Nella Scrittura non s’incontra la
nostra moderna nozione di proprietà privata. Ci si imbatte invece
frequentemente nella più generale nozione di ricchezza sia nelle pagine del
Primo che in quelle del Secondo Testamento.
La realtà della ricchezza materiale è
un dato con il quale noi cristiani, che viviamo nella storia chiamati a fare
quotidianamente i conti con le esigenze della vita, con le contraddizioni
legate alla vita sociale, con la necessità di procacciarci i mezzi per il
sostentamento materiale, il tutto in relazione con differenti fedi, visioni
della vita, concezioni dell’uomo e della storia, dobbiamo fare necessariamente
i conti e realisticamente confrontarci. Oggi più che mai, infatti, è vero
l’insegnamento della Lettera a Diogneto,
per la quale i cristiani non vivono in città proprie: «I cristiani né per regione, né per voce, né per
costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città
proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita
speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini
multiformi, né essi aderiscono a una corrente filosofica umana, come fanno gli
altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi
ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo
di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale» (Lettera a Diogneto, 5,1-4).
Un esame delle ricorrenze bibliche
della nozione di ricchezza richiede pertanto che sia condotto secondo un metodo
rigorosamente fedele alla realtà della Parola di Dio e della relazione instaurata
in ciascuno di noi dalla chiamata che ci è stata rivolta da Gesù, una chiamata
che, pienamente rispettosa della nostra libertà, ci ha invitato a lasciare
tutto e a seguirlo entrando a far parte del Popolo di Dio. Gesù, infatti,
interpellato in Mt. 19,21 da un giovane ricco, gli rivolse un chiaro ed
esplicito invito: «"Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che
possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!"»
(Mt. 19,21). Con l’espressione «Se vuoi…», Gesù ci presenta la sua proposta
ponendosi in una logica di pieno rispetto della nostra libertà umana. È
ciascuno di noi nella più intima profondità della nostra vita spirituale a
essere personalmente interpellato da quel «Se vuoi…». Un invito al quale
ciascuno di noi, in piena e libera coscienza può aderire o meno. Poi Gesù
prosegue: «va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri». È questo un invito
a lasciare quanto si possiede, cioè tutto quanto a cui materialmente più si
tiene, e di darlo ai poveri, agli umili, ai meno potenti[1]. Gesù, infine, conclude «e vieni! Seguimi!», evidenziando che
il porsi alla sua sequela è un atto pienamente libero, ma esigente, che chiede
a ciascuno di noi la disponibilità a porre tale scelta al primo posto della
propria quotidiana pratica di vita.
Questa scelta, operata da ciascuno di noi in piena libertà e
consapevolezza, esige una docile adesione all’impegno che ci viene indicato dall’apostolo
Pietro nella sua prima Lettera: «ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori,
pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è
in voi» (1Pt. 3,15). Un invito che ci chiede
l’assunzione di uno stile adulto di testimonianza del nostro essere cristiani
nel mondo, parlando con autenticità agli uomini utilizzando le lingue del
mondo, in aderenza al comando di Gesù: «Sia invece il vostro parlare: "Sì, sì", "No,
no"; il di più viene dal Maligno» (Mt. 5,37). Con
questa indicazione Gesù assume pienamente nel suo insegnamento la realtà umana
della parola. Gran parte della riflessione umana, definisce infatti l’uomo come
l’animale che parla. Così, per esempio, Martin Heidegger sottolinea come «secondo
una tradizione antica, noi, proprio noi, siamo gli esseri che sono in grado di
parlare e che perciò già possiedono il linguaggio. Né la facoltà del parlare è
nell’uomo solo una
capacità che si ponga accanto alle altre, sullo stesso piano delle altre. È per
contro la facoltà che fa dell’uomo un
uomo. Questo tratto è il profilo stesso del suo essere. L’uomo non sarebbe
uomo, se non gli fosse concesso di parlare, di dire»[2].
Quest’aspetto è posto ben in luce da Valerio Mannucci, che mostra come sia
proprio attraverso “la parola” che l’uomo prende dimora in sé stesso e si
appropria di sé. Parlando, infatti, l’uomo entra nel proprio universo interiore
e si pone all’inseguimento della propria autocomprensione, bisognosa sempre di
ulteriore ricerca. In sintesi, l’uomo necessita della disciplina della parola
per comprendersi ed esprimersi[3].
Gesù con il suo comando di Mt. 5,37, ci porta a ricordare
un altro aspetto posto in luce da Valerio Mannucci, che spiega con grande
efficacia come lo strumento della parola consenta all’uomo di inserirsi nel
mondo delle relazioni umane e sociali, ponendolo in comunicazione con gli altri
e come con la parola venga a costituirsi una «meta-fisica» dei rapporti umani.
Questa riflessione sulla natura della parola umana porta infine Valerio Mannucci
a concludere come «la possibile, anzi facile, contraffazione della parola non
accade soltanto quando la parola diventa ‘menzogna’, ma anche – ed è il
pericolo più grave – quando essa non coincide più col valore e si fa
‘etichetta’. Se le parole non riflettono e non mettono in essere la dinamicità
creativa del rapporto, se le parole non vengono di continuo riprese e
attualizzate, esse sono destinate a degradarsi. La dignità e l’autenticità
dell’uomo lo chiamano a vivere responsabilmente la “sua ora” anche nel
linguaggio».
Il richiamo di Gesù all’uso di un
linguaggio ispirato al rigoroso principio del «"Sì,
sì", "No, no"», esprime una grande considerazione per la parola
umana e per la sua autenticità, che viene pertanto assunta come mezzo
privilegiato per entrare in contatto con gli uomini di ogni epoca, di ogni
luogo e di ogni cultura. La parola, nella sua qualità di strumento
d’informazione sulle cose e sul mondo, d’espressione di sé e di relazione con gli altri, diviene
pertanto, per noi cristiani, uno strumento meraviglioso per raccontare e dire
di Gesù agli uomini di ogni tempo e di ogni latitudine, al di là di steccati e
pregiudizî, e facendo nostra, nel dialogo con l’umanità, l’indicazione
metodologica di Paolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono»
(1Ts. 5,21), che ci invita a un atteggiamento di attenzione concreta a quanto
il mondo e la vita quotidianamente ci propongono, un’apertura a quanto
l’esperienza della vita, la cultura, le vicende storiche, il confronto con gli
uomini di volta in volta ci propongono. Questo richiede l’acquisizione di
quella “sapienza” additataci da Gesù di saper “leggere i segni dei tempi” (Mt
16,1-4; Lc 12,54-56), cioè la capacità di comprendere il concreto contenuto
della chiamata di Dio nell’orizzonte vitale in cui ci troviamo immersi, cioè
saper interpretare ciò che Dio vuole che facciamo “qui” e “ora” per realizzare
la sua volontà, sapendo “leggere” dai “segni” presenti nella realtà concreta
che ci circonda ciò che è giusto fare per realizzare la volontà del Padre.
Occorre, infine, essere consapevoli
che nella Scrittura il Signore, in definitiva, ci dice la verità sull’uomo e
sulla nostra vita, parlando delle realtà concrete nella loro fattualità, quindi
dobbiamo acquisire la capacità di comprendere come il testo biblico nel parlare
delle realtà della vita dell’uomo si pone sempre sullo stesso piano delle cose
che intende esaminare e proporre. Anche qui dobbiamo saper far tesoro
dell’insegnamento di Tommaso d’Aquino, con la sua indicazione autorevole che ci
invita all’esame della realtà seguendo il principio metodologico dell’analisi
condotta iuxta propria principia[4].
1. La
ricchezza un segno della benevolenza di Dio.
Nel Primo Testamento l’idea di
ricchezza sin dai racconti della storia dei patriarchi è presentata come un
evidente segno della benevolenza di Dio. Ciò è particolarmente evidente nei
confronti delle vicende di Abramo e di Isacco. Basti ricordare il racconto in
cui il servo più anziano di Abramo, inviato nella terra di Aram a trovare una
moglie per il figlio del suo padrone, Isacco, presentandosi a Làbano, fratello
della giovane Rebecca, futura moglie di Isacco, ebbe a dire, parlando di
Abramo: «Il Signore ha benedetto molto il mio padrone, che è diventato
potente: gli ha concesso greggi e armenti, argento e oro, schiavi e schiave,
cammelli e asini» (Gen. 24,35).
Ma anche
lo stesso Isacco è presentato come destinatario di una particolare benedizione
di Dio, alla quale viene in definitiva ricondotta la ricchezza che egli aveva
accumulato nella terra di Gerar: «Isacco fece una semina in quella terra e raccolse quell'anno
il centuplo. Il Signore infatti lo aveva benedetto. E l'uomo divenne ricco e crebbe
tanto in ricchezze fino a divenire ricchissimo: possedeva greggi e armenti e
numerosi schiavi, e i Filistei cominciarono a invidiarlo» (Gen. 26,12-14).
La stessa elezione d’Israele, che è
vista concretizzata con l’ingresso nella terra promessa ricca d’ogni bene, è
segno della particolare benevolenza di Dio. Nel brano di Dt.
6, 10-13, s’invita con chiarezza Israele a temere il Signore e a ricordare che
è il Signore ad aver fatto uscire Israele dalla terra d’Egitto e di averlo
fatto entrare in Canaan: «Quando il Signore, tuo Dio, ti avrà fatto entrare nella terra
che ai tuoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti, con città
grandi e belle che tu non hai edificato, case piene di ogni bene che tu non hai
riempito, cisterne scavate ma non da te, vigne e oliveti che tu non hai
piantato, quando avrai mangiato e ti sarai saziato, guàrdati dal dimenticare il
Signore, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile.
Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome»
(Dt. 6,10-13).
Si scongiura inoltre a non attribuire
la ricchezza conseguita come frutto della propria forza e potenza e s’invita a
riconoscere la sua origine remota e più autentica in Dio: «Guàrdati
dunque dal dire nel tuo cuore: "La mia forza e la potenza della mia mano
mi hanno acquistato queste ricchezze". Ricòrdati invece del Signore, tuo
Dio, perché egli ti dà la forza per acquistare ricchezze, al fine di mantenere,
come fa oggi, l'alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt.
8,17-18).
L’essere Israele oggetto particolare
della benevolenza di Dio è un tema ricorrente lungo tutto il Deutoronomio, e segno concreto di tale
benevolenza è dato proprio dalla ricchezza: «Quando il Signore,
tuo Dio, ti benedirà come ti ha promesso, tu farai prestiti a molte nazioni, ma
non prenderai nulla in prestito. Dominerai molte nazioni, mentre esse non ti
domineranno» (Dt. 15,6). Questo tema viene celebrato con solennità
nel testo poetico del Cantico di Mosè
(Dt. 32):
«Perché porzione del
Signore è il suo popolo,
Giacobbe sua parte di eredità.
Egli lo trovò in una terra deserta,
in una landa di ululati solitari.
Lo circondò, lo allevò,
lo custodì come la pupilla del suo occhio.
Come un'aquila che veglia la sua nidiata,
che vola sopra i suoi nati,
egli spiegò le ali e lo prese,
lo sollevò sulle sue ali.
Il Signore, lui solo lo ha guidato,
non c'era con lui alcun dio straniero.
Lo fece salire sulle alture della terra
e lo nutrì con i prodotti della campagna;
gli fece succhiare miele dalla rupe
e olio dalla roccia durissima,
panna di mucca e latte di pecora
insieme con grasso di agnelli,
arieti di Basan e capri,
fior di farina di frumento
e sangue di uva, che bevevi spumeggiante» (Dt. 32,9-14).
Giacobbe sua parte di eredità.
Egli lo trovò in una terra deserta,
in una landa di ululati solitari.
Lo circondò, lo allevò,
lo custodì come la pupilla del suo occhio.
Come un'aquila che veglia la sua nidiata,
che vola sopra i suoi nati,
egli spiegò le ali e lo prese,
lo sollevò sulle sue ali.
Il Signore, lui solo lo ha guidato,
non c'era con lui alcun dio straniero.
Lo fece salire sulle alture della terra
e lo nutrì con i prodotti della campagna;
gli fece succhiare miele dalla rupe
e olio dalla roccia durissima,
panna di mucca e latte di pecora
insieme con grasso di agnelli,
arieti di Basan e capri,
fior di farina di frumento
e sangue di uva, che bevevi spumeggiante» (Dt. 32,9-14).
La stessa idea ricorre nella conclusione del libro di Giobbe: «Il
Signore benedisse il futuro di Giobbe più del suo passato. Così possedette
quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine»
(Gb. 42,12).
Nel quadro
della concezione primotestamentaria della retribuzione che si evolve progressivamente
da una prima dimensione temporale e collettiva, per passare succesivamente a
una connotazione sempre temporale ma di carattere personale e per sfociare
infine in una visione della retribuzione, sempre di carattere personale, ma
decisamente ultraterrena, la ricchezza è presentata, in relazione alle prime
due fasi dell’evoluzione dell’idea di retribuzione, chiaramente come il premio divino per la virtù (Dt. 12,1-13,19;
11,26-29; 28,1-69; Is. 1,19-20; Sal. 112,1-3; 128,1-2).
Di converso, soprattutto per alcune
opere della tradizione sapienziale del post esilio, la povertà è vista come una
conseguenza della pigrizia, della dissolutezza o della leggerezza (Pro. 6,6-11;
10,4; 13,18; 21,17; 23,21), nonché quale punizione della cattiva condotta e
soprattutto dell’ateismo (Pro. 13,25; 15,6). La sapienza d’Israele, per altro,
insiste ripetutamente sul tema della ricchezza, considerando il modo
d’acquistarla e i suoi vantaggî. Così si può divenire ricchi in modo onesto,
grazie all’impegno (Sir. 31,3), alla laboriosità (Pro. 11,16), o in ragione di
un’onesta amministrazione (Pro. 24,4), ma soprattutto rifuggendo dal vizio
(Sir. 19,1ss.): l’ingiustizia, infatti, non può mai essere all’origine del bene
(cf. Sir. 13,24).
Grazie alla ricchezza si può godere di
numerosi vantaggî: amicizie (Pro. 14,20; 19,4), onore (Sir. 10,30), pace (cf.
Sir. 44,6), una vita felice e piena di sicurezza (Pro. 10,5; 18,11.16; Sir.
31,8.11), finanche della possibilità di poter praticare l’elemosina (Tb. 12,8).
La riflessione sapienziale si
riallaccia quindi alla concezione antica che nella ricchezza individuava un
segno della benedizione divina (Pro. 3,9-10.33; 10,22; 15,16; 22,4; Sir.
11,21-22), di conseguenza vengono coniugati di pari passo i due contrapposti
binomî di pietà e ricchezza, per un verso, e di empietà e povertà, per un altro
(cf. Pro. 10,15; 22,4; Sir. 44,6).
I saggî d’Israele non chiudono
tuttavia gli occhî dinanzi ai drammatici interrogativi posti alla coscienza
umana dall’osservazione della realtà concreta come la felicità apparente e la
ricchezza degli empî o come la reale infelicità e la povertà di persone «pie».
Queste realtà drammatiche della condizione umana diventano presto un enigma
insolubile per i sapienti d’Israele (cf. Gb. 21,7; Sal. 37; 49; 73; Qo. 7,15;
8,11-14; Ger. 12,1-2; Ml. 3,15). Viene condotto così un grande sforzo di
riflessione per portare a soluzione tale enigma. S’insegna così che Dio
ricostruirà l’ordine giusto infranto (cf. Sal. 37; Gb. 20); per altro si
evidenzia che i ricchi non possono portarsi dietro, nella tomba, i proprî
tesori (cf. Sal. 49,17-18; Qo. 5,12-19; Sir. 11,17ss.); e, infine, s’inizia ad
additare la ricchezza non più come il bene sommo per l’uomo: beni come la
salute, e valori come la libertà, la gioia (cf. Qo. 29,22; 30, 14-16), il buon
nome (Pro. 22,1) e la sapienza (Sap. 7,8) vengono indicati come superiori ai
beni terreni.
2. Limiti e
pericoli della ricchezza.
Il contributo dei profeti
Con lo
sviluppo della riflessione sapienziale sulla drammaticità della condizione
umana vista in rapporto alla disponibilità e alla gestione delle ricchezze e
dei beni terreni, nonché della loro relazione con il principio della
retribuzione del comportamento etico degli uomini, alla concezione più antica
(che comunque continua a essere attestata anche negli scritti d’epoca più
recente) si viene gradualmente sovrapponendo un atteggiamento decisamente critico
nei confronti della ricchezza, soprattutto per opera dei profeti.
Questi,
infatti, giungono ad additare nella ricchezza la causa e l’occasione di certi
mali sociali, come l’oppressione dei poveri (Is. 10,2; Ger. 5,27-28; 22,3; Ez.
22,7). Sono sempre i profeti, poi, a considerare la ricchezza come un bene effimero
e transitorio (Ger. 9,22; 17,11).
I profeti,
al tempo della monarchia, si trovano costretti a fare i conti con una drammatica
condizione sociale della popolazione. In concomitanza con la formazione di una
ricca classe dominante si erano venuti a determinare gravi abusi, con lo
sfruttamento dei poveri (Am. 5,7.11-12), il trattamento inumano degli schiavi
(Ger. 34,8-11), la vergognosa oppressione delle vedove e degli orfani (cf. Am.
4,1; 6,1-14; 8,4-14; Mi. 3,2; Is. 5,8; Is. 5,8; 10,1-2) posta in essere
attraverso la frode e l’inganno. Nei libri profetici è possibile constatare
come i profeti si scaglino con grande vigore contro tal genere di abusi. Netta
è la condanna della ricchezza acquisita attraverso l’ingiustizia. Severo è il
giudizio che essi formulano nei confronti dei ricchi e di coloro che idolatrano
la ricchezza. Arrivano infine a minacciare ai ricchi l’infelicità dello sheol (Is. 5,14).
Il
contributo della riflessione sapienziale
Anche i testi sapienziali maturano un
nuovo atteggiamento che li porta a porre in guardia contro i pericoli della
ricchezza. Si pone in evidenza come questa conduca sulle vie del male (Pro.
28,6; Sir. 31,3.5.8ss.), come possa aprire le porte all’orgoglio e, di
conseguenza, al peccato (Pro. 18,11-12; 11,28; 28,11). Il libro del Siracide, in modo particolare, mostra
come la ricchezza sia la culla di una falsa sicurezza (Sir. 11,18-19; cf. anche
Sal. 49,7), come possa generare l’inquietudine (Sir. 31,1; cf. anche Qo.
2,4-11; 5,9-11) e come, infine, possa condurre al peccato (Sir. 27,1; 31,5-7).
I saggî addivengono infine
all’assunzione di un atteggiamento ostile alle ricchezze e favorevole alla
povertà, fino a identificare il povero con il «pio» e il ricco con l’empio.
Particolare rilievo, in riferimento a quest’evoluzione, riveste il caso di
Giobbe, che nel suo lungo e duro conflitto interiore perviene alla conclusione
che la lunga serie di sventure di cui è stato vittima non obbligatoriamente da
leggersi come la manifestazione di una condanna da parte di Dio (Cf. Gb.
42,1-6). Il salmista, da parte sua, dichiara con convinzione che «il poco del giusto
è cosa migliore dell’abbondanza degli empî» (Sal. 37,16).
In conclusione il pensiero che il
timore di Dio sia di gran lunga più prezioso della ricchezza terrena viene a
dispiegarsi in forma ampia nell’arco del Primo Testamento (cf. Pro. 13,7;
11,28; 15,16; 17,16; Qo. 7,11-12; Tb. 4,21).
3. Il
rapporto uomo-beni nel Primo Testamento.
Alla luce di queste riflessioni si può
dunque sostenere che nella rivelazione primotestamentaria il rapporto tra
l’uomo e Dio si delinea così in forma progressiva. Lungi dal fondarsi su
un’antitetica rivalità, la relazione tra Dio e l’uomo si declina nell’àmbito di
una logica di paternità-figliolanza. Dio, padre e creatore, affida all’uomo la
gestione del mondo ed esplicitamente lo autorizza a possederlo e amministrarlo,
nonché a impegnarsi per portarlo a compimento. È a partire dalla nozione
biblica dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, che trova
legittimazione il ruolo dell’uomo quale responsabile dell’amministrazione dei
beni terreni e, ancor più fondamentalmente, il diritto di tutti a goderne.
La mancata
realizzazione della destinazione universale dei beni della creazione viene ricondotta
alla realtà del peccato che induce al disimpegno dall’attività lavorativa, alla
quale l’uomo è chiamato da Dio già prima della colpa, e al disinteresse
individualistico che porta Caino a non occuparsi del fratello.
Vigorose
invettive profetiche additano quale scandalo e grave situazione di peccato la
privazione di quei beni elementari, ma fondamentali, e assolutamente necessarî
alla vita. In ciò si legge un aperto contrasto con la volontà di Dio. In una
tale ottica la Torah viene delineando
un quadro di istituzioni e ordinamenti intesi a prevenire e superare tale grave
stato d’ingiustizia sociale, nell’attesa di una liberazione che colpisca alla
radice il peccato da cui ha tratto origine una sì drammatica situazione umana.
Rientrano in quest’ordine d’idee istituzioni, quali l’anno sabatico e l’anno
giubilare, oppure le frequenti e ripetute condanne dei commercî fraudolenti,
degli eccessi fiscali e della schiavitù che, soprattutto i profeti, pronunciano
con grande vigore, oppure ancora la previsione di norme comportamentali che
inducevano a riservare ai poveri i beni superflui (cf. Lv. 19,9-10).
In questo
quadro il povero, per esempio, poteva sfamarsi nella vigna del proprio vicino,
ma non gli era consentito portarne via i grappoli (Dt. 23,25). Il divieto del
prestito a interesse, in un primo tempo riferito ai soli poveri (Es. 22,24), e
successivamente esteso alle relazioni con tutti i connazionali, trovava il suo
fondamento nel chiaro intento d’impedire l’abuso dell’indigenza economica degli
altri per potersi arricchire. La celebrazione dell’anno sabatico prevedeva ogni
sette anni il condono dei dèbiti contratti da molto tempo e rispondeva
all’esigenza d’impedire la concentrazione della proprietà e della ricchezza in
poche mani. Con la celebrazione, poi, ogni cinquant’anni dell’anno giubilare,
ognuno doveva poter ritornare nella propria proprietà (Lv. 25,10ss.).
Non siamo
in condizione di stabilire quale grado di attuazione pratica abbia avuto nella
realtà questo quadro di garanzie giuridiche per la difesa dei poveri né quale
effetto abbia sortito nei comportamenti concreti il ripetuto richiamo al dovere
di essere volontariamente solleciti nei confronti delle necessità del prossimo
(Lv. 25,35; Dt. 15,7ss.). La loro finalità era, tuttavia, estremamente chiara:
intendevano concorrere al riconoscimento della sovranità del Signore su tutte
le creature. Profonda, pertanto, era la convinzione che è solo Dio il
proprietario del mondo e, in modo del tutto particolare, è l’autentico signore
della terra donata al suo popolo. Agli uomini tocca dunque solo l’amministrazione dei beni della terra,
da realizzare in coerenza con la volontà di Dio, che non vuole miserabili e
indigenti.
Nel Primo
Testamento, dunque, la considerazione della proprietà e della ricchezza, direttamente
riferita alla struttura sociale dell’antica Palestina, ove tutto l’ordinamento
sociale si fondava sul possesso della terra, è condotto da un punto di vista
eminentemente religioso. Ed è punto focale della fede d’Israele, come per altro
di quella della Chiesa, che Dio è creatore di tutto. In Dio sta, in fin dei
conti, l’origine della proprietà (Dt. 10,14; Sal. 24,1). Gli uomini, in forza
dell’incarico di trasformare la terra (cf. Gen. 1,28; 2,15), sono chiamati a
mostrarsi nel possesso dei beni della terra, come autentiche immagini e reali
rappresentanti di Dio.
Gli
eventi della salvezza, quali l’elezione d’Israele a popolo del Signore (Dt.
10,14ss.) e il dono della terra promessa come proprietà ed eredità (Dt. 1,21),
mostrano come ogni proprietà sia uno spazio vitale affidato da Dio all’uomo.
Uno spazio di amore nella fedeltà all’alleanza e con senso di responsabilità
dinanzi alla realtà della creazione, soprattutto nei confronti degli altri
uomini. Di conseguenza l’uomo non può arricchirsi a spese o a danno degli altri
uomini. È questo un aspetto che viene posto in evidenza soprattutto dai profeti
(cf. Am. 2,6ss.; Is. 5,8).
4. Il
rapporto uomo-beni nel Secondo Testamento.
Nel Primo Testamento, come si è sin
qui visto, il tema della ricchezza e del suo possesso è sempre legato a
situazioni storiche e strutturali del tutto particolari. E sarebbe pertanto abbastanza
difficile, anche se non del tutto impossibile, trasporre dall’esperienza
dell’antico Israele indicazioni etiche valide per altri contesti storici e
culturali. Nel Secondo Testamento, invece, non s’incontra una tale difficoltà:
Gesù e la Chiesa apostolica non formulano norme civili per il popolo d’Israele.
Non avrebbero potuto farlo, e non hanno voluto farlo. Il messaggio di Gesù,
lungi dall’essere un programma politico o economico, si qualifica invece come
l’annuncio del regno di Dio. Il punto focale della predicazione di Gesù si
rivela infatti centrato sulla necessità di riorientare l’atteggiamento verso le
ricchezze (il rapporto uomo-beni terreni) nella logica di chi sceglie di essere
credente in Cristo e di porsi sull’itinerario di un cittadino del Regno. Da qui
prendono le mosse i molteplici ammonimenti, operati da Gesù, contro i pericoli
della ricchezza terrena, che può trasformarsi in un vero ‘e proprio idolo e
condurre alla separazione da Dio (Mt. 6,24), se l’uomo ripone nella ricchezza
terrena il proprio cuore (Mc. 10,22).
I Vangeli sinottici e la Lettera di Giacomo presentano la
ricchezza sempre con una connotazione etica negativa. È bene notare che nel
contesto di questi scritti per “ricchezza” non s’intende necessariamente il
possesso di una grande quantità di beni, ma semplicemente la realtà del
possedere delle cose o l’aspirazione a possedere dei beni. La ricchezza così
intesa è presentata come una realtà che ha il potere di soffocare la Parola
(Mt. 13,22 e parr.), di distogliere dall’attenzione a Dio e dall’abbandono
fiducioso in lui (Lc. 12,15-21.23-24), di rendere difficile l’accesso al Regno
(Mt. 19,23-24 e parr.), di rendere insensibili alla sofferenza del povero (Lc.
16,19ss.), d’impedire, in definitiva, un’autentica purezza cultuale, come posto
in evidenza chiaramente in Lc.
11,38-42, quando Gesù invita chiaramente e con fermezza a dare in elemosina ciò
che è nel piatto, cioè ciò che si ha. Il tema è ripreso in sintesi, ma
in termini molto espressivi nel testo delle beatitudini di Lc. 6, nella
delineazione dell’antagonismo radicale fra Dio e mammona di Mt. 6,24 (collocata
nel quadro della pericope di Mt. 6,19-34) e di Lc. 16,13 (posto nell’àmbito
della narrazione di Lc. 16,1-15).
L’avarizia,
la cupidigia, l’avidità e la ricerca smodata della ricchezza induriscono il
cuore degli uomini e li rendono sordi alle necessità degli altri (Lc.
16,19-31). Quando Gesù esige che chi vuole seguirlo abbandoni ogni bene terreno
(Mc. 10,21; cf. Mt. 19,27; Lc. 12,33), non si profila un rifiuto legale (Gesù
non ha mai inteso proporre delle norme giuridiche per la società civile) della
proprietà, quanto la proposizione di una scelta da operare nella libertà per
porsi autenticamente al servizio dell’amore nella sequela di Gesù (Lc. 14,33;
cf. Ef. 4,28), un servizio dell’amore che concorre a promuovere gli altri anche
con il proprio avere, con il proprio impegno, con le proprie capacità e le
proprie competenze. Va letta nella medesima ottica anche la comunione dei beni
praticata nella comunità apostolica di Gerusalemme (At. 2,42-47; 5,1-5), della
quale è testimoniata la scelta volontaria dei suoi membri di mettere in comune
i proprî beni a favore dei poveri.
In realtà l’alternativa proposta dal
messaggio evangelico non è tanto quella tra “ricchezza”, intesa come sempre
cattiva, e “povertà”, considerata come sempre “buona”, quanto quella tra
“ricchezza” e “Cristo”. Per il credente, infatti, la vera “ricchezza” è solo
Cristo: non si è alla sequela di Cristo se non c’è abbandono delle ricchezze
(Mt. 16,24; 19,21 e parr.); l’aspirazione al Regno induce a rinunciare a ogni
altro bene. È questo, per esempio, il caso del tema del “tesoro” del brano di
Mt. 6,19-21 e 13,44-46. La “ricchezza”, sia quella posseduta quanto quella solo
desiderata, è presentato come un padrone alternativo a Dio. Per il credente vi
è, dunque, una ricchezza “vera” e una ricchezza “disonesta”, una ricchezza
“altrui” e una ricchezza “vostra”. Una doppia contrapposizione che il Vangelo di Luca premette al tema dei due
padroni (Lc. 16,11-13).
Così per il cristiano la ricchezza,
come possesso e come aspirazione ai beni terreni, non è per lui una “vera
ricchezza”. Le cose terrene rivestono il solo valore di meri strumenti per
vivere nella logica del Regno, che è logica del dono di sé. La ricchezza allora
non può essere inseguita come un “bene”, né può avere altro uso che l’essere
data o adoperata per il prossimo.
Nel Secondo Testamento, in relazione alla
ricchezza e alla proprietà, vengono individuati due grandi peccati:
l’”avidità”, cioè il cercare smodatamente di arricchirsi, e l’”avarizia”, cioè
il non dare anche più del superfluo. Questi due peccati sono più volte
richiamati nelle Lettere di Paolo tra i vizî più gravi e indicati con lo stesso
termine pleonexia . In Paolo, dunque, avidità e avarizia sono considerate
allo stesso livello d’immoralità dell’idolatria, dell’adulterio, della lussuria
sfrenata (cf. Rm. 1,29; 1Cor. 6,10; Col. 3,5; Ef. 4,19; 5,5).
Un’analoga valutazione etica della
relazione con la ricchezza si ha nei testi di Giovanni: «Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in
lui; perché tutto quello che è nel mondo - la
concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della
vita - non viene dal Padre, ma viene dal mondo» (1Gv.
2,15-16). Per Giovanni una cosa è certa: la superbia della vita índica anche la
superbia derivante dalla ricchezza, cioè l’arroganza di chi possiede e si
affida al potere derivante dal possesso.
Per concludere, la lettura del Secondo
Testamento conduce a una conclusione di ordine etico, al cui interno il
comandamento “non rubare” è solo un caso particolare. Ne derivano in sostanza
due precetti generali: 1. “non cercare di arricchirti”; 2. “se hai, hai per
dare”. Precetti che, a loro volta, possono essere riassunti nel principio
generalissimo di arricchire davanti a Dio e non davanti agli uomini.
5. La
concreta pratica di vita di Gesù.
Penso che allo scopo di far sintesi di
un tale complesso d’insegnamenti derivante dal messaggio biblico, ed evangelico
in particolare, sia necessario far riferimento alla concreta pratica di vita condotta
da Gesù. Una pratica di vita, quella di Gesù, che può essere individuata in una
modalità radicale: un’esistenza incerta, mobile, itinerante, nel fatto cioè che
egli abbia rinunciato alla propria famiglia d’origine e abbia rinunciato anche
a costruirne una sua, nel fatto che egli non possieda nulla, che abbia abbandonato
il lavoro o che comunque rinunci a lavorare e perciò a guadagnare con la
propria attività, che non abbia una propria casa e che non si fermi mai se non
per poco tempo in un posto, ma che riprenda costantemente il cammino. La sua
condizione è, così, caratterizzata duplicemente: dal distacco dal nucleo
domestico (e dai suoi obblighi e dalle sue relazioni interne ed esterne) e
dalla dislocazione continua. Ma Gesù svolge anche un’attività: quella di
predicare, insegnare e guarire. La sua itineranza, ha quindi per scopo
l’incontro con le persone, un incontro diretto. Un incontro faccia a faccia,
mai mediato.
Per la sua propria logica, questo
stile di vita comporta la creazione di un particolare schema di rapporti con le
persone: l’incontro non avviene tramite il reticolo di interessi nel quale gli
individui sono obbligati dalle proprie attività e relazioni. Gesù non è
portatore di proprî interessi personali. La gente che egli incontra non riesce
a situarlo all’interno del proprio normale reticolo di relazioni. L’incontro
con la gente avviene così in una situazione di sospensione del normale incrocio
di rapporti d’interesse dei gruppi sociali, a causa di una sospensione delle
normali reti sociali. La struttura itinerante della pratica di vita di Gesù sta
alla base del suo messaggio e delle sue azioni. La logica inerente a questo
stile di vita comporta la necessità di appoggiarsi ad altri per il mangiare e
il dormire. Per soddisfare questi bisogni è necessario ricorrere all’ospitalità
di chi accetta di accoglierlo. Ospitalità, commensalità, compagnia di viaggio
diventano così un tratto distintivo essenziale della logica di vita di Gesù, un
modo con cui egli entra direttamente in contatto con le persone, nei luoghi
dove queste vivono e operano, irrompendo nel concreto della loro vita e
chiamandole a prendere posizione, anche attraverso momenti di insegnamento
strettamente connessi alle esperienze esistenziali.
Questa concreta pratica di vita è
proposta agli interlocutori cui rivolge la propria chiamata, basti aver
presente i brani evangelici che riferiscono della chiamata di Pietro, Andrea,
Giacomo e Giovanni (Mt. 4,18-22; Mc. 1,16-20; Lc. 5,1-11) e di Matteo (Mt.
9,9-13; Mc. 2,13-17; Lc. 5,27-32). Da questi racconti emerge che Gesù chiede a
coloro che chiama (e si tratta anche, nel caso dei primi quattro, di persone di
un certo censo) un effettivo e completo distacco dai beni terreni. Un distacco
che, lungi dall’essere provvisorio, pone i chiamati in una definitiva
condizione di povertà. Così, Gesù, nell’inviare i dodici in missione, impone
nuovamente loro una completa povertà: niente pane, niente bisacce, niente
denaro, anzi neppure il bastone, né i sandali (Mt. 10,5-15; Mc. 6,7-13; Lc.
9,1-6). E che essi vivessero di fatto in stato di povertà, risulta chiaro dal
significativo episodio delle spighe di grano (Mt. 12,1-4; Mc. 2,23-28; Lc.
6,1-5), come pure dai cenni di Luca in Lc. 8,1-3, ove di arguisce che il
piccolo gruppo, radunato intorno a Gesù, viveva praticamente di elemosina e che
alcune donne, che avevano scelto di seguire Gesù, lo sostenevano con i proprî
beni.
A seguire Gesù non ci sono tuttavia
solo discepoli che scelgono di rinunciare totalmente ai proprî beni né alla
propria attività e posizione sociale. È il caso, per esempio di Nicodèmo (Gv.
3,1-20; 7,45-53; 19,38-42) e di Giuseppe d’Arimatea (Gv. 19,38-42), ma ancor di
più dei tre fratelli Maria, Marta e Lazzaro di Betània (Lc. 10,38-42; Gv. 11,1-57).
Se nel caso dei primi due personaggî (Nicodèmo e Giuseppe d’Arimatea) si tratta
di vocazioni che hanno seguìto un percorso di maturazione progressiva, nel caso
dei fratelli di Betània, secondo i testi evangelici disponibili, l’adesione al
messaggio di Gesù è piena, ma ciò non coincide, per Maria, Marta e Lazzaro, con
l’abbandono della loro posizione sociale e della connessa rete di relazioni. I
due testi di Luca e Giovanni, appena richiamati, pongono in evidenza infatti
sia lo stretto legame intercorrente tra Gesù e i tre fratelli «Gesù amava Marta e
sua sorella e Lazzaro» (Gv. 11,5), ma anche il loro persistente
restare inseriti nel quadro delle relazioni della società giudaica. In
occasione della morte di Lazzaro «molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per
il fratello» (Gv. 11,18), il che testimonia come i tre fratelli
ricoprissero una posizione sociale di una certa rilevanza e che certamente
dovevano essere proprietarî di beni e avere una dimora riconosciuta dalle
persone più influenti. Nonostante ciò, tuttavia, Gesù non tralascia di indicare
ai tre fratelli, particolarmente amati (Gv. 11,5), quale sia la «parte migliore»
(Lc. 10,42). Lazzaro, in particolare, viene definito chiaramente come «amico»
di Gesù (Gv. 11,11) e si attesta che Gesù lo «amava» (Gv. 11,36).
Sulla base di questi testi una parte
autorevole dell’esegesi biblica (per esempio Oscar Cullmann[5])
propone un’ipotesi molto suggestiva d’individuazione proprio nella persona di
Lazzaro della figura del Discepolo amato,
personaggio centrale della parte finale del Vangelo
di Giovanni. Si tratta, come detto, di un’ipotesi con un suo fondamento di
attendibilità, ma ovviamente solo di un’ipotesi. La formulazione di tale
ipotesi, che ha una sua plausibilità, permette però di tirare delle conclusioni
significative sul discorso che sto cercando di delineare.
6. Il
discepolo amato.
La figura del discepolo amato,
nell’àmbito del Vangelo di Giovanni, appare più volte soprattutto nella seconda
parte del Vangelo, in alcuni casi indicato esplicitamente come “il discepolo
amato”, in altri casi più semplicemente come “l’altro discepolo”. Una lunga
tradizione di riflessione biblica, fondata su solide ragioni esegetiche, usa
identificare le due figure.
Nel corso dell’Ultima Cena (cf. Gv.
13,21-26), questo discepolo chinando il capo sul suo petto chiese a Gesù chi
fosse, tra i discepoli, il traditore. Più avanti, durante le varie fasi del processo
a Gesù (cf. Gv. 18,15-18), avvalendosi del suo essere conosciuto nell’ambiente
del sommo sacerdote, introduce anche Pietro nel cortile della casa di Caifa.
Alla crocifissione (cf. Gv. 19,25-27)
si ritrova con Maria di Nàzareth, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala ai piedi
della croce e riceve da Gesù l’affidamento della sua madre, che egli da allora
accoglierà nella propria casa.
Al mattino della resurrezione (cf. Gv.
20,1-9), avvertito da Maria di Màgdala, è il primo ad accorrere sul luogo, ed è
il primo a credere nella resurrezione.
In occasione, infine, dell’apparizione
di Gesù risorto sul lago di Tiberìade (cf. Gv. 21,1-7) è ancora il discepolo
amato il primo a riconoscere, nella figura apparsa, quella di Gesù risorto.
Se riflettiamo un po’ su questi cinque
episodî, possiamo verificare che, negli ultimi due, il discepolo amato
manifesta di possedere un dono particolare, che gli conferisce una singolare
capacità di discernimento del significato autentico degli eventi in cui si
trova coinvolto. Nel primo caso, prima di Pietro, capisce di trovarsi dinanzi
al formidabile fatto della resurrezione e a credere in esso. Anche nel secondo
caso è il primo a riconoscere la vera identità della persona apparsa e a
segnalare a Pietro: «È il Signore» .
Questo discepolo si rivela qui come
autentico interprete dei segni dei tempi, capace di cogliere il momento in cui
si verifica l’intersezione tra il finito e l’infinito, tra la dimensione
dell’esistenza storica e umana e quella della storia della salvezza.
Segni di questa singolare capacità di
discernimento, sono invece assenti nei primi due episodî dell’Ultima Cena e
dell’ingresso nella casa del sommo sacerdote. Come possiamo spiegarci questa singolare
maturazione di fede nel discepolo amato.
A fare da spartiacque in questo
processo di maturazione della fede del discepolo amato sta l’episodio della
croce (Gv. 19,25-27), dove egli è destinatario della parola di Gesù morente che
gli indica: «Ecco la tua madre!». A sèguito di questa indicazione, come abbiamo
visto, egli accoglierà Maria di Nàzareth nella propria casa.
Credo che occorra, nel leggere questo
brano, andare oltre gli aspetti (pur presenti) dell’ospitalità e della cura
personale. Le due espressioni di Gesù, la prima rivolta a Maria («Donna, ecco
il tuo figlio!»), la seconda indirizzata al discepolo («Ecco la tua madre!» ),
sono un chiaro invito a costruire una relazione piena di maternità, da un lato,
e di figliolanza, dall’altro.
Il discepolo, ai piedi della croce,
inizia un’esperienza antropologica di figliolanza nei confronti di Maria.
Un’esperienza che lo rende destinatario della cura materna di Maria che gli
consente di operare una maturazione profonda della propria dimensione di fede.
Da semplice componente del séguito di Gesù, diviene un protagonista attivo dei
fatti salvifici, manifestando un’inedita capacità di lettura e interpretazione
degli eventi. Ponendosi alla scuola di Maria, ne mutua l’atteggiamento di
apertura al mistero e lo stile di costante ricerca della volontà divina, che
costituiscono, per ogni credente, le basi fondamentali per incarnare
autenticamente la dimensione profetica dell’esperienza di fede.
7. Maria
maestra della lettura dei “segni dei tempi”.
Se poniamo infatti attenzione alla
figura di Maria nelle testimonianze evangeliche, in particolare quelle di Luca
e Giovanni, possiamo constatare come la madre di Gesù abbia dimostrato una
particolare capacità di leggere nelle circostanze concrete della vita i segni
dell’azione di Dio. Già dall’evento dell’Annunciazione (Lc. 1,26-38), come secoli
di riflessione e di meditazione operate da generazioni di credenti hanno posto
in evidenza, emerge chiaro il carattere esemplare dell’adesione di Maria al
progetto divino di salvezza («Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me
quello che hai detto» - Lc. 1,38). È questo un dato essenziale, su cui si è
molto riflettuto, tanto da apparire a un esame superficiale finanche banale. In
realtà assistiamo in questo evento ad una delle grandi intersezioni tra il
piano metastorico del disegno della salvezza e quello storico della vicenda
umana. È un evento che si svolge nella libertà e nel quale Maria riconosce
prontamente l’autenticità della vicenda in cui si trova coinvolta e sceglie
prontamente di aderire al piano divino, contro ogni immediata evidenza umana.
Maria, infatti, supera d’un balzo l’iniziale turbamento indotto dalla
difficoltà di comprendere pienamente il senso del saluto rivoltole dall’angelo
(cf. Lc. 1,29). Qui emerge, a mio parere, un connotato fondamentale della
figura di Maria di Nàzareth: uno stile di vita caratterizzato da un’apertura al
mistero. Maria senza dubbio era una giovane donna della sua epoca e del suo
ambiente, che conduceva verosimilmente una vita centrata sulla sfera domestica,
che tuttavia considera l’orizzonte della propria quotidiana vita materiale non
come il limite che racchiude e comprende la totalità di quanto
antropologicamente sperimentabile, ma lo percepisce quale elemento di possibile
comunicazione con esperienze altre, che nella fede di Israele sono da riportare
all’irruzione di Dio nella storia.
Si tratta di un atteggiamento
esistenziale moderno, che presenta una sorta di analogia con il comportamento
di Ulisse, ricordato da Dante nel 26. canto dell’Inferno. Siamo ovviamente su un altro piano di esperienza esistenziale.
Ma anche in questo caso Ulisse, non si ferma a investigare il conosciuto, non
resta all’interno dei confini ordinarî, sceglie di rischiare l’esistenza
propria e quella dei suoi compagni per andare oltre. Anche Maria, nutrita dalla
fede di Israele, sceglie liberamente e senza esitazione di rischiare tutta la
propria esistenza per aderire al progetto divino.
È in una forma non occasionale, ma
abituale, che l’orizzonte domestico quotidiano è considerato da Maria
permeabile dall’infinito, travalicabile dal totalmente altro. Nel successivo
racconto lucano dell’infanzia, di fronte al susseguirsi dei primi fatti
salvifici del concepimento, della nascita, degli iniziali eventi della vita di
Gesù, Luca ricorda l’atteggiamento di Maria che conserva nel cuore e medita
sugli avvenimenti di cui si trova ad essere protagonista (cf. Lc. 2,19; 2,51).
Dopo l’adesione immediata alla chiamata divina, Maria inizia un percorso
interiore di interpretazione degli eventi, di meditazione, di preghiera, che si
nutre anche di un autentico riferimento alla tradizione della fede d’Israele,
che è ben testimoniato dagli episodî che vedono protagonisti le figure
profetiche di Simeone ed Anna (cf. Lc. 2,35-38). È un atteggiamento silenzioso,
ma profondamente attivo, con cui Maria si pone in ricerca per divenire
pienamente consapevole del senso pieno di quella confluenza tra il finito e
l’infinito cui è stata chiamata a partecipare. È uno sforzo in cui Maria è
pienamente coinvolta in maniera inscindibile in tutte le sue componenti antropologiche
di donna, sul piano razionale, emotivo, affettivo, esperienziale e fisico, che
la configura pienamente come persona “in ricerca della volontà di Dio”.
Queste due dimensioni mariane
dell’apertura al mistero e della ricerca della volontà divina trovano una loro
prima concretizzazione in un episodio narrato da Giovanni: le nozze di Cana
(Gv. 2,1-12). In quest’occasione Maria percepisce per prima, anche prima di
Gesù, le esigenze del piano di salvezza. In un certo senso forza lo stesso
Gesù, lo incita a compiere la sua prima manifestazione pubblica, un po’ come
una madre guida i primi passi del proprio figlio, così Maria a Cana incita Gesù
ormai adulto, a dare inizio alla propria missione pubblica. Ella percepisce
l’immediata urgenza umana («Non hanno più vino», – Gv. 2,3) e la pone in
sintonia con le esigenze del piano divino («Fate quello che vi dirà», – Gv.
2,5), affinché potesse manifestarsi la gloria di Gesù e affinché i suoi
discepoli potessero credere in Lui (cf. Gv. 2,11). Qui Maria si manifesta come
autentica lettrice dei segni dei tempi, cioè di quella dimensione profetica
che, molti secoli dopo, Giovanni 23. individuerà nell’attenzione alla gente e
alle sue situazioni concrete e nella capacità di porre le persone e le loro
urgenze storiche in relazione con il disegno di Dio. Intuizione che i Padri del
Vaticano 2. assumeranno pienamente nella Gaudium
et Spes, sottolineando come «Le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce degli uomini (…), sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce dei discepoli di Cristo» (GS. 1).
8. La perizia
laicale nel trattamento delle materie temporali.
Ma tutto questo che rapporto ha con il
discepolo amato? Se il discepolo amato, anziché essere uno che ha abbandonato
il mondo, è piuttosto come Lazzaro una figura laicale che sceglie, sì, di seguire
Gesù, come scelta di fondo della vita, come il tesoro autentico per il quale
vale la pena rinunciare a tutto, ma rimanendo dentro il mondo, dentro le sue
contraddizioni e ivi testimoniare la novità
di Gesù. Una figura esemplare della perizia laicale che è richiesta oggi ai
credenti in Gesù, sulla scuola di Maria, saper maneggiare le realtà temporali
per mostrare agli uomini di ogni epoca e di ogni cultura come scoprire nella
vicenda dell’umanità i segni del Regno che viene.
L’itinerario di fede del discepolo
amato, in fondo, propone anche a noi oggi di costruire un’autentica relazione
di maternità e di figliolanza con Maria, che, al di là, delle singole forme
devozionali, può nutrire nel profondo la nostra fede, donarci un’autentica
apertura al mistero, renderci veri ricercatori della volontà di Dio, aiutarci
nelle concrete condizioni storiche e umane in cui siamo coinvolti a saper porre
in relazione le persone concrete e le loro urgenze storiche con il piano divino
della salvezza.
Maria e i segni dei tempi, a mio
avviso, costituiscono un tema di grande modernità, su cui mi sembra sia
opportuno meditare profondamente. Le condizioni storiche, per tanti versi
inquietanti, ma per altri ricche di potenzialità e prospettive (per lo più non
intese e non espresse), chiedono con urgenza l’apporto di autentici «lettori
dei segni dei tempi».
Di fronte all’umanità di oggi, il
contributo e l’azione di credenti capaci di essere vero segno di contraddizione
e fattore profetico di speranza, non può tuttavia essere l’esito di un mero
sforzo volontaristico. La sperimentazione della cura materna di Maria
costituisce, a mio parere, un percorso di apprendimento spirituale unico.
Voglio concludere queste mie
riflessioni, che con semplicità propongo alla riflessione comune dei fratelli
nella fede, richiamando la grande profondità delle parole del Magnificat (Lc.
1,46b-55). Esse costituiscono una grande sintesi dell’azione di Dio su Maria e
sull’intera storia dell’umanità. Se le facciamo risuonare nel nostro intimo, se
ne facciamo oggetto abituale della nostra meditazione, possiamo ritrovare in
esse insospettabili fonti ispiratrici, personali e comunitarie, per maturare
nella fede e crescere nell’impegno e nell’azione concreta.
9. I credenti
in Cristo di fronte ai drammi dell’umanità contemporanea.
La considerazione del contesto sociale
oggi ci pone di fronte una realtà di grande drammaticità, caratterizzata da
eventi che interrogano profondamente la nostra coscienza di credenti. Ritengo
che vadano posti in evidenza alcuni temi di importanza fondamentale:
-
Il grave pericolo che incombe sull’integrità
del creato, posto da un irragionevole sfruttamento delle risorse naturali e da
un impiego scriteriato delle moderne tecnologie;
-
Il dramma di un miliardo e mezzo di esseri
umani ai quali è negato un accesso diretto a un bene essenziale quale l’acqua
potabile;
-
Il nostro Mar Mediterraneo trasformato in una
grade foiba, dove quotidianamente vengono riversati i corpi di nostri fratelli
che hanno la sola colpa di ricercare condizioni di vita più umane.
Di fronte
a queste realtà, non possiamo operare una diserzione di coscienza. Dobbiamo invece
assumere la nostra responsabilità di laici credenti in Cristo.
Dobbiamo
ricordare a tal proposito il testo di Mt. 25,31-46. Quando ci verrà chiesto
conto di cosa abbiamo fatto di fronte a chi aveva fame e sete, cosa saremo in
grado di rispondere? Probabilmente anche gli uomini più potenti dei secoli
passati (imperatori, re, ecc.) potranno forse rispondere in buona coscienza di
non aver avuto la possibilità concreta di rispondere pienamente alle necessità
di tutti i poveri della loro epoca. Oggi invece l’umanità nel suo complesso
possiede le capacità, le conoscenze, le tecnologie e le risorse sufficienti per
assicurare a tutti gli uomini le condizioni minime di una vita dignitosa. Con
molta probabilità, dunque, noi uomini del 21. sec. potremmo non avere la
possibilità di rispondere con buona coscienza alla stringente domanda di Mt.
25,31-46.
(Sergio
Sbragia)
Vico Equense, domenica 3 giugno 2012
[1]
– È
questo un aspetto che riguarda il tema oggetto del presente approfondimento non
solo dal punto di vista metodologico, ma anche dal punto di vista del
contenuto. In questa introduzione mi soffermo sul punto di vista metodologico.
Più avanti il testo di Mt. 19,21 sarà ampiamente
considerato sul piano del contenuto.
[2] – M.
Heidegger, In cammino verso il linguaggio,
Mursia, Milano, 1984, p. 189 (titolo originale: Unterwegs zur Sprache).
[3] – Cf. V.
Mannucci, Bibbia come parola di Dio :
Introduzione generale alla sacra Scrittura, Editrice Queriniana, Brescia,
19866, p. 14-15.
[4]
– Tommaso : d’Aquino <santo>, Summa theologiae : La dottrina sacra : Se la sacra Scrittura debba usare metafore, p. 1., q. 1., a. 9.
SEMBRA che la sacra Scrittura non debba usare
metafore. Infatti:
1. Non è conveniente a questa scienza, che tra
tutte tiene il primato, il procedimento proprio dell'infima scienza. Ora,
procedere per via di similitudini e di figure è proprio dell'arte poetica, che
è l'ultima delle discipline. Dunque l'uso delle metafore non conviene a questa
scienza.
2. Questa dottrina è destinata alla
manifestazione della verità; tanto che ai suoi cultori è promesso un premio:
"Quelli che mi mettono in luce, avranno la vita eterna". Ora, le
similitudini occultano la verità. Non conviene, quindi, a questa dottrina
insegnare le cose divine sotto la figura di cose corporali.
3. Quanto più una creatura è sublime tanto più
si accosta alla divina somiglianza. Quindi, se proprio si vuole che alcune
creature simboleggino la Divinità, è necessario che si scelgano quelle più
eccelse, anziché quelle più basse, come spesso invece si trova nella Scrittura.
IN CONTRARIO: È detto in Osea: "Sono io
che ho moltiplicato la visione e per mezzo dei Profeti parlai in similitudine".
Ora, presentare la verità per similitudini, è usare metafore. Perciò tale uso
si addice alla sacra dottrina.
RISPONDO: È conveniente che la sacra Scrittura
ci presenti le cose divine e spirituali sotto la figura di cose corporali. E
difatti Dio provvede a tutti gli esseri in modo conforme alla loro natura. Ora,
è naturale all'uomo elevarsi alla realtà intelligibile attraverso le cose
sensibili, perché ogni nostra conoscenza ha inizio dai sensi. Perciò è
conveniente che nella sacra Scrittura le cose spirituali ci vengano presentate
sotto immagini corporee. È ciò che dice Dionigi: "Il raggio divino non può
risplendere su di noi se non attraverso la varietà dei santi veli".
Inoltre, siccome la Scrittura è un tesoro
comune a tutti (secondo il detto dell'Apostolo: "Io sono debitore ai
sapienti e ai non sapienti") è conveniente che essa ci presenti le cose
spirituali sotto le parvenze corporali, affinché almeno in tal modo le persone
semplici la possano apprendere, non essendo idonee a capire le cose intelligibili
così come sono in se stesse.
SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ: 1. Il poeta usa
metafore per il gusto di costruire delle immagini, infatti il raffigurare è
all'uomo naturalmente piacevole. Mentre la Scrittura fa uso delle metafore per
necessità e per utilità come si è detto.
2. Il raggio della divina rivelazione non si
distrugge, come nota lo stesso Dionigi, sotto il velame delle figure sensibili,
ma resta intatto nella sua verità; e così non permette che le menti, alle quali
è stata fatta la rivelazione, si arrestino all'immagine, ma le eleva alla
conoscenza delle cose intelligibili: e fa che per mezzo di coloro che
direttamente hanno avuto la rivelazione anche gli altri si istruiscano su tali
cose. Così avviene che quanto in un luogo della Scrittura è insegnato sotto
metafora, è esplicitamente espresso in altri luoghi. Del resto, la stessa
oscurità propria delle figurazioni è utile per l'esercizio degli studiosi e
contro le irrisioni degli infedeli, a proposito dei quali è detto nel Vangelo:
"Non vogliate dare le cose sante ai cani".
3. Con Dionigi bisogna riconoscere che è più
conveniente che le cose spirituali ci vengano presentate nella sacra Scrittura
sotto figure di corpi vili, anziché di corpi nobili. E ciò per tre ragioni. In
primo luogo perché così più facilmente l'animo umano è premunito dall'errore.
Appare chiaro infatti che tali simboli non si applicano alle cose divine in
senso proprio; ciò che invece potrebbe pensarsi ove le cose di Dio si
presentassero sotto figure di corpi superiori, specialmente per parte di chi
non riesce a immaginare qualche cosa di più nobile dei corpi. - In secondo
luogo, perché un tal modo di procedere è più conforme alla conoscenza che noi
abbiamo di Dio in questa vita. Infatti, noi di Dio sappiamo piuttosto quello che
non è che quello che è; e quindi le figure delle cose che sono più distanti da
Dio ci fanno intendere meglio che Dio è al di sopra di quanto noi possiamo dire
o pensare di lui. - In terzo luogo perché in tal modo le cose divine sono
meglio occultate agli indegni.
(Tommaso : d’Aquino <santo>, Summa theologiae,
p. 1., q. 1., a. 9).
[5]
– O. Cullmann, Origine e ambiente
dell’Evangelo secondo Giovanni : situato nel tardo giudaismo, nel gruppo
dei discepoli di Gesù e nel cristianesimo primitivo, Marietti, Torino, 1976.
Nessun commento:
Posta un commento