«Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal
vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti
di lusso? Ecco, quelli che portano vesti sontuose e vivono nel lusso
stanno nei palazzi dei re. Ebbene, che cosa siete andati a vedere?» (Lc.
7,24-26). Questi interrogativi rivolti da Gesù alla folla erano
esplicitamente diretti a provocare negli interlocutori un esame onesto e
spassionato, condotto alla luce della coscienza, dell’autentica personalità e della reale identità di Giovanni il Battista.
Paradossalmente gli stessi interrogativi, posti da Gesù in relazione al Battista, possono invece essere rivolti a noi credenti proprio, riguardo alla nostra fede in Gesù di Nàzareth, dalle donne e dagli uomini che incontriamo sulle strade del mondo, ma anche da noi stessi nel silenzio della nostra coscienza, allorquando può capitare di interrogarci sul senso ùltimo della nostra scelta di fede.
Sono interrogativi ineludibili, non possiamo ignorarli rifugiandoci nell’intimismo o nella mera pratica devozionale. Non possiamo esorcizzarli attribuendoli a un astioso, quanto impertinente e intellettualistico, rifiuto a credere, siamo invece chiamati a essere, con entusiasmo e docilità, «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt. 3,15). Rendere ragione di quella speranza che si è installata in noi nel momento stesso in cui, nella nostra vicenda personale, abbiamo liberamente scelto di aderire all’invito rivoltoci da Gesù: «Se vuoi, lascia tutto e sèguimi», è un passaggio necessario da compiere per passare da una fede abitudinaria a una fede consapevole, da una fede che è uno dei tanti aspetti di cui si compone la nostra esistenza (spesso slegati l’uno dall’altro, se non addirittura in reciproca contraddizione), a una fede che sia la prospettiva di fondo che ispira, orienta, unifica e riempie di senso ogni altro aspetto e àmbito della nostra vita.
Allora, per noi, che abbiamo scelto di seguìrlo e di aver fede in lui, chi realmente è Gesù di Nàzareth? Un eroe di un’antica mitologìa? Un’immagine della fantasìa? Un personaggio di una fiaba per bambini? Un imbonitore pubblicitario? Un esperto manipolatore di messaggî subliminali? Una persona che ha condotto una pratica di vita tra lussi e onori? Uno che ha predicato bene e razzolato male? O non, piuttosto, un concreto personaggio storico vissuto nella Palestina del 1. sec. e.v., che, a quanti lo hanno incontrato sulla propria strada, ha proposto di seguìrlo, con un’adesione libera, su un itinerario esistenziale, esigente ma soprattutto entusiasmante.
Gli strumenti dell’odierna metodologìa della ricerca storica permettono un accostamento senza precedenti alla figura di Gesù, che restituisce, con un elevato grado di plausibilità, i tratti di fondo della sua persona umana e della sua pratica di vita. Tutto questo costituisce una solida base di dialogo, per dire “qui e ora”, e in tutta franchezza, il carattere del tutto ragionevole della scelta di fede, che è, sì, un’opzione libera fatta responsabilmente e in autentica autonomìa, ma non è un gesto inconsulto e irrazionale frutto di meri istinti umorali. È una scelta libera, autonoma, non imposta, in cui ciascun uomo o donna, interpellato da un uomo concreto del 1. sec. e non da una fantasìa, decide di rischiare senza riserve la propria esistenza nel seguìrlo.
La ricerca storica su Gesù assume poi una funzione di grande rilievo nello sviluppo di un metodo di aggiornamento teologico proposto con vigore dal Concilio ecumenico Vaticano 2., che viene comunemente definito come “metodo del ritorno alle fonti”. L’applicazione di questo metodo è stata una meravigliosa intuizione dei lavori dei padri conciliari, che permette di ancoràrsi alla più genuina e autentica Tradizione (quella con la “T” maiuscola) per valutare le odierne contingenze nelle quali siamo chiamati ad annunciare il Regno. In questo lavoro di “ritorno alle fonti”, la ricerca sul Gesù storico può offrire un contributo essenziale (ovviamente non unico né esclusivo) al lavoro di attento discernimento tra il nucleo originario del messaggio cristiano e le stratificazioni successive frutto della necessaria inculturazione del messaggio stesso nei diversi contesti storici e culturali.
Da dove nasce l’interesse per l’uomo Gesù?
Riconoscere nella vicenda di Gesù di Nàzareth i segni dell’irruzione del Regno di Dio nella storia del mondo è certamente l’esito di un itinerario di comprensione teologica della realtà, ma questo itinerario ha il suo punto di partenza su un fondamento autenticamente storico, intorno al quale si possono ritrovare anche altri uomini e donne portatori di una diversa ispirazione ideale. È infatti comune constatare un diffuso e ampio interesse intorno a Gesù di Nàzareth, che va ben oltre la cerchia di quanti si definiscono cristiani. Lungo i secoli numerosissimi non-cristiani si sono interessati alla figura di Gesù. Un grande numero di atei, non credenti, filosofi, scienziati, seguaci delle religioni classiche, musulmani, ebrei hanno manifestato e manifestano tutt’ora un interesse nei suoi riguardi, per cui spesso si è ritenuto utile tentare di ricostruire anche la fisionomìa dell’immagine del “Gesù visto dagli altri”, proprio per cercare di comprendere le ragioni di tanto interesse anche da parte di chi in lui non si riconosce.
Fare ricerca storica su Gesù di Nàzareth non risponde infatti a una mera curiosità antiquaria, né è riducibile solo a un intento, pur rispettabile e apprezzabilissimo, di ricostruzione culturale e ideale della sua figura. Non è difficile infatti valutare la differenza in termini di quantità e di varietà di approccio intercorrente tra gli studî dedicati alle figure di divinità classiche, come per esempio Zeus, e quelli rivolti a Gesù di Nàzareth.
A questo proposito, sono profondamente convinto, con Benedetto Croce, che “ogni storia è storia contemporanea”, nel senso che ogni investigazione del passato trova le proprie più profonde radici e le sue più autentiche scaturigini nell’oggi. Se valutiamo con attenzione i fatti, la persona Gesù di Nàzareth, continua a interpellare profondamente le donne e gli uomini di oggi. Sono tantissime le persone che hanno la curiosità di saperne di più, perché in qualche maniera la sua figura costringe tutti a operare nei suoi confronti una scelta esistenziale, fosse anche quella del dissenso o del rifiuto. Di fronte a Gesù sembrano, infatti, abbastanza difficili da assumere solo due atteggiamenti: l’indifferenza e la neutralità.
È oggi possibile una ricerca storica su Gesù?
Non manca chi manifesta un certo scetticismo sull’effettiva possibilità di operare, a tanti secoli di distanza, un’effettiva ricerca storica su Gesù. Ovviamente siamo a circa due millennî dai fatti e sussistono dunque tutte le oggettive difficoltà connesse alla ricostruzione di eventi e processi storici così distanti nel tempo. La ricerca storica tuttavìa non si arrende di fronte a tali ostacoli, tant’è vero che mi sembra che sinora non sia stata abbandonata la ricerca in relazione a nessun periodo storico per quanto remoto questo possa essere. Anzi la metodologìa di ricerca sperimenta di continuo aggiornamenti ed evoluzioni che la pongono in grado di investigare meglio e più ampiamente àmbiti in precedenza del tutto oscuri. Occorre inoltre saper trar frutto anche dalle sempre maggiori acquisizioni non solo di discipline contermini con la vera ‘e propria ricerca storica, quali l’archeologìa (con le sue sempre più numerose campagne di scavi nella regione del Vicino Oriente), la numismatica, la sfragistica, l’epigrafìa ecc., ma anche saper applicare all’oggetto della nostra ricerca anche gli apporti sempre più avanzati delle scienze naturali e sperimentali.
Ma occorre anche saper valutare con il dovuto equilibrio e il necessario rigore critico il contributo squisitamente storico che può derivare dalle tradizioni cristiane. A mio parere, sul piano della critica storica occorre stare in guardia da due derìve contrapposte e pericolose: l’accettazione acritica della fondatezza storica del complesso dei testi evangelici e dell’antìca letteratura cristiana di epoca apostolica o il pregiudiziale rifiuto di riconoscere a questi scritti un qualsivoglia valore storico.
Bisogna in effetti rifuggire dalla sottovalutazione del processo di formazione della memoria evangelica della missione pubblica di Gesù, attribuendo un appropriato, quanto ponderato, riconoscimento storico alla necessaria fase intermedia di raccolta e trasmissione orale dei materiali e del successivo stadio di formazione dei primi documenti scritti confluiti poi nei Vangeli che conosciamo. Allo stesso modo vanno valutate con la massima attenzione le discrepanze e le contraddizioni che non è difficile riscontrare nei testi dei Vangeli, allorché se ne conduce un esame comparato. Le difformità, a mio avviso, non sono un indizio di falsità storica, sono piuttosto la testimonianza di un processo di costruzione della memoria che si è realizzato in un concrete realtà storiche, per opera di concrete comunità credenti poste di fronte alla prova materiale della testimonianza. Trovo molto più plausibile sul piano storico una quadruplice testimonianza, pur con numerosi particolari discordanti, che restituisca nel complesso un’immagine complessiva sostanzialmente concordante della figura di Gesù. Avrei molto meno fiducia dell’effettiva storicità di una pluralità di testimonianze perfettamente coincidenti in tutti i particolari, anche quelli di minore rilevanza. In un tal caso avrei un sorta di fastidiosa sensazione di artificiosità.
La corretta distinzione tra i materiali più plausibilmente riferibili al Gesù storico da quelli da considerare con maggiore approssimazione come il frutto della comprensione post-pasquale della primitiva comunità cristiana, non deve, a mio parere, condurre necessariamente a una svalutazione acritica del valore storico dei contenuti dei materiali afferenti a questo secondo gruppo. Rispetto a essi si rivela necessario un esame spassionato caso per caso, tenendo conto che nella comunità cristiana delle origini la memoria autentica della vicenda terrena di Gesù era oggetto di una venerazione di ordine quasi cultuale, pertanto l’attenzione alla sua “veridicità” era tenuta nella massima considerazione.
Allo stesso tempo occorre anche tener presente come nelle società dove la diffusione del saper leggere e scrivere non aveva conseguìto ancora dimensioni di massa (anche in epoche a noi molto più vicine) fosse riconosciuta una grande considerazione sociale alla trasmissione orale e come a questa venisse dedicata una grande cura per assicurarne le condizioni migliori di esercizio, conservazione e autenticità.
La sfida, che la ricerca storica su Gesù di Nàzareth si trova dinanzi, deve fare i conti con tutti questi aspetti, valorizzando tutte le fonti disponibili (quelle evangeliche, quelle della tradizione cristiana, quelle extra-canoniche, quelle materiali), facendo uso delle metodologìe più accreditate, puntando soprattutto sulla molteplicità di testimonianze indipendenti, sulla ricostruzione fedele del contesto vitale e della concreta pratica di vita abbracciata da Gesù, sull’analisi letteraria dei testi.
Il valore e i limiti delle tradizioni cristiane.
Bisogna inoltre essere consapevoli che la parte preponderante delle memorie su Gesù di Nàzareth ci sono pervenute attraverso la mediazione essenziale delle tradizioni delle comunità cristiane. Senza tale necessaria mediazione, sul mero piano storico, non avremmo probabilmente testimonianza significativa della vicenda umana di Gesù.
Come sappiamo quest’avventura terrena di Gesù, secondo le tradizioni cristiane, ebbe conclusione con la sua ascensione al cielo. Con questo evento ebbe inizio una fase nuova, affidata ai suoi discepoli, che acquisirono coscienza di essere i depositarî delle sorti del regno, secondo le parole di Gesù dette nell’imminenza della morte: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno» (Lc. 12,32). I discepoli si sentirono investiti di uno specifico mandato di Gesù: «tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt. 18,18). Avevano poi acquisito la consapevolezza di godere della perenne compagnìa di Cristo («Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» - Gv. 6,56), nonché del conforto dello Spirito («lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» - Gv. 14,26). Nonostante tutto ciò i discepoli di Gesù restavano tuttavìa uomini immersi nella storia, che dovevano far crescere il regno nella storia, dove nulla è scontato, dove tutto è prova, ricerca, pellegrinaggio, passaggio, attesa del giorno, a tutti ignoto, in cui Dio decreterà la fine dei tempi e Gesù tornerà sulla terra per prendersi la comunità dei giusti e consegnarla al Padre. L’ùltimo momento eccezionale i discepoli – sempre secondo la Rivelazione – lo sperimentarono 50 giorni dopo la Resurrezione, nel dì di Pentecoste, quando si sentirono «colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» (At. 2,4). Successivamente rimasero soli, con la loro verità, di fronte al mondo. Lungo tutta la parabola dei secoli successivi le comunità cristiane sono vissute nella memoria fedele della vicenda di Gesù, nell’attesa della sua nuova venuta e nella testimonianza della sua novità per il destino dell’intera umanità, seguendo un itinerario tortuoso tra prove, errori, cadute di fedeltà, confronti spregiudicati con l’esercizio del potere, ma anche donando alla storia umana innumerevoli esempî di eroica sequela di Gesù e del suo messaggio.
È dunque giusto prestare la dovuta attenzione alla testimonianza che di Gesù danno le varie tradizioni cristiane, nella consapevolezza che esse sono la prima e la più significativa risorsa conoscitiva intorno a Gesù, una conoscenza che presenta anche un’indubbia dimensione storica, avendo cura di tenere sempre ben distinti il diverso piano e il diverso statuto metodologico che contraddistinguono l’“accertamento storico” e l’“accertamento teologico”. Storia e Teologìa hanno molte cose da dirsi e possono arricchirsi reciprocamente, ma né la storia ha una funzione ancillare rispetto alla teologìa, né quest’ultima è da vincolare al solo dato storicamente verificabile (ben sapendo che non tutti gli eventi storici risultano accertabili con i metodi della ricerca storica).
Gesù era un ebreo o un cristiano?
Tra i numerosi interrogativi in cui è possibile imbattersi una volta che ci si incammina sul sentiero della ricerca storica su Gesù, questo probabilmente rientra tra quelli che possono, in apparenza, maggiormente inquietare la coscienza credente. Se esaminiamo i materiali evangelici che più plausibilmente possono essere riferiti alla vicenda itinerante di Gesù, in effetti ne emerge il profilo di una personalità profondamente partecipe, sia pur in forma critica, della pratica cultuale giudaica del suo tempo. Una personalità, semmai, impegnata a evidenziare i tratti più autentici e originarî di tale cultualità, ricercando per ciascun gesto di culto il suo legame autentico con la volontà di Dio. Gesù pertanto, a mio parere, va considerato pienamente un ebreo del suo tempo, un ebreo che tuttavìa richiamava con forza a riscoprire i tratti originarî e autentici del culto, ponendo in decisa discussione pratiche che nella consuetudine ripetitiva e letteralistica finivano per tradire l’autentica volontà di Dio. In definitiva egli era partecipe nella sua autenticità della fede giudaica della quale ambiva recuperare i contenuti originarî.
Non mi sento tuttavìa di condividere l’obiezione di quanti sostengono, che un’autentica sequela di Gesù comporterebbe, non tanto l’essere cristiani, quanto l’adesione all’ebraismo. L’esperienza terrena di Gesù, infatti, anche se coerentemente radicata nella realtà della fede giudaica propone un suo radicale cambiamento di prospettiva, da riorientare in direzione dell’originaria chiamata di Jahwé.
In effetti la preoccupazione di Gesù non sembra essere stata la ricerca, con la fondazione di una nuova religione, di una strada autonoma dal giudaismo dell’epoca, quanto (come ho già evidenziato) la proposta di una profonda maturazione dell’esperienza religiosa giudaica (una proposta di “conversione”). La trasformazione della comunità dei discepoli di Gesù in un’esperienza religiosa autonoma dal giudaismo (processo non immediato che ha interessato un periodo abbastanza prolungato nel tempo) sembra più essere stato il prodotto (forse obbligato) dei successivi contrasti circa la comprensione e l’accettazione del suo insegnamento. Di certo la proposta di Gesù, in teorìa, sarebbe stata declinabile in un contesto giudaico, ma la fede si testimonia non nel chiuso di un asettico laboratorio, ma nel concreto delle controversie storiche, esposti a ogni sorta di contaminazioni e arricchimenti. La separazione delle strade tra giudaismo e cristianesimo si è realizzata concretamente sulle strade della storia, vuoi per il rifiuto di una parte significativa della società giudaica di far proprio il messaggio di Gesù, vuoi per la scelta dei cristiani di seguìre una strada autonoma, vuoi per la necessità di dover fare i conti con il condizionamento storico posto dal domìnio romano.
Nell’analisi storica occorre operare la dovuta distinzione tra la figura dell’iniziatore e la vicenda del successivo movimento storico che da lui ha preso le mosse. Si registra sempre uno iato tra il fondatore e la posteriore tradizione che a lui si richiama, né potrebbe essere altrimenti. Ciò è verificabile tra le figure storiche di Abramo, dei patriarchi e di Mosè e il successivo giudaismo, così come tra Gesù e il Cristianesimo dei secoli posteriori, ma anche, in àmbito non religioso, tra gli iniziatori di una corrente filosofica, artistica, un movimento politico, e le conseguenti concretizzazioni storiche.
Gesù, a mio parere, osservava puntualmente e nella sostanza la legge mosaica. Seguìva le feste, i pellegrinaggî e le pratiche rituali ebraiche. Ne proponeva tuttavìa un’osservanza adulta, attenta alla finalità autentica, che ne aveva determinato l’introduzione. Non solo; introduceva anche, tra le varie pratiche cultuali, una scala di priorità (basti considerare la sua concezione dell’osservanza del sabato). Proponeva infine anche un’evoluzione della legge mosaica, invitando a saper interpretare i segni della volontà di Dio e a universalizzarne la portata.
Nella predicazione, Gesù faceva uso delle ordinarie tecniche argomentative in uso tra i maestri giudaici, e alcune forme argomentative che sembrano segnare ai nostri occhî un segno di forte contrapposizione erano in realtà ampiamente usate nel dibattito intragiudaico. Questo tuttavìa non sminuisce il carattere radicale della proposta di Gesù, che proponeva un’autentica conversione nelle modalità interiori dell’adesione di fede e nella concreta e quotidiana pratica di vita. Una proposta compatibile certo con la fede jawhista (Gesù si presenta come inviato dal Padre per fare la sua volontà), ma non compatibile con le consuete abitudini di vita diffuse e accettate nella società giudaica.
Ritengo comunque quello della piena appartenenza di Gesù alla fede d’Israele un aspetto importantissimo (anche se delicato) del dialogo ebraico-cristiano se si vuol superare il piano di un rapporto (pur importante) di buon vicinato.
La decisività dell’atto di fede.
In numerosi testi evangelici è possibile riscontrare il carattere del tutto decisivo che Gesù riconosce alla scelta di fede compiuta da quanti egli incontra lungo la sua strada. È la fede infatti l’elemento che determina il radicale mutamento della realtà, in alcuni casi anche in dissonanza con l’intenzione esplicita dello stesso Gesù.
Nell’episodio della peccatrice che gli si avvicina in casa di Simone il fariseo (Lc. 7,36-50), Gesù, a conclusione della scena, dice alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!» (Lc. 7,50).
Anche nei racconti intrecciati delle guarigioni della figlia di Giàiro e dell’emorroissa (Mc. 5,21-43) emerge con chiarezza il ruolo decisivo dell’atto di fede. Nel caso della donna sofferente di perdite di sangue, Gesù appare addirittura ignaro dell’evento straordinario: «Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: "Chi ha toccato le mie vesti?". I suoi discepoli gli dissero: "Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: "Chi mi ha toccato?""» (Mc. 5,30-31). La donna, invece, dimostra una chiara convinzione di un cambiamento concretamente possibile: «Diceva infatti: "Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata"» (Mc. 5,28). Il racconto trova il suo èsito nelle parole di Gesù: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarìta dal tuo male» (Mc. 5,34). Anche nell’altro racconto caso, Giàiro, autorevole esponente della Sinagoga, mostra una chiara consapevolezza della concreta possibilità di una radicale trasformazione del corso delle cose. Egli, infatti chiede, con “insistenza”, a Gesù di imporre le mani sulla propria figlia, affinché questa possa vivere ed essere salvata fosse salvata e potesse vivere: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (Mc. 5,23). Di fronte al successivo tentativo di alcuni degli astanti di distogliere Giàiro dall’insistere nella sua richiesta, Gesù rassicura Giàiro e gli rivolge un chiaro invito in cui risalta con chiarezza l’essenzialità dell’atto di fede: «Non temere, soltanto abbi fede!» (Mc. 5,36).
Anche nel caso della guarigione del cieco sulla strada per Gerico (Lc. 18,35-43), questi mostra una chiara convinzione che Gesù può modificare totalmente le cose e, nonostante l’invito di molti a tacere, lo grida ad alta voce. Gesù riconosce questa cosa, dicendo: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (Lc. 18,42).
Particolarmente significativo è l’episodio della liberazione della figlia di una donna cananea dalla possessione demoniaca (Mt. 15,21-28). Di fronte alla decisa e argomentata insistenza di questa donna cananea, che lo implora di salvare la figlia, Gesù alla fine conclude: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri».
Quest’episodio, oltre a confermare ulteriormente il dato della decisività dell’atto di fede fa anche giustizia della tesi, sostenuta da molti, secondo la quale Gesù non si sarebbe proposto la conversione dei pagani, come potrebbe apparire da varî testi in cui Gesù invita a non predicare ai pagani o esprime valutazioni negative nei loro confronti. Qui invece, di fronte a un chiaro atto di fede, vengono meno tutte le preclusioni e le prevenzioni ostili ai pagani e c’è un atto di Gesù che muta radicalmente l’ordinario corso delle cose. Formalmente non è un atto di “predicazione” in senso proprio, ma è una chiara manifestazione della potenza di Dio. E la rivelazione di tale potenza è fatta di parole e di eventi che non possono meccanicisticamente essere separati in compartimenti stagni.
Ma oltre che con gesti, Gesù sottolinea il carattere decisivo dell’atto di fede anche in contesti di autentico insegnamento; per esempio, in Lc. 17,5-6: «Gli apostoli dissero al Signore: "Accresci in noi la fede!". Il Signore rispose: "Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe”». E anche in Mt. 17,20, dove Gesù esprime con chiarezza lo stesso concetto : «Ed egli rispose loro: "Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: "Spòstati da qui a là", ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile"». Ripetutamente Gesù propone la scelta di fede come l’elemento che può determinare l’effettivo cambiamento dell’ordinario procedere delle cose, l’irruzione nella quotidianità del “qui e ora” di un qualcosa che risponde a una logica diversa e alternativa.
Il brano che tuttavìa esprime in una forma plasticamente espressiva il dato della decisività dell’atto di fede è quello dell’episodio di Gesù che cammina sulle acque (Mt. 14,22-33): «Sùbito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: "È un fantasma!" e gridarono dalla paura. Ma sùbito Gesù parlò loro dicendo: "Coraggio, sono io, non abbiate paura!". Pietro allora gli rispose: "Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque". Ed egli disse: "Vieni!". Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: "Signore, salvami!". E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?". Appena salìti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: "Davvero tu sei Figlio di Dio!"». Nel brano anche Pietro, nella sua immediata ed entusiastica adesione a Gesù, cammina sulle acque superando così le ordinarie leggi naturali. Quando, poi, subentra una certa insicurezza e la fede in Gesù inìzia a vacillare, Pietro comincia a sprofondare nell’acqua. Si rende così necessario un intervento diretto di Gesù. Dal testo si evìnce con chiarezza quale sia l’elemento risolutivo: quando la fede è piena, Pietro cammina sulle acque e le ordinarie leggi del mondo sono sovvertite, quando la fede è incerta, Pietro sprofonda e la logica del mondo riprende il sopravvento.
Possiamo pertanto concludere che dalla missione terrena di Gesù di Nàzareth emerge con chiarezza che è la fede il dato che fa irrompere nel mondo la logica di Dio.
L’annuncio del Regno di Dio.
Il carattere decisivo della scelta di fede ci aiuta anche nella comprensione della realtà del “Regno di Dio”, che ordinariamente viene presentata come un dato posto in un futuro più o meno ravvicinato, innestando anche una sorta di polemica sul cosiddetto ritardo della Parusìa. Su questo tema non è raro incontrare una certa confusione tra i concetti di “Regno di Dio” e di “Giudizio”, che sono di certo collegati, ma non coincidenti. L’annuncio del “Regno di Dio” è il tema primario della predicazione di Gesù. In essa è ampiamente presente anche la previsione del “Giudizio”. L’identificazione dell’uno con l’altro ha tuttavìa determinato lo spostamento dell’avvento del “Regno di Dio” in una prospettiva futura, anche se ravvicinata. Se la dimensione futura è appropriata per la realtà del “Giudizio”, sta invece abbastanza stretta per quella del “Regno di Dio”. Quando Gesù parla del “Regno di Dio” ne parla come una realtà in atto: «Ma, se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora “è giunto” a voi il regno di Dio» (Mt. 12,28), o, ancòra, «"Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: "Eccolo qui", oppure: "Eccolo là". Perché, ecco, il regno di Dio “è” in mezzo a voi!"» (Lc. 17,20-21). Più che una previsione d’imminenza, nei materiali evangelici è riscontrabile piuttosto l’affermazione che “il Regno di Dio è giunto”. Il Regno è dunque una realtà percepìta come già in atto, già presente, la cui logica è radicalmente diversa (oggi diremmo alternativa) da quella consueta (cf.: “Il mio regno non è di questo mondo, se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”). Una logica che egli propone, a quanti incontra sul proprio cammino, di scegliere liberamente e di praticare nel concreto quotidiano. Circa la previsione del giudizio, il senso d’imminenza, che i testi sembrano evidenziare, a mio parere è da riferirsi più al carattere d’inevitabilità (cf.: “il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”) che alla immediatezza temporale.
Gesù, nella sua predicazione, annuncia che «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc. 1,15), ma sottolinea, come abbiamo visto, anche che «Se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio» (Mt. 12,28). A innescare l’avvento del “Regno di Dio” è dunque la conversione e la scelta di fede. È attraverso la fede che è dunque possibile far entrare nella storia la logica del Regno di Dio, che non è di questo mondo, che tuttavìa “è vicino”, è a portata di mano, può dipendere dall’operare “qui e ora” la scelta giusta. Nel momento in cui si compie l’autentica scelta di fede si determina un’intersezione storica tra il piano della vita terrena e quello del Regno di Dio, si verifica una radicale inversione di orientamento nella vita delle persone, e possono divenire possibili cose che sono al di fuori della logica ordinaria del mondo.
Ne derivano anche delle conseguenze sulla comprensione piena della realtà della “chiamata” che Gesù rivolge a quanti incontra sulla propria strada. L’invito a seguìrlo è posto senza condizioni, chiede di lasciare tutto e di porsi al suo sèguito. Gesù ha tuttavìa anche discepoli che hanno mantenuto la propria condizione nel mondo, come, per esempio, Marìa, Marta e Làzzaro di Betània (personaggî non di secondo piano, ai quali Gesù era legato da forti sentimenti di amicizia). Dai materiali evangelici non risulta una delimitazione ai soli giovani, o a quanti erano in grado di poterla operare, della proposta di seguìrlo in forma itinerante e totale. Né risulta che Gesù abbia evitato di rivolgerla ad anziani o a chi avesse da sostentare la famiglia. È piuttosto ogni forma di casistica a essere del tutto estranea alla predicazione di Gesù. Ciò che invece è chiaro che Gesù chiede a quanti vogliono seguìrlo di farlo in forma libera, ma autentica e piena: «Gli disse Gesù: «"Se vuoi” essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!» (Mt. 19,21). Quanto però alle forme concrete con cui incarnare una tale sequela, Gesù lascia ai suoi discepoli il compito di discernere l’autentico carattere dell’itinerario da compiere al sèguito di Gesù «perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?» (Lc. 12,57).
Il valore espiatorio e salvifico della morte di Gesù.
Da più parti si sottolinea che dalla ricerca storica su Gesù di Nàzareth emerge la sostanziale assenza di una valutazione del carattere espiatorio e salvifico della sua morte, di conseguenza tutta la successiva comprensione teologica sul tema avrebbe un’origine esclusivamente paolina e sarebbe priva di riscontri nei materiali evangelici più direttamente riferibili all’esperienza storica di Gesù. È certo che in un tale sforzo di comprensione ha ricoperto un grande ruolo la riflessione di Paolo di Tarso, ma allo stesso tempo non si può negare che la ricerca di una valutazione sulla morte e resurrezione nel quadro dei materiali evangelici più direttamente riferiti alla missione itinerante di Gesù sfugga in gran parte allo statuto metodologico della ricerca storica. L’esperienza storica di Gesù, almeno quella parte investigabile con gli strumenti della ricerca storica, ha il suo termine sul calvario. I racconti di resurrezione (sia quelli che i testi pongono dopo la sepoltura, sia quelli che incontriamo ben prima della resurrezione, come, per esempio, la trasfigurazione), sfuggono per loro stessa natura agli strumenti della ricerca storica. Sono ùtili su questo piano per ricostruire elementi storici riguardanti i discepoli e la primitiva comunità cristiana, lo sono molto meno per la figura storica di Gesù. Sono invece una grande testimonianza della comunitaria comprensione post-pasquale degli eventi. Penso che un aiuto maggiore alla loro comprensione possa derivare dai metodi dell’esegesi narrativa.
Non bisogna dimenticare che nell’analisi dei testi evangelici e del loro grado di plausibilità storica, la metodologìa storica abbia con ragione escluso dal novero dei testi più evidentemente riconducibili al Gesù storico, quelli che presentavano riferimenti alla sua futura morte, per il loro presumibile carattere di storia raccontata sotto forma di profezìa. Se una tale scelta è giusta (e, a mio avviso, lo è), sarebbe consigliabile non trarre conclusioni sulla visione che Gesù aveva della propria morte, in quanto si viene a determinare una sorta di “corto circuito metodologico”, i risultati sarebbero inevitabilmente condizionati dagli “strumenti di laboratorio” usati.
Come è bello ricercare su Gesù.
Non è senza significato, infine, che in un quadro di sostanziale contrazione degli spazî e delle energie dedicati agli studî di carattere umanistico, si registri oggi nell’àmbito accademico internazionale il fiorire di inedite iniziative di ricerca storica sulla figura di Gesù di Nàzareth. Parlare di Gesù, ricercare intorno alla sua persona, cercare di comprendere il più possibile della sua vicenda storica, sono esigenze connaturate alla scelta di fede. È naturale che quanti nella propria vita hanno scelto di seguìre Gesù, aspirino a conoscere il più possibile della sua persona e della sua vicenda. Certamente in questa scelta sarà anche possibile imboccare strade sbagliate o vicoli ciechi, ma l’esperienza delle più recenti acquisizioni della ricerca storica su Gesù di Nàzareth ci ha svelato sin qui tanti affascinanti aspetti poco conosciuti che ci restituiscono un figura coincidente con i tratti di fondo del Gesù che ci è testimoniato dalla grandi tradizioni delle Chiese cristiane. La figura del maestro itinerante, che sceglie la povertà, l’itineranza e l’ospitalità come stile di vita, che guarisce, predica, incontra tutti senza distinzioni, che cerca la fede autentica, che richiama alla coscienza, a valutare ciò che è giusto, è un Gesù che mi piace. Non solo! È anche un Gesù autentico che è bello presentare con semplicità alle donne e agli uomini di oggi.
(Sergio Sbragia)
Vico Equense, 20 gennaio 2013
Paradossalmente gli stessi interrogativi, posti da Gesù in relazione al Battista, possono invece essere rivolti a noi credenti proprio, riguardo alla nostra fede in Gesù di Nàzareth, dalle donne e dagli uomini che incontriamo sulle strade del mondo, ma anche da noi stessi nel silenzio della nostra coscienza, allorquando può capitare di interrogarci sul senso ùltimo della nostra scelta di fede.
Sono interrogativi ineludibili, non possiamo ignorarli rifugiandoci nell’intimismo o nella mera pratica devozionale. Non possiamo esorcizzarli attribuendoli a un astioso, quanto impertinente e intellettualistico, rifiuto a credere, siamo invece chiamati a essere, con entusiasmo e docilità, «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt. 3,15). Rendere ragione di quella speranza che si è installata in noi nel momento stesso in cui, nella nostra vicenda personale, abbiamo liberamente scelto di aderire all’invito rivoltoci da Gesù: «Se vuoi, lascia tutto e sèguimi», è un passaggio necessario da compiere per passare da una fede abitudinaria a una fede consapevole, da una fede che è uno dei tanti aspetti di cui si compone la nostra esistenza (spesso slegati l’uno dall’altro, se non addirittura in reciproca contraddizione), a una fede che sia la prospettiva di fondo che ispira, orienta, unifica e riempie di senso ogni altro aspetto e àmbito della nostra vita.
Allora, per noi, che abbiamo scelto di seguìrlo e di aver fede in lui, chi realmente è Gesù di Nàzareth? Un eroe di un’antica mitologìa? Un’immagine della fantasìa? Un personaggio di una fiaba per bambini? Un imbonitore pubblicitario? Un esperto manipolatore di messaggî subliminali? Una persona che ha condotto una pratica di vita tra lussi e onori? Uno che ha predicato bene e razzolato male? O non, piuttosto, un concreto personaggio storico vissuto nella Palestina del 1. sec. e.v., che, a quanti lo hanno incontrato sulla propria strada, ha proposto di seguìrlo, con un’adesione libera, su un itinerario esistenziale, esigente ma soprattutto entusiasmante.
Gli strumenti dell’odierna metodologìa della ricerca storica permettono un accostamento senza precedenti alla figura di Gesù, che restituisce, con un elevato grado di plausibilità, i tratti di fondo della sua persona umana e della sua pratica di vita. Tutto questo costituisce una solida base di dialogo, per dire “qui e ora”, e in tutta franchezza, il carattere del tutto ragionevole della scelta di fede, che è, sì, un’opzione libera fatta responsabilmente e in autentica autonomìa, ma non è un gesto inconsulto e irrazionale frutto di meri istinti umorali. È una scelta libera, autonoma, non imposta, in cui ciascun uomo o donna, interpellato da un uomo concreto del 1. sec. e non da una fantasìa, decide di rischiare senza riserve la propria esistenza nel seguìrlo.
La ricerca storica su Gesù assume poi una funzione di grande rilievo nello sviluppo di un metodo di aggiornamento teologico proposto con vigore dal Concilio ecumenico Vaticano 2., che viene comunemente definito come “metodo del ritorno alle fonti”. L’applicazione di questo metodo è stata una meravigliosa intuizione dei lavori dei padri conciliari, che permette di ancoràrsi alla più genuina e autentica Tradizione (quella con la “T” maiuscola) per valutare le odierne contingenze nelle quali siamo chiamati ad annunciare il Regno. In questo lavoro di “ritorno alle fonti”, la ricerca sul Gesù storico può offrire un contributo essenziale (ovviamente non unico né esclusivo) al lavoro di attento discernimento tra il nucleo originario del messaggio cristiano e le stratificazioni successive frutto della necessaria inculturazione del messaggio stesso nei diversi contesti storici e culturali.
Da dove nasce l’interesse per l’uomo Gesù?
Riconoscere nella vicenda di Gesù di Nàzareth i segni dell’irruzione del Regno di Dio nella storia del mondo è certamente l’esito di un itinerario di comprensione teologica della realtà, ma questo itinerario ha il suo punto di partenza su un fondamento autenticamente storico, intorno al quale si possono ritrovare anche altri uomini e donne portatori di una diversa ispirazione ideale. È infatti comune constatare un diffuso e ampio interesse intorno a Gesù di Nàzareth, che va ben oltre la cerchia di quanti si definiscono cristiani. Lungo i secoli numerosissimi non-cristiani si sono interessati alla figura di Gesù. Un grande numero di atei, non credenti, filosofi, scienziati, seguaci delle religioni classiche, musulmani, ebrei hanno manifestato e manifestano tutt’ora un interesse nei suoi riguardi, per cui spesso si è ritenuto utile tentare di ricostruire anche la fisionomìa dell’immagine del “Gesù visto dagli altri”, proprio per cercare di comprendere le ragioni di tanto interesse anche da parte di chi in lui non si riconosce.
Fare ricerca storica su Gesù di Nàzareth non risponde infatti a una mera curiosità antiquaria, né è riducibile solo a un intento, pur rispettabile e apprezzabilissimo, di ricostruzione culturale e ideale della sua figura. Non è difficile infatti valutare la differenza in termini di quantità e di varietà di approccio intercorrente tra gli studî dedicati alle figure di divinità classiche, come per esempio Zeus, e quelli rivolti a Gesù di Nàzareth.
A questo proposito, sono profondamente convinto, con Benedetto Croce, che “ogni storia è storia contemporanea”, nel senso che ogni investigazione del passato trova le proprie più profonde radici e le sue più autentiche scaturigini nell’oggi. Se valutiamo con attenzione i fatti, la persona Gesù di Nàzareth, continua a interpellare profondamente le donne e gli uomini di oggi. Sono tantissime le persone che hanno la curiosità di saperne di più, perché in qualche maniera la sua figura costringe tutti a operare nei suoi confronti una scelta esistenziale, fosse anche quella del dissenso o del rifiuto. Di fronte a Gesù sembrano, infatti, abbastanza difficili da assumere solo due atteggiamenti: l’indifferenza e la neutralità.
È oggi possibile una ricerca storica su Gesù?
Non manca chi manifesta un certo scetticismo sull’effettiva possibilità di operare, a tanti secoli di distanza, un’effettiva ricerca storica su Gesù. Ovviamente siamo a circa due millennî dai fatti e sussistono dunque tutte le oggettive difficoltà connesse alla ricostruzione di eventi e processi storici così distanti nel tempo. La ricerca storica tuttavìa non si arrende di fronte a tali ostacoli, tant’è vero che mi sembra che sinora non sia stata abbandonata la ricerca in relazione a nessun periodo storico per quanto remoto questo possa essere. Anzi la metodologìa di ricerca sperimenta di continuo aggiornamenti ed evoluzioni che la pongono in grado di investigare meglio e più ampiamente àmbiti in precedenza del tutto oscuri. Occorre inoltre saper trar frutto anche dalle sempre maggiori acquisizioni non solo di discipline contermini con la vera ‘e propria ricerca storica, quali l’archeologìa (con le sue sempre più numerose campagne di scavi nella regione del Vicino Oriente), la numismatica, la sfragistica, l’epigrafìa ecc., ma anche saper applicare all’oggetto della nostra ricerca anche gli apporti sempre più avanzati delle scienze naturali e sperimentali.
Ma occorre anche saper valutare con il dovuto equilibrio e il necessario rigore critico il contributo squisitamente storico che può derivare dalle tradizioni cristiane. A mio parere, sul piano della critica storica occorre stare in guardia da due derìve contrapposte e pericolose: l’accettazione acritica della fondatezza storica del complesso dei testi evangelici e dell’antìca letteratura cristiana di epoca apostolica o il pregiudiziale rifiuto di riconoscere a questi scritti un qualsivoglia valore storico.
Bisogna in effetti rifuggire dalla sottovalutazione del processo di formazione della memoria evangelica della missione pubblica di Gesù, attribuendo un appropriato, quanto ponderato, riconoscimento storico alla necessaria fase intermedia di raccolta e trasmissione orale dei materiali e del successivo stadio di formazione dei primi documenti scritti confluiti poi nei Vangeli che conosciamo. Allo stesso modo vanno valutate con la massima attenzione le discrepanze e le contraddizioni che non è difficile riscontrare nei testi dei Vangeli, allorché se ne conduce un esame comparato. Le difformità, a mio avviso, non sono un indizio di falsità storica, sono piuttosto la testimonianza di un processo di costruzione della memoria che si è realizzato in un concrete realtà storiche, per opera di concrete comunità credenti poste di fronte alla prova materiale della testimonianza. Trovo molto più plausibile sul piano storico una quadruplice testimonianza, pur con numerosi particolari discordanti, che restituisca nel complesso un’immagine complessiva sostanzialmente concordante della figura di Gesù. Avrei molto meno fiducia dell’effettiva storicità di una pluralità di testimonianze perfettamente coincidenti in tutti i particolari, anche quelli di minore rilevanza. In un tal caso avrei un sorta di fastidiosa sensazione di artificiosità.
La corretta distinzione tra i materiali più plausibilmente riferibili al Gesù storico da quelli da considerare con maggiore approssimazione come il frutto della comprensione post-pasquale della primitiva comunità cristiana, non deve, a mio parere, condurre necessariamente a una svalutazione acritica del valore storico dei contenuti dei materiali afferenti a questo secondo gruppo. Rispetto a essi si rivela necessario un esame spassionato caso per caso, tenendo conto che nella comunità cristiana delle origini la memoria autentica della vicenda terrena di Gesù era oggetto di una venerazione di ordine quasi cultuale, pertanto l’attenzione alla sua “veridicità” era tenuta nella massima considerazione.
Allo stesso tempo occorre anche tener presente come nelle società dove la diffusione del saper leggere e scrivere non aveva conseguìto ancora dimensioni di massa (anche in epoche a noi molto più vicine) fosse riconosciuta una grande considerazione sociale alla trasmissione orale e come a questa venisse dedicata una grande cura per assicurarne le condizioni migliori di esercizio, conservazione e autenticità.
La sfida, che la ricerca storica su Gesù di Nàzareth si trova dinanzi, deve fare i conti con tutti questi aspetti, valorizzando tutte le fonti disponibili (quelle evangeliche, quelle della tradizione cristiana, quelle extra-canoniche, quelle materiali), facendo uso delle metodologìe più accreditate, puntando soprattutto sulla molteplicità di testimonianze indipendenti, sulla ricostruzione fedele del contesto vitale e della concreta pratica di vita abbracciata da Gesù, sull’analisi letteraria dei testi.
Il valore e i limiti delle tradizioni cristiane.
Bisogna inoltre essere consapevoli che la parte preponderante delle memorie su Gesù di Nàzareth ci sono pervenute attraverso la mediazione essenziale delle tradizioni delle comunità cristiane. Senza tale necessaria mediazione, sul mero piano storico, non avremmo probabilmente testimonianza significativa della vicenda umana di Gesù.
Come sappiamo quest’avventura terrena di Gesù, secondo le tradizioni cristiane, ebbe conclusione con la sua ascensione al cielo. Con questo evento ebbe inizio una fase nuova, affidata ai suoi discepoli, che acquisirono coscienza di essere i depositarî delle sorti del regno, secondo le parole di Gesù dette nell’imminenza della morte: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno» (Lc. 12,32). I discepoli si sentirono investiti di uno specifico mandato di Gesù: «tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt. 18,18). Avevano poi acquisito la consapevolezza di godere della perenne compagnìa di Cristo («Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» - Gv. 6,56), nonché del conforto dello Spirito («lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» - Gv. 14,26). Nonostante tutto ciò i discepoli di Gesù restavano tuttavìa uomini immersi nella storia, che dovevano far crescere il regno nella storia, dove nulla è scontato, dove tutto è prova, ricerca, pellegrinaggio, passaggio, attesa del giorno, a tutti ignoto, in cui Dio decreterà la fine dei tempi e Gesù tornerà sulla terra per prendersi la comunità dei giusti e consegnarla al Padre. L’ùltimo momento eccezionale i discepoli – sempre secondo la Rivelazione – lo sperimentarono 50 giorni dopo la Resurrezione, nel dì di Pentecoste, quando si sentirono «colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» (At. 2,4). Successivamente rimasero soli, con la loro verità, di fronte al mondo. Lungo tutta la parabola dei secoli successivi le comunità cristiane sono vissute nella memoria fedele della vicenda di Gesù, nell’attesa della sua nuova venuta e nella testimonianza della sua novità per il destino dell’intera umanità, seguendo un itinerario tortuoso tra prove, errori, cadute di fedeltà, confronti spregiudicati con l’esercizio del potere, ma anche donando alla storia umana innumerevoli esempî di eroica sequela di Gesù e del suo messaggio.
È dunque giusto prestare la dovuta attenzione alla testimonianza che di Gesù danno le varie tradizioni cristiane, nella consapevolezza che esse sono la prima e la più significativa risorsa conoscitiva intorno a Gesù, una conoscenza che presenta anche un’indubbia dimensione storica, avendo cura di tenere sempre ben distinti il diverso piano e il diverso statuto metodologico che contraddistinguono l’“accertamento storico” e l’“accertamento teologico”. Storia e Teologìa hanno molte cose da dirsi e possono arricchirsi reciprocamente, ma né la storia ha una funzione ancillare rispetto alla teologìa, né quest’ultima è da vincolare al solo dato storicamente verificabile (ben sapendo che non tutti gli eventi storici risultano accertabili con i metodi della ricerca storica).
Gesù era un ebreo o un cristiano?
Tra i numerosi interrogativi in cui è possibile imbattersi una volta che ci si incammina sul sentiero della ricerca storica su Gesù, questo probabilmente rientra tra quelli che possono, in apparenza, maggiormente inquietare la coscienza credente. Se esaminiamo i materiali evangelici che più plausibilmente possono essere riferiti alla vicenda itinerante di Gesù, in effetti ne emerge il profilo di una personalità profondamente partecipe, sia pur in forma critica, della pratica cultuale giudaica del suo tempo. Una personalità, semmai, impegnata a evidenziare i tratti più autentici e originarî di tale cultualità, ricercando per ciascun gesto di culto il suo legame autentico con la volontà di Dio. Gesù pertanto, a mio parere, va considerato pienamente un ebreo del suo tempo, un ebreo che tuttavìa richiamava con forza a riscoprire i tratti originarî e autentici del culto, ponendo in decisa discussione pratiche che nella consuetudine ripetitiva e letteralistica finivano per tradire l’autentica volontà di Dio. In definitiva egli era partecipe nella sua autenticità della fede giudaica della quale ambiva recuperare i contenuti originarî.
Non mi sento tuttavìa di condividere l’obiezione di quanti sostengono, che un’autentica sequela di Gesù comporterebbe, non tanto l’essere cristiani, quanto l’adesione all’ebraismo. L’esperienza terrena di Gesù, infatti, anche se coerentemente radicata nella realtà della fede giudaica propone un suo radicale cambiamento di prospettiva, da riorientare in direzione dell’originaria chiamata di Jahwé.
In effetti la preoccupazione di Gesù non sembra essere stata la ricerca, con la fondazione di una nuova religione, di una strada autonoma dal giudaismo dell’epoca, quanto (come ho già evidenziato) la proposta di una profonda maturazione dell’esperienza religiosa giudaica (una proposta di “conversione”). La trasformazione della comunità dei discepoli di Gesù in un’esperienza religiosa autonoma dal giudaismo (processo non immediato che ha interessato un periodo abbastanza prolungato nel tempo) sembra più essere stato il prodotto (forse obbligato) dei successivi contrasti circa la comprensione e l’accettazione del suo insegnamento. Di certo la proposta di Gesù, in teorìa, sarebbe stata declinabile in un contesto giudaico, ma la fede si testimonia non nel chiuso di un asettico laboratorio, ma nel concreto delle controversie storiche, esposti a ogni sorta di contaminazioni e arricchimenti. La separazione delle strade tra giudaismo e cristianesimo si è realizzata concretamente sulle strade della storia, vuoi per il rifiuto di una parte significativa della società giudaica di far proprio il messaggio di Gesù, vuoi per la scelta dei cristiani di seguìre una strada autonoma, vuoi per la necessità di dover fare i conti con il condizionamento storico posto dal domìnio romano.
Nell’analisi storica occorre operare la dovuta distinzione tra la figura dell’iniziatore e la vicenda del successivo movimento storico che da lui ha preso le mosse. Si registra sempre uno iato tra il fondatore e la posteriore tradizione che a lui si richiama, né potrebbe essere altrimenti. Ciò è verificabile tra le figure storiche di Abramo, dei patriarchi e di Mosè e il successivo giudaismo, così come tra Gesù e il Cristianesimo dei secoli posteriori, ma anche, in àmbito non religioso, tra gli iniziatori di una corrente filosofica, artistica, un movimento politico, e le conseguenti concretizzazioni storiche.
Gesù, a mio parere, osservava puntualmente e nella sostanza la legge mosaica. Seguìva le feste, i pellegrinaggî e le pratiche rituali ebraiche. Ne proponeva tuttavìa un’osservanza adulta, attenta alla finalità autentica, che ne aveva determinato l’introduzione. Non solo; introduceva anche, tra le varie pratiche cultuali, una scala di priorità (basti considerare la sua concezione dell’osservanza del sabato). Proponeva infine anche un’evoluzione della legge mosaica, invitando a saper interpretare i segni della volontà di Dio e a universalizzarne la portata.
Nella predicazione, Gesù faceva uso delle ordinarie tecniche argomentative in uso tra i maestri giudaici, e alcune forme argomentative che sembrano segnare ai nostri occhî un segno di forte contrapposizione erano in realtà ampiamente usate nel dibattito intragiudaico. Questo tuttavìa non sminuisce il carattere radicale della proposta di Gesù, che proponeva un’autentica conversione nelle modalità interiori dell’adesione di fede e nella concreta e quotidiana pratica di vita. Una proposta compatibile certo con la fede jawhista (Gesù si presenta come inviato dal Padre per fare la sua volontà), ma non compatibile con le consuete abitudini di vita diffuse e accettate nella società giudaica.
Ritengo comunque quello della piena appartenenza di Gesù alla fede d’Israele un aspetto importantissimo (anche se delicato) del dialogo ebraico-cristiano se si vuol superare il piano di un rapporto (pur importante) di buon vicinato.
La decisività dell’atto di fede.
In numerosi testi evangelici è possibile riscontrare il carattere del tutto decisivo che Gesù riconosce alla scelta di fede compiuta da quanti egli incontra lungo la sua strada. È la fede infatti l’elemento che determina il radicale mutamento della realtà, in alcuni casi anche in dissonanza con l’intenzione esplicita dello stesso Gesù.
Nell’episodio della peccatrice che gli si avvicina in casa di Simone il fariseo (Lc. 7,36-50), Gesù, a conclusione della scena, dice alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va' in pace!» (Lc. 7,50).
Anche nei racconti intrecciati delle guarigioni della figlia di Giàiro e dell’emorroissa (Mc. 5,21-43) emerge con chiarezza il ruolo decisivo dell’atto di fede. Nel caso della donna sofferente di perdite di sangue, Gesù appare addirittura ignaro dell’evento straordinario: «Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: "Chi ha toccato le mie vesti?". I suoi discepoli gli dissero: "Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: "Chi mi ha toccato?""» (Mc. 5,30-31). La donna, invece, dimostra una chiara convinzione di un cambiamento concretamente possibile: «Diceva infatti: "Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata"» (Mc. 5,28). Il racconto trova il suo èsito nelle parole di Gesù: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarìta dal tuo male» (Mc. 5,34). Anche nell’altro racconto caso, Giàiro, autorevole esponente della Sinagoga, mostra una chiara consapevolezza della concreta possibilità di una radicale trasformazione del corso delle cose. Egli, infatti chiede, con “insistenza”, a Gesù di imporre le mani sulla propria figlia, affinché questa possa vivere ed essere salvata fosse salvata e potesse vivere: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva» (Mc. 5,23). Di fronte al successivo tentativo di alcuni degli astanti di distogliere Giàiro dall’insistere nella sua richiesta, Gesù rassicura Giàiro e gli rivolge un chiaro invito in cui risalta con chiarezza l’essenzialità dell’atto di fede: «Non temere, soltanto abbi fede!» (Mc. 5,36).
Anche nel caso della guarigione del cieco sulla strada per Gerico (Lc. 18,35-43), questi mostra una chiara convinzione che Gesù può modificare totalmente le cose e, nonostante l’invito di molti a tacere, lo grida ad alta voce. Gesù riconosce questa cosa, dicendo: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (Lc. 18,42).
Particolarmente significativo è l’episodio della liberazione della figlia di una donna cananea dalla possessione demoniaca (Mt. 15,21-28). Di fronte alla decisa e argomentata insistenza di questa donna cananea, che lo implora di salvare la figlia, Gesù alla fine conclude: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri».
Quest’episodio, oltre a confermare ulteriormente il dato della decisività dell’atto di fede fa anche giustizia della tesi, sostenuta da molti, secondo la quale Gesù non si sarebbe proposto la conversione dei pagani, come potrebbe apparire da varî testi in cui Gesù invita a non predicare ai pagani o esprime valutazioni negative nei loro confronti. Qui invece, di fronte a un chiaro atto di fede, vengono meno tutte le preclusioni e le prevenzioni ostili ai pagani e c’è un atto di Gesù che muta radicalmente l’ordinario corso delle cose. Formalmente non è un atto di “predicazione” in senso proprio, ma è una chiara manifestazione della potenza di Dio. E la rivelazione di tale potenza è fatta di parole e di eventi che non possono meccanicisticamente essere separati in compartimenti stagni.
Ma oltre che con gesti, Gesù sottolinea il carattere decisivo dell’atto di fede anche in contesti di autentico insegnamento; per esempio, in Lc. 17,5-6: «Gli apostoli dissero al Signore: "Accresci in noi la fede!". Il Signore rispose: "Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: "Sràdicati e vai a piantarti nel mare", ed esso vi obbedirebbe”». E anche in Mt. 17,20, dove Gesù esprime con chiarezza lo stesso concetto : «Ed egli rispose loro: "Per la vostra poca fede. In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: "Spòstati da qui a là", ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile"». Ripetutamente Gesù propone la scelta di fede come l’elemento che può determinare l’effettivo cambiamento dell’ordinario procedere delle cose, l’irruzione nella quotidianità del “qui e ora” di un qualcosa che risponde a una logica diversa e alternativa.
Il brano che tuttavìa esprime in una forma plasticamente espressiva il dato della decisività dell’atto di fede è quello dell’episodio di Gesù che cammina sulle acque (Mt. 14,22-33): «Sùbito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: "È un fantasma!" e gridarono dalla paura. Ma sùbito Gesù parlò loro dicendo: "Coraggio, sono io, non abbiate paura!". Pietro allora gli rispose: "Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque". Ed egli disse: "Vieni!". Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: "Signore, salvami!". E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: "Uomo di poca fede, perché hai dubitato?". Appena salìti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: "Davvero tu sei Figlio di Dio!"». Nel brano anche Pietro, nella sua immediata ed entusiastica adesione a Gesù, cammina sulle acque superando così le ordinarie leggi naturali. Quando, poi, subentra una certa insicurezza e la fede in Gesù inìzia a vacillare, Pietro comincia a sprofondare nell’acqua. Si rende così necessario un intervento diretto di Gesù. Dal testo si evìnce con chiarezza quale sia l’elemento risolutivo: quando la fede è piena, Pietro cammina sulle acque e le ordinarie leggi del mondo sono sovvertite, quando la fede è incerta, Pietro sprofonda e la logica del mondo riprende il sopravvento.
Possiamo pertanto concludere che dalla missione terrena di Gesù di Nàzareth emerge con chiarezza che è la fede il dato che fa irrompere nel mondo la logica di Dio.
L’annuncio del Regno di Dio.
Il carattere decisivo della scelta di fede ci aiuta anche nella comprensione della realtà del “Regno di Dio”, che ordinariamente viene presentata come un dato posto in un futuro più o meno ravvicinato, innestando anche una sorta di polemica sul cosiddetto ritardo della Parusìa. Su questo tema non è raro incontrare una certa confusione tra i concetti di “Regno di Dio” e di “Giudizio”, che sono di certo collegati, ma non coincidenti. L’annuncio del “Regno di Dio” è il tema primario della predicazione di Gesù. In essa è ampiamente presente anche la previsione del “Giudizio”. L’identificazione dell’uno con l’altro ha tuttavìa determinato lo spostamento dell’avvento del “Regno di Dio” in una prospettiva futura, anche se ravvicinata. Se la dimensione futura è appropriata per la realtà del “Giudizio”, sta invece abbastanza stretta per quella del “Regno di Dio”. Quando Gesù parla del “Regno di Dio” ne parla come una realtà in atto: «Ma, se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora “è giunto” a voi il regno di Dio» (Mt. 12,28), o, ancòra, «"Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: "Eccolo qui", oppure: "Eccolo là". Perché, ecco, il regno di Dio “è” in mezzo a voi!"» (Lc. 17,20-21). Più che una previsione d’imminenza, nei materiali evangelici è riscontrabile piuttosto l’affermazione che “il Regno di Dio è giunto”. Il Regno è dunque una realtà percepìta come già in atto, già presente, la cui logica è radicalmente diversa (oggi diremmo alternativa) da quella consueta (cf.: “Il mio regno non è di questo mondo, se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”). Una logica che egli propone, a quanti incontra sul proprio cammino, di scegliere liberamente e di praticare nel concreto quotidiano. Circa la previsione del giudizio, il senso d’imminenza, che i testi sembrano evidenziare, a mio parere è da riferirsi più al carattere d’inevitabilità (cf.: “il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà”) che alla immediatezza temporale.
Gesù, nella sua predicazione, annuncia che «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc. 1,15), ma sottolinea, come abbiamo visto, anche che «Se io scaccio i demòni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio» (Mt. 12,28). A innescare l’avvento del “Regno di Dio” è dunque la conversione e la scelta di fede. È attraverso la fede che è dunque possibile far entrare nella storia la logica del Regno di Dio, che non è di questo mondo, che tuttavìa “è vicino”, è a portata di mano, può dipendere dall’operare “qui e ora” la scelta giusta. Nel momento in cui si compie l’autentica scelta di fede si determina un’intersezione storica tra il piano della vita terrena e quello del Regno di Dio, si verifica una radicale inversione di orientamento nella vita delle persone, e possono divenire possibili cose che sono al di fuori della logica ordinaria del mondo.
Ne derivano anche delle conseguenze sulla comprensione piena della realtà della “chiamata” che Gesù rivolge a quanti incontra sulla propria strada. L’invito a seguìrlo è posto senza condizioni, chiede di lasciare tutto e di porsi al suo sèguito. Gesù ha tuttavìa anche discepoli che hanno mantenuto la propria condizione nel mondo, come, per esempio, Marìa, Marta e Làzzaro di Betània (personaggî non di secondo piano, ai quali Gesù era legato da forti sentimenti di amicizia). Dai materiali evangelici non risulta una delimitazione ai soli giovani, o a quanti erano in grado di poterla operare, della proposta di seguìrlo in forma itinerante e totale. Né risulta che Gesù abbia evitato di rivolgerla ad anziani o a chi avesse da sostentare la famiglia. È piuttosto ogni forma di casistica a essere del tutto estranea alla predicazione di Gesù. Ciò che invece è chiaro che Gesù chiede a quanti vogliono seguìrlo di farlo in forma libera, ma autentica e piena: «Gli disse Gesù: «"Se vuoi” essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!» (Mt. 19,21). Quanto però alle forme concrete con cui incarnare una tale sequela, Gesù lascia ai suoi discepoli il compito di discernere l’autentico carattere dell’itinerario da compiere al sèguito di Gesù «perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?» (Lc. 12,57).
Il valore espiatorio e salvifico della morte di Gesù.
Da più parti si sottolinea che dalla ricerca storica su Gesù di Nàzareth emerge la sostanziale assenza di una valutazione del carattere espiatorio e salvifico della sua morte, di conseguenza tutta la successiva comprensione teologica sul tema avrebbe un’origine esclusivamente paolina e sarebbe priva di riscontri nei materiali evangelici più direttamente riferibili all’esperienza storica di Gesù. È certo che in un tale sforzo di comprensione ha ricoperto un grande ruolo la riflessione di Paolo di Tarso, ma allo stesso tempo non si può negare che la ricerca di una valutazione sulla morte e resurrezione nel quadro dei materiali evangelici più direttamente riferiti alla missione itinerante di Gesù sfugga in gran parte allo statuto metodologico della ricerca storica. L’esperienza storica di Gesù, almeno quella parte investigabile con gli strumenti della ricerca storica, ha il suo termine sul calvario. I racconti di resurrezione (sia quelli che i testi pongono dopo la sepoltura, sia quelli che incontriamo ben prima della resurrezione, come, per esempio, la trasfigurazione), sfuggono per loro stessa natura agli strumenti della ricerca storica. Sono ùtili su questo piano per ricostruire elementi storici riguardanti i discepoli e la primitiva comunità cristiana, lo sono molto meno per la figura storica di Gesù. Sono invece una grande testimonianza della comunitaria comprensione post-pasquale degli eventi. Penso che un aiuto maggiore alla loro comprensione possa derivare dai metodi dell’esegesi narrativa.
Non bisogna dimenticare che nell’analisi dei testi evangelici e del loro grado di plausibilità storica, la metodologìa storica abbia con ragione escluso dal novero dei testi più evidentemente riconducibili al Gesù storico, quelli che presentavano riferimenti alla sua futura morte, per il loro presumibile carattere di storia raccontata sotto forma di profezìa. Se una tale scelta è giusta (e, a mio avviso, lo è), sarebbe consigliabile non trarre conclusioni sulla visione che Gesù aveva della propria morte, in quanto si viene a determinare una sorta di “corto circuito metodologico”, i risultati sarebbero inevitabilmente condizionati dagli “strumenti di laboratorio” usati.
Come è bello ricercare su Gesù.
Non è senza significato, infine, che in un quadro di sostanziale contrazione degli spazî e delle energie dedicati agli studî di carattere umanistico, si registri oggi nell’àmbito accademico internazionale il fiorire di inedite iniziative di ricerca storica sulla figura di Gesù di Nàzareth. Parlare di Gesù, ricercare intorno alla sua persona, cercare di comprendere il più possibile della sua vicenda storica, sono esigenze connaturate alla scelta di fede. È naturale che quanti nella propria vita hanno scelto di seguìre Gesù, aspirino a conoscere il più possibile della sua persona e della sua vicenda. Certamente in questa scelta sarà anche possibile imboccare strade sbagliate o vicoli ciechi, ma l’esperienza delle più recenti acquisizioni della ricerca storica su Gesù di Nàzareth ci ha svelato sin qui tanti affascinanti aspetti poco conosciuti che ci restituiscono un figura coincidente con i tratti di fondo del Gesù che ci è testimoniato dalla grandi tradizioni delle Chiese cristiane. La figura del maestro itinerante, che sceglie la povertà, l’itineranza e l’ospitalità come stile di vita, che guarisce, predica, incontra tutti senza distinzioni, che cerca la fede autentica, che richiama alla coscienza, a valutare ciò che è giusto, è un Gesù che mi piace. Non solo! È anche un Gesù autentico che è bello presentare con semplicità alle donne e agli uomini di oggi.
(Sergio Sbragia)
Vico Equense, 20 gennaio 2013
Nessun commento:
Posta un commento