martedì 14 maggio 2013

E se il “discepolo amato” fosse Làzzaro di Betània?

Il discepolo anonimo sceglie di seguìre Gesù.

«Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: "Ecco l'agnello di Dio!". E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguìrono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguìvano, disse loro: "Che cosa cercate?". Gli risposero: "Rabbì - che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?". Disse loro: "Venìte e vedrete". Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguìto, era Andrea, fratello di Simon Pietro»
(1,35-40).
 
 
La resurrezione di Làzzaro.

«Un certo Làzzaro di Betània, il villaggio di Marìa e di Marta sua sorella, era malato. Marìa era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Làzzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dirgli: "Signore, ecco, colui che tu ami è malato".
All'udire questo, Gesù disse: "Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato". Gesù amava Marta e sua sorella e Làzzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: "Andiamo di nuovo in Giudea!". I discepoli gli dissero: "Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?". Gesù rispose: "Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui".
Disse queste cose e poi soggiunse loro: "Làzzaro, il nostro amico, si è addormentato; ma io vado a svegliarlo". Gli dissero allora i discepoli: "Signore, se si è addormentato, si salverà". Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: "Làzzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!". Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: "Andiamo anche noi a morire con lui!".
Quando Gesù arrivò, trovò Làzzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Marìa a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Marìa invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà". Gesù le disse: "Tuo fratello risorgerà". Gli rispose Marta: "So che risorgerà nella risurrezione dell'ultimo giorno". Gesù le disse: "Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?". Gli rispose: "Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo".
Dette queste parole, andò a chiamare Marìa, sua sorella, e di nascosto le disse: "Il Maestro è qui e ti chiama". Udìto questo, ella si alzò sùbito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Marìa alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Marìa giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: "Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!". Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: "Dove lo avete posto?". Gli dissero: "Signore, vieni a vedere!". Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: "Guarda come lo amava!". Ma alcuni di loro dissero: "Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?".
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: "Togliete la pietra!". Gli rispose Marta, la sorella del morto: "Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni". Le disse Gesù: "Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?". Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: "Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato". Detto questo, gridò a gran voce: "Làzzaro, vieni fuori!". Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: "Liberàtelo e lasciàtelo andare"»
(11,1-44).


Làzzaro presente all’unzione di Betània.

«Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Làzzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui fecero per lui una cena: Marta serviva e Làzzaro era uno dei commensali. Marìa allora prese trecento grammi di profumo di puro nardo, assai prezioso, ne cosparse i piedi di Gesù, poi li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì dell'aroma di quel profumo»
(12,1-3).


Il discepolo amato nell’ùltima céna.

«Dette queste cose, Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: "In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà". I discepoli si guardavano l'un l'altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?". Rispose Gesù: "È colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò". E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota»
(13,21-26).
  

Il discepolo anonimo nel cortile della dimòra del sommo sacerdote.

«Intanto Simon Pietro seguìva Gesù insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote. Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell'altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro»
(18,15-16).


Al discepolo amato ai piedi della croce Gesù affìda sua madre.

«Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Marìa madre di Clèopa e Marìa di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco tuo figlio!". Poi disse al discepolo: "Ecco tua madre!". E da quell'ora il discepolo l'accolse con sé»
(19,25-27).


Il discepolo amato la mattina della resurrezione.

«Il primo giorno della settimana, Marìa di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall'altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l'hanno posto!". Pietro allora uscì insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti ‘e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguìva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario - che era stato sul suo capo - non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti. I discepoli perciò se ne tornarono di nuovo a casa»
(20,1-10).

 
Luca conosce Marìa e Marta, ma non il loro fratello Làzzaro

«Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Marìa, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma il Signore le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Marìa ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta"»
(Lc. 10,38-42).


Il discepolo amato presente al miracolo della pésca e autore del Vangelo

«Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figlî di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: "Io vado a pescare". Gli dissero: "Veniamo anche noi con te". Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: "Figlioli, non avete nulla da mangiare?". Gli risposero: "No". Allora egli disse loro: "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete". La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "È il Signore!". Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
[…]
«Pietro si voltò e vide che li seguìva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: "Signore, chi è che ti tradisce?". Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: "Signore, che cosa sarà di lui?". Gesù gli rispose: "Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu sèguimi". Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: "Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?". Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera»
(21,1-8.20-24).


E se il “discepolo amato” fosse Làzzaro di Betània? : Una stimolante ipòtesi sull’identità di questo misterioso personaggio.

Nel “Vangelo di Giovanni” incontriamo una figura dai caratteri decisamente singolari, che riveste, soprattutto nella seconda parte del Vangelo, un ruolo particolarmente significativo. Si tratta del personaggio, dai tratti enigmatici, del “discepolo amato”, che la tradizione ecclesiale e una parte consistente degli studiosi, nonostante qualche incertezza, identificano con l’apostolo Giovanni, figlio di Zebedèo, e che la testimonianza interna del testo (cf. 21,20.24) ìndica come l’autore stesso del Vangelo.
In forma esplicita incontriamo il “discepolo amato” in quattro brani del quarto Vangelo: 13,21-26; 19,25-27; 20,1-10; 21,4-8.20-23.
È nel corso dell’ultima cena che facciamo la nostra conoscenza con questo discepolo, allorché su richiesta di Pietro, questi, chinato il capo sul petto di Gesù, chiese al Maestro chi fosse il traditore (13,21-26). Lo incontriamo di nuovo nel contesto particolarmente drammatico del Calvario, quando allo stesso discepolo viene affidata da Cristo morente la propria madre (19,25-27). Dopo la scena della crocifissione, il “discepolo amato” fa sentire la sua presenza anche nella mattina della Resurrezione quando, avvertito dalla Maddalèna della tomba trovata vuota, vi accorre sùbito precedendo l’apostolo Pietro ed è il primo a credere alla resurrezione (20,1-10). E ancora, lo ritroviamo nel quadro post-pasquale dell’apparizione di Cristo sul lago di Tiberìade. Anche in questo caso fu il primo a riconoscere il Maestro risorto. In questa stessa circostanza egli ricevette da Gesù una misteriosa attestazione profetica intorno al proprio destino (21,4-8.20-23).
In questi due ultimi brani il “discepolo amato” mostra una singolare capacità di comprensione del significato autentico degli eventi in cui si trova coinvolto. Nel primo caso è il primo a credere alla resurrezione del Signore («Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette», 20,8). Nel secondo caso è il primo tra i discepoli a riconoscere il Gesù risorto nel personaggio che si rivolge loro dalla riva del mare di Tiberìade («Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "È il Signore!"», 21,7).
È poi molto diffusa tra gli studiosi l’opinione argomentata che anche in altri brani del quarto Vangelo s’incontri la figura del “discepolo amato”, indicàto in forma indiretta con allocuzioni generiche, come “l’altro discepolo”, o semplicemente “il discepolo” (cf. 18,15-16; 20,1-10; 21,24), oppure ancòra viene riconosciuto come uno dei componenti di due distinte coppie di “due discepoli” che incontriamo in due diversi brani dello stesso Vangelo (cf. 1,35-40; 21,1-3).
L’ipòtesi più diffusa tra gli studiosi riconduce l’uso delle espressioni alternative su richiamate a una diversa tradizione, riferita allo stesso personaggio del “discepolo amato”, anch’essa confluita nel testo finale del “Vangelo di Giovanni”.
A un esame diretto dei testi dove compaiono le espressioni in questione non è possibile trarre conclusioni univoche. Si va certamente da casi ove l’identificazione con il “discepolo amato” è evidente o, quantomeno, molto plausibile, ad altri dove tale identificazione non appare certa.
In ogni caso la tradizione ecclesiale generalmente identifica la figura del “discepolo amato”, comprese le ricorrenze ove è contrassegnato con designazioni più generiche (con l’ovvia eccezione di 21,1-3), con l’apostolo Giovanni.
Come già in precedenza accennato, il testo di 21,24, dove la coincidenza tra il “discepolo amato” e “il discepolo” è sostanzialmente certa, ci fornisce l’informazione che l’autore del quarto Vangelo è da identificarsi proprio nel “discepolo amato”.
Se consideriamo il brano di 21,20-24, dove si conclude la scena della triplice attestazione di amore che Pietro rivolge a Gesù, allorché entrambi si rendono conto di essere seguìti dal “discepolo amato”, possiamo verificare che il narratore qui tiene a precisare che questi è la stessa persona del discepolo che «che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: "Signore, chi è che ti tradisce?"». Più avanti, al v. 24, si precisa che «Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte» e questo discepolo non può essere altri che “quel discepolo che Gesù amava” che, al precedente v. 20, seguìva Pietro e lo stesso Gesù.
Secondo dunque questa esplicita testimonianza interna allo stesso testo, l’autore del quarto Vangelo è proprio il “discepolo amato”. Se poi il “discepolo amato” sia effettivamente da identificare con l’apostolo Giovanni, ciò verrebbe naturalmente a confermare la tradizionale attribuzione allo stesso apostolo della paternità del Vangelo.
In effetti sono molto consistenti le ragioni che inducono a considerare plausibile il riconoscimento della paternità giovannea del Vangelo. Queste possono essere sostanzialmente riassunte nei seguenti punti.
È molto probabile che questo discepolo debba appartenere al gruppo dei Dodici. La sua presenza all’ùltima céna (13,21-26; 21,20), confermerebbe tale ipòtesi, se si tiene conto che la concorde testimonianza dei sinottici fa pensare che alla cena avrebbero preso parte soltanto gli apostoli.
Giovanni apostolo appare nel Vangelo come una delle figure verso cui Gesù ha mostrato una particolare predilezione. Sono in particolare tre i discepoli verso cui Gesù indirizza un’attenzione distintiva, cioè Pietro e per i due fratelli Giacomo e Giovanni, figlî di Zebedèo. Pietro non può essere il “discepolo amato”, perché egli viene spesso ricordato per nome accanto a questo discepolo prediletto (cf. 13,23-24; 20,2; 21,20); nemmeno Giacomo può esser preso in considerazione, poiché questi venne martirizzato verso il 44 e.v. («In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni»: At. 12,1-2), quindi in età ancòra giovane, mentre il “discepolo amato” sarebbe giunto, secondo 21,20-23, a un’età assai avanzata. Resta quindi il solo Giovanni, figlio di Zebedèo.
Tale argomento viene confortato dal fatto che nel quarto Vangelo non si nomina mai Giovanni, come pure non si fa il nome del fratello Giacomo; questo silenzio sui due fratelli non può essere casuale, ma intenzionale.
Ciò nonostante non manca chi formula ipòtesi diverse in ordine all’identità del “discepolo amato”. Il punto di partenza di tali dubbî è rappresentato dal brano di 18,15-16.
In questo testo il “discepolo amato” è presentato come una figura ben introdotta negli ambienti del sommo sacerdote («Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote »), cosa che mal si concilia con l’identità dell’apostolo Giovanni, pescatore e originario della lontana Galilèa.
Prende le mosse da qui la convinzione di varie correnti esegetiche della non coincidenza tra le due figure del “discepolo amato” e dell’apostolo Giovanni, con la conseguente diversa attribuzione della paternità del quarto Vangelo.
Numerose sono poi le ipòtesi formulate circa la precisa identità di tale discepolo. Tra queste mi sembra decisamente affascinante quella che riconosce nel “discepolo amato” i tratti di un’altra figura che appare anch’essa nel solo “Vangelo di Giovanni”, quella di Làzzaro di Betània, l’amico di Gesù, che Gesù stesso resuscitò nell’episodio di 11,1-44.
In effetti numerosi indizî, presenti nel testo dello stesso Vangelo, convergono nell’indurre a pensare che i due personaggî, presenti solo nel “Vangelo di Giovanni”, in effetti coincidano: Làzzaro e l’anonimo discepolo amato non sarebbero altro che la stessa persona.
Nei Vangeli sinottici non si trova alcun cenno a un discepolo particolarmente amato, né viene mai menzionato Làzzaro di Betània. Tra i Sinottici, Luca in verità conosce le sorelle di Làzzaro, Marta e Marìa (cf. Lc. 10,38-42), ma tace totalmente su Làzzaro.
Nel quarto Vangelo sia Làzzaro che il discepolo amato (con la sola eccezione di 1,35-40) appaiono sulla scena narrativa nella seconda parte dell’opera. Nel capitolo 11, dove è raccontata la sua resurrezione, viene più volte posto in evidenza la peculiare relazione di amicizia che legava Gesù con Làzzaro. Il primo riferimento si ha al v. 3, dove sono le due sorelle di Làzzaro, Marìa e Marta, ad avvertire Gesù della sua malattia, sottolineando la speciale relazione d’amore tra Gesù e Làzzaro («Le sorelle mandarono dunque a dirgli: "Signore, ecco, colui che “tu ami” è malato"»: 11,3). Al successivo v. 5 è lo stesso narratore a evidenziare il vincolo d’amore intercorrente tra Gesù e i tre fratelli di Betània («Gesù “amava” Marta e sua sorella e Làzzaro»: 11,5). E ancòra al v. 36 sono addirittura i Giudei, i notabili del luogo accorsi per condolersi con le sorelle Marìa e Marta per la morte di Làzzaro, a riconoscere il caratteristico rapporto che legava lui a Gesù («Dissero allora i Giudei: "Guarda come lo amava!"»: 11,36). In nessun altro luogo del “Vangelo di Giovanni” si fa menzione di Làzzaro, con la sola eccezione di 12,1-2, dove Gesù appare òspite dei tre fratelli di Betània e Làzzaro è uno dei commensali. Sia dal “Vangelo di Giovanni”, che dall’unica citazione di quello di Luca, Gesù appare come un òspite ricorrente della loro casa. È presumibile dunque che Gesù, nel corso delle sue missioni d’insegnamento itinerante in Giudèa, in particolare nei suoi viaggî da e per Gerusalemme fosse abitualmente òspite della loro famiglia.
La famiglia di Làzzaro, Marìa e Marta, molto probabilmente, doveva godere di una condizione economica tutto sommato benestante e beneficiava di una certa considerazione sociale, come testimonia il fatto che in occasione della morte di Làzzaro numerosi Giudei si fossero recati da Marta e Marìa per consolarle (11,19). Questa rilevanza sociale della famiglia rende poi plausibile l’ipòtesi di poter riconoscere Làzzaro nell’anonimo discepolo di 18,15-16. Risulta, infatti, molto più plausibile pensare che un giudèo di Betània (villaggio che distava da Gerusalemme circa tre chilometri) socialmente riconosciuto, avesse maggiore possibilità di accedere alla dimora del Sommo Sacerdote, rispetto a un anonimo pescatore galileo qual era in realtà l’apostolo Giovanni.
Anche la scena nella quale si ritiene di poter riconoscere la scelta del “discepolo amato” di porsi alla sequela di Gesù (1,35-40), appare molto più verosimile se applicata a Làzzaro, non solo perché non contrasterebbe con i racconti sinottici della vocazione di Giovanni figlio di Zebedèo. Infatti lo svolgersi della scena non in Galilèa, ma in Giudèa, in una località omonima al proprio villaggio d’origine, la comunque non distante Bethània oltre il Giordano, rende plausibilmente ipotizzabile che Làzzaro abbia potuto abbastanza agevolmente far esperienza della proposta penitenziale del Battista per poi passere alla sequela del nuovo maestro proveniente con i suoi discepoli dalla Galilèa. È opportuno inoltre osservare che il racconto di 1,35-40 non è in sé un “racconto di chiamata” quanto un’“assunzione di una determinazione”. Non è, infatti, Gesù a invitare i due discepoli a seguìrlo (uno di loro, per altro, era Andrea probabilmente già destinatario, secondo la lezione sinottica, di una precedente chiamata in Galilèa). Sono piuttosto i due discepoli che, incuriositi, scelgono di seguìre Gesù.
Quest’ipòtesi risulta anche alquanto compatibile con la figura che pian piano viene emergendo di Làzzaro, personaggio ben inserito nella società Giudaica, con una buona preparazione culturale e protagonista di un personale itinerario di fede nel giudaismo dell’epoca. Una personalità, dunque, interessata a conoscere il modo migliore per fare la volontà del Signore, ma anche coinvolta con la tradizione scribale giudaica che lo rende ampiamente compatibile con la personalità del quarto evangelista, figura che si distingue per un personale itinerario teologico che ne fa un caso unico e del tutto singolare nell’intero Secondo Testamento.
Va poi fatta una riflessione attenta sui due episodî di 20,1-10 e 21,4-8, dove il “discepolo amato” in entrambi i casi è il primo a capire la straordinarietà di quanto sta accadendo. Nel primo caso è il primo a intuìre l’evento meraviglioso della resurrezione ed è il primo a credere. Nel secondo caso è il primo a riconoscere il Gesù risorto. Da semplice componente del séguito di Gesù, il “discepolo amato” diviene dunque un protagonista attivo dei fatti salvifici, manifestando un’inedita capacità di lettura e interpretazione degli eventi. Occorre ricordare che nel capitolo precedente, allo stesso discepolo viene affidata la madre di Gesù, Marìa di Nàzareth (19,25-27), quest’evento instaura una relazione piena di maternità, da un lato, e di figliolanza, dall’altro.
Il discepolo, ai piedi della croce, inizia così un’esperienza antropologica di figliolanza nei confronti di Marìa. Un’esperienza che lo rende destinatario della cura materna di Marìa che gli consente di operare una maturazione profonda della propria dimensione di fede. Ponendosi alla scuola di Marìa, ne mutua l’atteggiamento di apertura al mistero e lo stile di costante ricerca della volontà divina (ricordiamoci dell’episodio delle nozze di Cana, dove Marìa mostra una singolare capacità di intuìre ciò che era giusto fare in quella circostanza [cf. 2,1-11]), che costituiscono, per ogni credente, le basi fondamentali per incarnare autenticamente la dimensione profetica dell’esperienza di fede.
Questa riflessione sulla singolare predisposizione del “discepolo amato” a intuìre il senso autentico sul piano della fede di quanto gli accade intorno risulta poi particolarmente rafforzata se si identificano i due personaggî del “discepolo amato” e di Làzzaro di Betània. Se effettivamente questo discepolo non fosse altri che Làzzaro, bisogna considerare che ci troviamo di fronte a personaggio che ha fatto esperienza della “resurrezione”, che grazie all’intervento di Gesù, ha superato la morte.
La confluenza dunque nella stessa persona di due elementi di effettiva eccezionalità, la singolare relazione di filialità con Marìa di Nàzareth e l’esperienza della “resurrezione” fanno di Làzzaro di Betània, “discepolo amato”, una figura di grande rilevanza spirituale che pone in evidenza nei discepoli di Gesù il significato rivestito dalle due dimensioni dell’apertura al mistero e della ricerca dell’autentica volontà divina. Questo riveste un’importanza ancora maggiore se si tien conto che Làzzaro di Betània (discepolo amato) non è presentato dal “Vangelo di Giovanni” come un discepolo che ha lasciato tutto, cioè la sua abituale condizione di vita, per seguìre Gesù nella sua missione d’insegnamento itinerante, quanto come una figura che, con il linguaggio di oggi, potremmo definire di tipo laicale. Una figura che sceglie, sì, di seguire Gesù, come scelta di fondo della vita, come il tesoro autentico per il quale vale la pena rinunciare a tutto, ma rimanendo dentro il mondo, dentro le sue contraddizioni e ivi testimoniare la novità di Gesù. Una figura esemplare della perizia laicale che è richiesta oggi ai credenti in Gesù, sulla scuola di Marìa: saper maneggiare le realtà temporali per mostrare agli uomini di ogni epoca e di ogni cultura come scoprire nella vicenda dell’umanità i segni del Regno di Dio che ha fatto irruzione nella storia.
 
 
Vico Equense, domenica 16 dicembre 2012
(Sergio Sbragia) 

Perché una ricerca storica su Gesù di Nàzareth?

«Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso stanno nei palazzi dei re. Ebbene, che cosa siete andati a vedere?» (Lc. 7,24-26). Questi interrogativi rivolti da Gesù alla folla erano esplicitamente diretti a provocare negli interlocutori un esame onesto e spassionato, condotto alla luce della coscienza, dell’autentica personalità e della reale identità di Giovanni il Battista.
Paradossalmente gli stessi interrogativi, posti da Gesù in relazione al Battista, possono invece essere rivolti a noi credenti proprio, riguardo alla nostra fede in Gesù di Nàzareth, dalle donne e dagli uomini che incontriamo sulle strade del mondo, ma anche da noi stessi nel silenzio della nostra coscienza, allorquando può capitare di interrogarci sul senso ùltimo della nostra scelta di fede.
Sono interrogativi ineludibili, non possiamo ignorarli rifugiandoci nell’intimismo o nella mera pratica devozionale. Non possiamo esorcizzarli attribuendoli a un astioso, quanto impertinente e intellettualistico, rifiuto a credere, siamo invece chiamati a essere, con entusiasmo e docilità, «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt. 3,15). Rendere ragione di quella speranza che si è installata in noi nel momento stesso in cui, nella nostra vicenda personale, abbiamo liberamente scelto di aderire all’invito rivoltoci da Gesù: «Se vuoi, lascia tutto e sèguimi», è un passaggio necessario da compiere per passare da una fede abitudinaria a una fede consapevole, da una fede che è uno dei tanti aspetti di cui si compone la nostra esistenza (spesso slegati l’uno dall’altro, se non addirittura in reciproca contraddizione), a una fede che sia la prospettiva di fondo che ispira, orienta, unifica e riempie di senso ogni altro aspetto e àmbito della nostra vita.
Allora, per noi, che abbiamo scelto di seguìrlo e di aver fede in lui, chi realmente è Gesù di Nàzareth? Un eroe di un’antica mitologìa? Un’immagine della fantasìa? Un personaggio di una fiaba per bambini? Un imbonitore pubblicitario? Un esperto manipolatore di messaggî subliminali? Una persona che ha condotto una pratica di vita tra lussi e onori? Uno che ha predicato bene e razzolato male? O non, piuttosto, un concreto personaggio storico vissuto nella Palestina del 1. sec. e.v., che, a quanti lo hanno incontrato sulla propria strada, ha proposto di seguìrlo, con un’adesione libera, su un itinerario esistenziale, esigente ma soprattutto entusiasmante.
Gli strumenti dell’odierna metodologìa della ricerca storica permettono un accostamento senza precedenti alla figura di Gesù, che restituisce, con un elevato grado di plausibilità, i tratti di fondo della sua persona umana e della sua pratica di vita. Tutto questo costituisce una solida base di dialogo, per dire “qui e ora”, e in tutta franchezza, il carattere del tutto ragionevole della scelta di fede, che è, sì, un’opzione libera fatta responsabilmente e in autentica autonomìa, ma non è un gesto inconsulto e irrazionale frutto di meri istinti umorali. È una scelta libera, autonoma, non imposta, in cui ciascun uomo o donna, interpellato da un uomo concreto del 1. sec. e non da una fantasìa, decide di rischiare senza riserve la propria esistenza nel seguìrlo.
La ricerca storica su Gesù assume poi una funzione di grande rilievo nello sviluppo di un metodo di aggiornamento teologico proposto con vigore dal Concilio ecumenico Vaticano 2., che viene comunemente definito come “metodo del ritorno alle fonti”. L’applicazione di questo metodo è stata una meravigliosa intuizione dei lavori dei padri conciliari, che permette di ancoràrsi alla più genuina e autentica Tradizione (quella con la “T” maiuscola) per valutare le odierne contingenze nelle quali siamo chiamati ad annunciare il Regno. In questo lavoro di “ritorno alle fonti”, la ricerca sul Gesù storico può offrire un contributo essenziale (ovviamente non unico né esclusivo) al lavoro di attento discernimento tra il nucleo originario del messaggio cristiano e le stratificazioni successive frutto della necessaria inculturazione del messaggio stesso nei diversi contesti storici e culturali.


Da dove nasce l’interesse per l’uomo Gesù?

Riconoscere nella vicenda di Gesù di Nàzareth i segni dell’irruzione del Regno di Dio nella storia del mondo è certamente l’esito di un itinerario di comprensione teologica della realtà, ma questo itinerario ha il suo punto di partenza su un fondamento autenticamente storico, intorno al quale si possono ritrovare anche altri uomini e donne portatori di una diversa ispirazione ideale. È infatti comune constatare un diffuso e ampio interesse intorno a Gesù di Nàzareth, che va ben oltre la cerchia di quanti si definiscono cristiani. Lungo i secoli numerosissimi non-cristiani si sono interessati alla figura di Gesù. Un grande numero di atei, non credenti, filosofi, scienziati, seguaci delle religioni classiche, musulmani, ebrei hanno manifestato e manifestano tutt’ora un interesse nei suoi riguardi, per cui spesso si è ritenuto utile tentare di ricostruire anche la fisionomìa dell’immagine del “Gesù visto dagli altri”, proprio per cercare di comprendere le ragioni di tanto interesse anche da parte di chi in lui non si riconosce.
Fare ricerca storica su Gesù di Nàzareth non risponde infatti a una mera curiosità antiquaria, né è riducibile solo a un intento, pur rispettabile e apprezzabilissimo, di ricostruzione culturale e ideale della sua figura. Non è difficile infatti valutare la differenza in termini di quantità e di varietà di approccio intercorrente tra gli studî dedicati alle figure di divinità classiche, come per esempio Zeus, e quelli rivolti a Gesù di Nàzareth.
A questo proposito, sono profondamente convinto, con Benedetto Croce, che “ogni storia è storia contemporanea”, nel senso che ogni investigazione del passato trova le proprie più profonde radici e le sue più autentiche scaturigini nell’oggi. Se valutiamo con attenzione i fatti, la persona Gesù di Nàzareth, continua a interpellare profondamente le donne e gli uomini di oggi. Sono tantissime le persone che hanno la curiosità di saperne di più, perché in qualche maniera la sua figura costringe tutti a operare nei suoi confronti una scelta esistenziale, fosse anche quella del dissenso o del rifiuto. Di fronte a Gesù sembrano, infatti, abbastanza difficili da assumere solo due atteggiamenti: l’indifferenza e la neutralità.


È oggi possibile una ricerca storica su Gesù?

Non manca chi manifesta un certo scetticismo sull’effettiva possibilità di operare, a tanti secoli di distanza, un’effettiva ricerca storica su Gesù. Ovviamente siamo a circa due millennî dai fatti e sussistono dunque tutte le oggettive difficoltà connesse alla ricostruzione di eventi e processi storici così distanti nel tempo. La ricerca storica tuttavìa non si arrende di fronte a tali ostacoli, tant’è vero che mi sembra che sinora non sia stata abbandonata la ricerca in relazione a nessun periodo storico per quanto remoto questo possa essere. Anzi la metodologìa di ricerca sperimenta di continuo aggiornamenti ed evoluzioni che la pongono in grado di investigare meglio e più ampiamente àmbiti in precedenza del tutto oscuri. Occorre inoltre saper trar frutto anche dalle sempre maggiori acquisizioni non solo di discipline contermini con la vera ‘e propria ricerca storica, quali l’archeologìa (con le sue sempre più numerose campagne di scavi nella regione del Vicino Oriente), la numismatica, la sfragistica, l’epigrafìa ecc., ma anche saper applicare all’oggetto della nostra ricerca anche gli apporti sempre più avanzati delle scienze naturali e sperimentali.
Ma occorre anche saper valutare con il dovuto equilibrio e il necessario rigore critico il contributo squisitamente storico che può derivare dalle tradizioni cristiane. A mio parere, sul piano della critica storica occorre stare in guardia da due derìve contrapposte e pericolose: l’accettazione acritica della fondatezza storica del complesso dei testi evangelici e dell’antìca letteratura cristiana di epoca apostolica o il pregiudiziale rifiuto di riconoscere a questi scritti un qualsivoglia valore storico.
Bisogna in effetti rifuggire dalla sottovalutazione del processo di formazione della memoria evangelica della missione pubblica di Gesù, attribuendo un appropriato, quanto ponderato, riconoscimento storico alla necessaria fase intermedia di raccolta e trasmissione orale dei materiali e del successivo stadio di formazione dei primi documenti scritti confluiti poi nei Vangeli che conosciamo. Allo stesso modo vanno valutate con la massima attenzione le discrepanze e le contraddizioni che non è difficile riscontrare nei testi dei Vangeli, allorché se ne conduce un esame comparato. Le difformità, a mio avviso, non sono un indizio di falsità storica, sono piuttosto la testimonianza di un processo di costruzione della memoria che si è realizzato in un concrete realtà storiche, per opera di concrete comunità credenti poste di fronte alla prova materiale della testimonianza. Trovo molto più plausibile sul piano storico una quadruplice testimonianza, pur con numerosi particolari discordanti, che restituisca nel complesso un’immagine complessiva sostanzialmente concordante della figura di Gesù. Avrei molto meno fiducia dell’effettiva storicità di una pluralità di testimonianze perfettamente coincidenti in tutti i particolari, anche quelli di minore rilevanza. In un tal caso avrei un sorta di fastidiosa sensazione di artificiosità.
La corretta distinzione tra i materiali più plausibilmente riferibili al Gesù storico da quelli da considerare con maggiore approssimazione come il frutto della comprensione post-pasquale della primitiva comunità cristiana, non deve, a mio parere, condurre necessariamente a una svalutazione acritica del valore storico dei contenuti dei materiali afferenti a questo secondo gruppo. Rispetto a essi si rivela necessario un esame spassionato caso per caso, tenendo conto che nella comunità cristiana delle origini la memoria autentica della vicenda terrena di Gesù era oggetto di una venerazione di ordine quasi cultuale, pertanto l’attenzione alla sua “veridicità” era tenuta nella massima considerazione.
Allo stesso tempo occorre anche tener presente come nelle società dove la diffusione del saper leggere e scrivere non aveva conseguìto ancora dimensioni di massa (anche in epoche a noi molto più vicine) fosse riconosciuta una grande considerazione sociale alla trasmissione orale e come a questa venisse dedicata una grande cura per assicurarne le condizioni migliori di esercizio, conservazione e autenticità.
La sfida, che la ricerca storica su Gesù di Nàzareth si trova dinanzi, deve fare i conti con tutti questi aspetti, valorizzando tutte le fonti disponibili (quelle evangeliche, quelle della tradizione cristiana, quelle extra-canoniche, quelle materiali), facendo uso delle metodologìe più accreditate, puntando soprattutto sulla molteplicità di testimonianze indipendenti, sulla ricostruzione fedele del contesto vitale e della concreta pratica di vita abbracciata da Gesù, sull’analisi letteraria dei testi.


Il valore e i limiti delle tradizioni cristiane.

Bisogna inoltre essere consapevoli che la parte preponderante delle memorie su Gesù di Nàzareth ci sono pervenute attraverso la mediazione essenziale delle tradizioni delle comunità cristiane. Senza tale necessaria mediazione, sul mero piano storico, non avremmo probabilmente testimonianza significativa della vicenda umana di Gesù.
Come sappiamo quest’avventura terrena di Gesù, secondo le tradizioni cristiane, ebbe conclusione con la sua ascensione al cielo. Con questo evento ebbe inizio una fase nuova, affidata ai suoi discepoli, che acquisirono coscienza di essere i depositarî delle sorti del regno, secondo le parole di Gesù dette nell’imminenza della morte: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno» (Lc. 12,32). I discepoli si sentirono investiti di uno specifico mandato di Gesù: «tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt. 18,18). Avevano poi acquisito la consapevolezza di godere della perenne compagnìa di Cristo («Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» - Gv. 6,56), nonché del conforto dello Spirito («lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» - Gv. 14,26). Nonostante tutto ciò i discepoli di Gesù restavano tuttavìa uomini immersi nella storia, che dovevano far crescere il regno nella storia, dove nulla è scontato, dove tutto è prova, ricerca, pellegrinaggio, passaggio, attesa del giorno, a tutti ignoto, in cui Dio decreterà la fine dei tempi e Gesù tornerà sulla terra per prendersi la comunità dei giusti e consegnarla al Padre. L’ùltimo momento eccezionale i discepoli – sempre secondo la Rivelazione – lo sperimentarono 50 giorni dopo la Resurrezione, nel dì di Pentecoste, quando si sentirono «colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» (At. 2,4). Successivamente rimasero soli, con la loro verità, di fronte al mondo. Lungo tutta la parabola dei secoli successivi le comunità cristiane sono vissute nella memoria fedele della vicenda di Gesù, nell’attesa della sua nuova venuta e nella testimonianza della sua novità per il destino dell’intera umanità, seguendo un itinerario tortuoso tra prove, errori, cadute di fedeltà, confronti spregiudicati con l’esercizio del potere, ma anche donando alla storia umana innumerevoli esempî di eroica sequela di Gesù e del suo messaggio.
È dunque giusto prestare la dovuta attenzione alla testimonianza che di Gesù danno le varie tradizioni cristiane, nella consapevolezza che esse sono la prima e la più significativa risorsa conoscitiva intorno a Gesù, una conoscenza che presenta anche un’indubbia dimensione storica, avendo cura di tenere sempre ben distinti il diverso piano e il diverso statuto metodologico che contraddistinguono l’“accertamento storico” e l’“accertamento teologico”. Storia e Teologìa hanno molte cose da dirsi e possono arricchirsi reciprocamente, ma né la storia ha una funzione ancillare rispetto alla teologìa, né quest’ultima è da vincolare al solo dato storicamente verificabile (ben sapendo che non tutti gli eventi storici risultano accertabili con i metodi della ricerca storica).


Gesù era un ebreo o un cristiano?

Tra i numerosi interrogativi in cui è possibile imbattersi una volta che ci si incammina sul sentiero della ricerca storica su Gesù, questo probabilmente rientra tra quelli che possono, in apparenza, maggiormente inquietare la coscienza credente. Se esaminiamo i materiali evangelici che più plausibilmente possono essere riferiti alla vicenda itinerante di Gesù, in effetti ne emerge il profilo di una personalità profondamente partecipe, sia pur in forma critica, della pratica cultuale giudaica del suo tempo. Una personalità, semmai, impegnata a evidenziare i tratti più autentici e originarî di tale cultualità, ricercando per ciascun gesto di culto il suo legame autentico con la volontà di Dio. Gesù pertanto, a mio parere, va considerato pienamente un ebreo del suo tempo, un ebreo che tuttavìa richiamava con forza a riscoprire i tratti originarî e autentici del culto, ponendo in decisa discussione pratiche che nella consuetudine ripetitiva e letteralistica finivano per tradire l’autentica volontà di Dio. In definitiva egli era partecipe nella sua autenticità della fede giudaica della quale ambiva recuperare i contenuti originarî.
Non mi sento tuttavìa di condividere l’obiezione di quanti sostengono, che un’autentica sequela di Gesù comporterebbe, non tanto l’essere cristiani, quanto l’adesione all’ebraismo. L’esperienza terrena di Gesù, infatti, anche se coerentemente radicata nella realtà della fede giudaica propone un suo radicale cambiamento di prospettiva, da riorientare in direzione dell’originaria chiamata di Jahwé.
In effetti la preoccupazione di Gesù non sembra essere stata la ricerca, con la fondazione di una nuova religione, di una strada autonoma dal giudaismo dell’epoca, quanto (come ho già evidenziato) la proposta di una profonda maturazione dell’esperienza religiosa giudaica (una proposta di “conversione”). La trasformazione della comunità dei discepoli di Gesù in un’esperienza religiosa autonoma dal giudaismo (processo non immediato che ha interessato un periodo abbastanza prolungato nel tempo) sembra più essere stato il prodotto (forse obbligato) dei successivi contrasti circa la comprensione e l’accettazione del suo insegnamento. Di certo la proposta di Gesù, in teorìa, sarebbe stata declinabile in un contesto giudaico, ma la fede si testimonia non nel chiuso di un asettico laboratorio, ma nel concreto delle controversie storiche, esposti a ogni sorta di contaminazioni e arricchimenti. La separazione delle strade tra giudaismo e cristianesimo si è realizzata concretamente sulle strade della storia, vuoi per il rifiuto di una parte significativa della società giudaica di far proprio il messaggio di Gesù, vuoi per la scelta dei cristiani di seguìre una strada autonoma, vuoi per la necessità di dover fare i conti con il condizionamento storico posto dal domìnio romano.
Nell’analisi storica occorre operare la dovuta distinzione tra la figura dell’iniziatore e la vicenda del successivo movimento storico che da lui ha preso le mosse. Si registra sempre uno iato tra il fondatore e la posteriore tradizione che a lui si richiama, né potrebbe essere altrimenti. Ciò è verificabile tra le figure storiche di Abramo, dei patriarchi e di Mosè e il successivo giudaismo, così come tra Gesù e il Cristianesimo dei secoli posteriori, ma anche, in àmbito non religioso, tra gli iniziatori di una corrente filosofica, artistica, un movimento politico, e le conseguenti concretizzazioni storiche.
Gesù, a mio parere, osservava puntualmente e nella sostanza la legge mosaica. Seguìva le feste, i pellegrinaggî e le pratiche rituali ebraiche. Ne proponeva tuttavìa un’osservanza adulta, attenta alla finalità autentica, che ne aveva determinato l’introduzione. Non solo; introduceva anche, tra le varie pratiche cultuali, una scala di priorità (basti considerare la sua concezione dell’osservanza del sabato). Proponeva infine anche un’evoluzione della legge mosaica, invitando a saper interpretare i segni della volontà di Dio e a universalizzarne la portata.
Nella predicazione, Gesù faceva uso delle ordinarie tecniche argomentative in uso tra i maestri giudaici, e alcune forme argomentative che sembrano segnare ai nostri occhî un segno di forte contrapposizione erano in realtà ampiamente usate nel dibattito intragiudaico. Questo tuttavìa non sminuisce il carattere radicale della proposta di Gesù, che proponeva un’autentica conversione nelle modalità interiori dell’adesione di fede e nella concreta e quotidiana pratica di vita. Una proposta compatibile certo con la fede jawhista (Gesù si presenta come inviato dal Padre per fare la sua volontà), ma non compatibile con le consuete abitudini di vita diffuse e accettate nella società giudaica.
Ritengo comunque quello della piena appartenenza di Gesù alla fede d’Israele un aspetto importantissimo (anche se delicato) del dialogo ebraico-cristiano se si vuol superare il piano di un rapporto (pur importante) di buon vicinato.


La decisività dell’atto di fede.

In numerosi testi evangelici è possibile riscontrare il carattere del tutto decisivo che Gesù riconosce alla scelta di fede compiuta da quanti egli incontra lungo la sua strada. È la fede infatti l’elemento che determina il radicale mutamento della realtà, in alcuni casi anche in dissonanza con l’intenzione esplicita dello stesso Gesù.
Nell’episodio della peccatrice che gli si avvicina in casa di Simone il fariseo (Lc. 7,36-50), Gesù, a conclusione della scena, dice alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!» (Lc. 7,50).
Anche nei racconti intrecciati delle guarigioni della figlia di Giàiro e dell’emorroissa (Mc. 5,21-43) emerge con chiarezza il ruolo decisivo dell’atto di fede. Nel caso della donna sofferente di perdite di sangue, Gesù appare addirittura ignaro dell’evento straordinario: «Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: "Chi ha toccato le mie vesti?". I suoi discepoli gli dissero: "Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: "Chi mi ha toccato?""» (Mc. 5,30-31). La donna, invece, dimostra una chiara convinzione di un cambiamento concretamente possibile: «Diceva infatti: "Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata"» (Mc. 5,28). Il racconto trova il suo èsito nelle parole di Gesù: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarìta dal tuo male» (Mc. 5,34). Anche nell’altro racconto caso, Giàiro, autorevole esponente della Sinagoga, mostra una chiara consapevolezza della concreta possibilità di una radicale trasformazione del corso delle cose. Egli, infatti chiede, con “insistenza”, a Gesù di imporre le mani sulla propria figlia, affinché questa possa vivere ed essere salvata fosse salvata e potesse vivere: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (Mc. 5,23). Di fronte al successivo tentativo di alcuni degli astanti di distogliere Giàiro dall’insistere nella sua richiesta, Gesù rassicura Giàiro e gli rivolge un chiaro invito in cui risalta con chiarezza l’essenzialità dell’atto di fede: «Non temere, soltanto abbi fede!» (Mc. 5,36).
Anche nel caso della guarigione del cieco sulla strada per Gerico (Lc. 18,35-43), questi mostra una chiara convinzione che Gesù può modificare totalmente le cose e, nonostante l’invito di molti a tacere, lo grida ad alta voce. Gesù riconosce questa cosa, dicendo: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (Lc. 18,42).
Particolarmente significativo è l’episodio della liberazione della figlia di una donna cananea dalla possessione demoniaca (Mt. 15,21-28). Di fronte alla decisa e argomentata insistenza di questa donna cananea, che lo implora di salvare la figlia, Gesù alla fine conclude: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri».
Quest’episodio, oltre a confermare ulteriormente il dato della decisività dell’atto di fede fa anche giustizia della tesi, sostenuta da molti, secondo la quale Gesù non si sarebbe proposto la conversione dei pagani, come potrebbe apparire da varî testi in cui Gesù invita a non predicare ai pagani o esprime valutazioni negative nei loro confronti. Qui invece, di fronte a un chiaro atto di fede, vengono meno tutte le preclusioni e le prevenzioni ostili ai pagani e c’è un atto di Gesù che muta radicalmente l’ordinario corso delle cose. Formalmente non è un atto di “predicazione” in senso proprio, ma è una chiara manifestazione della potenza di Dio. E la rivelazione di tale potenza è fatta di parole e di eventi che non possono meccanicisticamente essere separati in compartimenti stagni.
Ma oltre che con gesti, Gesù sottolinea il carattere decisivo dell’atto di fede anche in contesti di autentico insegnamento; per esempio, in Lc. 17,5-6: «Gli apostoli dissero al Signore: "Accresci in noi la fede!". Il Signore rispose: "Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe”». E anche in Mt. 17,20, dove Gesù esprime con chiarezza lo stesso concetto : «Ed egli rispose loro: "Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: "Spòstati da qui a là", ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile"». Ripetutamente Gesù propone la scelta di fede come l’elemento che può determinare l’effettivo cambiamento dell’ordinario procedere delle cose, l’irruzione nella quotidianità del “qui e ora” di un qualcosa che risponde a una logica diversa e alternativa.
Il brano che tuttavìa esprime in una forma plasticamente espressiva il dato della decisività dell’atto di fede è quello dell’episodio di Gesù che cammina sulle acque (Mt. 14,22-33): «Sùbito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: "È un fantasma!" e gridarono dalla paura. Ma sùbito Gesù parlò loro dicendo: "Coraggio, sono io, non abbiate paura!". Pietro allora gli rispose: "Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque". Ed egli disse: "Vieni!". Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: "Signore, salvami!". E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?". Appena salìti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: "Davvero tu sei Figlio di Dio!"». Nel brano anche Pietro, nella sua immediata ed entusiastica adesione a Gesù, cammina sulle acque superando così le ordinarie leggi naturali. Quando, poi, subentra una certa insicurezza e la fede in Gesù inìzia a vacillare, Pietro comincia a sprofondare nell’acqua. Si rende così necessario un intervento diretto di Gesù. Dal testo si evìnce con chiarezza quale sia l’elemento risolutivo: quando la fede è piena, Pietro cammina sulle acque e le ordinarie leggi del mondo sono sovvertite, quando la fede è incerta, Pietro sprofonda e la logica del mondo riprende il sopravvento.
Possiamo pertanto concludere che dalla missione terrena di Gesù di Nàzareth emerge con chiarezza che è la fede il dato che fa irrompere nel mondo la logica di Dio.


L’annuncio del Regno di Dio.

Il carattere decisivo della scelta di fede ci aiuta anche nella comprensione della realtà del “Regno di Dio”, che ordinariamente viene presentata come un dato posto in un futuro più o meno ravvicinato, innestando anche una sorta di polemica sul cosiddetto ritardo della Parusìa. Su questo tema non è raro incontrare una certa confusione tra i concetti di “Regno di Dio” e di “Giudizio”, che sono di certo collegati, ma non coincidenti. L’annuncio del “Regno di Dio” è il tema primario della predicazione di Gesù. In essa è ampiamente presente anche la previsione del “Giudizio”. L’identificazione dell’uno con l’altro ha tuttavìa determinato lo spostamento dell’avvento del “Regno di Dio” in una prospettiva futura, anche se ravvicinata. Se la dimensione futura è appropriata per la realtà del “Giudizio”, sta invece abbastanza stretta per quella del “Regno di Dio”. Quando Gesù parla del “Regno di Dio” ne parla come una realtà in atto: «Ma, se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora “è giunto” a voi il regno di Dio» (Mt. 12,28), o, ancòra, «"Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: "Eccolo qui", oppure: "Eccolo là". Perché, ecco, il regno di Dio “è” in mezzo a voi!"» (Lc. 17,20-21). Più che una previsione d’imminenza, nei materiali evangelici è riscontrabile piuttosto l’affermazione che “il Regno di Dio è giunto”. Il Regno è dunque una realtà percepìta come già in atto, già presente, la cui logica è radicalmente diversa (oggi diremmo alternativa) da quella consueta (cf.: “Il mio regno non è di questo mondo, se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”). Una logica che egli propone, a quanti incontra sul proprio cammino, di scegliere liberamente e di praticare nel concreto quotidiano. Circa la previsione del giudizio, il senso d’imminenza, che i testi sembrano evidenziare, a mio parere è da riferirsi più al carattere d’inevitabilità (cf.: “il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”) che alla immediatezza temporale.
Gesù, nella sua predicazione, annuncia che «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc. 1,15), ma sottolinea, come abbiamo visto, anche che «Se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio» (Mt. 12,28). A innescare l’avvento del “Regno di Dio” è dunque la conversione e la scelta di fede. È attraverso la fede che è dunque possibile far entrare nella storia la logica del Regno di Dio, che non è di questo mondo, che tuttavìa “è vicino”, è a portata di mano, può dipendere dall’operare “qui e ora” la scelta giusta. Nel momento in cui si compie l’autentica scelta di fede si determina un’intersezione storica tra il piano della vita terrena e quello del Regno di Dio, si verifica una radicale inversione di orientamento nella vita delle persone, e possono divenire possibili cose che sono al di fuori della logica ordinaria del mondo.
Ne derivano anche delle conseguenze sulla comprensione piena della realtà della “chiamata” che Gesù rivolge a quanti incontra sulla propria strada. L’invito a seguìrlo è posto senza condizioni, chiede di lasciare tutto e di porsi al suo sèguito. Gesù ha tuttavìa anche discepoli che hanno mantenuto la propria condizione nel mondo, come, per esempio, Marìa, Marta e Làzzaro di Betània (personaggî non di secondo piano, ai quali Gesù era legato da forti sentimenti di amicizia). Dai materiali evangelici non risulta una delimitazione ai soli giovani, o a quanti erano in grado di poterla operare, della proposta di seguìrlo in forma itinerante e totale. Né risulta che Gesù abbia evitato di rivolgerla ad anziani o a chi avesse da sostentare la famiglia. È piuttosto ogni forma di casistica a essere del tutto estranea alla predicazione di Gesù. Ciò che invece è chiaro che Gesù chiede a quanti vogliono seguìrlo di farlo in forma libera, ma autentica e piena: «Gli disse Gesù: «"Se vuoi” essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!» (Mt. 19,21). Quanto però alle forme concrete con cui incarnare una tale sequela, Gesù lascia ai suoi discepoli il compito di discernere l’autentico carattere dell’itinerario da compiere al sèguito di Gesù «perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?» (Lc. 12,57).


Il valore espiatorio e salvifico della morte di Gesù.

Da più parti si sottolinea che dalla ricerca storica su Gesù di Nàzareth emerge la sostanziale assenza di una valutazione del carattere espiatorio e salvifico della sua morte, di conseguenza tutta la successiva comprensione teologica sul tema avrebbe un’origine esclusivamente paolina e sarebbe priva di riscontri nei materiali evangelici più direttamente riferibili all’esperienza storica di Gesù. È certo che in un tale sforzo di comprensione ha ricoperto un grande ruolo la riflessione di Paolo di Tarso, ma allo stesso tempo non si può negare che la ricerca di una valutazione sulla morte e resurrezione nel quadro dei materiali evangelici più direttamente riferiti alla missione itinerante di Gesù sfugga in gran parte allo statuto metodologico della ricerca storica. L’esperienza storica di Gesù, almeno quella parte investigabile con gli strumenti della ricerca storica, ha il suo termine sul calvario. I racconti di resurrezione (sia quelli che i testi pongono dopo la sepoltura, sia quelli che incontriamo ben prima della resurrezione, come, per esempio, la trasfigurazione), sfuggono per loro stessa natura agli strumenti della ricerca storica. Sono ùtili su questo piano per ricostruire elementi storici riguardanti i discepoli e la primitiva comunità cristiana, lo sono molto meno per la figura storica di Gesù. Sono invece una grande testimonianza della comunitaria comprensione post-pasquale degli eventi. Penso che un aiuto maggiore alla loro comprensione possa derivare dai metodi dell’esegesi narrativa.
Non bisogna dimenticare che nell’analisi dei testi evangelici e del loro grado di plausibilità storica, la metodologìa storica abbia con ragione escluso dal novero dei testi più evidentemente riconducibili al Gesù storico, quelli che presentavano riferimenti alla sua futura morte, per il loro presumibile carattere di storia raccontata sotto forma di profezìa. Se una tale scelta è giusta (e, a mio avviso, lo è), sarebbe consigliabile non trarre conclusioni sulla visione che Gesù aveva della propria morte, in quanto si viene a determinare una sorta di “corto circuito metodologico”, i risultati sarebbero inevitabilmente condizionati dagli “strumenti di laboratorio” usati.


Come è bello ricercare su Gesù.

Non è senza significato, infine, che in un quadro di sostanziale contrazione degli spazî e delle energie dedicati agli studî di carattere umanistico, si registri oggi nell’àmbito accademico internazionale il fiorire di inedite iniziative di ricerca storica sulla figura di Gesù di Nàzareth. Parlare di Gesù, ricercare intorno alla sua persona, cercare di comprendere il più possibile della sua vicenda storica, sono esigenze connaturate alla scelta di fede. È naturale che quanti nella propria vita hanno scelto di seguìre Gesù, aspirino a conoscere il più possibile della sua persona e della sua vicenda. Certamente in questa scelta sarà anche possibile imboccare strade sbagliate o vicoli ciechi, ma l’esperienza delle più recenti acquisizioni della ricerca storica su Gesù di Nàzareth ci ha svelato sin qui tanti affascinanti aspetti poco conosciuti che ci restituiscono un figura coincidente con i tratti di fondo del Gesù che ci è testimoniato dalla grandi tradizioni delle Chiese cristiane. La figura del maestro itinerante, che sceglie la povertà, l’itineranza e l’ospitalità come stile di vita, che guarisce, predica, incontra tutti senza distinzioni, che cerca la fede autentica, che richiama alla coscienza, a valutare ciò che è giusto, è un Gesù che mi piace. Non solo! È anche un Gesù autentico che è bello presentare con semplicità alle donne e agli uomini di oggi.

(Sergio Sbragia)
Vico Equense, 20 gennaio 2013

Ha senso per la fede cristiana la ricerca storica su l'uomo Gesù di Nàzareth? : Sintesi di un dibattito in rete

IL DIBATTITO DI QUESTI GIORNI.

Sono davvero sorpreso e lusingato dell’attenzione destata dalle mie riflessioni del 25 dicembre 2012, con le quali ho aperto l’attività di questa pagina dedicata a una riflessione pubblica sul ruolo che, nell’àmbito di una scelta di fede, può rivestire la ricerca storica sull’uomo Gesù di Nàzareth. Numerosi amici mi hanno ritenuto di contribuire all’approfondimento con un proprio contributo di idee e di riflessione. Ringrazio tutti dell’attenzione, ma voglio tentare tuttavìa di operare una sintesi del loro apporto per poi cercare di fare qualche ulteriore approfondimento.

Paolo Brance' ha ravvisato nelle mie riflessioni l’esito di un pensiero liberaleggiante dove di risalta più l'aspetto teologico che quello storico e ha posto in guardia dall’affermare che gli evangeli sono scritti solo teologici, perché ciò significherebbe porre in dubbio i riferimenti storici e mitizzarli. Ha tenuto a sottolineare che i Vangeli non sono frutto della comunità subapostolica, ma documenti redatti già fino dagli albori del Cristianesimo dalla comunità apostolica. Si registrò prima la circolazione di scritti in embrione che poi vennero fissati in maniera più sistematica nei Vangeli che noi conosciamo. Pertanto non si può parlare di messaggio evangelico, se esso non è basato su reali avvenimenti storici, primo fra tutti quello della Resurrezione.
Paolo Brance’ ha poi concordato sul fatto che gli Evangeli non vogliono essere una ricostruzione storica dettagliata della vita e dell'azione di Gesù. L'evangelo è un genere letterario, nuovo, esclusivo, "inventato" dagli evangelisti per raccontare l'esclusivo evento Gesù: L'irrompere di Dio nella storia umana doveva essere raccontato con un genere letterario innovativo. Non vi sono più nella letteratura mondiale tentativi di imitazione dell'Evangelo"(eccetto i testi apocrifi). Dunque, l'Evangelo è la storia della salvezza definitiva di Dio incarnata nella persona, nell'opera e nell'insegnamento di Gesù. E' storia della salvezza e non biografia, è un messaggio teologico quadriforme attraverso il racconto di eventi particolari della vita di Gesù e l'esposizione selettiva del suo insegnamento. Partendo dalla croce e dalla resurrezione gli evangelisti vanno a ritroso per ordinare secondo il loro specifico punto di vista teologico una serie di avvenimenti, detti e riferimenti toponomastici finalizzati a istruire, annunciare e difendere l'"Evangelo di Dio", ossia Gesù Cristo.
Di certo, infine, l'evento Gesù, per Paolo Brance’, si confronta con gli eventi storici del secolo , e li permea con la luce riflessa dei credenti, i quali fanno uso del linguaggio letterario e filosofico proprio dei loro dotti per rendere intelligibile il messaggio salvifico dell'evangelo. Le scienze umanistiche, sociali e anche scientifiche in qualche modo sono utili e interessanti per amplificare l'annuncio evangelico.

Daniela Varesano, riconosce che la ricerca storica è un dono ulteriore, ma tiene a sottolineare che, se si è realizzato l’incontro con Cristo, la fede prescinde anche la ricerca e va oltre di essa.

Michele D’Agostini, in più interventi, ha sottolineato l’interesse dell’interrogativo che fa da titolo alla pagina, che anch’egli si è posto quando (da cattolico) ha iniziato i proprî studî universitarî sul cristianesimo delle origini, ma ha anche segnalato di essere stato messo in crisi da alcune conclusioni a cui sono giunti gli studiosi della cosiddetta “Third quest” della ricerca storica su Gesù. Ha poi riassunto tali conclusioni problematiche nei seguenti punti:
1) Gesù era un ebreo, non un cristiano.
Gesù tuttavìa contestava ai farisei la loro tradizione non biblica: ad esempio, l'abitudine di lavarsi le mani prima dei pasti.
La tesi di Michele D’Agostini, rintracciabile in una nota specifica, «è che Gesù non ha avuto mai intenzione di uscire dalla comunità degli ebrei, e non ne è mai uscito. Il motivo è che egli e il suo movimento rimangono totalmente all'interno del giudaismo nei tre elementi fondamentali che costituiscono un sistema religioso: il gruppo sociale, le pratiche e le concezioni. Infatti, (a) il suo gruppo fu per sua esplicita volontà limitato esclusivamente a giudei; (b) non c'è una sola pratica religiosa di Gesù che non sia giudaica; (c) non c'è una sola idea di Gesù che non sia giudaica» (Michele D’Agostini, “Alcune tesi”, 9 luglio 2012, consultata il 1° gennaio 2013).
In tono conclusivo Michele D’Agostini si chiede poi, “Se (e ripeto: Se) tutto ciò è vero... Come si può seguire Gesù ed essere ancora cristiani, e non (casomai) ebrei?”
2) Gesù non voleva fondare una nuova religione, né una nuova gerarchia ecclesiastica, né inventare nuovi dogmi o riti.
Sarebbe dunque lecito, citando il titolo di un saggio di Giorgio Jossa, chiedersi: “Il cristianesimo ha tradito Gesù?”.
3) Gesù osservava la legge mosaica.
A tal proposito sarebbe necessario tenere dèbita attenzione al dato che nel giudaismo del 1. sec. le discussioni sulla legge mosaica erano all'ordine del giorno. Le critiche di Gesù ad alcuni aspetti della legge mosaica non sarebbero da intendere come il segno inequivoco di una sua volontà di rivoluzionarla.
In relazione a questo punto e, nell’intento, di porre in guardia rispetto a un’errata comprensione dell’espressione ricorrente sulle labbra di Gesù “Ma io vi dico…”, quale un indizio della volontà di Gesù di rivoluzionare la Legge mosaica, Michele D’Agostini rinvìa a una sua nota sulla questione, dove ho rintracciato le seguenti riflessioni in merito: «A livello linguistico sottolineiamo anzitutto che l'espressione “ma io vi dico” vuole indicare una contrapposizione non giustificata dall'espressione greca. Al contrario, il “de” dell'espressione originale greca “Ego de lego hymin” normalmente indica nel Vangelo un collegamento e non una contrapposizione. Giustamente e fedelmente tradotta, l'espressione suona: “E io vi dico”, il che corrisponde esattamente all'espressione ebraica originaria (“Wa' ani omer lahem”), la quale non intende introdurre una contrapposizione alla Torah, bensì semplicemente commentarla. Ben lungi dall'essere “unica”, l'espressione è un'espressione scolastica fondamentale della “Torah orale”, quindi del Talmud, e presenta molti parallelismi nella letteratura rabbinica. “Voi avete udito” o “È detto”, seguito da “E io vi dico”, sono in realtà una coppia di espressioni tecniche che vanno sempre insieme e appartengono al vocabolario essenziale dei dibattiti dottrinali rabbinici. La prima espressione significa: “Voi finora avete compreso questa parola della Scrittura in questo modo”, e si fa seguire o il senso letterale del passo in questione o la sua esegesi tradizionale o l'opinione degli avversari in merito. Poi si dice: “E io vi dico”, espressione alla quale si fa seguire la nuova spiegazione offerta da colui che parla. Qui bisogna sottolineare che, nel caso dei dibattiti dottrinali talmudici, entrambe le opinioni – quella vecchia che viene confutata, e quella nuova, che viene presentata – restano aperte alla discussione e, in realtà, nel Talmud sono state spesso riportate l'una accanto all'altra, anche se una sola è stata scelta come opinione dottrinale ufficiale. Il dialogo finalizzato all'insegnamento occupa un posto molto importante nell'ebraismo tradizionale. La più bella massima relativa a questo metodo è l'antichissimo detto rabbinico: “Questa e quella [affermazione del proponente e affermazione del contraddittore] sono entrambe parole del Dio vivente”. Lo stesso afferma anche Eduard Lohse nel suo contributo in onore di Joachim Jeremias, dove cita, fra l'altro, rabbi Shimon bar Jochai che controbatte cinque volte le considerazioni di rabbi Akiba con un energico «E io vi dico». Scrive Lohse: “Quando Gesù contrappone alla tradizionale spiegazione del comandamento le sue parole con la frase ‘Ego de lego hymin’ usa l'espressione in un modo assolutamente comparabile con quello dei rabbi quando dicono ‘Wa' ani omer lahem’”. Chi legge la discussione – meglio l'insegnamento – di Gesù con occhi esercitati alla lettura del Tamud, sa che essa appartiene assolutamente alla metodologia dell'appassionata discussione magisteriale dialogica dei rabbi, che scaturisce non da ostilità né da prepotente saccenteria, bensì sempre e solo dal comune amore per la sacra Scrittura, dalla battaglia per interpretarla nel modo più gradito a Dio e dalla convinzione che il monologo è il metodo peggiore, e il dialogo il migliore, per potersi avvicinare alla verità spesso nascosta. Né nelle discussioni né nell'insegnamento della montagna, Gesù ha mai abbandonato il terreno del suo ebraismo pluralistico. Come tutti i grandi saggi di Israele fino ai nostri giorni, egli possedeva certamente un suo patrimonio ideale specifico, che sapeva difendere con grande determinazione nelle discussioni, ma nulla di ciò che il rabbi di Nazaret ha fatto o tralasciato, deciso o spiegato, può essere interpretato come una “demolizione” o una “distruzione” dell'ebraismo. Purtroppo ciò che i suoi tardi interpreti, epigoni e de-ebraicizzanti hanno attribuito alla sua vita e letto nel suo insegnamento, ha spesso ben poco a che vedere con lo Jeshua terreno, storico, figlio di Maria da Nazaret» (Michele D’Agostini, “«Ma io vi dico...»: Tentativo di una ribellione?, 14 luglio 2012, consultato il 1° gennaio 2013)
4) Gesù era convinto che la venuta del regno di Dio (in un certo senso, la fine del mondo come noi lo conosciamo, con annesso giudizio universale e "nuovo mondo" governato da Dio), cosa che non è avvenuta.
Ad esplicitazione di questa sua posizione, Michele D’Agostini invita a consultare una sua nota sull’argomento, dove ho trovato le seguenti espressioni che interessano direttamente l’argomento: «Gesù pensava di vivere, di situarsi e avere una funzione, in un periodo immediatamente precedente l’avvento del regno di Dio. Egli predicava «dicendo che: è compiuto il tempo e si è avvicinato il regno di Dio; convertitevi e credete all’annuncio» (Mc 1,14). Il regno, però, sarebbe stato instaurato in futuro da Dio stesso, dopo il giudizio finale. Il grande rivolgimento del regno di Dio si sarebbe quindi verificato dopo una serie di eventi escatologici precedenti. Gesù non crede di avere il compito di realizzare il regno di Dio sulla terra. Deve solo aiutare gli uomini ad entrarvi. Invita alla conversione, sollecita a una obbedienza radicale alla volontà di Dio, in vista del regno che di lì a breve si realizzerà. Certo, Gesù pensa che la potenza di Dio già si manifesta nelle sue guarigioni miracolose: «se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio» (Mt 12,29). Ma ciò non elimina il fatto che molte parole di Gesù presuppongono chiaramente che il regno è una realtà futura (Mt 16,19; 18,3-4; 19,23-24.27-28) e molti altri). Spesso si è cercato di spiegare la contraddizione affermando che il regno è “già” presente, ma “non ancora” venuto. Anzi si è detto che questa compresenza di “già” e “non ancora” è l’essenza della fede del seguace di Gesù. Ma questo non risolve affatto il problema. Il regno di Dio è una trasformazione storica, sociale, politica e cosmica collettiva. Il fatto che Dio conceda o meno a Gesù dei poteri particolari di guarigione non sostituisce l’instaurazione del potere di Dio su tutta la storia. Proprio perché Gesù situa se stesso prima della fine, egli non è un fondatore di religione, un organizzatore di società, un legislatore. Certo, Gesù con i suoi Dodici discepoli sarebbe stato il giudice che avrebbe presieduto al giudizio finale: «nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28). Ma questo fatto si verificherà solo nel futuro e il regno di Dio inizierà solo dopo il giudizio universale.» (M. D’Agostini, “Gesù fondatore del Cristianesimo? I problemi di cui Gesù non aveva parlato”, 26 agosto 2012, consultato il 1° gennaio 2013).
5) Gesù pretendeva dai suoi discepoli (almeno, da coloro che ne erano in grado) il distacco da beni e famiglia).
Michele D’Agostini, tiene poi a precisare e a sottolineare che questo comando di Gesù era rivolto solo a coloro che erano in grado di realizzarlo, sulla scorta dello studio condotto da Mauro Pesce nel suo libro “L'uomo Gesù”. Gesù avrebbe chiesto di essere seguìto solo a giovani. Non a giovanissimi, e neppure a persone mature che dovevano mantenere la propria famiglia; pretende il distacco da beni e famiglia “solo” da persone che lo potevano fare senza “danneggiare” gli altri. Per questo alcuni suoi discepoli sono stanziali, ma la maggior parte sono itineranti; chi può farlo, secondo Gesù, “deve” abbandonare tutto e tutti.
6) Gesù non predicò e ordinò di non predicare ai pagani, pur pensando (alla maniera di molti profeti veterotestamentari) che presto si sarebbero convertiti anch'essi (da soli? "Ispirati" da Yahweh?)
Certamente Gesù (seppur “raramente”) dimostra di apprezzare la fede (o meglio, la fiducia) dei non ebrei; ma è anche vero che li chiama “cani” e “porci”, oltre a disprezzare il loro modo di pregare, e di amare solo gli amici. La conversione dei pagani non è nei progetti di Gesù, molto probabilmente egli ritiene (come i profeti) che essi si convertiranno spontaneamente. In merito ad alcuni testi evangelici, spesso citati per avvalorare la tesi che Gesù avrebbe incoraggiato la predicazione ai pagani, Michele D’Agostini prende ad esempio, il famoso testo in cui Gesù pronuncia il mandato: «predicate a tutte le genti», e fa notare come questo è rivolto da Gesù risorto a un ristretto numero di persone, contraddicendo quanto aveva detto (a folle intere) il Gesù vivo. Occorre inoltre spiegarsi perché, allora, Pietro avrebbe avuto bisogno di una visione divina solo per poter accogliere un pagano (At. 10) e perché gli altri seguaci di Gesù lo abbiano criticato aspramente, per questo (At. 11).
Secondo i profeti, sembra proprio che la conversione dei pagani sarà "spontanea". In ogni caso, Gesù non pensava che essa fosse compito suo...
Sul rapporto tra Gesù e i pagani, Michele D’Agostini porta poi l’esempio di varî brani evangelici.
“Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».” (Mt. 1,20-21).
“Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate.” (Mt. 6,7-8)
“Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele».” (Mt. 10,5-6)
“Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i discepoli gli si accostarono implorando: «Esaudiscila, vedi come ci grida dietro». Ma egli rispose: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele». Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».” (Mt. 15,21-26).
“E Gesù disse loro: «In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele».” (Mt. 19,28)
“Partito di là, andò nella regione di Tiro e di Sidone. Ed entrato in una casa, voleva che nessuno lo sapesse, ma non potè restare nascosto. Subito una donna che aveva la sua figlioletta posseduta da uno spirito immondo, appena lo seppe, andò e si gettò ai suoi piedi. Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia. Ed egli le disse: «Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini».” (Mc. 7,24-27).
“Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.” (Lc. 22,28-30).
In merito all’episodio della donna siro-fenicia o cananèa (Mt. 15,21-26; Mc. 7,24-27), Michele D’Agostini tiene a sottolineare che non gli risulta che Gesù abbia predicato a essa, né che le abbia parlato del regno di Dio, né che le abbia raccontato una parabola, né che le abbia chiesto di seguirlo... Si sarebbe solo limitato a guarire la figlia!
A margine di un’interpretazione della parabola delle nozze, dove al rifiuto dei primi invitati sopravviene un estensione dell’invito a una moltitudine diversificata di umili e di poveri, D’Agostini pone in guardia da un’idea di cambiamento d’idea da parte Gesù (visto il sostanziale rifiuto dei suoi, decide di rivolgersi anche ai pagani). Quest’ipotesi cozzerebbe con il dato che “tutti” i suoi seguaci risultano essere ebrei e risulterebbe poco comprensibile la scelta di rivolgersi ai suoi carnefici, a coloro che lo avrebbero processato, condannato e messo a morte. Michele D’Agostini non ritiene poi molto sostenibile la tesi di vedere una responsabilità giudaica nella morte di Gesù. Se non ci fossero stati i romani, Gesù non sarebbe mai stato crocifisso, e probabilmente neppure sarebbe stato ucciso! I sadducei non potevano condannarlo solo per qualche critica alla loro condotta.
Michele D’Agostini si chiede, infine: Possibile poi che un dio incarnato cambi idea?
In merito al preteso tradimento di Giuda, Michele D’Agostini rinvia per un approfondimento alla nota di Filosofia Razionalista Anticlericale “Gesù è stato tradito?”, al cui interno ho trovato, tra l’altro, la seguente tesi: «il fatto che il termine “tradimento” usato abitualmente da tutti i cristiani in riferimento a Giuda non ricorre come tale nel Vangelo. Nel testo greco ricorre il verbo “paradidonai”, che significa letteralmente “dare a” o “consegnare” ed è esattamente il termine di cui si serve Paolo per indicare la morte sacrificale di Gesù come “auto-donazione, auto-consegna” (Gal 2,20)» (Filosofia Razionalista Anticlericale, “Gesù è stato tradito?”, 20 agosto 2012, consultato il 1° gennaio 2012).
7) Gesù non attribuì alla sua morte e risurrezione nessun valore salvifico/espiatorio, puntando piuttosto sul perdono reciproco fra uomini (i quali a loro volta sarebbero stati perdonati da Yahweh).
Resta il fatto che considerare la morte di Gesù come un sacrificio espiatorio è un'idea tipicamente paolina. Gesù, invece, sostiene che è Yahweh a rimettere i peccati, e solo nel caso in cui le persone facciano altrettanto; basti pensare a quanto dice il “Padre nostro”, che non nomina minimamente Gesù. Quanto all’espressione che abitualmente è usata per avvalorare un riconoscimento di Gesù al valore salvifico della propria morte «il sangue versato per molti in remissione dei peccati, fate questo in memoria di me», Michele D’Agostini sottolinea che bisognerebbe capire quanto siano storiche queste parole, essendo state pronunciate tra l'altro in un contesto esoterico.

Giovanni Sarruso, in dialogo con Michele D’Agostini, condividendo l'interesse per la vicenda storica di Gesù da studiare con impegno e senza tesi precostituite, sottolinea il suo dissenso dalle tesi esposte da Michele D’Agostini ai precedenti punti 3, 6 e 7, mentre è d’accordo sulle altre. Per il punto 3 (osservanza, da parte di Gesù, della Legge mosaica), richiama il valore oppositivo della ricorrente espressione di Gesù «ma io vi dico…». Per il punto 6 (Atteggiamento di Gesù riguardo ai pagani), richiama il mandato di Gesù ai discepoli di predicare a tutte le genti. Egli si chiede poi se l’idea del regno di Dio, proposta da Gesù non comportasse comunque la sua estensione a tutta la terra (in coerenza anche con quanto detto nel Padre Nostro, dove s’invoca che la volontà di Dio sia fatta in cielo e in terra, e non presupponga l’annuncio del regno agli altri popoli. Manifesta poi un certo scetticismo sull’ipotesi di una conversione spontanea dei pagani o di una loro conversione per opera di Jahwé, ritenendo essenziale l’apporto di una comunicazione materiale. Ciò è coerente con il relativo impegno degli Ebrei sul terreno del proselitismo e con il dato che i missionari cristiani non hanno mai pensato di essere loro a convertire: si son sempre sentiti strumenti di Dio.
L'episodio della donna cananea, poi, evidenzia che Gesù cominciò rivolgendosi ai soli Ebrei, ma poi cambiò idea e accettò anche i pagani. Perciò alla fine disse di predicare a loro. Si accorse della potente fede di altre persone (non ebree) e cambiò disposizioni. Capì che il suo popolo non lo seguiva e chiamò gli altri, come nella parabola dei convitati alle nozze. L'uomo Gesù cambia idea: voleva che il suo popolo lo seguisse, pensava che fosse questo il suo compito. Poi comprese che volevano eliminarlo e interpretò questo come volontà di Dio e la accettò (con sofferenza dicendo se puoi allontana da me questo calice). I suoi carnefici sono solo materialmente i Romani. I capi degli Ebrei lo denunciarono e Giuda lo tradì. I Romani si comportarono secondo le loro leggi. Se mi dici che tizio è un sobillatore lo elimino.
Per il punto 7 (Eventuali cenni di Gesù al valore salvifico della sua morte), richiama il significato delle parole di Gesù pronunciate nel corso della Cena: «il sangue versato per molti in remissione dei peccati, fate questo in memoria di me».
Tina Ionni, in dialogo con Michele D’Agostini, si chiede da chi sia stato realizzato, intorno al 70 e.v. (dunque molto dopo la sua morte) il racconto della vicenda di Gesù, l'ebreo apocalittico, tenuto conto che non vi sono prove che i vangeli "sinottici" di Marco ,Matteo e Luca siano stati scritti effettivamente da loro. Non va infatti dimenticato che allora rarissime persone erano in grado di leggere e scrivere. Giovanni poi contraddice gli altri tre, collocando la Cacciata dal Tempio due anni prima della sua morte. Tina Ionni si chiede allora, come in assenza di basi storiche cosi' importanti si possa capire la nascita del Cristianesimo e quali siano state le vere parole di Gesù. Disponendo solo di racconti orali, trascritti molti anni dopo, appare quasi impossibile realizzare una ricerca precisa su una vicenda complessa quale l’esistenza storica di Gesù e gli inizî del Cristianesimo.
Io sono intervenuto nel confronto con alcune considerazioni.
In dialogo con Paolo Brance’ ho sottolineato come la necessariamente sintetica presentazione della ricerca storica su Gesù di Nàzareth che ho tentato di tracciare, abbio proprio lo scopo di porre in evidenza il fondamento nella storia dell’itinerario di fede, rifuggendo sia da mitizzazioni sia da approccî meramente devozionali.
Io sono sinceramente convinto che i Vangeli sono la testimonianza della primitiva comunità cristiana che con Gesù il Regno di Dio ha fatto irruzione nella storia. L’annuncio contenuto nei testi evangelici è profondamente fondato in eventi storici di cui i discepoli di Gesù sono stati testimonî oculari. Ma i Vangeli non hanno, né intendevano avere lo status di documenti di ricostruzione storica, la loro finalità era la diffusione della fede in Gesù, che naturalmente era vissuto storicamente nella Palestina del 1. sec. e.v.
Sono perciò convinto che nel presentare l’evento Gesù alle donne e agli uomini di oggi non si possa prescindere dagli esiti della ricerca storica su Gesù.
Quanto all’antichità dei testi evangelici, il processo delle loro formazione dalla cura della trasmissione orale, alla prima redazione di testi, alla formazione di raccolte, fino a confluire nei quattro Vangeli che conosciamo, ha coperto un arco temporale di varî decennî, dalla Pentecoste alla fine del 1. sec. e.v.. Un processo che si andato intensificando man mano che venivano meno i testimonî oculari della vicenda terrena di Gesù.
Affermare la profonda e innegabile fondatezza storica dei Vangeli (da distinguere dalla “storicità” nel senso tecnico inteso dall’odierna ricerca storica), non implica tuttavìa la negazione del loro valore teologico, il loro essere testimonianza della comunitaria comprensione di fede post-pasquale, realizzatasi nella primitiva comunità cristiana con il dono dello Spirito.
Storia e Teologìa sono inestricabilmente presenti nei Vangeli, né potrebbe essere altrimenti. Il fatto cristiano trova infatti la sua origine nella vicenda storica dell’uomo Gesù di Nàzareth in Palestina (storia) e ha il suo sviluppo nella comprensione che di tale vicenda ha maturato la successiva comunità dei suoi seguaci (teologìa), una comprensione che naturalmente, per noi credenti, è avvenuta alla luce dello Spirito.
Ho condiviso l’osservazione di Paolo Berce’ sull'unicità del genere letterario dei Vangeli e sul loro essere, per noi credenti, la rivelazione della storia della salvezza. Ciò non toglie che dobbiamo avere la serenità per calcare le vie del mondo fianco a fianco con altri uomini e non stancarci di render conto della speranza che ci è stata donata, utilizzando anche gli strumenti che il mondo e la storia concreta degli uomini ci mettono a disposizione.

In dialogo con Michele D’Agostini, partendo dall’attuale stadio del mio approfondimento, ho provato a fare delle mie personali osservazioni su ciascuno dei punti che ha evidenziato, rilevando tuttavìa la necessità di tenere sempre ben distinti il diverso piano e il diverso statuto metodologico che contraddistinguono l’“accertamento storico” e l’“accertamento teologico”. Storia e Teologìa hanno molte cose da dirsi e possono arricchirsi reciprocamente, ma né la storia ha una funzione ancillare rispetto alla teologìa, né quest’ultima è da vincolare al solo dato storicamente verificabile.
Venendo analiticamente ai singoli punti posti in evidenza:
“1) Gesù era un ebreo, non un cristiano”.
Se esaminiamo i materiali evangelici che più plausibilmente possono essere riferiti alla vicenda itinerante di Gesù, in effetti ne emerge il profilo di una personalità profondamente partecipe, sia pur in forma critica, della pratica cultuale giudaica del suo tempo. Una personalità, semmai, impegnata a evidenziare i tratti più autentici e originarî di tale cultualità, ricercando per ciascun gesto di culto il suo legame autentico con la volontà di Dio. Gesù pertanto, a mio parere, va considerato pienamente un ebreo del suo tempo, un ebreo che tuttavìa richiamava con forza a riscoprire i tratti originarî e autentici del culto, ponendo in decisa discussione pratiche che nella consuetudine ripetitiva e letteralistica finivano per tradire l’autentica volontà di Dio.
“2) Gesù non voleva fondare una nuova religione, né una nuova gerarchia ecclesiastica, né inventare nuovi dogmi o riti”.
In effetti la preoccupazione di Gesù non sembra essere stata la ricerca di una strada autonoma dal giudaismo dell’epoca, quanto una proposta di una profonda maturazione dell’esperienza religiosa giudaica. La trasformazione della comunità dei discepoli di Gesù in un’esperienza religiosa autonoma dal giudaismo (processo non immediato che ha interessato abbastanza prolungato nel tempo) sembra più essere stato il prodotto (forse obbligato) dei successivi contrasti circa la comprensione e l’accettazione del suo insegnamento.
“3) Gesù osservava la legge mosaica”.
Gesù, a mio parere, osservava puntualmente e nella sostanza la legge mosaica. Seguìva le feste, i pellegrinaggî e le pratiche rituali ebraiche. Ne proponeva tuttavìa un’osservanza adulta, attenta alla finalità autentica, che ne aveva determinato l’introduzione. Non solo; introduceva anche, tra le varie pratiche cultuali, una scala di priorità (basti considerare la sua concezione dell’osservanza del sabato). Proponeva infine anche un’evoluzione della legge mosaica, invitando a saper interpretare i segni della volontà di Dio e a universalizzarne la portata. Lasciando, per un attimo, il piano storico, ritengo che questo sia un aspetto importantissimo (anche se delicato) del dialogo ebraico-cristiano se si vuol superare il piano di un rapporto (pur importante) di buon vicinato.
“4) Gesù era convinto che la venuta del regno di dio (in un certo senso, la fine del mondo come noi lo conosciamo, con annesso giudizio universale e "nuovo mondo" governato da dio), cosa che non è avvenuta”.
Più che una previsione d’imminenza, nei materiali evangelici riscontro piuttosto l’affermazione che “il Regno di Dio è giunto”. Il Regno è dunque una realtà percepìta come già in atto, già presente, la cui logica è radicalmente diversa (oggi diremmo alternativa) da quella consueta (cf.: “Il mio regno non è di questo mondo, se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”). Una logica che egli propone, a quanti incontra sul proprio cammino, di scegliere liberamente e di praticare nel concreto quotidiano. Circa la previsione del giudizio, il senso d’imminenza, che i testi sembrano evidenziare, a mio parere è da riferirsi più al carattere d’inevitabilità (cf.: “il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”) che alla immediatezza temporale.
“5) Gesù pretendeva dai suoi discepoli (almeno, da coloro che ne erano in grado) il distacco da beni e famiglia”.
Certo, Gesù proponeva la scelta, da assumere nella libertà e nella responsabilità (cf.: “Se vuoi…”), di lasciare tutto e seguìrlo. Lungi da me un’interpretazione spiritualistica, ma dai Vangeli emergono anche le figure di discepoli, che scelgono di seguìre autenticamente Gesù pur rimanendo nelle loro condizioni materiali. È il caso, per esempio, di Làzzaro di Betania (che, a mio avviso, potrebbe essere identificato con il “discepolo amato” e con l’autore del 4. Vangelo) e delle sue sorelle Marìa e Marta.
“6) Gesù non predicò e ordinò di non predicare ai pagani, pur pensando (alla maniera di molti profeti veterotestamentari) che presto si sarebbero convertiti anch'essi (da soli? "Ispirati" da Yahweh?)”.
Per avvertendo la presenza di brani ed episodî che presentano una certa contraddittorietà è, a mio parere, innegabile che la prospettiva della predicazione itinerante di Gesù propone uno sviluppo in senso universalistico della fede giudaica, basti aver presente la considerazione che Gesù riconosce al dato teologicamente centrale quando lo riscontra anche al di fuori d’Israele (cf.: "In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!”).
“7) Gesù non attribuì alla sua morte e risurrezione nessun valore salvifico/espiatorio, puntando piuttosto sul perdono reciproco fra uomini (i quali a loro volta sarebbero stati perdonati da Yahweh)”.
Ritengo che la ricerca di una valutazione sulla morte e resurrezione nel quadro dei materiali evangelici più direttamente riferiti alla missione itinerante di Gesù sfugga in gran parte allo statuto metodologico della ricerca storica. L’esperienza storica di Gesù, almeno quella parte investigabile con gli strumenti della ricerca storica, ha il suo termine sul calvario. I racconti di resurrezione (sia quelli che i testi pongono dopo la sepoltura, sia quelli che incontriamo ben prima della resurrezione, come, per esempio, la trasfigurazione), sfuggono per loro stessa natura agli strumenti della ricerca storica. Sono utili su questo piano per ricostruire elementi storici riguardanti i discepoli e la primitiva comunità cristiana, lo sono molto meno per la figura storica di Gesù. Sono invece una grande testimonianza della comunitaria comprensione post-pasquale degli eventi. Penso che un aiuto maggiore alla loro comprensione possa derivare dai metodi dell’esegesi narrativa.
Queste che ho esposto sono ovviamente delle considerazioni generali sul tema, che meritano di certo ulteriori approfondimenti.

Spero di aver riepilogato con sufficiente chiarezza e con la dovuta fedeltà le posizioni degli amici che mi hanno voluto onorare del loro contributo. Qualora qualcuno degli amici dovesse ravvisare un’imprecisione nella mia sintesi della propria posizione, prego di volermene dare notizia e sarà mia cura operare le necessarie rettifiche.
Ho tenuto conto dei contributi pervenuti sino a domenica 30 dicembre 2012.
Nei prossimi giorni presenterò un contributo di sviluppo del tema.

Vico Equense, lì 1° gennaio 2013
(Sergio Sbragia)