“Un attacco politico…”
… ovvero: se il rigore è fischiato a
favore, è una decisione sacrosanta;
se, invece, è fischiato contro,
l’arbitro è venduto!
Seguendo
le notizie di stampa sul recente scandalo della sanità lombarda ho avuto in
proposito la ventura di leggere una singolare dichiarazione del leader della
Lega Nord, Sig. Matteo Salvini, che ha definito l’iniziativa della magistratura
“un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia” [la dichiarazione
del Sig. Salvini è ripresa da http://milano.repubblica.it/cronaca/2015/10/14/news/salvini-125043397/].
Siamo
abituati a vedere il Sig. Salvini, in occasione dei purtroppo frequenti
scandali che caratterizzano la vita politica italiana, avventarsi come un falco
sulla vicenda di volta in volta i discussione, esigendo immediate dimissioni e
punizioni esemplari per i responsabili, proponendo, al contempo, la propria
parte politica come l’unica alternativa credibile alla mala politica dilagante.
Questa
volta, invece, poiché la vicenda coinvolge personalità legate alla Lega nord, il
Sig. Salvini allora smette le vesti di accusatore sanfedista per indossare
quelle di avvocato d’ufficio, e parla immediatamente di “un attacco politico”,
cioè di un’iniziativa della magistratura che deborderebbe dalla sua funzione di
salvaguardia della legalità per condizionare la normalità della vita politica.
Un
atteggiamento, quello del Sig. Salvini, che, come ho detto in apertura, ricorda
un po’ quei i tifosi, per i quali, se il rigore è
fischiato a favore, è una decisione sacrosanta; se, invece, è fischiato contro,
l’arbitro è venduto! Un comportamento, in sintesi, “dei due pesi e delle due misure”,
cioè: tutti sono tenuti a rispettare la legge, con la sola eccezione di una
minoranza di privilegiati, quelli che rappresentano la parte politica di cui si
è alla guida. Una derivazione del principio della “personalità del diritto” di
ascendenza germano-barbarica, secondo il quale era del tutto legittima
l’esenzione dalle norme comuni della vita civile per il ceto degli adelingi.
Nel
nostro paese spesso si contamina e si svilisce il dibattito politico, trasformandolo
in un rissoso confronto senza regole sulla cronaca giudiziaria tra spettatori
assetati di sangue e desiderosi di dare i propri nemici in pasto alle fiere, da
un lato, e, dall’altro, presunti difensori che, per dovere di comparaggio, s’impegnano
in improbabili arrampicate sugli specchî per dimostrare che i veri colpevoli
sono coloro che amministrano la giustizia, se non addirittura quanti sono
vittime delle malefatte in questione.
Eppure
la cronaca giudiziaria dovrebbe essere rigorosamente esclusa dal dibattito
politico. È il principio democratico della divisione dei poteri a prescriverlo.
L’amministrazione della giustizia va esercitata nelle aule giudiziarie, che
sono l’unico luogo costituzionalmente abilitato a giudicare la legittimità
delle azioni dei cittadini. È questo il principio dell’autonomia della
magistratura. Un principio che è fondato sulla separazione dei poteri, sancito
dalla Costituzione, tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario. Un’articolazione,
quella della separazione e dell’autonomia dei poteri, che costituisce una delle
caratteristiche fondanti delle società democratiche, sostanzialmente condiviso
e riconosciuto in tutte le grandi democrazie.
Quando
un uomo politico, ma anche un comune cittadino, nel corrente dibattito
politico, anziché affrontare temi di natura politica, legati al come
organizzare la civile convivenza, molto spesso per mancanza di argomenti, scade
a parlare e occuparsi di cronaca giudiziaria, in realtà calpesta il principio
democratico della separazione dei poteri e non rispetta l’autonomia della
magistratura. I casi giudiziarî si affrontano solo nelle sedi proprie, cioè le
aule giudiziarie (non quelle parlamentari e, tanto meno, i talk show
televisivi). Se si ha qualcosa da dire nel merito dei singoli casi, in quanto
informati su fatti specifici, il dovere è quello di mettersi a disposizione
degli inquirenti, non quello di sviare il dibattito politico dalle sue finalità
proprie.
Se poi
si hanno dei dubbî sulla correttezza dell’azione degli inquirenti, occorre
ricordare che il nostro ordinamento prevede norme, modalità per porli in
evidenza. Ci sono luoghi appositi ove far valere le proprie ragioni, che non
sono certo le aule parlamentari, né il dibattito politico sulla stampa e in
televisione. Molto spesso, la difesa fuori luogo da parte di leader politici si
rivela in realtà dannoso proprio per le persone indagate e utile solo alla
popolarità mediatica del politico goffamente protestatario.
Purtroppo
il ventennio berlusconiano-leghista ha reso noi cittadini italiani poco
sensibili alla pericolosità democratica di tali comportamenti da parte del ceto
politico. Lo consideriamo una cosa normale, invece è un grave attentato alla
democrazia. Dobbiamo riabituarci all’essenzialità e all’irrinunciabilità delle regole
democratiche di base.
Dobbiamo
essere consapevoli che la storia ci mostra ampiamente due comuni
caratteristiche dei regimi totalitari: da un lato, un ceto privilegiato che è
libero di sorvolare sui comuni doveri imposti a tutti gli altri, e, dall’altro,
la disponibilità di molte arene in cui incitare belve (reali o mediatiche,
cambia poco) a sbranare veri o presunti nemici pubblici.
Quando un
politico, anziché occuparsi di temi politici, si dedica all’analisi mediatica di
casi di cronaca giudiziaria (poco importa, se nelle vesti, entrambe abusive, di
accusatore o di difensore) dà luogo a un comportamento, a mio avviso, esplicitamente
autoritario e antidemocratico, oltre che una chiara dimostrazione della propria
minuscola statura politica.
Per il
bene del paese e per il futuro delle istituzioni democratiche dovremmo imparare
a “bacchettare sonoramente” questi comportamenti politici di pessima qualità. Continuare
a ignorare questo dovere civico potrà significare, dopo il tunnel del ventennio
berlusconiano-leghista, altri tristi lunghi periodi dolorosi per la nostra
Italia.
Ma, se
vogliamo, possiamo evitarlo, se sapremo democraticamente, ma con chiarezza e
senza reticenza alcuna (cioè con il nostro nome e con il nostro viso), “dire no”
a chi pretende di essere al di sopra delle regole democratiche: libertà, rispetto
per le posizioni contrarie, comune dedizione per il bene comune, rispetto delle
diverse funzioni pubbliche, coerenza etica. E questo richiede anche che sia
assicurato il pieno e assoluto rispetto del dettato costituzionale che prevede
che “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale
precostituito per legge” (Costituzione della Repubblica italiana, art. 25), magari
per essere superficialmente condannato o assolto nell’àmbito di un talk show
televisivo.
Vico Equense, sabato 17 ottobre 2015
Sergio Sbragia
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