dagli ordini ricevuti, nel timore di colpire un inviato di Dio.
La reazione dei capi dei sacerdoti e dei farisèi è di autentico sconcerto. Probabilmente il fatto che un gruppo, come le guardie, che ordinariamente dovrebbe essere un affidabile esecutore dei loro ordini, si sia lasciato fuorviare dalle parole di Gesù, appare una sostanziale conferma della pericolosità sociale e religiosa di Gesù. Allora inveiscono contro le guardie accusandole di essersi anch’esse lasciate ingannare da Gesù, seguendo l’opinione facile che si va diffondendo tra la popolazione, che in gran parte non conosce la Scrittura e si lascia fuorviare dalle apparenze. A prova di ciò, essi adducono la constatazione che nessuno tra i capi e tra i farisèi, cioè tra quanti hanno una larga conoscenza della Scrittura, ha creduto in Gesù (7,49).


5. Nicodèmo e il gruppo dei Giudèi.

Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: "La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?". Gli risposero: "Sei forse anche tu della Galilèa? Studia, e vedrai che dalla Galilèa non sorge profeta!". E ciascuno tornò a casa sua (7,50-53).

È stato appena affermato che nessuno tra i capi e tra i farisèi ha creduto in Gesù, che con una singolare coincidenza torna sulla scena un personaggio che abbiamo già incontrato, nel precedente capitolo 3, Nicodèmo, del quale si tiene a sottolineare che era uno di loro, ma il narratore tiene anche a ricordare che in precedenza costui era andato da Gesù. Ne abbiamo parlato analizzando il brano 3,1-15, dove abbiamo potuto verificare l’interesse sincero di un maestro come Nicodèmo per la persona di Gesù, un interesse tuttavìa che non era giunto a determinare nello stesso Nicodèmo la maturazione di una scelta esplicita di sequela, per paura della reazione dei farisèi e dei Giudèi, di cui l’evangelista ha asserito che era uno dei capi. Quasi a smentire la precedente affermazione rivolta alle guardie circa la constatazione che nessuno dei capi aveva creduto in Gesù, nella discussione interviene Nicodèmo, che prende le difese di Gesù, in una logica che oggi definiremmo “garantista”. Nicodèmo infatti cerca una mediazione con la logica di potere dei capi dei sacerdoti e dei farisèi, in difesa di Gesù, richiama all’indicazione fondata sulla Legge di non esprimere giudizî su un uomo senza averlo prima ascoltato (7,51). Il riferimento operato da Nicodèmo richiama un significativo testo del Deuteronomio, dove Mosè afferma: «in quel tempo diedi quest’ordine ai vostri giudici: “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui” (Dt. 1,16). Questo richiamo operato da Nicodèmo, da un lato, tende a creare le condizioni per un confronto aperto e dialogante tra Gesù e i Giudèi, nella convinzione che una serena discussione avrebbe potuto fare emergere e rendere chiaro e far riconoscere il carattere unico della persona di Gesù; dall’altro, pone tuttavìa in luce che in merito a Gesù i Giudèi hanno di fatto ignorato una precisa disposizione della Legge (quello di ascoltare le persone prima di accusarle), nonostante il gruppo dei Giudèi si proponga pubblicamente come un rigoroso custode dell’osservanza della Legge.
A quest’osservazione gli altri farisèi e capi dei sacerdoti piccati rimbeccano Nicodèmo, sospettandolo di essere Galilèo e invitandolo a studiare con profondità le Scritture per rendersi conto che dalla Galilèa non può sorgere un profeta. In pratica essi riprendono l’argomento utilizzato da alcune componenti della “folla” al precedente v. 41.


6. Alcune osservazioni.

A questo punto può essere interessante operare un confronto tra i varî personaggî collettivi che fanno la loro comparsa in questo brano: gli abitanti di Gerusalemme, i capi, la folla, i farisèi, i capi dei sacerdoti, le guardie, i Giudèi, la gente. Alcuni di questi gruppi possono essere considerati sostanzialmente coincidenti e le diversificate espressioni usate in questo brano in realtà contraddistinguono lo stesso gruppo. È questo il caso delle espressioni “abitanti di Gerusalemme”, “folla” e “gente”, che in realtà sono usate per indicare il popolo di Gerusalemme che incontra o cerca d’incontrare Gesù e di capire chi in realtà egli sia. All’interno di questo gruppo si registrano posizioni diversificate. Da un lato, si registra da parte di alcuni un rifiuto deciso di Gesù; dall’altro, non manca chi invece riconosce la sua statura profetica e si chiede se, in realtà, egli non sia Il Cristo. Predomina, però, una profonda paura dei capi e ci s’interroga su quale sia la posizione che i capi hanno assunto su di lui.
Poi ricorrono i gruppi dei “capi”, dei “capi dei sacerdoti”, dei “farisèi” e dei “Giudèi”. È molto probabile che le due espressioni “capi” e “capi dei sacerdoti”, in realtà indichino lo stesso gruppo: un gruppo di dignità sacerdotale, con una funzione, socialmente riconosciuta, di guida religiosa.
I farisèi si configurano invece come un gruppo religioso con un’identità precisa, contrassegnato dalla pratica di un’attenta verifica degli umori che si diffondono negli strati popolari e da una volontà esplicita di orientarli in direzione di una corretta pratica cultuale che non pregiudichi l’influenza politica e sociale dei gruppi dirigenti.
Il gruppo dei Giudèi appare composto dai capi dei sacerdoti e dai farisèi, una realtà quindi composita, ma rappresentativa del ceto dirigente religioso e sociale, che s’interroga sull’identità autentica di Gesù, sulla cui persona s’interroga attraverso uno sforzo interpretativo delle Scritture condotto in una forma tutto sommato letterale, piuttosto che sostanziale.
A sorprendere, invece, è il comportamento delle guardie, che, incaricate dai capi di procedere all’arresto di Gesù, una volta entrati in contatto con lui, nell’ascoltare le sue parole, devono onestamente constatare che «mai un uomo ha parlato così!» (7,46), vanno in crisi e decidono di sospendere l’esecuzione degli ordini ricevuti, assumendo, almeno temporaneamente, un atteggiamento di sostanziale insubordinazione che irrita i farisèi.
Questi sono, come abbiamo visto, preoccupati delle posizioni indecise su Gesù che serpeggiano tra il popolo e dei possibili riconoscimenti di una sua statura profetica. Un cedimento di “opinione pubblica” molto pericoloso, che ha finito per coinvolgere persino uno dei gruppi più fidati, quali quello delle “guardie”. Di qui la rivendicazione della unità e tenuta del gruppo dei capi e dei farisèi. Ma, con una sorta di ironia narrativa, quest’affermazione di tenuta monolitica del gruppo viene posta anch’essa in dubbio, sia pur timidamente, dalla posizione garantista di Nicodèmo, uno di loro.
Questo dato costituito dalla posizione di Nicodèmo, sia pur timorosa e timida, è comunque il segno che anche nel contesto di un gruppo sociale, dotato di una rigoroso e forte sistema di controllo interno, è possibile comunque fare la “scelta” di seguire Gesù.

Vico Equense, mercoledì 28 ottobre 2015
Sergio Sbragia

sabato 17 ottobre 2015

A proposito de La biblioteca luogo del “saper fare”?


Nei giorni scorsi, commentando un saggio di Maria Stella Rasetti (I “makerspaces” in biblioteca: una moda passeggera o accesso al futuro? / Maria Stella Rasetti. – in «Biblioteche oggi : Rivista di informazione aggiornamento e dibattito», 33. (2015) 4, 17-37) ho invitato ad aprire una riflessione comune sul possibile futuro dei “makerspaces” in biblioteca.
Trattandosi di un terreno, per me, davvero nuovo ho cercato di saperne di più. In proposito ho trovato davvero utile uno speciale pubblicato su “Le Scienze” n. 540. Lo suggerisco a quanti eventualmente desiderano approfondire il tema:

“Il futuro delle fabbriche” / speciale a cura di Riccardo Hausmann. – in «Le Scienze : Edizione italiana di Scientific American», (2013) 540, 80-95.

Lo speciale comprende i seguenti contributi:
- Il mio capo è un robot / David Bourne;
- Materiali di domani / Steven Ashley;
- Stampare l’impossibile / Larry Greenemeier;
- L’alba delle Nano Macchine / Mihail C. Roco;
- Assemblaggi virtuali / James D. Myers.


Si tratta di uno “speciale” davvero utile per sapere qualcosa in più su stampanti tridimensionali, plotter e altri strumenti tipici dei “makerspaces”, nonché sulla loro funzione nell’evoluzione delle attività produttive.

Se il rigore è fischiato a favore, è una decisione sacrosanta; se, invece, è fischiato contro, l’arbitro è venduto!




“Un attacco politico…”
… ovvero: se il rigore è fischiato a favore, è una decisione sacrosanta;
se, invece, è fischiato contro, l’arbitro è venduto!

Seguendo le notizie di stampa sul recente scandalo della sanità lombarda ho avuto in proposito la ventura di leggere una singolare dichiarazione del leader della Lega Nord, Sig. Matteo Salvini, che ha definito l’iniziativa della magistratura “un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia” [la dichiarazione del Sig. Salvini è ripresa da http://milano.repubblica.it/cronaca/2015/10/14/news/salvini-125043397/].
Siamo abituati a vedere il Sig. Salvini, in occasione dei purtroppo frequenti scandali che caratterizzano la vita politica italiana, avventarsi come un falco sulla vicenda di volta in volta i discussione, esigendo immediate dimissioni e punizioni esemplari per i responsabili, proponendo, al contempo, la propria parte politica come l’unica alternativa credibile alla mala politica dilagante.
Questa volta, invece, poiché la vicenda coinvolge personalità legate alla Lega nord, il Sig. Salvini allora smette le vesti di accusatore sanfedista per indossare quelle di avvocato d’ufficio, e parla immediatamente di “un attacco politico”, cioè di un’iniziativa della magistratura che deborderebbe dalla sua funzione di salvaguardia della legalità per condizionare la normalità della vita politica.
Un atteggiamento, quello del Sig. Salvini, che, come ho detto in apertura, ricorda un po’ quei i tifosi, per i quali, se il rigore è fischiato a favore, è una decisione sacrosanta; se, invece, è fischiato contro, l’arbitro è venduto! Un comportamento, in sintesi, “dei due pesi e delle due misure”, cioè: tutti sono tenuti a rispettare la legge, con la sola eccezione di una minoranza di privilegiati, quelli che rappresentano la parte politica di cui si è alla guida. Una derivazione del principio della “personalità del diritto” di ascendenza germano-barbarica, secondo il quale era del tutto legittima l’esenzione dalle norme comuni della vita civile per il ceto degli adelingi.
Nel nostro paese spesso si contamina e si svilisce il dibattito politico, trasformandolo in un rissoso confronto senza regole sulla cronaca giudiziaria tra spettatori assetati di sangue e desiderosi di dare i propri nemici in pasto alle fiere, da un lato, e, dall’altro, presunti difensori che, per dovere di comparaggio, s’impegnano in improbabili arrampicate sugli specchî per dimostrare che i veri colpevoli sono coloro che amministrano la giustizia, se non addirittura quanti sono vittime delle malefatte in questione.
Eppure la cronaca giudiziaria dovrebbe essere rigorosamente esclusa dal dibattito politico. È il principio democratico della divisione dei poteri a prescriverlo. L’amministrazione della giustizia va esercitata nelle aule giudiziarie, che sono l’unico luogo costituzionalmente abilitato a giudicare la legittimità delle azioni dei cittadini. È questo il principio dell’autonomia della magistratura. Un principio che è fondato sulla separazione dei poteri, sancito dalla Costituzione, tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario. Un’articolazione, quella della separazione e dell’autonomia dei poteri, che costituisce una delle caratteristiche fondanti delle società democratiche, sostanzialmente condiviso e riconosciuto in tutte le grandi democrazie.
Quando un uomo politico, ma anche un comune cittadino, nel corrente dibattito politico, anziché affrontare temi di natura politica, legati al come organizzare la civile convivenza, molto spesso per mancanza di argomenti, scade a parlare e occuparsi di cronaca giudiziaria, in realtà calpesta il principio democratico della separazione dei poteri e non rispetta l’autonomia della magistratura. I casi giudiziarî si affrontano solo nelle sedi proprie, cioè le aule giudiziarie (non quelle parlamentari e, tanto meno, i talk show televisivi). Se si ha qualcosa da dire nel merito dei singoli casi, in quanto informati su fatti specifici, il dovere è quello di mettersi a disposizione degli inquirenti, non quello di sviare il dibattito politico dalle sue finalità proprie.
Se poi si hanno dei dubbî sulla correttezza dell’azione degli inquirenti, occorre ricordare che il nostro ordinamento prevede norme, modalità per porli in evidenza. Ci sono luoghi appositi ove far valere le proprie ragioni, che non sono certo le aule parlamentari, né il dibattito politico sulla stampa e in televisione. Molto spesso, la difesa fuori luogo da parte di leader politici si rivela in realtà dannoso proprio per le persone indagate e utile solo alla popolarità mediatica del politico goffamente protestatario.
Purtroppo il ventennio berlusconiano-leghista ha reso noi cittadini italiani poco sensibili alla pericolosità democratica di tali comportamenti da parte del ceto politico. Lo consideriamo una cosa normale, invece è un grave attentato alla democrazia. Dobbiamo riabituarci all’essenzialità e all’irrinunciabilità delle regole democratiche di base.
Dobbiamo essere consapevoli che la storia ci mostra ampiamente due comuni caratteristiche dei regimi totalitari: da un lato, un ceto privilegiato che è libero di sorvolare sui comuni doveri imposti a tutti gli altri, e, dall’altro, la disponibilità di molte arene in cui incitare belve (reali o mediatiche, cambia poco) a sbranare veri o presunti nemici pubblici.
Quando un politico, anziché occuparsi di temi politici, si dedica all’analisi mediatica di casi di cronaca giudiziaria (poco importa, se nelle vesti, entrambe abusive, di accusatore o di difensore) dà luogo a un comportamento, a mio avviso, esplicitamente autoritario e antidemocratico, oltre che una chiara dimostrazione della propria minuscola statura politica.
Per il bene del paese e per il futuro delle istituzioni democratiche dovremmo imparare a “bacchettare sonoramente” questi comportamenti politici di pessima qualità. Continuare a ignorare questo dovere civico potrà significare, dopo il tunnel del ventennio berlusconiano-leghista, altri tristi lunghi periodi dolorosi per la nostra Italia.
Ma, se vogliamo, possiamo evitarlo, se sapremo democraticamente, ma con chiarezza e senza reticenza alcuna (cioè con il nostro nome e con il nostro viso), “dire no” a chi pretende di essere al di sopra delle regole democratiche: libertà, rispetto per le posizioni contrarie, comune dedizione per il bene comune, rispetto delle diverse funzioni pubbliche, coerenza etica. E questo richiede anche che sia assicurato il pieno e assoluto rispetto del dettato costituzionale che prevede che “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” (Costituzione della Repubblica italiana, art. 25), magari per essere superficialmente condannato o assolto nell’àmbito di un talk show televisivo.
Vico Equense, sabato 17 ottobre 2015
Sergio Sbragia