domenica 5 maggio 2013

«I Giudèi» nel colloquio con Nicodèmo (3,1-15)



«I Giudèi» nel colloquio con Nicodèmo (3,1-15)


«Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudèi. Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: "Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui". Gli rispose Gesù: "In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio". 
Gli disse Nicodèmo: "Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?". Rispose Gesù: "In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito". 
Gli replicò Nicodèmo: "Come può accadere questo?". Gli rispose Gesù: "Tu sei maestro d'Israele e non conosci queste cose? In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,1-15).

Il termine «Giudèi» appare anche nell’episodio dell’incontro di Gesù con Nicodèmo (3,1-15), ove ricorre come parte dell’appellativo con cui l’evangelista definisce questo personaggio. Nicodèmo viene infatti qualificato come «uno dei capi dei Giudèi», ma anche come appartenente al gruppo dei farisei (3,1). Come nel primo brano (1,19-28), l’azione battezzatrice di Giovanni aveva richiamato l’attenzione de «i Giudèi» e dei farisei e portato alla decisione di inviare presso Giovanni un gruppo di persone fidate con l’incarico di avere un colloquio chiarificatore con Giovanni stesso allo scopo di comprendere con precisione quale fosse la reale portata della sua missione, qui è Nicodèmo che dopo la manifestazione messianica di Gesù nel tempio (2,13-16) e la conseguente prima polemica di Gesù con «i Giudèi» (2,18-22), che, meravigliato dalla singolare potenza evocativa racchiusa nel segno operato, decide di incontrare personalmente Gesù, per cercare di capire in maniera più autentica chi fosse mai questo Gesù. Nicodèmo è presentato come un personaggio in possesso di una certa autorevolezza. Si dice di lui che è addirittura uno «dei capi» dei Giudèi. Questo aspetto pone in evidenza il particolare rilievo assunto dall’azione di Gesù in Gerusalemme, un rilievo tale da richiamare l’attenzione anche di coloro che rivestivano un ruolo sociale e religioso di primo piano. Nicodèmo, tuttavìa, si reca da Gesù «di notte», a significare una precauzione che l’evangelista in altro luogo riconduce a un sentimento di paura «dei Giudèi». Non va d’altro canto escluso anche un possibile atteggiamento di precauzione che il ruolo di guida, per certi versi, imponeva di tener conto della valutazione sociale che poteva derivare dagli atteggiamenti assunti nei confronti di Gesù. Da parte degli abitanti di Gerusalemme e del popolo, in generale, si guardava i capi per avere un orientamento in materia di fede e di riconoscimento del carisma profetico (7,25-26). Lo stesso ceto dei capi, per altro, aveva una propria consapevolezza di avere una tale funzione di orientamento (7,45-48).
Il dialogo tra Gesù e Nicodèmo si svolge attraverso tre successivi scambi di idee. Nicodèmo esordisce rivolgendosi a Gesù


Il primo scambio di battute si ha nei vv. 2-3

«Costui [Nicodèmo] andò da Gesù, di notte, e gli disse: "Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui". Gli rispose Gesù: "In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio"» (3,2-3). 

Nicodèmo riconosce in Gesù la sua provenienza da Dio, un riconoscimento derivante dall’osservazione dei segni compiuti da Gesù stesso. Le caratteristiche eccezionali di tali segni hanno generato in Nicodèmo un’esigenza autentica di comprensione, un atteggiamento di autentico credente che di fronte a segni che rinviano a precisi richiami della Scrittura, cerca di rintracciare quale sia l’autentica volontà di Dio, in rapporto alla persona di Gesù. Va notato che Nicodèmo si rapporta a Gesù definendolo «maestro» e non «profeta»[1]. A differenza, per esempio, della donna samaritana di 4,19 che lo riconosce come «profeta», Nicodèmo riconosce in Gesù un «maestro inviato da Dio», riallacciandosi alla tradizione giudaica d’insegnamento della Legge. Questo fa pensare che l’episodio principale, tra i molti richiamati in 2,23, ad averlo indotto a incontrare personalmente Gesù sia quello dello scontro con «i Giudèi» relativo alla purificazione del Tempio (2,13-16), che più direttamente poneva in discussione le esigenze di autenticità del culto.
All’esordio di Nicodèmo che riconosce l’ispirazione divina dei segni da lui compiuti, Gesù risponde che per vedere «il regno di Dio» è necessario «nascere dall’alto». Con quest’espressione Gesù allude alla necessità di andare oltre la mera nascita naturale dell’uomo, che lo immette nella comune condizione umana, descritta dalla nozione giovannea di «carne». Questo andare oltre la dimensione carnale, attraverso un «nascere dall’alto», rinvia ad altre affermazioni di Gesù, riportate in 8,23 e 10,1-21. In pratica Gesù sembra alludere a quanto in tali successive occasioni avrà modo di dire intorno alla sua origine e alla sua missione: il suo essere di «lassù» (8,23) e il suo essere «la porta delle pecore» (10,7). Da qui si può dedurre che «se uno entra attraverso» Gesù (la porta delle pecore) «sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (10,9). La condizione della visione del regno di Dio sta nella volontà e capacità di entrare in una speciale relazione con Gesù, che per il suo provenire dall’alto, rappresenta «la porta» attraverso la quale è possibile «vedere il regno di Dio» e conseguire la salvezza.       


Il secondo scambio di battute si ha nei vv. 4-8:

«Gli disse Nicodèmo: "Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?".  Rispose Gesù: "In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall'alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito"» (3,4-7). 

Nicodèmo non coglie, tuttavìa, la presenza nelle parole di Gesù di un secondo significato che travalica la mera dimensione carnale e manifesta tutta la sua difficoltà a comprendere come si possa dare, sul mero piano materiale, la realtà di una seconda nascita. Gesù gli risponde evidenziandogli la distinzione tra la dimensione della «carne» e quella dello «Spirito» e della differenza intercorrente tra il semplice nascere «dalla carne» e il nascere «da acqua e Spirito». È allora del tutto inutile e fuori luogo porsi degli interrogativi su come sia possibile la realizzazione di un tale evento. Operando un’analogia con la realtà del vento, che è possibile sentir soffiare e che si dirige in una direzione non umanamente determinabile, anche ciò che è frutto dello Spirito, non è determinabile con gli ordinarî modi di pensare umani.


Il terzo e ultimo scambio di battute si ha nei vv. 9-15

«Gli replicò Nicodèmo: "Come può accadere questo?". Gli rispose Gesù: "Tu sei maestro d'Israele e non conosci queste cose? In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna"» (3,9-15).

Nicodèmo mostra tuttavìa di non riuscire a compiere il passo decisivo per distaccarsi dal piano meramente fattuale «"Come può accadere questo?"» (3,9). L’atteggiamento di Gesù nei suoi confronti allora cambia: in un primo momento lo richiama al suo ruolo di maestro in Israele e della necessità per un maestro di saper discernere nei fatti storici la presenza dei segni dello Spirito: «"Tu sei maestro d'Israele e non conosci queste cose?"» (3,10). In un secondo momento Gesù passa dal dialogo al singolare in prima e seconda persona tra un “io” e un “tu”, alla formulazione di affermazioni al plurale, tra un “noi” e un “voi”: «noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto» e «voi non accogliete la nostra testimonianza» (3,11). Successivamente Gesù passa a un dialogo asimmetrico tra un “io” e un “voi”: «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo?» (3,12). Nicodèmo qui non è più visto come persona singola, ma viene schiacciato sul gruppo di cui è uno dei capi: «i Giudèi». Gesù rimprovera corporativamente Nicodèmo e i Giudèi di essere incapaci di comprendere la sua testimonianza sul piano delle quotidiane realtà terrene e a maggior ragione essi si rivelano ancora più incapaci di saper accettare la sua testimonianza sulle realtà celesti, per la loro inadeguatezza ad attingere la verità che solo attraverso la fede in lui è possibile raggiungere la vita eterna, tracciando un’analogia tra l’innalzamento del serpente operato da Mosè (cfr. Nm. 21,4-9) e l’imminente innalzamento del Figlio dell’uomo.
In sintesi l’atteggiamento di Gesù nei confronti di Nicodèmo non può essere definito univocamente ostile. È tuttavìa un atteggiamento attento, esigente e finanche severo. Gesù mostra di apprezzare l’esigenza di ricerca e di comprensione che muove Nicodèmo a cercarlo e interrogarlo, ma rimprovera la staticità e l’incapacità di riconoscere l’azione dello Spirito, che in definitiva accomuna Nicodèmo e una gran parte de «i Giudèi».


[1] – L’espressione «maestro» [gr. Didaskalos; ebr. Rabbi; aram. Rabbouni] ricorre varie volte nel Vangelo di Giovanni: normalmente è riferita a Gesù, dai suoi discepoli (1,49; 4,31; 9,2; 11,8), da Nicodèmo (qui), da Maria Maddalena (20,16), da Marta di Betania (11, 28), dalla folla (6,25), e finanche da Gesù stesso (13,13-14). Una volta, invece, è riferito al Battista dai proprî discepoli (3,26). In, un’altra occasione, proprio nel brano attualmente in esame è proprio Gesù ad attribuire, non senza un pizzico d’ironìa il titolo di maestro allo stesso Nicodèmo (3,10). L’espressione «maestro», che rinvìa immediatamente all’attività d’insegnare, e che rappresentava un titolo ricorrente in Giudea per indicare i maestri della legge (la lezione intesa da Nicodèmo), subirà a suo tempo, per opera di Gesù un’evoluzione di significato. Nella spiegazione del significato del gesto della Lavanda dei piedi (13,1-10), egli illustrerà con chiarezza cosa in realtà significhi essere autenticamente «il Maestro», mostrando con l’esempio in che modo i suoi discepoli sono chiamati a mettere in pratica l’amore (13,12-17).
Diversa è l’accezione del titolo di «profeta», che esprime un’attinenza immediata con la speranza messianica. In due occasioni Gesù sarà riconosciuto quale profeta: dalla donna samaritana (4,19) e dal cieco nato (9,17). In entrambi i casi al suo riconoscimento quale profeta segue una specifica rivelazione di Gesù alla persona interessata: nel primo caso, alla Samaritana, egli si manifesterà come Messìa (4,25-26); nel secondo caso, al cieco ormai guarito, si rivelerà come «Figlio dell’uomo» (9,35-38).

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