martedì 14 maggio 2013

Ha senso per la fede cristiana la ricerca storica su l'uomo Gesù di Nàzareth? : Sintesi di un dibattito in rete

IL DIBATTITO DI QUESTI GIORNI.

Sono davvero sorpreso e lusingato dell’attenzione destata dalle mie riflessioni del 25 dicembre 2012, con le quali ho aperto l’attività di questa pagina dedicata a una riflessione pubblica sul ruolo che, nell’àmbito di una scelta di fede, può rivestire la ricerca storica sull’uomo Gesù di Nàzareth. Numerosi amici mi hanno ritenuto di contribuire all’approfondimento con un proprio contributo di idee e di riflessione. Ringrazio tutti dell’attenzione, ma voglio tentare tuttavìa di operare una sintesi del loro apporto per poi cercare di fare qualche ulteriore approfondimento.

Paolo Brance' ha ravvisato nelle mie riflessioni l’esito di un pensiero liberaleggiante dove di risalta più l'aspetto teologico che quello storico e ha posto in guardia dall’affermare che gli evangeli sono scritti solo teologici, perché ciò significherebbe porre in dubbio i riferimenti storici e mitizzarli. Ha tenuto a sottolineare che i Vangeli non sono frutto della comunità subapostolica, ma documenti redatti già fino dagli albori del Cristianesimo dalla comunità apostolica. Si registrò prima la circolazione di scritti in embrione che poi vennero fissati in maniera più sistematica nei Vangeli che noi conosciamo. Pertanto non si può parlare di messaggio evangelico, se esso non è basato su reali avvenimenti storici, primo fra tutti quello della Resurrezione.
Paolo Brance’ ha poi concordato sul fatto che gli Evangeli non vogliono essere una ricostruzione storica dettagliata della vita e dell'azione di Gesù. L'evangelo è un genere letterario, nuovo, esclusivo, "inventato" dagli evangelisti per raccontare l'esclusivo evento Gesù: L'irrompere di Dio nella storia umana doveva essere raccontato con un genere letterario innovativo. Non vi sono più nella letteratura mondiale tentativi di imitazione dell'Evangelo"(eccetto i testi apocrifi). Dunque, l'Evangelo è la storia della salvezza definitiva di Dio incarnata nella persona, nell'opera e nell'insegnamento di Gesù. E' storia della salvezza e non biografia, è un messaggio teologico quadriforme attraverso il racconto di eventi particolari della vita di Gesù e l'esposizione selettiva del suo insegnamento. Partendo dalla croce e dalla resurrezione gli evangelisti vanno a ritroso per ordinare secondo il loro specifico punto di vista teologico una serie di avvenimenti, detti e riferimenti toponomastici finalizzati a istruire, annunciare e difendere l'"Evangelo di Dio", ossia Gesù Cristo.
Di certo, infine, l'evento Gesù, per Paolo Brance’, si confronta con gli eventi storici del secolo , e li permea con la luce riflessa dei credenti, i quali fanno uso del linguaggio letterario e filosofico proprio dei loro dotti per rendere intelligibile il messaggio salvifico dell'evangelo. Le scienze umanistiche, sociali e anche scientifiche in qualche modo sono utili e interessanti per amplificare l'annuncio evangelico.

Daniela Varesano, riconosce che la ricerca storica è un dono ulteriore, ma tiene a sottolineare che, se si è realizzato l’incontro con Cristo, la fede prescinde anche la ricerca e va oltre di essa.

Michele D’Agostini, in più interventi, ha sottolineato l’interesse dell’interrogativo che fa da titolo alla pagina, che anch’egli si è posto quando (da cattolico) ha iniziato i proprî studî universitarî sul cristianesimo delle origini, ma ha anche segnalato di essere stato messo in crisi da alcune conclusioni a cui sono giunti gli studiosi della cosiddetta “Third quest” della ricerca storica su Gesù. Ha poi riassunto tali conclusioni problematiche nei seguenti punti:
1) Gesù era un ebreo, non un cristiano.
Gesù tuttavìa contestava ai farisei la loro tradizione non biblica: ad esempio, l'abitudine di lavarsi le mani prima dei pasti.
La tesi di Michele D’Agostini, rintracciabile in una nota specifica, «è che Gesù non ha avuto mai intenzione di uscire dalla comunità degli ebrei, e non ne è mai uscito. Il motivo è che egli e il suo movimento rimangono totalmente all'interno del giudaismo nei tre elementi fondamentali che costituiscono un sistema religioso: il gruppo sociale, le pratiche e le concezioni. Infatti, (a) il suo gruppo fu per sua esplicita volontà limitato esclusivamente a giudei; (b) non c'è una sola pratica religiosa di Gesù che non sia giudaica; (c) non c'è una sola idea di Gesù che non sia giudaica» (Michele D’Agostini, “Alcune tesi”, 9 luglio 2012, consultata il 1° gennaio 2013).
In tono conclusivo Michele D’Agostini si chiede poi, “Se (e ripeto: Se) tutto ciò è vero... Come si può seguire Gesù ed essere ancora cristiani, e non (casomai) ebrei?”
2) Gesù non voleva fondare una nuova religione, né una nuova gerarchia ecclesiastica, né inventare nuovi dogmi o riti.
Sarebbe dunque lecito, citando il titolo di un saggio di Giorgio Jossa, chiedersi: “Il cristianesimo ha tradito Gesù?”.
3) Gesù osservava la legge mosaica.
A tal proposito sarebbe necessario tenere dèbita attenzione al dato che nel giudaismo del 1. sec. le discussioni sulla legge mosaica erano all'ordine del giorno. Le critiche di Gesù ad alcuni aspetti della legge mosaica non sarebbero da intendere come il segno inequivoco di una sua volontà di rivoluzionarla.
In relazione a questo punto e, nell’intento, di porre in guardia rispetto a un’errata comprensione dell’espressione ricorrente sulle labbra di Gesù “Ma io vi dico…”, quale un indizio della volontà di Gesù di rivoluzionare la Legge mosaica, Michele D’Agostini rinvìa a una sua nota sulla questione, dove ho rintracciato le seguenti riflessioni in merito: «A livello linguistico sottolineiamo anzitutto che l'espressione “ma io vi dico” vuole indicare una contrapposizione non giustificata dall'espressione greca. Al contrario, il “de” dell'espressione originale greca “Ego de lego hymin” normalmente indica nel Vangelo un collegamento e non una contrapposizione. Giustamente e fedelmente tradotta, l'espressione suona: “E io vi dico”, il che corrisponde esattamente all'espressione ebraica originaria (“Wa' ani omer lahem”), la quale non intende introdurre una contrapposizione alla Torah, bensì semplicemente commentarla. Ben lungi dall'essere “unica”, l'espressione è un'espressione scolastica fondamentale della “Torah orale”, quindi del Talmud, e presenta molti parallelismi nella letteratura rabbinica. “Voi avete udito” o “È detto”, seguito da “E io vi dico”, sono in realtà una coppia di espressioni tecniche che vanno sempre insieme e appartengono al vocabolario essenziale dei dibattiti dottrinali rabbinici. La prima espressione significa: “Voi finora avete compreso questa parola della Scrittura in questo modo”, e si fa seguire o il senso letterale del passo in questione o la sua esegesi tradizionale o l'opinione degli avversari in merito. Poi si dice: “E io vi dico”, espressione alla quale si fa seguire la nuova spiegazione offerta da colui che parla. Qui bisogna sottolineare che, nel caso dei dibattiti dottrinali talmudici, entrambe le opinioni – quella vecchia che viene confutata, e quella nuova, che viene presentata – restano aperte alla discussione e, in realtà, nel Talmud sono state spesso riportate l'una accanto all'altra, anche se una sola è stata scelta come opinione dottrinale ufficiale. Il dialogo finalizzato all'insegnamento occupa un posto molto importante nell'ebraismo tradizionale. La più bella massima relativa a questo metodo è l'antichissimo detto rabbinico: “Questa e quella [affermazione del proponente e affermazione del contraddittore] sono entrambe parole del Dio vivente”. Lo stesso afferma anche Eduard Lohse nel suo contributo in onore di Joachim Jeremias, dove cita, fra l'altro, rabbi Shimon bar Jochai che controbatte cinque volte le considerazioni di rabbi Akiba con un energico «E io vi dico». Scrive Lohse: “Quando Gesù contrappone alla tradizionale spiegazione del comandamento le sue parole con la frase ‘Ego de lego hymin’ usa l'espressione in un modo assolutamente comparabile con quello dei rabbi quando dicono ‘Wa' ani omer lahem’”. Chi legge la discussione – meglio l'insegnamento – di Gesù con occhi esercitati alla lettura del Tamud, sa che essa appartiene assolutamente alla metodologia dell'appassionata discussione magisteriale dialogica dei rabbi, che scaturisce non da ostilità né da prepotente saccenteria, bensì sempre e solo dal comune amore per la sacra Scrittura, dalla battaglia per interpretarla nel modo più gradito a Dio e dalla convinzione che il monologo è il metodo peggiore, e il dialogo il migliore, per potersi avvicinare alla verità spesso nascosta. Né nelle discussioni né nell'insegnamento della montagna, Gesù ha mai abbandonato il terreno del suo ebraismo pluralistico. Come tutti i grandi saggi di Israele fino ai nostri giorni, egli possedeva certamente un suo patrimonio ideale specifico, che sapeva difendere con grande determinazione nelle discussioni, ma nulla di ciò che il rabbi di Nazaret ha fatto o tralasciato, deciso o spiegato, può essere interpretato come una “demolizione” o una “distruzione” dell'ebraismo. Purtroppo ciò che i suoi tardi interpreti, epigoni e de-ebraicizzanti hanno attribuito alla sua vita e letto nel suo insegnamento, ha spesso ben poco a che vedere con lo Jeshua terreno, storico, figlio di Maria da Nazaret» (Michele D’Agostini, “«Ma io vi dico...»: Tentativo di una ribellione?, 14 luglio 2012, consultato il 1° gennaio 2013)
4) Gesù era convinto che la venuta del regno di Dio (in un certo senso, la fine del mondo come noi lo conosciamo, con annesso giudizio universale e "nuovo mondo" governato da Dio), cosa che non è avvenuta.
Ad esplicitazione di questa sua posizione, Michele D’Agostini invita a consultare una sua nota sull’argomento, dove ho trovato le seguenti espressioni che interessano direttamente l’argomento: «Gesù pensava di vivere, di situarsi e avere una funzione, in un periodo immediatamente precedente l’avvento del regno di Dio. Egli predicava «dicendo che: è compiuto il tempo e si è avvicinato il regno di Dio; convertitevi e credete all’annuncio» (Mc 1,14). Il regno, però, sarebbe stato instaurato in futuro da Dio stesso, dopo il giudizio finale. Il grande rivolgimento del regno di Dio si sarebbe quindi verificato dopo una serie di eventi escatologici precedenti. Gesù non crede di avere il compito di realizzare il regno di Dio sulla terra. Deve solo aiutare gli uomini ad entrarvi. Invita alla conversione, sollecita a una obbedienza radicale alla volontà di Dio, in vista del regno che di lì a breve si realizzerà. Certo, Gesù pensa che la potenza di Dio già si manifesta nelle sue guarigioni miracolose: «se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio» (Mt 12,29). Ma ciò non elimina il fatto che molte parole di Gesù presuppongono chiaramente che il regno è una realtà futura (Mt 16,19; 18,3-4; 19,23-24.27-28) e molti altri). Spesso si è cercato di spiegare la contraddizione affermando che il regno è “già” presente, ma “non ancora” venuto. Anzi si è detto che questa compresenza di “già” e “non ancora” è l’essenza della fede del seguace di Gesù. Ma questo non risolve affatto il problema. Il regno di Dio è una trasformazione storica, sociale, politica e cosmica collettiva. Il fatto che Dio conceda o meno a Gesù dei poteri particolari di guarigione non sostituisce l’instaurazione del potere di Dio su tutta la storia. Proprio perché Gesù situa se stesso prima della fine, egli non è un fondatore di religione, un organizzatore di società, un legislatore. Certo, Gesù con i suoi Dodici discepoli sarebbe stato il giudice che avrebbe presieduto al giudizio finale: «nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28). Ma questo fatto si verificherà solo nel futuro e il regno di Dio inizierà solo dopo il giudizio universale.» (M. D’Agostini, “Gesù fondatore del Cristianesimo? I problemi di cui Gesù non aveva parlato”, 26 agosto 2012, consultato il 1° gennaio 2013).
5) Gesù pretendeva dai suoi discepoli (almeno, da coloro che ne erano in grado) il distacco da beni e famiglia).
Michele D’Agostini, tiene poi a precisare e a sottolineare che questo comando di Gesù era rivolto solo a coloro che erano in grado di realizzarlo, sulla scorta dello studio condotto da Mauro Pesce nel suo libro “L'uomo Gesù”. Gesù avrebbe chiesto di essere seguìto solo a giovani. Non a giovanissimi, e neppure a persone mature che dovevano mantenere la propria famiglia; pretende il distacco da beni e famiglia “solo” da persone che lo potevano fare senza “danneggiare” gli altri. Per questo alcuni suoi discepoli sono stanziali, ma la maggior parte sono itineranti; chi può farlo, secondo Gesù, “deve” abbandonare tutto e tutti.
6) Gesù non predicò e ordinò di non predicare ai pagani, pur pensando (alla maniera di molti profeti veterotestamentari) che presto si sarebbero convertiti anch'essi (da soli? "Ispirati" da Yahweh?)
Certamente Gesù (seppur “raramente”) dimostra di apprezzare la fede (o meglio, la fiducia) dei non ebrei; ma è anche vero che li chiama “cani” e “porci”, oltre a disprezzare il loro modo di pregare, e di amare solo gli amici. La conversione dei pagani non è nei progetti di Gesù, molto probabilmente egli ritiene (come i profeti) che essi si convertiranno spontaneamente. In merito ad alcuni testi evangelici, spesso citati per avvalorare la tesi che Gesù avrebbe incoraggiato la predicazione ai pagani, Michele D’Agostini prende ad esempio, il famoso testo in cui Gesù pronuncia il mandato: «predicate a tutte le genti», e fa notare come questo è rivolto da Gesù risorto a un ristretto numero di persone, contraddicendo quanto aveva detto (a folle intere) il Gesù vivo. Occorre inoltre spiegarsi perché, allora, Pietro avrebbe avuto bisogno di una visione divina solo per poter accogliere un pagano (At. 10) e perché gli altri seguaci di Gesù lo abbiano criticato aspramente, per questo (At. 11).
Secondo i profeti, sembra proprio che la conversione dei pagani sarà "spontanea". In ogni caso, Gesù non pensava che essa fosse compito suo...
Sul rapporto tra Gesù e i pagani, Michele D’Agostini porta poi l’esempio di varî brani evangelici.
“Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».” (Mt. 1,20-21).
“Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate.” (Mt. 6,7-8)
“Questi dodici Gesù li inviò dopo averli così istruiti: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d'Israele».” (Mt. 10,5-6)
“Partito di là, Gesù si diresse verso le parti di Tiro e Sidone. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quelle regioni, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide. Mia figlia è crudelmente tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i discepoli gli si accostarono implorando: «Esaudiscila, vedi come ci grida dietro». Ma egli rispose: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele». Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».” (Mt. 15,21-26).
“E Gesù disse loro: «In verità vi dico: voi che mi avete seguito, nella nuova creazione, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele».” (Mt. 19,28)
“Partito di là, andò nella regione di Tiro e di Sidone. Ed entrato in una casa, voleva che nessuno lo sapesse, ma non potè restare nascosto. Subito una donna che aveva la sua figlioletta posseduta da uno spirito immondo, appena lo seppe, andò e si gettò ai suoi piedi. Ora, quella donna che lo pregava di scacciare il demonio dalla figlia era greca, di origine siro-fenicia. Ed egli le disse: «Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini».” (Mc. 7,24-27).
“Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.” (Lc. 22,28-30).
In merito all’episodio della donna siro-fenicia o cananèa (Mt. 15,21-26; Mc. 7,24-27), Michele D’Agostini tiene a sottolineare che non gli risulta che Gesù abbia predicato a essa, né che le abbia parlato del regno di Dio, né che le abbia raccontato una parabola, né che le abbia chiesto di seguirlo... Si sarebbe solo limitato a guarire la figlia!
A margine di un’interpretazione della parabola delle nozze, dove al rifiuto dei primi invitati sopravviene un estensione dell’invito a una moltitudine diversificata di umili e di poveri, D’Agostini pone in guardia da un’idea di cambiamento d’idea da parte Gesù (visto il sostanziale rifiuto dei suoi, decide di rivolgersi anche ai pagani). Quest’ipotesi cozzerebbe con il dato che “tutti” i suoi seguaci risultano essere ebrei e risulterebbe poco comprensibile la scelta di rivolgersi ai suoi carnefici, a coloro che lo avrebbero processato, condannato e messo a morte. Michele D’Agostini non ritiene poi molto sostenibile la tesi di vedere una responsabilità giudaica nella morte di Gesù. Se non ci fossero stati i romani, Gesù non sarebbe mai stato crocifisso, e probabilmente neppure sarebbe stato ucciso! I sadducei non potevano condannarlo solo per qualche critica alla loro condotta.
Michele D’Agostini si chiede, infine: Possibile poi che un dio incarnato cambi idea?
In merito al preteso tradimento di Giuda, Michele D’Agostini rinvia per un approfondimento alla nota di Filosofia Razionalista Anticlericale “Gesù è stato tradito?”, al cui interno ho trovato, tra l’altro, la seguente tesi: «il fatto che il termine “tradimento” usato abitualmente da tutti i cristiani in riferimento a Giuda non ricorre come tale nel Vangelo. Nel testo greco ricorre il verbo “paradidonai”, che significa letteralmente “dare a” o “consegnare” ed è esattamente il termine di cui si serve Paolo per indicare la morte sacrificale di Gesù come “auto-donazione, auto-consegna” (Gal 2,20)» (Filosofia Razionalista Anticlericale, “Gesù è stato tradito?”, 20 agosto 2012, consultato il 1° gennaio 2012).
7) Gesù non attribuì alla sua morte e risurrezione nessun valore salvifico/espiatorio, puntando piuttosto sul perdono reciproco fra uomini (i quali a loro volta sarebbero stati perdonati da Yahweh).
Resta il fatto che considerare la morte di Gesù come un sacrificio espiatorio è un'idea tipicamente paolina. Gesù, invece, sostiene che è Yahweh a rimettere i peccati, e solo nel caso in cui le persone facciano altrettanto; basti pensare a quanto dice il “Padre nostro”, che non nomina minimamente Gesù. Quanto all’espressione che abitualmente è usata per avvalorare un riconoscimento di Gesù al valore salvifico della propria morte «il sangue versato per molti in remissione dei peccati, fate questo in memoria di me», Michele D’Agostini sottolinea che bisognerebbe capire quanto siano storiche queste parole, essendo state pronunciate tra l'altro in un contesto esoterico.

Giovanni Sarruso, in dialogo con Michele D’Agostini, condividendo l'interesse per la vicenda storica di Gesù da studiare con impegno e senza tesi precostituite, sottolinea il suo dissenso dalle tesi esposte da Michele D’Agostini ai precedenti punti 3, 6 e 7, mentre è d’accordo sulle altre. Per il punto 3 (osservanza, da parte di Gesù, della Legge mosaica), richiama il valore oppositivo della ricorrente espressione di Gesù «ma io vi dico…». Per il punto 6 (Atteggiamento di Gesù riguardo ai pagani), richiama il mandato di Gesù ai discepoli di predicare a tutte le genti. Egli si chiede poi se l’idea del regno di Dio, proposta da Gesù non comportasse comunque la sua estensione a tutta la terra (in coerenza anche con quanto detto nel Padre Nostro, dove s’invoca che la volontà di Dio sia fatta in cielo e in terra, e non presupponga l’annuncio del regno agli altri popoli. Manifesta poi un certo scetticismo sull’ipotesi di una conversione spontanea dei pagani o di una loro conversione per opera di Jahwé, ritenendo essenziale l’apporto di una comunicazione materiale. Ciò è coerente con il relativo impegno degli Ebrei sul terreno del proselitismo e con il dato che i missionari cristiani non hanno mai pensato di essere loro a convertire: si son sempre sentiti strumenti di Dio.
L'episodio della donna cananea, poi, evidenzia che Gesù cominciò rivolgendosi ai soli Ebrei, ma poi cambiò idea e accettò anche i pagani. Perciò alla fine disse di predicare a loro. Si accorse della potente fede di altre persone (non ebree) e cambiò disposizioni. Capì che il suo popolo non lo seguiva e chiamò gli altri, come nella parabola dei convitati alle nozze. L'uomo Gesù cambia idea: voleva che il suo popolo lo seguisse, pensava che fosse questo il suo compito. Poi comprese che volevano eliminarlo e interpretò questo come volontà di Dio e la accettò (con sofferenza dicendo se puoi allontana da me questo calice). I suoi carnefici sono solo materialmente i Romani. I capi degli Ebrei lo denunciarono e Giuda lo tradì. I Romani si comportarono secondo le loro leggi. Se mi dici che tizio è un sobillatore lo elimino.
Per il punto 7 (Eventuali cenni di Gesù al valore salvifico della sua morte), richiama il significato delle parole di Gesù pronunciate nel corso della Cena: «il sangue versato per molti in remissione dei peccati, fate questo in memoria di me».
Tina Ionni, in dialogo con Michele D’Agostini, si chiede da chi sia stato realizzato, intorno al 70 e.v. (dunque molto dopo la sua morte) il racconto della vicenda di Gesù, l'ebreo apocalittico, tenuto conto che non vi sono prove che i vangeli "sinottici" di Marco ,Matteo e Luca siano stati scritti effettivamente da loro. Non va infatti dimenticato che allora rarissime persone erano in grado di leggere e scrivere. Giovanni poi contraddice gli altri tre, collocando la Cacciata dal Tempio due anni prima della sua morte. Tina Ionni si chiede allora, come in assenza di basi storiche cosi' importanti si possa capire la nascita del Cristianesimo e quali siano state le vere parole di Gesù. Disponendo solo di racconti orali, trascritti molti anni dopo, appare quasi impossibile realizzare una ricerca precisa su una vicenda complessa quale l’esistenza storica di Gesù e gli inizî del Cristianesimo.
Io sono intervenuto nel confronto con alcune considerazioni.
In dialogo con Paolo Brance’ ho sottolineato come la necessariamente sintetica presentazione della ricerca storica su Gesù di Nàzareth che ho tentato di tracciare, abbio proprio lo scopo di porre in evidenza il fondamento nella storia dell’itinerario di fede, rifuggendo sia da mitizzazioni sia da approccî meramente devozionali.
Io sono sinceramente convinto che i Vangeli sono la testimonianza della primitiva comunità cristiana che con Gesù il Regno di Dio ha fatto irruzione nella storia. L’annuncio contenuto nei testi evangelici è profondamente fondato in eventi storici di cui i discepoli di Gesù sono stati testimonî oculari. Ma i Vangeli non hanno, né intendevano avere lo status di documenti di ricostruzione storica, la loro finalità era la diffusione della fede in Gesù, che naturalmente era vissuto storicamente nella Palestina del 1. sec. e.v.
Sono perciò convinto che nel presentare l’evento Gesù alle donne e agli uomini di oggi non si possa prescindere dagli esiti della ricerca storica su Gesù.
Quanto all’antichità dei testi evangelici, il processo delle loro formazione dalla cura della trasmissione orale, alla prima redazione di testi, alla formazione di raccolte, fino a confluire nei quattro Vangeli che conosciamo, ha coperto un arco temporale di varî decennî, dalla Pentecoste alla fine del 1. sec. e.v.. Un processo che si andato intensificando man mano che venivano meno i testimonî oculari della vicenda terrena di Gesù.
Affermare la profonda e innegabile fondatezza storica dei Vangeli (da distinguere dalla “storicità” nel senso tecnico inteso dall’odierna ricerca storica), non implica tuttavìa la negazione del loro valore teologico, il loro essere testimonianza della comunitaria comprensione di fede post-pasquale, realizzatasi nella primitiva comunità cristiana con il dono dello Spirito.
Storia e Teologìa sono inestricabilmente presenti nei Vangeli, né potrebbe essere altrimenti. Il fatto cristiano trova infatti la sua origine nella vicenda storica dell’uomo Gesù di Nàzareth in Palestina (storia) e ha il suo sviluppo nella comprensione che di tale vicenda ha maturato la successiva comunità dei suoi seguaci (teologìa), una comprensione che naturalmente, per noi credenti, è avvenuta alla luce dello Spirito.
Ho condiviso l’osservazione di Paolo Berce’ sull'unicità del genere letterario dei Vangeli e sul loro essere, per noi credenti, la rivelazione della storia della salvezza. Ciò non toglie che dobbiamo avere la serenità per calcare le vie del mondo fianco a fianco con altri uomini e non stancarci di render conto della speranza che ci è stata donata, utilizzando anche gli strumenti che il mondo e la storia concreta degli uomini ci mettono a disposizione.

In dialogo con Michele D’Agostini, partendo dall’attuale stadio del mio approfondimento, ho provato a fare delle mie personali osservazioni su ciascuno dei punti che ha evidenziato, rilevando tuttavìa la necessità di tenere sempre ben distinti il diverso piano e il diverso statuto metodologico che contraddistinguono l’“accertamento storico” e l’“accertamento teologico”. Storia e Teologìa hanno molte cose da dirsi e possono arricchirsi reciprocamente, ma né la storia ha una funzione ancillare rispetto alla teologìa, né quest’ultima è da vincolare al solo dato storicamente verificabile.
Venendo analiticamente ai singoli punti posti in evidenza:
“1) Gesù era un ebreo, non un cristiano”.
Se esaminiamo i materiali evangelici che più plausibilmente possono essere riferiti alla vicenda itinerante di Gesù, in effetti ne emerge il profilo di una personalità profondamente partecipe, sia pur in forma critica, della pratica cultuale giudaica del suo tempo. Una personalità, semmai, impegnata a evidenziare i tratti più autentici e originarî di tale cultualità, ricercando per ciascun gesto di culto il suo legame autentico con la volontà di Dio. Gesù pertanto, a mio parere, va considerato pienamente un ebreo del suo tempo, un ebreo che tuttavìa richiamava con forza a riscoprire i tratti originarî e autentici del culto, ponendo in decisa discussione pratiche che nella consuetudine ripetitiva e letteralistica finivano per tradire l’autentica volontà di Dio.
“2) Gesù non voleva fondare una nuova religione, né una nuova gerarchia ecclesiastica, né inventare nuovi dogmi o riti”.
In effetti la preoccupazione di Gesù non sembra essere stata la ricerca di una strada autonoma dal giudaismo dell’epoca, quanto una proposta di una profonda maturazione dell’esperienza religiosa giudaica. La trasformazione della comunità dei discepoli di Gesù in un’esperienza religiosa autonoma dal giudaismo (processo non immediato che ha interessato abbastanza prolungato nel tempo) sembra più essere stato il prodotto (forse obbligato) dei successivi contrasti circa la comprensione e l’accettazione del suo insegnamento.
“3) Gesù osservava la legge mosaica”.
Gesù, a mio parere, osservava puntualmente e nella sostanza la legge mosaica. Seguìva le feste, i pellegrinaggî e le pratiche rituali ebraiche. Ne proponeva tuttavìa un’osservanza adulta, attenta alla finalità autentica, che ne aveva determinato l’introduzione. Non solo; introduceva anche, tra le varie pratiche cultuali, una scala di priorità (basti considerare la sua concezione dell’osservanza del sabato). Proponeva infine anche un’evoluzione della legge mosaica, invitando a saper interpretare i segni della volontà di Dio e a universalizzarne la portata. Lasciando, per un attimo, il piano storico, ritengo che questo sia un aspetto importantissimo (anche se delicato) del dialogo ebraico-cristiano se si vuol superare il piano di un rapporto (pur importante) di buon vicinato.
“4) Gesù era convinto che la venuta del regno di dio (in un certo senso, la fine del mondo come noi lo conosciamo, con annesso giudizio universale e "nuovo mondo" governato da dio), cosa che non è avvenuta”.
Più che una previsione d’imminenza, nei materiali evangelici riscontro piuttosto l’affermazione che “il Regno di Dio è giunto”. Il Regno è dunque una realtà percepìta come già in atto, già presente, la cui logica è radicalmente diversa (oggi diremmo alternativa) da quella consueta (cf.: “Il mio regno non è di questo mondo, se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”). Una logica che egli propone, a quanti incontra sul proprio cammino, di scegliere liberamente e di praticare nel concreto quotidiano. Circa la previsione del giudizio, il senso d’imminenza, che i testi sembrano evidenziare, a mio parere è da riferirsi più al carattere d’inevitabilità (cf.: “il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”) che alla immediatezza temporale.
“5) Gesù pretendeva dai suoi discepoli (almeno, da coloro che ne erano in grado) il distacco da beni e famiglia”.
Certo, Gesù proponeva la scelta, da assumere nella libertà e nella responsabilità (cf.: “Se vuoi…”), di lasciare tutto e seguìrlo. Lungi da me un’interpretazione spiritualistica, ma dai Vangeli emergono anche le figure di discepoli, che scelgono di seguìre autenticamente Gesù pur rimanendo nelle loro condizioni materiali. È il caso, per esempio, di Làzzaro di Betania (che, a mio avviso, potrebbe essere identificato con il “discepolo amato” e con l’autore del 4. Vangelo) e delle sue sorelle Marìa e Marta.
“6) Gesù non predicò e ordinò di non predicare ai pagani, pur pensando (alla maniera di molti profeti veterotestamentari) che presto si sarebbero convertiti anch'essi (da soli? "Ispirati" da Yahweh?)”.
Per avvertendo la presenza di brani ed episodî che presentano una certa contraddittorietà è, a mio parere, innegabile che la prospettiva della predicazione itinerante di Gesù propone uno sviluppo in senso universalistico della fede giudaica, basti aver presente la considerazione che Gesù riconosce al dato teologicamente centrale quando lo riscontra anche al di fuori d’Israele (cf.: "In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande!”).
“7) Gesù non attribuì alla sua morte e risurrezione nessun valore salvifico/espiatorio, puntando piuttosto sul perdono reciproco fra uomini (i quali a loro volta sarebbero stati perdonati da Yahweh)”.
Ritengo che la ricerca di una valutazione sulla morte e resurrezione nel quadro dei materiali evangelici più direttamente riferiti alla missione itinerante di Gesù sfugga in gran parte allo statuto metodologico della ricerca storica. L’esperienza storica di Gesù, almeno quella parte investigabile con gli strumenti della ricerca storica, ha il suo termine sul calvario. I racconti di resurrezione (sia quelli che i testi pongono dopo la sepoltura, sia quelli che incontriamo ben prima della resurrezione, come, per esempio, la trasfigurazione), sfuggono per loro stessa natura agli strumenti della ricerca storica. Sono utili su questo piano per ricostruire elementi storici riguardanti i discepoli e la primitiva comunità cristiana, lo sono molto meno per la figura storica di Gesù. Sono invece una grande testimonianza della comunitaria comprensione post-pasquale degli eventi. Penso che un aiuto maggiore alla loro comprensione possa derivare dai metodi dell’esegesi narrativa.
Queste che ho esposto sono ovviamente delle considerazioni generali sul tema, che meritano di certo ulteriori approfondimenti.

Spero di aver riepilogato con sufficiente chiarezza e con la dovuta fedeltà le posizioni degli amici che mi hanno voluto onorare del loro contributo. Qualora qualcuno degli amici dovesse ravvisare un’imprecisione nella mia sintesi della propria posizione, prego di volermene dare notizia e sarà mia cura operare le necessarie rettifiche.
Ho tenuto conto dei contributi pervenuti sino a domenica 30 dicembre 2012.
Nei prossimi giorni presenterò un contributo di sviluppo del tema.

Vico Equense, lì 1° gennaio 2013
(Sergio Sbragia)

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