domenica 5 maggio 2013

Gesù, la donna samaritana e «i Giudèi» (4,1-45)



Gesù, la donna samaritana e «i Giudèi» (4,1-45)


«Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: "Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni" - sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli -, lasciò allora la Giudèa e si diresse di nuovo verso la Galilèa. Doveva perciò attraversare la Samarìa.
Giunse così a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c'era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: "Dammi da bere". I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: "Come mai tu, che sei Giudèo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?". I Giudèi infatti non hanno rapporti con i Samaritàni. Gesù le risponde: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva". Gli dice la donna: "Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest'acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figlî e il suo bestiame?". Gesù le risponde: "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna". "Signore - gli dice la donna -, dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua". 16Le dice: "Va' a chiamare tuo marito e ritorna qui". Gli risponde la donna: "Io non ho marito". Le dice Gesù: "Hai detto bene: "Io non ho marito". Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero". Gli replica la donna: "Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare". Gesù le dice: "Credimi, donna, viene l'ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi. Ma viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità". Gli rispose la donna: "So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa". Le dice Gesù: "Sono io, che parlo con te".
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavìa disse: "Che cosa cerchi?", o: "Di che cosa parli con lei?". La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?". Uscirono dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: "Rabbì, mangia". Ma egli rispose loro: "Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete". E i discepoli si domandavano l'un l'altro: "Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?". Gesù disse loro: "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: "Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura"? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhî e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l'altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica".
Molti Samaritàni di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: "Mi ha detto tutto quello che ho fatto". E quando i Samaritàni giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: "Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo".
Trascorsi due giorni, partì di là per la Galilèa. Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. Quando dunque giunse in Galilèa, i Galilèi lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch'essi infatti erano andati alla festa» (4,1-45).

In questo brano il riferimento a «i Giudèi» e alla «Giudèa» ricorre più volte, al v. 3, al v. 9 (due volte) e al v. 22, e indirettamente al v. 20.
Nel primo caso (v. 2) il riferimento alla «Giudèa» ha apparentemente un carattere meramente geografico. Gesù ha la necessità di tornare nella propria terra d’origine, la Galilèa, e per compiere questo viaggio deve lasciare la Giudèa e attraversare la Samarìa.
Nel secondo caso (la prima ricorrenza al v. 9) addirittura è Gesù stesso a essere qualificato come «Giudèo» dalla donna samaritana, sua interlocutrice. Nel terzo caso (la seconda ricorrenza al v. 9), si parla de «i Giudèi» in una nota esplicativa del narratore. In questi due casi l’espressione sembra rivestire una valenza prevalentemente religiosa.
Nel quarto caso (la ricorrenza al v. 22) l’espressione «i Giudèi» è posta sulle labbra di Gesù stesso, che sottolinea come la salvezza provenga dai Giudèi e colloca se stesso e i suoi discepoli nell’àmbito del gruppo de «i Giudèi» («noi adoriamo ciò che conosciamo», 4,22). Anche qui sembra fuori di dubbio una comprensione prevalentemente religiosa dell’espressione «i Giudèi».
Nel quinto caso (v. 20) la donna samaritana, indirettamente con l’uso del pronome “voi”, comprende nuovamente Gesù nel gruppo dei Giudèi.
Tutti questi richiami a «i Giudèi» ricorrono in realtà nell’àmbito di un dialogo intercorso tra Gesù e una donna samaritana avvenuto presso il pozzo di Giacobbe, nelle vicinanze della città di Sicar, in Samarìa, nel corso di un viaggio dalla Giudèa alla Galilèa. Sembra pertanto opportuno premettere alla nostra riflessione un breve richiamo allo stato dei rapporti, all’alba dell’e.v., tra Giudèi e Samaritàni e tra Giudèi e tutte le altre popolazioni della terra ‘Israele.
Due sono i fattori che presiedono al contesto relazionale presupposto dal brano in esame e, in genere, a quel sentimento di centralità/superiorità che i Giudèi avvertivano nei rapporti con le altre popolazioni della terra d’Israele.
In primo luogo un sentimento di esclusivismo che vedeva nelle popolazioni della Giudèa, nei ritornati dall’esilio e nei loro discendenti, il nucleo più autentico del popolo ebraico e i veri depositarî della fede jahwista. Di qui ne deriva una netta distinzione tra i Giudèi (discendenti del Regno di Giuda) e gli altri israeliti (discendenti del Regno d’Israele), come, ad esempio, i Galilèi.
Questo senso di superiorità è chiaramente espresso, per esempio, in Gv. 7,52, dove i farisei rispondono a Nicodèmo, dicendo: «Sei forse anche tu della Galilèa? Studia, e vedrai che dalla Galilèa non sorge profeta!» (Gv. 7,52). Dal tono dell’affermazione è chiaramente deducibile un’esplicita nota di disprezzo rivolta nei confronti delle popolazioni della Galilèa, che pur con i Giudèi condividevano la medesima appartenenza alla discendenza di Abramo, Isacco e Giacobbe e anche la stessa sensibilità religiosa jahwista polarizzata sulla funzione centrale del culto del tempio di Gerusalemme.
In secondo luogo va rimarcata una nettissima contrapposizione con le popolazioni della Samarìa. Ordinariamente vengono considerati Samaritàni i discendenti di quanti, tra le popolazioni del regno settentrionale di Israele, restarono in patria sfuggendo alle deportazioni operate dagli Assiri dopo la loro conquista della Samarìa nel 721 a.e.v. In quest’area gli Assiri, in luogo della quota di popolazione israelita deportata, insediarono forzatamente popolazioni pagane di varia provenienza, a loro volta deportate a sèguito di vicende belliche anti-assire. Nei secoli successivi si verificarono necessariamente tra queste popolazioni di origine diversificata fenomeni di relazioni di vicinato, di integrazione economico-sociale, di convivenza e, finanche, di fusione, secondo un classico processo di assimilazione delle componenti straniere ad opera delle numericamente prevalenti popolazioni originarie della regione.
Gli ebrei Samaritàni diedero tuttavìa prova di una particolare e rigorosa sensibilità religiosa intesa a conservare il culto di Jahwé, con la costruzione di un tempio, separato da quello di Gerusalemme e posto sul Monte Garizim, ove officiavano sacerdoti discendenti di Aronne, ma anche con la stretta osservanza dei precetti mosaici, descritti nel Pentateuco.
In effetti i Samaritàni si consideravano autentici discendenti di Abramo ed eredi dell’alleanza con Jahwé ed avevano una propria raccolta di Scritture sacre, denominata Pentateuco samaritano, in gran parte coincidente con l’Esateuco giudaico (Pentateuco + Giosuè). Ove sono, però, presenti significative varianti nei luoghi in cui si evidenziano il ruolo e le prerogative del tempio di Gerusalemme, o, per contro, quelle del tempio del Garizim.
Gli ebrei della Giudèa, fortemente influenzati dalla tradizione del regno di Giuda quale più autentica espressione della fede jahwista e dell’identità nazionale ebraica, nonché dalla visione religiosa espressa dalla componente dei rientrati dall’esilio, consideravano i Samaritàni (e in genere quanti erano rimasti nel paese) come scismatici, stranieri, pagani e impuri.
Per i Samaritàni, invece, erano proprio i Giudèi a essere devianti rispetto alla vera fede.
Di sicuro la parabola storica di questa contrapposizione giudaico-samaritana ha radici profonde e un’evoluzione oscillante tra espressioni e fattori di comune riconoscimento di appartenenza a una medesima realtà storico-religiosa e ricorrenti esplosioni di contrapposizione radicale.


Il viaggio di Gesù (vv. 1-6a)

«Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: "Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni" - sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli -, lasciò allora la Giudèa e si diresse di nuovo verso la Galilèa. Doveva perciò attraversare la Samarìa.
Giunse così a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c'era un pozzo di Giacobbe» (4,1-6a).

Alla luce di queste considerazioni il viaggio intrapreso da Gesù, da Gerusalemme alla volta della Galilèa, non va considerato un semplice spostamento geografico. Lungo la strada da percorrere era gioco forza dover entrare in relazione con gruppi umani diversificati per appartenenza etnica e per sensibilità religiosa e si rivelava necessario avere la capacità di saper entrare in contatto con essi, se non altro per potersi approvvigionare di cibo e bevande. La scena che ci interessa si svolge nei pressi della città di Sicar (probabilmente coincidente con l’antica Sichem, dove Giacobbe acquistò un campo ed eresse un altare a El, Dio d’Israele – cf. Gen. 33,18-20: « Giacobbe arrivò sano e salvo alla città di Sichem, che è nella terra di Canaan, al ritorno da Paddan-Aram e si accampò di fronte alla città. Acquistò dai figlî di Camor, padre di Sichem, per cento pezzi d'argento, quella porzione di campagna dove aveva piantato la tenda. Qui eresse un altare e lo chiamò "El, Dio d'Israele"»).


«Dammi da bere» (vv. 6b-9)

«Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: "Dammi da bere". I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi.  Allora la donna samaritana gli dice: "Come mai tu, che sei Giudèo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?". I Giudèi infatti non hanno rapporti con i Samaritani» (4,6b-9). 

Gesù ha la necessità di dover sostare in questo luogo nei pressi del pozzo di Giacobbe per riposare dalla stanchezza del viaggio, mentre i suoi discepoli sono andati in cerca di cibo (cf. successivo v. 8).
Il dialogo tra Gesù e una donna Samaritana si svolge attraverso più scambî di battute.
È proprio Gesù a dare avvio al dialogo. Si rivolge alla donna samaritana chiedendole da bere. La richiesta di Gesù desta meraviglia nella donna («Come mai tu, che sei Giudèo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?», 4,9). A dire la verità i motivi che nel gesto di Gesù di rivolgerle la parola potevano destare meraviglia era sostanzialmente due: il rivolgersi a una donna e il rivolgersi a una donna per giunta samaritana. La donna interpellata pone tuttavìa l’accento soprattutto su questo secondo aspetto (i discepoli, per contro, come si può vedere al successivo v. 27, saranno soprattutto sorpresi dal suo conversare con una donna).
La donna invece, come si è evidenziato, è colpita dall’irrituale gesto di Gesù di rivolgersi a lei quale esponente del gruppo dei Samaritàni. Attraverso la semplice richiesta di acqua da bere rivolta alla donna, Gesù entra in relazione con i Samaritàni. Questo gesto appare agli occhî della donna innovativo. Ella definisce Gesù un Giudèo, nonostante in realtà egli fosse un Galilèo. Pur in presenza di sentimenti discriminatori o esclusivisti nei rapporti tra Giudèi e Galilèi, dalla prospettiva di un osservatore samaritano, una prospettiva esterna alla sensibilità religiosa dello jawhismo giudaico, risultava con ogni probabilità difficile cogliere la distinzione tra un Giudèo e un Galilèo, comunemente considerati egualmente estranei alla sensibilità religiosa dell’jawhismo samaritano. Il narratore, preoccupato di rendere il contesto chiaramente comprensibile ai proprî lettori, immediatamente fornisce una spiegazione della meraviglia della donna, ricordando l’uso dei Giudèi di non intrattenere rapporti con i Samaritàni. È significativo tuttavìa che egli tralasci di porre in evidenza che Gesù in realtà fosse Galilèo.
L’iniziativa di Gesù desta dunque lo stupore della donna («Come mai tu, che sei Giudèo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?», 4,9). Lo stupore è il primo atteggiamento che l’incontro con Gesù determina in quanti si pongono nei suoi confronti in maniera non prevenuta.


L’acqua viva (vv. 10-15):

«Gesù le risponde: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva". Gli dice la donna: "Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest'acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figlî e il suo bestiame?". Gesù le risponde: "Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna". "Signore - gli dice la donna -, dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua"» (4,10-15). 

Gesù prosegue il dialogo rispondendo alla donna e chiarendo la differenza tra l’acqua comune, come quella del pozzo, e l’acqua viva che solo egli può dispensare. Ritorna qui il tema dell’acqua che abbiamo già incontrato nei precedenti brani della testimonianza di Giovanni, del miracolo di Cana e del colloquio con Nicodèmo. Qui tuttavìa si registra un’indubbia evoluzione del contenuto del discorso, si definisce l’identità di chi può essere il dispensatore di quest’acqua viva.
Nel primo brano, quello della testimonianza di Giovanni (1,19-28), il tema dell’acqua ricorre sulle labbra di Giovanni, che ci tiene a distinguere tra la sua missione che quella di battezzare nell’acqua e quella di un personaggio confuso nella folla degli ascoltatori, la cui dignità è decisamente superiore tanto che lo stesso Giovanni non si ritiene degno di slegargli il laccio del sandalo (cf. 1,26-17: « Giovanni rispose loro: "Io battezzo nell'acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo"»).
Nel secondo brano, quello riguardante il miracolo di Cana (2,1-11), l’acqua costituisce l’oggetto stesso del miracolo. Viene così posta in luce la speciale capacità di Gesù di mutare la natura materiale dell’acqua, che da semplice materia dei riti e delle pratiche di purificazione acquista una nuova natura capace di rispondere a nuove esigenze più alte e autenticamente salvifiche (il vino derivante dall’acqua rinvia al sangue che sarà lo strumento più autentico della salvezza portata da Gesù), cf. 2,7-9: «E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le anfore"; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: "Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto". Ed essi gliene portarono. Come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto - il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l'acqua - chiamò lo sposo».
Nel terzo brano, quello del colloquio con Nicodèmo (3,1-15: «Rispose Gesù: "In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito»), il riferimento all’acqua è posto in parallelo a un riferimento allo Spirito (cf. 3,5-6). Gesù con un’affermazione solenne individua nella rinascita dall’acqua e dallo Spirito la condizione per l’ingresso nel regno di Dio, perché sussiste una radicale differenza tra ciò che deriva dalla carne e ciò che deriva dallo Spirito. L’acqua da puro strumento per riti, comunque significativi per la religiosità giudaica, di penitenza (come in Giovanni il Battista) e di purificazione (cui si è fatto riferimento nel miracolo di Cana), entra qui in un’autentica quanto misteriosa relazione con lo Spirito, che la rende capace di aprire le porte del regno di Dio, capacità implicitamente simboleggiata dalla trasformazione subìta dall’acqua nel miracolo di Cana.
Nel colloquio con la Samaritana Gesù chiarisce di essere proprio lui il dispensatore di quest’acqua viva che, a differenza di quella comune, ha la capacità di dissetare in maniera permanente e definitiva.
Il colloquio si evolve in una maniera molto interessante: Gesù, di fronte allo stupore della donna per il fatto che le fosse stata rivolta la parola, le fa notare che se ella si stupisce per il solo essere interpellata, molto più grande potrà essere il suo stupore se conoscesse la vera identità di colui che le sta parlando. In tal caso la polarità della relazione sorta nel loro dialogo subirebbe una radicale inversione di direzione. La donna assumerebbe il ruolo di colei che chiede da bere. A questa affermazione, in effetti, la donna reagisce con ancora maggiore stupore, combattuta a dire il vero tra una comprensione meramente materiale del discorso e un nebuloso presentimento di qualcosa di più, che però non riesce a comprendere. Di qui la sua reazione: «non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest'acqua viva?», ma sùbito si insinua in lei anche un dubbio, che ha una sua implicita componente religiosa «Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe?». In questa minuscola breccia Gesù introduce un’ulteriore manifestazione della propria identità («Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» - 4,13-14). L’acqua del pozzo può dissetare solo temporaneamente, l’acqua dispensata da Gesù, invece, disseta per l’eternità. Essa, inoltre, nella persona che la riceve si trasforma in una sorgente di acqua zampillante per la vita eterna. Ne deriva, quindi, che quest’acqua assume una valenza di natura salvifica.
Di fronte a queste affermazioni di Gesù, la donna samaritana abbandona allora le sue difese, non si nasconde più dietro ai dubbî sulla grandezza di Gesù («Sei forse più grande del nostro padre Giacobbe» – 4,12) e si affida a Gesù dicendo «Signore, dammi quest'acqua» (4,15), ma questa sua adesione a Gesù reca comunque ancora una valutazione di ordine pratica materiale («non continui a venire qui ad attingere acqua» – 4,15).


«Va' a chiamare tuo marito» (vv. 16-20)

«Le dice: "Va' a chiamare tuo marito e ritorna qui". Gli risponde la donna: "Io non ho marito". Le dice Gesù: "Hai detto bene: "Io non ho marito". Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero". Gli replica la donna: "Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare"» (4,16-20).

Gesù sembra cambiare argomento, dicendo alla donna («Va' a chiamare tuo marito e ritorna qui» – 4,16). Questo invito di Gesù colpisce profondamente la donna, la quale non può che dire la verità («Io non ho marito» – 4,17). Gesù dà atto alla donna di aver detto la verità («Hai detto bene: "Io non ho marito". Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero» – 4,17b-18). La donna allora riconosce a Gesù, suo interlocutore, di avere una dignità profetica («Signore, vedo che tu sei un profeta» – 4,19b), ma reintroduce il tema religioso del conflitto tra Giudèi e Samaritàni, richiamando il tema del luogo centrale del culto, con quel («voi invece dite…» – 4,20) la donna individua nuovamente, sia pur in maniera indiretta, Gesù come un Giudèo. Ciò induce a pensare che la Samarìa, geograficamente passaggio obbligato per quanti dalla Giudèa intendevano raggiungere la Galilèa e viceversa per quanti da questa volevano recarsi in Giudèa. Doveva pertanto essere abbastanza consueto per i Samaritàni l’incontro con Giudèi e Galilèi (intesi come identità etniche). Anzi, tenendo conto dell’uso diffuso dei pellegrinaggî a Gerusalemme, doveva essere più frequente il passaggio di Galilèi diretti a o provenienti da Gerusalemme, piuttosto che quello di Giudèi intesi in senso etnico. E non doveva essere difficile distinguere tra un Giudèo e un Galilèo. Ciò premesso l’individuazione da parte della samaritana di Gesù come Giudèo e non come Galilèo, va pertanto verosimilmente ricondotta a un riconoscimento non di natura etnica, quanto di natura eminentemente religiosa. Il che dà chiaramente conto di quale fosse la percezione comune della rilevanza del conflitto tra Giudèi e Samaritàni sulla centralizzazione del culto a Gerusalemme.


Adoreranno il Padre in spirito e verità (vv. 21-24)

«Gesù le dice: "Credimi, donna, viene l'ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi. Ma viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità"» (4,21-24).

Gesù risponde portando il discorso sulle caratteristiche più autentiche che devono contraddistinguere il culto a Dio. Il discorso di Gesù si dipana secondo uno svolgimento molto interessante. Il punto di partenza del suo discorso è un invito alla fede, rivolto alla donna («Credimi, donna…», v. 21). Il passaggio successivo è dato dall’annuncio di un imminente e sostanziale mutamento nelle caratteristiche del culto («viene l’ora», v. 21). Gesù annuncia alla donna che è vicina l’ora in cui non saranno più sufficienti le tradizionali pratiche di culto, né quelle in uso tra i Samaritàni, né quelle dei Giudèi («né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre», v. 51). Nell’annunciare questo incipiente mutamento delle caratteristiche del culto, Gesù opera tuttavìa un riconoscimento del valore del culto praticato sia dai da Samaritàni che dai Giudèi. Nei vv. 21-22 il culto samaritano e quello giudaico vengono paragonati [per quanto riguarda i Samaritàni:(«su questo monte… voi adorate ciò che non conoscete»), in riferimento ai Giudèi («a Gerusalemme… noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi »)], con un riconoscimento della superiorità del culto giudaico, rispetto a quello samaritano, senza tuttavìa operare una svalutazione di questo. Gesù, parlando del culto samaritano dice «su questo monte… voi adorate ». L’uso del verbo «adorare», implica la considerazione di un atteggiamento, sia pur imperfetto, ma autenticamente religioso e di fede.
Per quanto riguarda il culto giudaico, qui entriamo nel pieno del nostro tema, Gesù si coinvolge pienamente al suo interno («a Gerusalemme… noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi»). Gesù si ritiene pienamente coinvolto nella tradizione religiosa giudaica, sia per l’uso del pronome “noi”, sia per l’esplicito riconoscimento che la salvezza perviene attraverso i Giudèi [È questo uno dei pochissimi luoghi, se non l’unico, in cui il riferimento a “i Giudèi” è posto esplicitamente sulla bocca di Gesù]. Ma anche questa forma di culto è giudicata insufficiente perché «viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (v. 23). Gesù si mostra profondamente esigente rispetto alle forme cultuali, richiede a ciascuna di esse un processo di crescita e di maturazione in direzione di una profonda autenticità. Non sono i luoghi, né gli oggetti, né le forme esteriori, ciò che conta è l’autenticità dell’adesione a Dio, l’autenticità della fede. La fede che chiede Gesù deve essere commisurata a Dio, l’atto di adorazione deve pertanto essere confrontato con la realtà ultima di Dio: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (v. 24). Qui Gesù richiama implicitamente la propria relazione unica con il Padre, che manifesterà esplicitamente solo in 14,9-11(«Gli rispose Gesù: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: "Mostraci il Padre"? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse»).Gesù risponde portando il discorso sulle caratteristiche più autentiche che devono contraddistinguere il culto a Dio. Il discorso di Gesù si dipana secondo uno svolgimento molto interessante. Il punto di partenza del suo discorso è un invito alla fede, rivolto alla donna («Credimi, donna…», v. 21). Il passaggio successivo è dato dall’annuncio di un imminente e sostanziale mutamento nelle caratteristiche del culto («viene l’ora», v. 21). Gesù annuncia alla donna che è vicina l’ora in cui non saranno più sufficienti le tradizionali pratiche di culto, né quelle in uso tra i Samaritàni, né quelle dei Giudèi («né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre», v. 51). Nell’annunciare questo incipiente mutamento delle caratteristiche del culto, Gesù opera tuttavìa un riconoscimento del valore del culto praticato sia dai da Samaritàni che dai Giudèi. Nei vv. 21-22 il culto samaritano e quello giudaico vengono paragonati [per quanto riguarda i Samaritàni:(«su questo monte… voi adorate ciò che non conoscete»), in riferimento ai Giudèi («a Gerusalemme… noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi »)], con un riconoscimento della superiorità del culto giudaico, rispetto a quello samaritano, senza tuttavìa operare una svalutazione di questo. Gesù, parlando del culto samaritano dice «su questo monte… voi adorate ». L’uso del verbo «adorare», implica la considerazione di un atteggiamento, sia pur imperfetto, ma autenticamente religioso e di fede.
Per quanto riguarda il culto giudaico, qui entriamo nel pieno del nostro tema, Gesù si coinvolge pienamente al suo interno («a Gerusalemme… noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi»). Gesù si ritiene pienamente coinvolto nella tradizione religiosa giudaica, sia per l’uso del pronome “noi”, sia per l’esplicito riconoscimento che la salvezza perviene attraverso i Giudèi [È questo uno dei pochissimi luoghi, se non l’unico, in cui il riferimento a “i Giudèi” è posto esplicitamente sulla bocca di Gesù]. Ma anche questa forma di culto è giudicata insufficiente perché «viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (v. 23). Gesù si mostra profondamente esigente rispetto alle forme cultuali, richiede a ciascuna di esse un processo di crescita e di maturazione in direzione di una profonda autenticità. Non sono i luoghi, né gli oggetti, né le forme esteriori, ciò che conta è l’autenticità dell’adesione a Dio, l’autenticità della fede. La fede che chiede Gesù deve essere commisurata a Dio, l’atto di adorazione deve pertanto essere confrontato con la realtà ultima di Dio: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (v. 24). Qui Gesù richiama implicitamente la propria relazione unica con il Padre, che manifesterà esplicitamente solo in 14,9-11(«Gli rispose Gesù: "Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: "Mostraci il Padre"? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse»).


«Sono io» (vv. 25-26)

«Gli rispose la donna: "So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa". Le dice Gesù: "Sono io, che parlo con te"» (4,25-26).

All’esigenza posta da Gesù di un salto di qualità nella pratica cultuale, la donna risponde richiamando la propria tradizione religiosa e l’attesa messianica che la caratterizza, esplicitando allo stesso tempo come ella si aspetti il pieno disvelamento della realtà divina alla venuta del Messìa. A questa affermazione della donna Gesù rivela, per la prima volta nel “Vangelo di Giovanni», la propria dignità messianica: «Sono io, che parlo con te» (v. 26).
Qui il dialogo, in senso proprio, tra Gesù e la donna samaritana ha termine. I successivi vv. 27-45 descrivono in realtà eventi a esso posteriori.


I discepoli, la donna e i Samaritani (vv. 27-38)

«In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavìa disse: "Che cosa cerchi?", o: "Di che cosa parli con lei?". La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?". Uscirono dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: "Rabbì, mangia". Ma egli rispose loro: "Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete". E i discepoli si domandavano l'un l'altro: "Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?". Gesù disse loro: "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: "Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura"? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhî e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l'altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica"» (4,27-38).

Il dialogo è terminato, ma in questi vv. vediamo una stupenda applicazione della tecnica narrativa dell’embricatura dove racconti vicini vengono parzialmente sovrapposti. Si intrecciano infatti il racconto del nuovo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli, nel frattempo sopraggiunti sulla scena, e quello del ritorno della donna alla propria città e del suo riferire quanto avvenuto ai suoi concittadini. Qui si fondono una dimensione episodica del racconto e una dimensione configurante della narrazione, l’attenzione del lettore è contemporaneamente attratta, da un lato, sul versante della rappresentazione lineare degli episodî e, dall’altro, dallo sforzo di comprendere nella successione degli eventi la loro totalità significante[1].
L’evangelista passa a dar conto dell’arrivo dei discepoli sulla scena del dialogo tra Gesù e la Samaritana e pone in evidenza la loro meraviglia per averlo trovato a discorrere con una donna, il che mostra come i discepoli fossero pienamente partecipi della concezione dei rapporti uomo-donna dominante nel mondo giudaico, concezione che Gesù, con il suo comportamento in varî racconti evangelici, ha più volte dimostrato di aver ampiamente superato (v. 27: «In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: "Che cosa cerchi?", o: "Di che cosa parli con lei?"»). Dopo aver riferito del sopraggiungere dei discepoli, l’evangelista riporta la propria attenzione sulla donna, che, conquistata dall’incontro con Gesù non può evitare di rendere partecipi dell’evento i suoi concittadini, i quali, sulla parola della donna, lasciano tutto e si pongono in camminano per incontrare Gesù (vv. 28-30: «La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?". Uscirono dalla città e andavano da lui»). Ma l’attenzione dell’evangelista narrante ritorna nuovamente al luogo dove Gesù è restato con i suoi discepoli, che pone in evidenza come, sull’invito banale e ordinario dei discepoli a mangiare qualcosa, sia pur dettato da un sentimento di umana sollecitudine, Gesù colga l’occasione per segnare un ulteriore progresso nella sua opera rivelatrice. Un’azione rivelatrice che si realizza attraverso la forma di un breve dialogo con i discepoli (vv. 31-38). All’invito a magiare qualcosa, Gesù risponde di aver da mangiare un altro cibo (vv. 31-32: « Intanto i discepoli lo pregavano: "Rabbì, mangia". Ma egli rispose loro: "Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete"»). I discepoli, che non percepiscono il doppio livello del discorso di Gesù, restano sul mero terreno materiale e si chiedono se, durante la loro assenza, Gesù abbia ricevuto del cibo da qualcun altro (v. 33: « E i discepoli si domandavano l'un l'altro: "Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?"»). Gesù allora precisa che il suo vero cibo consiste nel compiere la volontà di colui che lo ha mandato e nel realizzare la sua opera (v. 34: « Gesù disse loro: "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»), ma sùbito opera una breve digressione inerente lo stile di vita che egli richiede ai suoi discepoli e a quanti liberamente decidono di seguirlo (vv.35-38: «Voi non dite forse: "Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura"? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhî e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l'altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica"»). Il riferimento implicito, sotteso a questi vv., può essere rintracciato in 20,21 («Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi"»). Difatti il parallelo che Gesù istituisce tra la missione che egli ha ricevuto dal Padre e quella che egli conferisce a quanti scelgono di seguirlo, costituisce il presupposto di un altro parallelo: se il suo cibo autentico è fare la volontà del Padre, che lo ha mandato, e compiere la sua opera, l’autentico nutrimento dei suoi discepoli sarà allora fare la sua volontà e realizzare la sua opera (raccogliere ciò che da lui è stato seminato – cf. vv. 36-37). Ma per fare ciò, Gesù richiede ai suoi discepoli l’assunzione di un atteggiamento particolare, connotato da una disposizione strutturale alla comprensione dell’autentica volontà di Dio. Per facilitare la comprensione di questo aspetto da parte dei discepoli, Gesù ricorre a un concetto caratteristico del mondo agricolo che distingue il buon agricoltore dal cattivo. L’attività agricola è infatti profondamente influenzata dalle condizioni meteorologiche, che nell’alternarsi delle stagioni non si ripetono mai in maniera uniforme e perfettamente ripetibile. Per esempio, una delle attività più delicate dell’agricoltore sta nel decidere il momento giusto del raccolto. Scegliere di anticiparlo, può per un verso consentire di evitare i danni di un possibile maltempo, ma di converso può implicare il doversi contentare di un prodotto non ancora giunto a piena maturazione. Scegliere, al contrario, di procrastinarlo con l’intento di portare il prodotto a piena maturazione, aumenta di conseguenza il rischio di incorrere in improvvisi temporali con la conseguente perdita di parte del raccolto. All’agricoltore è quindi richiesta una particolare sensibilità, che non è stabilita in alcun manuale, che consiste nel saper leggere i segni delle condizioni atmosferiche e nel saper programmare l’attività giusta al momento giusto. Una sensibilità analoga viene richiesta da Gesù ai suoi discepoli, saper discernere in ogni situazione qual è l’autentica volontà di Dio (v. 35). Ai discepoli di Gesù non è chiesto di applicare un manuale di norme comportamentali, ma di assumere un atteggiamento di apertura spirituale nei confronti di Gesù, il Maestro, inteso a comprendere momento per momento quale sia l’autentica volontà del Signore. Un atteggiamento che non è di pedissequa applicazione di norme astratte precostituite, ma di matura capacità interpretante, dettata dall’adesione personale a Gesù, che permette di capire e scegliere di volta in volta il comportamento gradito al Signore. Un riferimento in proposito può essere rappresentato dal comportamento di Gesù nell’episodio dell’adultera (8,3-11: « Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei". E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". Ed ella rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più"»). In quel caso la pedissequa applicazione delle norme etiche statuite dava senz’altro ragione ai suoi interlocutori scribi e farisei, ma Gesù opera uno stravolgimento della situazione dettato dalla ricerca della più autentica volontà del Padre, che predilige l’esercizio della misericordia alla formale osservanza delle norme. È questa la condizione, riprendendo la metafora desunta dal mondo agricolo, che chi miete, su mandato di chi ha seminato, possa ricevere il suo salario e gioire insieme a chi ha seminato (vv. 36-38)
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La fede dei Samaritani (vv. 39-42):

«Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: "Mi ha detto tutto quello che ho fatto". E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: "Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udìto e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo"» (4,39-42).

L’attenzione del narratore si sposta ora sui Samaritàni, che hanno ascoltato la testimonianza della donna sul carattere del tutto eccezionale della persona che ha incontrato. Un primo gruppo di Samaritàni sceglie di credere in Gesù sulla sola parola della donna (v. 39: «Molti Samaritàni di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: "Mi ha detto tutto quello che ho fatto"»). È questa, agli occhî di Gesù, è una particolare condizione di beatitudine (cf. 20,29: «Gesù gli disse: "Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!"»). Un secondo di Samaritàni dichiara invece la propria fede in Gesù dopo averlo materialmente incontrato e aver personalmente constatato la verità della testimonianza della donna sul suo eccezionale carisma: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (4,42).


La fede dei Galilèi (vv. 43-45):

«Trascorsi due giorni, partì di là per la Galilèa. Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. Quando dunque giunse in Galilèa, i Galilèi lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch'essi infatti erano andati alla festa» (4,43-45).

Dopo aver lasciato la Samarìa, Gesù fa ritorno nella propria Galilèa, dove viene accolto dagli altri Galilèi che, essendo andati anch’essi a Gerusalemme in occasione della festa, avevano potuto vedere la potenza dei suoi gesti e questo nonostante Gesù stesso avesse detto che «che un profeta non riceve onore nella propria patria» (v. 44; cf. anche Mt.13,57; Mc. 6,4; Lc. 4,24).


Alcune considerazioni

Appare opportuno operare alcune brevi considerazioni provvisorie provando raffrontare il colloquio tra Gesù e la donna Samaritana e il colloquio tra Gesù e Nicodèmo (3,1-15). È opportuno notare come sia diverso la progressiva evoluzione che nel corso del dialogo subisce l’atteggiamento di questi due personaggî nei confronti di Gesù. Nicodèmo parte da una condizione iniziale di attenzione e curiosità nei confronti di Gesù, ma di fronte alle sue parole rivelatorie non riesce a varcare la soglia dell’aspetto meramente fattuale del discorso e, nonostante un atteggiamento umanamente comprensivo, non riesce a compiere un atto di fede verso Gesù. Ciò non impedisce tuttavìa a Nicodèmo, nel prosieguo della missione pubblica di Gesù, di comportarsi come un suo discreto ammiratore di Gesù sia in occasione di una discussione con i farisei sull’origine del Cristo (7,50-52: « Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro, disse: "La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?". Gli risposero: "Sei forse anche tu della Galilea? Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!"»), quando si preoccupa di garantire a Gesù una copertura di natura giuridica nell’àmbito del giudaismo ufficiale, e sia all’epilogo della passione, quando interviene attivamente per garantire a Gesù una decorosa sepoltura (19,38-42: «Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo - quello che in precedenza era andato da lui di notte - e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di àloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù»). La donna samaritana, per contro, parte da una condizione iniziale di assoluta diffidenza, stanti le ordinarie condizioni delle relazioni tra Samaritàni e Giudèi, ma man mano che il dialogo si dipana, dopo le prime obiezioni, le sue resistenze si sciolgono e la donna riconosce il carattere eccezionale di chi le sta dinanzi e manifesta la propria fede in Gesù. Non solo, si fa anche annunciatrice presso i suoi concittadini del carattere messianico di Gesù. A precederla in questa missione di annuncio messianico nel “Vangelo di Giovanni», abbiamo sinora incontrato Giovanni il Battista (1,32-34), Andrea (1,40-41) e Filippo (1,45).
Un’ulteriore considerazione va operata intorno a due personaggî collettivi che appaiono in questo brano: i Samaritàni, concittadini della donna, e i Galilèi. Entrambi questi personaggî hanno in questo contesto una connotazione positiva. I primi sono disponibili, alcuni a credere in Gesù sulla sola parola della donna (si tenga presente la considerazione che delle donne si aveva nelle società dell’epoca), altri riconoscono la straordinarietà del carisma messianico di Gesù nell’incontro diretto. I secondi manifestano un atteggiamento di gioiosa accoglienza di Gesù al suo ritorno nella terra d’origine, anche se in altri luoghi del Vangelo, i Galilèi saranno presentati sotto una luce diversa.
Nel nostro itinerario inteso a ricostruire i lineamenti del personaggio collettivo de «i Giudèi», mantenere sempre presenti i caratteri che via via assumono questi altri due personaggî collettivi (Samaritàni e Galilèi), che sono forse quelli più direttamente comparabili. Il personaggio de «i Samaritàni» è connotato, come «i Giudèi» da una dimensione etnica e da una religiosa (sia pur di segno diverso). Il personaggio de «i Galilèi», possiede come «i Giudèi», una connotazione etnica. Altri personaggî collettivi, che pur ricorrono nel quarto Vangelo (farisei, sacerdoti, capi, discepoli, ecc.), presentano connotazioni del tutto diverse, il che rende meno alto il grado di comparabilità.


[1] – Cf. P. Ricoeur, Tempo e racconto, v. I, Milano : Jaca Book, 1986, 108-117; F. G. Brambilla, La narrazione evangelica nelle cristologie recenti, <http://www.jesuschrist.it/Pages/it_gesu_dati_scientifici_sulla_vita_di_gesu.aspx?arg=-112&rec=926> ; sito consultato il 2 agosto 2011.

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