sabato 17 ottobre 2015

Se il rigore è fischiato a favore, è una decisione sacrosanta; se, invece, è fischiato contro, l’arbitro è venduto!




“Un attacco politico…”
… ovvero: se il rigore è fischiato a favore, è una decisione sacrosanta;
se, invece, è fischiato contro, l’arbitro è venduto!

Seguendo le notizie di stampa sul recente scandalo della sanità lombarda ho avuto in proposito la ventura di leggere una singolare dichiarazione del leader della Lega Nord, Sig. Matteo Salvini, che ha definito l’iniziativa della magistratura “un attacco politico alla Regione meglio governata d’Italia” [la dichiarazione del Sig. Salvini è ripresa da http://milano.repubblica.it/cronaca/2015/10/14/news/salvini-125043397/].
Siamo abituati a vedere il Sig. Salvini, in occasione dei purtroppo frequenti scandali che caratterizzano la vita politica italiana, avventarsi come un falco sulla vicenda di volta in volta i discussione, esigendo immediate dimissioni e punizioni esemplari per i responsabili, proponendo, al contempo, la propria parte politica come l’unica alternativa credibile alla mala politica dilagante.
Questa volta, invece, poiché la vicenda coinvolge personalità legate alla Lega nord, il Sig. Salvini allora smette le vesti di accusatore sanfedista per indossare quelle di avvocato d’ufficio, e parla immediatamente di “un attacco politico”, cioè di un’iniziativa della magistratura che deborderebbe dalla sua funzione di salvaguardia della legalità per condizionare la normalità della vita politica.
Un atteggiamento, quello del Sig. Salvini, che, come ho detto in apertura, ricorda un po’ quei i tifosi, per i quali, se il rigore è fischiato a favore, è una decisione sacrosanta; se, invece, è fischiato contro, l’arbitro è venduto! Un comportamento, in sintesi, “dei due pesi e delle due misure”, cioè: tutti sono tenuti a rispettare la legge, con la sola eccezione di una minoranza di privilegiati, quelli che rappresentano la parte politica di cui si è alla guida. Una derivazione del principio della “personalità del diritto” di ascendenza germano-barbarica, secondo il quale era del tutto legittima l’esenzione dalle norme comuni della vita civile per il ceto degli adelingi.
Nel nostro paese spesso si contamina e si svilisce il dibattito politico, trasformandolo in un rissoso confronto senza regole sulla cronaca giudiziaria tra spettatori assetati di sangue e desiderosi di dare i propri nemici in pasto alle fiere, da un lato, e, dall’altro, presunti difensori che, per dovere di comparaggio, s’impegnano in improbabili arrampicate sugli specchî per dimostrare che i veri colpevoli sono coloro che amministrano la giustizia, se non addirittura quanti sono vittime delle malefatte in questione.
Eppure la cronaca giudiziaria dovrebbe essere rigorosamente esclusa dal dibattito politico. È il principio democratico della divisione dei poteri a prescriverlo. L’amministrazione della giustizia va esercitata nelle aule giudiziarie, che sono l’unico luogo costituzionalmente abilitato a giudicare la legittimità delle azioni dei cittadini. È questo il principio dell’autonomia della magistratura. Un principio che è fondato sulla separazione dei poteri, sancito dalla Costituzione, tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario. Un’articolazione, quella della separazione e dell’autonomia dei poteri, che costituisce una delle caratteristiche fondanti delle società democratiche, sostanzialmente condiviso e riconosciuto in tutte le grandi democrazie.
Quando un uomo politico, ma anche un comune cittadino, nel corrente dibattito politico, anziché affrontare temi di natura politica, legati al come organizzare la civile convivenza, molto spesso per mancanza di argomenti, scade a parlare e occuparsi di cronaca giudiziaria, in realtà calpesta il principio democratico della separazione dei poteri e non rispetta l’autonomia della magistratura. I casi giudiziarî si affrontano solo nelle sedi proprie, cioè le aule giudiziarie (non quelle parlamentari e, tanto meno, i talk show televisivi). Se si ha qualcosa da dire nel merito dei singoli casi, in quanto informati su fatti specifici, il dovere è quello di mettersi a disposizione degli inquirenti, non quello di sviare il dibattito politico dalle sue finalità proprie.
Se poi si hanno dei dubbî sulla correttezza dell’azione degli inquirenti, occorre ricordare che il nostro ordinamento prevede norme, modalità per porli in evidenza. Ci sono luoghi appositi ove far valere le proprie ragioni, che non sono certo le aule parlamentari, né il dibattito politico sulla stampa e in televisione. Molto spesso, la difesa fuori luogo da parte di leader politici si rivela in realtà dannoso proprio per le persone indagate e utile solo alla popolarità mediatica del politico goffamente protestatario.
Purtroppo il ventennio berlusconiano-leghista ha reso noi cittadini italiani poco sensibili alla pericolosità democratica di tali comportamenti da parte del ceto politico. Lo consideriamo una cosa normale, invece è un grave attentato alla democrazia. Dobbiamo riabituarci all’essenzialità e all’irrinunciabilità delle regole democratiche di base.
Dobbiamo essere consapevoli che la storia ci mostra ampiamente due comuni caratteristiche dei regimi totalitari: da un lato, un ceto privilegiato che è libero di sorvolare sui comuni doveri imposti a tutti gli altri, e, dall’altro, la disponibilità di molte arene in cui incitare belve (reali o mediatiche, cambia poco) a sbranare veri o presunti nemici pubblici.
Quando un politico, anziché occuparsi di temi politici, si dedica all’analisi mediatica di casi di cronaca giudiziaria (poco importa, se nelle vesti, entrambe abusive, di accusatore o di difensore) dà luogo a un comportamento, a mio avviso, esplicitamente autoritario e antidemocratico, oltre che una chiara dimostrazione della propria minuscola statura politica.
Per il bene del paese e per il futuro delle istituzioni democratiche dovremmo imparare a “bacchettare sonoramente” questi comportamenti politici di pessima qualità. Continuare a ignorare questo dovere civico potrà significare, dopo il tunnel del ventennio berlusconiano-leghista, altri tristi lunghi periodi dolorosi per la nostra Italia.
Ma, se vogliamo, possiamo evitarlo, se sapremo democraticamente, ma con chiarezza e senza reticenza alcuna (cioè con il nostro nome e con il nostro viso), “dire no” a chi pretende di essere al di sopra delle regole democratiche: libertà, rispetto per le posizioni contrarie, comune dedizione per il bene comune, rispetto delle diverse funzioni pubbliche, coerenza etica. E questo richiede anche che sia assicurato il pieno e assoluto rispetto del dettato costituzionale che prevede che “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” (Costituzione della Repubblica italiana, art. 25), magari per essere superficialmente condannato o assolto nell’àmbito di un talk show televisivo.
Vico Equense, sabato 17 ottobre 2015
Sergio Sbragia

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