La recente Assemblea
straordinaria del Sinodo dei vescovi, sul tema "Le sfide pastorali sulla
famiglia nel contesto dell’evangelizzazione", è stata un evento di grande
rilievo, sul quale è opportuno operare un’attenta riflessione. La sua
convocazione (posta in una sorta di staffetta con quella dell’Assemblea ordinaria,
prevista per il prossimo anno sul tema della vocazione e della missione della
famiglia nella chiesa e nel mondo) è stata un gesto di grande rilevanza operato
da papa Francesco, che, senz’esitazione, ha scelto di mettere a tema uno dei
punti più delicati nella vita della chiesa, sia sul piano dell’approfondimento
interno, sia riguardo alle sue relazioni con la società di oggi.
Il tema del Sinodo
straordinario ha avuto un’evidente intonazione pastorale («Le sfide pastorali…»), mentre un approfondimento di natura più
propriamente dottrinale appare previsto nei lavori dell’assemblea ordinaria del
prossimo anno dove saranno a tema la vocazione e la missione della famiglia. In
vista di tale appuntamento l’assemblea dello scorso ottobre ha svolto la
funzione di mettere a fuoco la complessità dei temi connessi con la pastorale
familiare e di offrire una pista di riflessione e di approfondimento per
l’intera comunità ecclesiale in vista dell’appuntamento del prossimo anno.
La scelta di conferire la
priorità dell’approccio pastorale, non mi sembra un’opzione riduttiva o dilatoria,
rispetto alla considerazione degli aspetti di certo più stringenti da declinare
in sede dottrinale. A mio avviso una comprensione chiara delle urgenze
pastorali che, sul tema della famiglia, si pongono alla comunità ecclesiale può
contribuire nel prossimo anno, grazie a un approfondito, serio e partecipato
confronto (“ad intra” e
“ad extra”) a compiere dei concreti passi avanti nella più piena
comprensione sul piano dottrinale dell’autentico annuncio cristiano sulla
famiglia.
Una metodologia inedita.
Questa scelta è stata poi
accompagnata dall’avvio di un’inedita iniziativa di consultazione rivolta, sul
tema sinodale, all’intera compagine ecclesiale e dall’indicazione chiara data
ai padri sinodali di contribuire ai lavori con la massima libertà.
Quest’aspetto, per così dire, metodologico costituisce un’autentica novità
introdotta, per volontà di papa Francesco, rispetto all’abituale agenda dei lavori
delle Assemblee sinodali dal post-concilio a oggi. Una novità significativa
nonostante i limiti di realizzazione che gli input di Francesco hanno poi
incontrato in pratica.
I lavori sinodali sono stati
caratterizzati da un dibattito molto vivo, nel corso del quale sono venute alla
luce posizioni molto diverse presenti tra i padri sinodali. Date le premesse
metodologiche poste da papa Francesco e il travaglio ecclesiale degli ultimi
decennî, non sarebbe stato di certo immaginabile su un tema così delicato uno
scenario di unanimistica convergenza.
La Relatio synodi.
La Relatio synodi, il documento conclusivo che opera la sintesi del
dibattito assembleare reca i segni di questa significativa articolazione di
posizioni, sia nella forma esplicita nel resoconto testuale dei lavori, sia
attraverso l’allegata tabella che documenta le modalità di approvazione dei
singoli paragrafi.
Il testo delinea tre scenarî di
fondo. Il primo di essi si caratterizza come “ascolto”, come lettura della
realtà odierna, con la quale le famiglie concrete si trovano a fare i conti,
nei varî contesti socio-culturali in tutto il pianeta, senza evitare di
considerarne, sia pur sommariamente, tutti i problemi e tutti i nodi caldi.
Il secondo scenario, introdotto
dalla preziosa indicazione metodologica fornita da papa Francesco, nel discorso
del 4 ottobre, a «mantenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo», propone un
itinerario di riflessione sui principali momenti in cui si articola la
testimonianza biblica sulla famiglia e sul contributo offerto dai principali
momenti di elaborazione e approfondimento maturati nel corso dell’esperienza
ecclesiale dell’insegnamento della chiesa.
Il terzo e conclusivo scenario
tracciato dal documento, denominato “confronto”, cerca di porre a fuoco le
prospettive pastorali su cui la comunità ecclesiale è chiamata a riflettere e a
spendersi. È questa la parte più controversa del documento, come testimoniato
dal significativo numero di “non placet”
registrati da varî paragrafi di quest’ultima parte del documento.
Temi delicati.
Non sono di certo in grado di
fare una valutazione complessiva dei lavori sinodali, ma a questo punto vorrei
operare alcune osservazioni di contenuto sul documento, come mio personale contributo
all’avvio di un confronto comunitario sui temi sinodali da offrire alla
riflessione ecclesiale di questo anno che ci separa da prossimo evento
sinodale.
“Il
Vangelo della famiglia”. Un primo elemento che mi appare
alquanto problematico è l’espressione, ricorrente più volte nel corso del
documento, di “Vangelo della famiglia”. Personalmente non amo accostare al
“Vangelo” delle differenziazioni specifiche di condizioni, di luogo, di
missioni particolari, com’è il caso ricorrente anche per altri àmbiti (il
“Vangelo del lavoro”, il “Vangelo della sofferenza”, ecc). Credo che il
“Vangelo” sia un messaggio unico rivolto a tutti gli uomini e a tutte le donne,
di ogni cultura, qualunque sia la condizione di vita, l’ambiente in cui sono
inseriti e le sfide particolari che sono chiamati a raccogliere. Il “Vangelo”
ha una caratteristica unitaria e costituisce una sfida per tutti e per
ciascuno, da declinare nelle concrete condizioni di vita in cui si è immersi.
Ciò naturalmente non esclude che dal messaggio evangelico riceviamo degli
stimoli decisivi e impegnativi in ordine a particolari condizioni ambientali e
di vita.
“La
realtà dell’individualismo”. Un
secondo elemento che colgo come problematico, rispetto al quale lamento un
incompleto approfondimento, è costituito dalla considerazione
dell’individualismo esasperato come fattore che snatura i legami familiari
nella sola dimensione di fenomeno culturale. Qui non percepisco, infatti,
alcuno sforzo di comprensione delle logiche di potere, in atto nell’attuale
realtà di universalizzazione dei rapporti, che di fatto promuovono con forza la
frammentazione delle relazioni, la reciproca competitività come valore
assoluto, la contabilizzazione estrema del tempo. Realtà queste che
conferiscono al dato dell’individualismo una connotazione che può risultare
arduo scalfire solo attraverso la proposizione dei valori autentici della
persona umana e della sua dimensione relazionale, familiare, sociale,
ecclesiale e di filialità divina. Appare senza dubbio necessario affiancare a
tale azione anche l’avvio di una riflessione
sulla necessità di parlare con chiarezza dei meccanismi politici,
sociali ed economici che presiedono nella società odierna alla promozione
dell’individualismo e, peggio, dell’isolamento dei singoli.
“Il
concetto teologico di natura”. Anche
se non posto in grande evidenza nella Relatio
synodi, proprio per la prevalente prospettiva pastorale del documento,
ritengo che nella riflessione in stile sinodale che ci deve vedere impegnati in
quest’anno che ci separa dall’Assemblea ordinaria, sia imprescindibile condurre
un’approfondita riflessione sul concetto teologico di natura, al quale si fa
ampiamente riferimento in sede di etica familiare e della vita fisica. In realtà
questo concetto teologico appare fortemente debitore di una concezione di
ascendenza giusnaturalistica, che ha fortemente contribuito a confinare la
comprensione della realtà della natura, su un piedistallo fatto d’immutabilità,
fissismo, immobilismo e isolamento, e ha finito per porre tra parentesi la
creaturalità della stessa natura, il suo essere dono dell’atto creativo di Dio.
Questa scissione determinatasi nel pensiero teologico tra natura e creazione costituisce
un nodo che appare necessario aggredire, nella prospettiva di un “far teologia”
sulle strade del mondo, declinando opportunamente una comprensione della
creazione come realtà non statica, né immobile, ma vivente in permanenza in una
condizione di crescita e di apertura alla novità contraddistinta dal dolore del
parto. E nella creazione è poi presente anche la capacità umana d’intervenire
sulla realtà, per custodirla, ma anche per trasformarla. Una capacità, che è
parte integrante della creazione, e che è essenziale responsabilizzare. E una tale
prospettiva di responsabilizzazione difficilmente può essere coltivata se non
si ha il coraggio ermeneutico di uscire dalle ristrettezze dell’alternativa
precetto-proibizione, per additare con autorevolezza la via del discernimento
rigoroso del giusto e dell’ingiusto, di fronte all’impegno di perseguire il
fine di salvaguardare la creazione e di servire la condizione umana anche
facendo uso del frutto delle nuove conoscenze umane, che nell’àmbito del creato
si sono determinate e sono state possibili.
“Inadeguatezza
del concetto d’indissolubilità”. Mi
farebbe, poi, piacere che venga anche aperta una riflessione serena sul
concetto d’indissolubilità del matrimonio. Un concetto, a dire il vero molto
utilizzato nei documenti del magistero ecclesiale, che però per la sua
derivazione dal linguaggio giuridico, penalizza fortemente la dimensione di
grazia sacramentale insita nel matrimonio. La scelta libera di due persone di
unire sul piano sacramentale e dinanzi a Dio le proprie vite, riveste le
caratteristiche di un’opzione fondamentale di vita, un orientamento decisivo,
perenne e responsabile della propria esistenza, condiviso con l’altro/a. È una
scelta compiuta congiuntamente nella libertà, nella responsabilità e nella
gioia, che coinvolge i contraenti nella globalità della loro esistenza. Il
concetto d’indissolubilità si espone, invece, al rischio di ridurre l’impegno
reciproco di amore, dedizione e di fedeltà, a un mero precetto esteriore che
snatura la realtà più autentica e coinvolgente del matrimonio, che è a un tempo storica ma
anche aperta a una prospettiva escatologica, riducendola a un mero rapporto
giuridico di natura contrattuale. Anche sul piano dell’esperienza personale,
trovo un certo disagio a confrontarmi con il concetto d’indissolubilità. Le innumerevoli
felici esperienze matrimoniali, che illuminano l’intera esistenza di coppie di
coniugi, sono il frutto di una scelta che liberamente operata nella libertà, scegliendo
il seguire Gesù, mano nella mano e aprendo i sentieri della vita ai figlî, come
l’orientamento fondamentale, decisivo e perenne della loro esistenza. Alla
realtà esistenziale e coinvolgente di queste esperienza, a esser sinceri, dice
ben poco il precetto tutto esteriore dell’indissolubilità del matrimonio. Dice,
invece, molto di più la decisione quotidiana, a ogni nuovo sorgere del sole, di
proseguire con gioia il cammino comune,
nonostante difficoltà e gradini alti da superare. Allo stesso tempo il precetto
dell’indissolubilità si rivela pressoché inefficace dinanzi a condizioni familiari
di difficoltà o di sofferenza. Anzi agli occhî disincantati dell’opinione
pubblica contemporanea appare come un divieto che, per sortire, una qualche
efficacia pratica ha necessità del braccio secolare della legislazione civile.
Il che fa apparire la comunità ecclesiale come una componente della società
incapace di confrontarsi su un piano di parità e di mutuo riconoscimento con
diverse concezioni culturali della famiglia e del suo ruolo sociale. Il feedback negativo di questa diffusa
percezione sociale della comunità cristiana, quale impositrice di divieti
esteriori, si concretizza nell’inibizione in partenza dell’annunzio nella
libertà ad ampie fasce di uomini e donne del nostro tempo del carattere entusiasmante,
coinvolgente e “responsabilizzante” della chiamata all’amore formulata da Gesù.
Proviamo con la “responsabilità” a
uscire dal pantano fatto di “prescrizioni” e “divieti”.
Penso sia necessario, in
quest’anno che ci separa dalla prossima Assemblea ordinaria del Sinodo mondiale
dei Vescovi, impegnarci in una profonda riflessione comunitaria, condotta alla
luce del sole e secondo lo stile evangelico, richiamato da papa Francesco, del
“sì, sì, no, no”, nel quale superare la sterile e poco evangelica alternativa
tra imposizione e rimozione di divieti, per annunciare e indicare alle donne e
agli uomini del nostro tempo, qualunque sia “qui e ora” la loro condizione
esistenziale, l’itinerario più autentico per comprendere quale sia la scelta
concreta più adeguata a incarnare l’amore cristiano. Fare questo non significa
lasciarsi andare a un cedimento di fronte a istanze lassiste emergenti da mode
culturali transeunti della società contemporanea. Anzi è vero proprio il
contrario. É certamente più rassicurante e meno impegnativo disporre di un prontuario
calato dall’alto, contenente divieti da osservare come condizione minima per
non finire all’inferno, rispetto all’essere destinatarî di un invito
coinvolgente e responsabilizzante a ricercare con impegno e dedizione quale sia
il modo migliore e più autentico per incarnare l’amore cristiano nella concreta
condizione esistenziale di vita. Sia il caso di una felice comunità familiare,
o sia quello di una famiglia che si trovi dinanzi a dure e difficili prove, o
sia, ancora, il caso di nuove famiglie nate dal e dopo il fallimento di
precedenti esperienze matrimoniali, o sia, piuttosto, il caso di unioni o di
convivenze variamente motivate, o sia, infine, il caso di unioni tra persone
dello stesso sesso, mi sembra essenziale, al di là delle differenze sussistenti
tra le singole condizioni esistenziali che non intendo ignorare, affermare con
chiarezza che nessuno è escluso dalla chiamata Cristo e dalla vocazione
all’amore e al servizio degli altri. Non importa quale sia il gradino di
partenza, l’essenziale è scegliere il piede giusto di partenza. Anzi, a esser
sinceri, forse chi si ritrova sul gradino più basso è oggetto di una
particolare benevolenza da parte del Signore («Così gli ultimi saranno primi, e
i primi ultimi» – Mt. 20,16). Qualunque sia la condizione di partenza, tutti
abbiamo qualche risorsa da impegnare: ci sarà chi dispone di cinque talenti,
chi di tre, chi solo di uno, e chi, come la povera vedova, solo di pochi
spiccioli. L’errore può essere solo e unicamente quello di “sotterrare” queste
risorse e queste capacità, piccole o grandi che esse siano. La sapienza
autentica della comunità cristiana sarà quella di saper indicare alle donne e
agli uomini del nostro tempo come impegnare e rischiare le loro risorse di
dedizione e la loro capacità di amare, nella consapevolezza nessuno è escluso
dall’amore del Signore. E questo nella consapevolezza che siamo stati invitati
ad andare ai crocicchî delle strade, a chiamare alle nozze tutti quelli che
troveremo, a raccoglierli tutti, “buoni e cattivi”, affinché la sala del
convito nuziale possa riempirsi di commensali. L’unica condizione è il vestire
l’abito nuziale, cioè scegliere di rispondere con autenticità alla chiamata di
Gesù (cf. Mt. 22,9-12). In proposito mi sembra giusto ricordare come Gesù
stesso abbia ceduto ammirato all’insistenza profetica della donna cananea che
gli chiedeva accorata di lasciare che i cagnolini potessero mangiare le
briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni (cf. Mt. 15,27). Allora la
sfida che dobbiamo raccogliere è quello di evitare il vicolo cieco nel quale
s’incammina rinchiude il figlio “assennato” della parabola del Padre buono (cf.
Lc. 15,11-32), scegliendo invece con gioia d’imbandire la mensa.
“Lo
sguardo fisso su Gesù”.
L’elemento che considero il punto più alto e significativo della Relatio synodi, ricorre all’inizio della
seconda parte del documento, dove s’invita, citando papa Francesco, a tenere
fisso lo sguardo su Gesù Cristo, cioè a tornare alla fonte dell’esperienza
cristiana, come condizione per l’apertura di nuove strade e d’impensate
possibilità. È questo un criterio di discernimento su ciò che è giusto fare in
tutte le molteplici condizioni della vita familiare e anche al di là della
stessa vita familiare. Nel senso di andare a comprendere in tale prospettiva
anche altri aspetti di cui non sempre è facile percepire la loro relazione con
i temi della famiglia. È questo il caso, non solo del ruolo sociale della
famiglia e delle forme di fragilità che spesso vanno a pesare sulle famiglie,
ma anche di quelle realtà che famiglia non sono, ma che famiglia possono
divenire, e anche di altre convivenze che famiglia non vogliono o non possono
essere, fino al caso, per certi versi estremo, delle unioni tra persone con
orientamento omosessuale. E lo sguardo su Cristo è anche l’atteggiamento che
deve presiedere alla riflessione intorno a come la natura sacramentale della
mensa eucaristica e del matrimonio cristiano possono entrare in relazione con
la fragilità umana degli uomini e delle donne e spalancare le prospettive di
cieli nuovi e terre nuove (le impensate possibilità cui fa cenno il documento).
Di questa intuizione tuttavia
il documento non trae pienamente le conseguenze. In più occasioni nel testo si
fa rifermento alla convergenza in Cristo della misericordia e della verità.
Misericordia e verità sono in effetti praticate e proclamate con forza da Gesù
nella sua itinerante missione terrena, ma in forma profondamente diversa l’una
dall’altra. L’uso diffuso, anche in molti documenti ecclesiali, di presentare
la misericordia e la verità in forma coordinata, non pone a mio parere sufficientemente
in luce la diversità di prospettiva con cui Gesù le propone.
La misericordia è praticata da
Gesù a “largo spettro”. Ogni occasione è buona per porla in atto, anche al di
fuori del recinto dei figlî d’Israele, anche al di fuori del recinto della
verità (per esempio, in Samarìa, nonostante la salvezza provenga dalla Giudèa).
La verità, invece, è proposta
in forma sintetica, essenziale, di contenuto, di scelta decisiva dell’orientamento
di vita. È certamente ampiamente nota la verve
polemica di Gesù contro la precettistica minuziosa e pedante di un certo
giudaismo del suo tempo, i suoi inviti a non caricare gli uomini di doveri eccessivi,
a guardare ciò che viene dall’interno e non a quello che ha una funzione
meramente esteriore. Fino a giungere a concentrare tutta la Legge e tutti i
Profeti nei due comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Comandamenti
che il “Vangelo di Giovanni” perviene a sintetizzare in un solo comandamento,
quello dell’amore.
Questo non significa
subordinare la verità alla misericordia, ma comprendere che vanno proclamate
diversamente, a imitazione di Gesù. La misericordia è da disseminare in
ampiezza, la verità è da proporre in forma essenziale, concentrata, nucleica.
Lo sguardo fisso su Gesù
Cristo, cui c’invita papa Francesco, deve dunque indurci a chiederci se, come
chiesa, la verità la proponiamo davvero nella forma proposta da Gesù.
Se in proposito ci chiediamo
come gli uomini e le donne di oggi percepiscono la comunità ecclesiale, non è
sbagliato constatare che nella società di oggi questa viene percepita come
un’istituzione che indica una serie di comportamenti codificati, che non di
rado si accompagnano alla formulazione di un notevole numero di divieti e
proibizioni. Questa percezione sociale della chiesa è, in alcuni casi, anche
eccessiva rispetto alla realtà, ma è innegabile che il modo con cui si guarda
alla chiesa presenti queste caratteristiche. Ne è influenzata anche
l’attenzione con cui si guarda ai documenti, di volta in volta, emanati dal
magistero della chiesa. Un’attenzione che si concentra pressoché esclusivamente
sulla verifica della conferma o dell’eventuale superamento di divieti e non si
colgono fondamentali richiami a sensi responsabilità di carattere generale. E
questo è particolarmente vero per i documenti sui temi riguardanti la famiglia.
Rispetto a questa realtà,
piuttosto che disseminarci in una casistica di atti consentiti o vietati, sarebbe
opportuno interrogarci su come nella società di oggi sia possibile incarnare
pienamente l’amore cristiano in tutte le condizioni familiari, e in tutte
quelle a queste richiamabili, e su come far scendere su di esse la benedizione
del Signore.
Avere gli occhî fissi su Gesù,
implica anche acquisire la consapevolezza che, in quanto comunità ecclesiale,
dovremmo insieme cercare il sentiero per tornare, sull’esempio di Gesù, a “fare
scandalo”, così come ci indica il testo di Mt. 9,10-11.
«Mentre sedeva a tavola nella casa,
sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e
con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Come
mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”».
Vico
Equense, domenica 23 novembre 2014
Sergio Sbragia
Sergio Sbragia
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