domenica 23 novembre 2014

Il matrimonio: da “vincolo indissolubile” a “opzione fondamentale di vita”



La recente Assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi, sul tema "Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione", è stata un evento di grande rilievo, sul quale è opportuno operare un’attenta riflessione. La sua convocazione (posta in una sorta di staffetta con quella dell’Assemblea ordinaria, prevista per il prossimo anno sul tema della vocazione e della missione della famiglia nella chiesa e nel mondo) è stata un gesto di grande rilevanza operato da papa Francesco, che, senz’esitazione, ha scelto di mettere a tema uno dei punti più delicati nella vita della chiesa, sia sul piano dell’approfondimento interno, sia riguardo alle sue relazioni con la società di oggi.
Il tema del Sinodo straordinario ha avuto un’evidente intonazione pastorale («Le sfide pastorali…»), mentre un approfondimento di natura più propriamente dottrinale appare previsto nei lavori dell’assemblea ordinaria del prossimo anno dove saranno a tema la vocazione e la missione della famiglia. In vista di tale appuntamento l’assemblea dello scorso ottobre ha svolto la funzione di mettere a fuoco la complessità dei temi connessi con la pastorale familiare e di offrire una pista di riflessione e di approfondimento per l’intera comunità ecclesiale in vista dell’appuntamento del prossimo anno.
La scelta di conferire la priorità dell’approccio pastorale, non mi sembra un’opzione riduttiva o dilatoria, rispetto alla considerazione degli aspetti di certo più stringenti da declinare in sede dottrinale. A mio avviso una comprensione chiara delle urgenze pastorali che, sul tema della famiglia, si pongono alla comunità ecclesiale può contribuire nel prossimo anno, grazie a un approfondito, serio e partecipato confronto (“ad intra e “ad extra”) a compiere dei concreti passi avanti nella più piena comprensione sul piano dottrinale dell’autentico annuncio cristiano sulla famiglia.


Una metodologia inedita.

Questa scelta è stata poi accompagnata dall’avvio di un’inedita iniziativa di consultazione rivolta, sul tema sinodale, all’intera compagine ecclesiale e dall’indicazione chiara data ai padri sinodali di contribuire ai lavori con la massima libertà. Quest’aspetto, per così dire, metodologico costituisce un’autentica novità introdotta, per volontà di papa Francesco, rispetto all’abituale agenda dei lavori delle Assemblee sinodali dal post-concilio a oggi. Una novità significativa nonostante i limiti di realizzazione che gli input di Francesco hanno poi incontrato in pratica.
I lavori sinodali sono stati caratterizzati da un dibattito molto vivo, nel corso del quale sono venute alla luce posizioni molto diverse presenti tra i padri sinodali. Date le premesse metodologiche poste da papa Francesco e il travaglio ecclesiale degli ultimi decennî, non sarebbe stato di certo immaginabile su un tema così delicato uno scenario di unanimistica convergenza.


La Relatio synodi.

La Relatio synodi, il documento conclusivo che opera la sintesi del dibattito assembleare reca i segni di questa significativa articolazione di posizioni, sia nella forma esplicita nel resoconto testuale dei lavori, sia attraverso l’allegata tabella che documenta le modalità di approvazione dei singoli paragrafi.
Il testo delinea tre scenarî di fondo. Il primo di essi si caratterizza come “ascolto”, come lettura della realtà odierna, con la quale le famiglie concrete si trovano a fare i conti, nei varî contesti socio-culturali in tutto il pianeta, senza evitare di considerarne, sia pur sommariamente, tutti i problemi e tutti i nodi caldi.
Il secondo scenario, introdotto dalla preziosa indicazione metodologica fornita da papa Francesco, nel discorso del 4 ottobre, a «mantenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo», propone un itinerario di riflessione sui principali momenti in cui si articola la testimonianza biblica sulla famiglia e sul contributo offerto dai principali momenti di elaborazione e approfondimento maturati nel corso dell’esperienza ecclesiale dell’insegnamento della chiesa.
Il terzo e conclusivo scenario tracciato dal documento, denominato “confronto”, cerca di porre a fuoco le prospettive pastorali su cui la comunità ecclesiale è chiamata a riflettere e a spendersi. È questa la parte più controversa del documento, come testimoniato dal significativo numero di “non placet” registrati da varî paragrafi di quest’ultima parte del documento.


Temi delicati.

Non sono di certo in grado di fare una valutazione complessiva dei lavori sinodali, ma a questo punto vorrei operare alcune osservazioni di contenuto sul documento, come mio personale contributo all’avvio di un confronto comunitario sui temi sinodali da offrire alla riflessione ecclesiale di questo anno che ci separa da prossimo evento sinodale.

“Il Vangelo della famiglia”. Un primo elemento che mi appare alquanto problematico è l’espressione, ricorrente più volte nel corso del documento, di “Vangelo della famiglia”. Personalmente non amo accostare al “Vangelo” delle differenziazioni specifiche di condizioni, di luogo, di missioni particolari, com’è il caso ricorrente anche per altri àmbiti (il “Vangelo del lavoro”, il “Vangelo della sofferenza”, ecc). Credo che il “Vangelo” sia un messaggio unico rivolto a tutti gli uomini e a tutte le donne, di ogni cultura, qualunque sia la condizione di vita, l’ambiente in cui sono inseriti e le sfide particolari che sono chiamati a raccogliere. Il “Vangelo” ha una caratteristica unitaria e costituisce una sfida per tutti e per ciascuno, da declinare nelle concrete condizioni di vita in cui si è immersi. Ciò naturalmente non esclude che dal messaggio evangelico riceviamo degli stimoli decisivi e impegnativi in ordine a particolari condizioni ambientali e di vita.

“La realtà dell’individualismo”. Un secondo elemento che colgo come problematico, rispetto al quale lamento un incompleto approfondimento, è costituito dalla considerazione dell’individualismo esasperato come fattore che snatura i legami familiari nella sola dimensione di fenomeno culturale. Qui non percepisco, infatti, alcuno sforzo di comprensione delle logiche di potere, in atto nell’attuale realtà di universalizzazione dei rapporti, che di fatto promuovono con forza la frammentazione delle relazioni, la reciproca competitività come valore assoluto, la contabilizzazione estrema del tempo. Realtà queste che conferiscono al dato dell’individualismo una connotazione che può risultare arduo scalfire solo attraverso la proposizione dei valori autentici della persona umana e della sua dimensione relazionale, familiare, sociale, ecclesiale e di filialità divina. Appare senza dubbio necessario affiancare a tale azione anche l’avvio di una riflessione  sulla necessità di parlare con chiarezza dei meccanismi politici, sociali ed economici che presiedono nella società odierna alla promozione dell’individualismo e, peggio, dell’isolamento dei singoli.

“Il concetto teologico di natura”. Anche se non posto in grande evidenza nella Relatio synodi, proprio per la prevalente prospettiva pastorale del documento, ritengo che nella riflessione in stile sinodale che ci deve vedere impegnati in quest’anno che ci separa dall’Assemblea ordinaria, sia imprescindibile condurre un’approfondita riflessione sul concetto teologico di natura, al quale si fa ampiamente riferimento in sede di etica familiare e della vita fisica. In realtà questo concetto teologico appare fortemente debitore di una concezione di ascendenza giusnaturalistica, che ha fortemente contribuito a confinare la comprensione della realtà della natura, su un piedistallo fatto d’immutabilità, fissismo, immobilismo e isolamento, e ha finito per porre tra parentesi la creaturalità della stessa natura, il suo essere dono dell’atto creativo di Dio. Questa scissione determinatasi nel pensiero teologico tra natura e creazione costituisce un nodo che appare necessario aggredire, nella prospettiva di un “far teologia” sulle strade del mondo, declinando opportunamente una comprensione della creazione come realtà non statica, né immobile, ma vivente in permanenza in una condizione di crescita e di apertura alla novità contraddistinta dal dolore del parto. E nella creazione è poi presente anche la capacità umana d’intervenire sulla realtà, per custodirla, ma anche per trasformarla. Una capacità, che è parte integrante della creazione, e che è essenziale responsabilizzare. E una tale prospettiva di responsabilizzazione difficilmente può essere coltivata se non si ha il coraggio ermeneutico di uscire dalle ristrettezze dell’alternativa precetto-proibizione, per additare con autorevolezza la via del discernimento rigoroso del giusto e dell’ingiusto, di fronte all’impegno di perseguire il fine di salvaguardare la creazione e di servire la condizione umana anche facendo uso del frutto delle nuove conoscenze umane, che nell’àmbito del creato si sono determinate e sono state possibili.

“Inadeguatezza del concetto d’indissolubilità”. Mi farebbe, poi, piacere che venga anche aperta una riflessione serena sul concetto d’indissolubilità del matrimonio. Un concetto, a dire il vero molto utilizzato nei documenti del magistero ecclesiale, che però per la sua derivazione dal linguaggio giuridico, penalizza fortemente la dimensione di grazia sacramentale insita nel matrimonio. La scelta libera di due persone di unire sul piano sacramentale e dinanzi a Dio le proprie vite, riveste le caratteristiche di un’opzione fondamentale di vita, un orientamento decisivo, perenne e responsabile della propria esistenza, condiviso con l’altro/a. È una scelta compiuta congiuntamente nella libertà, nella responsabilità e nella gioia, che coinvolge i contraenti nella globalità della loro esistenza. Il concetto d’indissolubilità si espone, invece, al rischio di ridurre l’impegno reciproco di amore, dedizione e di fedeltà, a un mero precetto esteriore che snatura la realtà più autentica e coinvolgente del matrimonio, che è a un tempo storica ma anche aperta a una prospettiva escatologica, riducendola a un mero rapporto giuridico di natura contrattuale. Anche sul piano dell’esperienza personale, trovo un certo disagio a confrontarmi con il concetto d’indissolubilità. Le innumerevoli felici esperienze matrimoniali, che illuminano l’intera esistenza di coppie di coniugi, sono il frutto di una scelta che liberamente operata nella libertà, scegliendo il seguire Gesù, mano nella mano e aprendo i sentieri della vita ai figlî, come l’orientamento fondamentale, decisivo e perenne della loro esistenza. Alla realtà esistenziale e coinvolgente di queste esperienza, a esser sinceri, dice ben poco il precetto tutto esteriore dell’indissolubilità del matrimonio. Dice, invece, molto di più la decisione quotidiana, a ogni nuovo sorgere del sole, di proseguire con gioia il  cammino comune, nonostante difficoltà e gradini alti da superare. Allo stesso tempo il precetto dell’indissolubilità si rivela pressoché inefficace dinanzi a condizioni familiari di difficoltà o di sofferenza. Anzi agli occhî disincantati dell’opinione pubblica contemporanea appare come un divieto che, per sortire, una qualche efficacia pratica ha necessità del braccio secolare della legislazione civile. Il che fa apparire la comunità ecclesiale come una componente della società incapace di confrontarsi su un piano di parità e di mutuo riconoscimento con diverse concezioni culturali della famiglia e del suo ruolo sociale. Il feedback negativo di questa diffusa percezione sociale della comunità cristiana, quale impositrice di divieti esteriori, si concretizza nell’inibizione in partenza dell’annunzio nella libertà ad ampie fasce di uomini e donne del nostro tempo del carattere entusiasmante, coinvolgente e “responsabilizzante” della chiamata all’amore formulata da Gesù.


Proviamo con la “responsabilità” a uscire dal pantano fatto di “prescrizioni” e “divieti”.

Penso sia necessario, in quest’anno che ci separa dalla prossima Assemblea ordinaria del Sinodo mondiale dei Vescovi, impegnarci in una profonda riflessione comunitaria, condotta alla luce del sole e secondo lo stile evangelico, richiamato da papa Francesco, del “sì, sì, no, no”, nel quale superare la sterile e poco evangelica alternativa tra imposizione e rimozione di divieti, per annunciare e indicare alle donne e agli uomini del nostro tempo, qualunque sia “qui e ora” la loro condizione esistenziale, l’itinerario più autentico per comprendere quale sia la scelta concreta più adeguata a incarnare l’amore cristiano. Fare questo non significa lasciarsi andare a un cedimento di fronte a istanze lassiste emergenti da mode culturali transeunti della società contemporanea. Anzi è vero proprio il contrario. É certamente più rassicurante e meno impegnativo disporre di un prontuario calato dall’alto, contenente divieti da osservare come condizione minima per non finire all’inferno, rispetto all’essere destinatarî di un invito coinvolgente e responsabilizzante a ricercare con impegno e dedizione quale sia il modo migliore e più autentico per incarnare l’amore cristiano nella concreta condizione esistenziale di vita. Sia il caso di una felice comunità familiare, o sia quello di una famiglia che si trovi dinanzi a dure e difficili prove, o sia, ancora, il caso di nuove famiglie nate dal e dopo il fallimento di precedenti esperienze matrimoniali, o sia, piuttosto, il caso di unioni o di convivenze variamente motivate, o sia, infine, il caso di unioni tra persone dello stesso sesso, mi sembra essenziale, al di là delle differenze sussistenti tra le singole condizioni esistenziali che non intendo ignorare, affermare con chiarezza che nessuno è escluso dalla chiamata Cristo e dalla vocazione all’amore e al servizio degli altri. Non importa quale sia il gradino di partenza, l’essenziale è scegliere il piede giusto di partenza. Anzi, a esser sinceri, forse chi si ritrova sul gradino più basso è oggetto di una particolare benevolenza da parte del Signore («Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi» – Mt. 20,16). Qualunque sia la condizione di partenza, tutti abbiamo qualche risorsa da impegnare: ci sarà chi dispone di cinque talenti, chi di tre, chi solo di uno, e chi, come la povera vedova, solo di pochi spiccioli. L’errore può essere solo e unicamente quello di “sotterrare” queste risorse e queste capacità, piccole o grandi che esse siano. La sapienza autentica della comunità cristiana sarà quella di saper indicare alle donne e agli uomini del nostro tempo come impegnare e rischiare le loro risorse di dedizione e la loro capacità di amare, nella consapevolezza nessuno è escluso dall’amore del Signore. E questo nella consapevolezza che siamo stati invitati ad andare ai crocicchî delle strade, a chiamare alle nozze tutti quelli che troveremo, a raccoglierli tutti, “buoni e cattivi”, affinché la sala del convito nuziale possa riempirsi di commensali. L’unica condizione è il vestire l’abito nuziale, cioè scegliere di rispondere con autenticità alla chiamata di Gesù (cf. Mt. 22,9-12). In proposito mi sembra giusto ricordare come Gesù stesso abbia ceduto ammirato all’insistenza profetica della donna cananea che gli chiedeva accorata di lasciare che i cagnolini potessero mangiare le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni (cf. Mt. 15,27). Allora la sfida che dobbiamo raccogliere è quello di evitare il vicolo cieco nel quale s’incammina rinchiude il figlio “assennato” della parabola del Padre buono (cf. Lc. 15,11-32), scegliendo invece con gioia d’imbandire la mensa.

“Lo sguardo fisso su Gesù”. L’elemento che considero il punto più alto e significativo della Relatio synodi, ricorre all’inizio della seconda parte del documento, dove s’invita, citando papa Francesco, a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, cioè a tornare alla fonte dell’esperienza cristiana, come condizione per l’apertura di nuove strade e d’impensate possibilità. È questo un criterio di discernimento su ciò che è giusto fare in tutte le molteplici condizioni della vita familiare e anche al di là della stessa vita familiare. Nel senso di andare a comprendere in tale prospettiva anche altri aspetti di cui non sempre è facile percepire la loro relazione con i temi della famiglia. È questo il caso, non solo del ruolo sociale della famiglia e delle forme di fragilità che spesso vanno a pesare sulle famiglie, ma anche di quelle realtà che famiglia non sono, ma che famiglia possono divenire, e anche di altre convivenze che famiglia non vogliono o non possono essere, fino al caso, per certi versi estremo, delle unioni tra persone con orientamento omosessuale. E lo sguardo su Cristo è anche l’atteggiamento che deve presiedere alla riflessione intorno a come la natura sacramentale della mensa eucaristica e del matrimonio cristiano possono entrare in relazione con la fragilità umana degli uomini e delle donne e spalancare le prospettive di cieli nuovi e terre nuove (le impensate possibilità cui fa cenno il documento).
Di questa intuizione tuttavia il documento non trae pienamente le conseguenze. In più occasioni nel testo si fa rifermento alla convergenza in Cristo della misericordia e della verità. Misericordia e verità sono in effetti praticate e proclamate con forza da Gesù nella sua itinerante missione terrena, ma in forma profondamente diversa l’una dall’altra. L’uso diffuso, anche in molti documenti ecclesiali, di presentare la misericordia e la verità in forma coordinata, non pone a mio parere sufficientemente in luce la diversità di prospettiva con cui Gesù le propone.
La misericordia è praticata da Gesù a “largo spettro”. Ogni occasione è buona per porla in atto, anche al di fuori del recinto dei figlî d’Israele, anche al di fuori del recinto della verità (per esempio, in Samarìa, nonostante la salvezza provenga dalla Giudèa).
La verità, invece, è proposta in forma sintetica, essenziale, di contenuto, di scelta decisiva dell’orientamento di vita. È certamente ampiamente nota la verve polemica di Gesù contro la precettistica minuziosa e pedante di un certo giudaismo del suo tempo, i suoi inviti a non caricare gli uomini di doveri eccessivi, a guardare ciò che viene dall’interno e non a quello che ha una funzione meramente esteriore. Fino a giungere a concentrare tutta la Legge e tutti i Profeti nei due comandamenti dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Comandamenti che il “Vangelo di Giovanni perviene a sintetizzare in un solo comandamento, quello dell’amore.
Questo non significa subordinare la verità alla misericordia, ma comprendere che vanno proclamate diversamente, a imitazione di Gesù. La misericordia è da disseminare in ampiezza, la verità è da proporre in forma essenziale, concentrata, nucleica.
Lo sguardo fisso su Gesù Cristo, cui c’invita papa Francesco, deve dunque indurci a chiederci se, come chiesa, la verità la proponiamo davvero nella forma proposta da Gesù.
Se in proposito ci chiediamo come gli uomini e le donne di oggi percepiscono la comunità ecclesiale, non è sbagliato constatare che nella società di oggi questa viene percepita come un’istituzione che indica una serie di comportamenti codificati, che non di rado si accompagnano alla formulazione di un notevole numero di divieti e proibizioni. Questa percezione sociale della chiesa è, in alcuni casi, anche eccessiva rispetto alla realtà, ma è innegabile che il modo con cui si guarda alla chiesa presenti queste caratteristiche. Ne è influenzata anche l’attenzione con cui si guarda ai documenti, di volta in volta, emanati dal magistero della chiesa. Un’attenzione che si concentra pressoché esclusivamente sulla verifica della conferma o dell’eventuale superamento di divieti e non si colgono fondamentali richiami a sensi responsabilità di carattere generale. E questo è particolarmente vero per i documenti sui temi riguardanti la famiglia.
Rispetto a questa realtà, piuttosto che disseminarci in una casistica di atti consentiti o vietati, sarebbe opportuno interrogarci su come nella società di oggi sia possibile incarnare pienamente l’amore cristiano in tutte le condizioni familiari, e in tutte quelle a queste richiamabili, e su come far scendere su di esse la benedizione del Signore.
Avere gli occhî fissi su Gesù, implica anche acquisire la consapevolezza che, in quanto comunità ecclesiale, dovremmo insieme cercare il sentiero per tornare, sull’esempio di Gesù, a “fare scandalo”, così come ci indica il testo di Mt. 9,10-11.

«Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”». 

Vico Equense, domenica 23 novembre 2014
Sergio Sbragia

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