Gesù, la donna samaritana e «i Giudèi» (4,1-45)
«Gesù venne a sapere che
i farisei avevano sentito dire: "Gesù fa più discepoli e battezza più di
Giovanni" - sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi
discepoli -, lasciò allora la Giudèa e si diresse di nuovo verso la Galilèa. Doveva
perciò attraversare la Samarìa.
Giunse così a una città
della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a
Giuseppe suo figlio: qui c'era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque,
affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno.
Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: "Dammi da
bere". I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi.
Allora la donna samaritana gli dice: "Come mai tu, che sei Giudèo, chiedi
da bere a me, che sono una donna samaritana?". I Giudèi infatti non hanno
rapporti con i Samaritàni. Gesù le risponde: "Se tu conoscessi il dono di
Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu avresti chiesto a
lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva". Gli dice la donna: "Signore,
non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest'acqua
viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo
e ne bevve lui con i suoi figlî e il suo bestiame?". Gesù le risponde:
"Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell'acqua
che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l'acqua che io gli darò
diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna".
"Signore - gli dice la donna -, dammi quest'acqua, perché io non abbia più
sete e non continui a venire qui ad attingere acqua". 16Le dice: "Va'
a chiamare tuo marito e ritorna qui". Gli risponde la donna: "Io non
ho marito". Le dice Gesù: "Hai detto bene: "Io non ho
marito". Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo
marito; in questo hai detto il vero". Gli replica la donna: "Signore,
vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi
invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare". Gesù le
dice: "Credimi, donna, viene l'ora in cui né su questo monte né a
Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo
ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi. Ma viene l'ora - ed è
questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così
infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli
che lo adorano devono adorare in spirito e verità". Gli rispose la donna:
"So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci
annuncerà ogni cosa". Le dice Gesù: "Sono io, che parlo con te".
In quel momento
giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna.
Nessuno tuttavìa disse: "Che cosa cerchi?", o: "Di che cosa
parli con lei?". La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e
disse alla gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello
che ho fatto. Che sia lui il Cristo?". Uscirono dalla città e andavano da
lui.
Intanto i discepoli lo
pregavano: "Rabbì, mangia". Ma egli rispose loro: "Io ho da
mangiare un cibo che voi non conoscete". E i discepoli si domandavano l'un
l'altro: "Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?". Gesù disse
loro: "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere
la sua opera. Voi non dite forse: "Ancora quattro mesi e poi viene la
mietitura"? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhî e guardate i campi che
già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie
frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In
questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l'altro miete. Io vi
ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi
siete subentrati nella loro fatica".
Molti Samaritàni di
quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava:
"Mi ha detto tutto quello che ho fatto". E quando i Samaritàni
giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni.
Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: "Non è
più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e
sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo".
Trascorsi due giorni,
partì di là per la Galilèa. Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta
non riceve onore nella propria patria. Quando dunque giunse in Galilèa, i
Galilèi lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme,
durante la festa; anch'essi infatti erano andati alla festa» (4,1-45).
In questo
brano il riferimento a «i Giudèi» e alla «Giudèa» ricorre più volte, al v. 3,
al v. 9 (due volte) e al v. 22, e indirettamente al v. 20.
Nel primo
caso (v. 2) il riferimento alla «Giudèa» ha apparentemente un carattere meramente
geografico. Gesù ha la necessità di tornare nella propria terra d’origine, la
Galilèa, e per compiere questo viaggio deve lasciare la Giudèa e attraversare
la Samarìa.
Nel secondo
caso (la prima ricorrenza al v. 9) addirittura è Gesù stesso a essere
qualificato come «Giudèo» dalla donna samaritana, sua interlocutrice. Nel terzo
caso (la seconda ricorrenza al v. 9), si parla de «i Giudèi» in una nota
esplicativa del narratore. In questi due casi l’espressione sembra rivestire
una valenza prevalentemente religiosa.
Nel quarto
caso (la ricorrenza al v. 22) l’espressione «i Giudèi» è posta sulle labbra di
Gesù stesso, che sottolinea come la salvezza provenga dai Giudèi e colloca se
stesso e i suoi discepoli nell’àmbito del gruppo de «i Giudèi» («noi adoriamo
ciò che conosciamo», 4,22). Anche qui sembra fuori di dubbio una comprensione
prevalentemente religiosa dell’espressione «i Giudèi».
Nel quinto
caso (v. 20) la donna samaritana, indirettamente con l’uso del pronome “voi”,
comprende nuovamente Gesù nel gruppo dei Giudèi.
Tutti questi
richiami a «i Giudèi» ricorrono in realtà nell’àmbito di un dialogo intercorso
tra Gesù e una donna samaritana avvenuto presso il pozzo di Giacobbe, nelle
vicinanze della città di Sicar, in Samarìa, nel corso di un viaggio dalla
Giudèa alla Galilèa. Sembra pertanto opportuno premettere alla nostra
riflessione un breve richiamo allo stato dei rapporti, all’alba dell’e.v., tra
Giudèi e Samaritàni e tra Giudèi e tutte le altre popolazioni della terra ‘Israele.
Due sono i fattori che presiedono al contesto relazionale presupposto dal brano in esame e, in genere, a quel sentimento di centralità/superiorità che i Giudèi avvertivano nei rapporti con le altre popolazioni della terra d’Israele.
Due sono i fattori che presiedono al contesto relazionale presupposto dal brano in esame e, in genere, a quel sentimento di centralità/superiorità che i Giudèi avvertivano nei rapporti con le altre popolazioni della terra d’Israele.
In primo
luogo un sentimento di esclusivismo che vedeva nelle popolazioni della Giudèa, nei
ritornati dall’esilio e nei loro discendenti, il nucleo più autentico del
popolo ebraico e i veri depositarî della fede jahwista. Di qui ne deriva una
netta distinzione tra i Giudèi (discendenti del Regno di Giuda) e gli altri
israeliti (discendenti del Regno d’Israele), come, ad esempio, i Galilèi.
Questo senso
di superiorità è chiaramente espresso, per esempio, in Gv. 7,52, dove i farisei
rispondono a Nicodèmo, dicendo: «Sei forse anche tu della Galilèa? Studia, e
vedrai che dalla Galilèa non sorge profeta!» (Gv. 7,52). Dal tono
dell’affermazione è chiaramente deducibile un’esplicita nota di disprezzo
rivolta nei confronti delle popolazioni della Galilèa, che pur con i Giudèi condividevano
la medesima appartenenza alla discendenza di Abramo, Isacco e Giacobbe e anche
la stessa sensibilità religiosa jahwista polarizzata sulla funzione centrale
del culto del tempio di Gerusalemme.
In secondo
luogo va rimarcata una nettissima contrapposizione con le popolazioni della Samarìa.
Ordinariamente vengono considerati Samaritàni i discendenti di quanti, tra le
popolazioni del regno settentrionale di Israele, restarono in patria sfuggendo
alle deportazioni operate dagli Assiri dopo la loro conquista della Samarìa nel
721 a.e.v. In quest’area gli Assiri, in luogo della quota di popolazione
israelita deportata, insediarono forzatamente popolazioni pagane di varia
provenienza, a loro volta deportate a sèguito di vicende belliche anti-assire.
Nei secoli successivi si verificarono necessariamente tra queste popolazioni di
origine diversificata fenomeni di relazioni di vicinato, di integrazione
economico-sociale, di convivenza e, finanche, di fusione, secondo un classico
processo di assimilazione delle componenti straniere ad opera delle
numericamente prevalenti popolazioni originarie della regione.
Gli ebrei Samaritàni diedero tuttavìa prova di una particolare e rigorosa sensibilità religiosa intesa a conservare il culto di Jahwé, con la costruzione di un tempio, separato da quello di Gerusalemme e posto sul Monte Garizim, ove officiavano sacerdoti discendenti di Aronne, ma anche con la stretta osservanza dei precetti mosaici, descritti nel Pentateuco.
Gli ebrei Samaritàni diedero tuttavìa prova di una particolare e rigorosa sensibilità religiosa intesa a conservare il culto di Jahwé, con la costruzione di un tempio, separato da quello di Gerusalemme e posto sul Monte Garizim, ove officiavano sacerdoti discendenti di Aronne, ma anche con la stretta osservanza dei precetti mosaici, descritti nel Pentateuco.
In effetti i
Samaritàni si consideravano autentici discendenti di Abramo ed eredi
dell’alleanza con Jahwé ed avevano una propria raccolta di Scritture sacre,
denominata Pentateuco samaritano, in gran parte coincidente con l’Esateuco
giudaico (Pentateuco + Giosuè). Ove sono, però, presenti significative varianti
nei luoghi in cui si evidenziano il ruolo e le prerogative del tempio di Gerusalemme,
o, per contro, quelle del tempio del Garizim.
Gli ebrei
della Giudèa, fortemente influenzati dalla tradizione del regno di Giuda quale
più autentica espressione della fede jahwista e dell’identità nazionale
ebraica, nonché dalla visione religiosa espressa dalla componente dei rientrati
dall’esilio, consideravano i Samaritàni (e in genere quanti erano rimasti nel
paese) come scismatici, stranieri, pagani e impuri.
Per i
Samaritàni, invece, erano proprio i Giudèi a essere devianti rispetto alla vera
fede.
Di sicuro la parabola storica di questa contrapposizione giudaico-samaritana ha radici profonde e un’evoluzione oscillante tra espressioni e fattori di comune riconoscimento di appartenenza a una medesima realtà storico-religiosa e ricorrenti esplosioni di contrapposizione radicale.
Di sicuro la parabola storica di questa contrapposizione giudaico-samaritana ha radici profonde e un’evoluzione oscillante tra espressioni e fattori di comune riconoscimento di appartenenza a una medesima realtà storico-religiosa e ricorrenti esplosioni di contrapposizione radicale.
Il viaggio di Gesù (vv. 1-6a)
«Gesù venne a
sapere che i farisei avevano sentito dire: "Gesù fa più discepoli e
battezza più di Giovanni" - sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare,
ma i suoi discepoli -, lasciò allora la Giudèa e si diresse di
nuovo verso la Galilèa. Doveva perciò attraversare la Samarìa.
Giunse così a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al
terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c'era un pozzo di Giacobbe» (4,1-6a).
Alla luce di
queste considerazioni il viaggio intrapreso da Gesù, da Gerusalemme alla volta
della Galilèa, non va considerato un semplice spostamento geografico. Lungo la
strada da percorrere era gioco forza dover entrare in relazione con gruppi
umani diversificati per appartenenza etnica e per sensibilità religiosa e si
rivelava necessario avere la capacità di saper entrare in contatto con essi, se
non altro per potersi approvvigionare di cibo e bevande. La scena che ci
interessa si svolge nei pressi della città di Sicar (probabilmente coincidente
con l’antica Sichem, dove Giacobbe acquistò un campo ed eresse un altare a El,
Dio d’Israele – cf. Gen. 33,18-20: « Giacobbe arrivò sano e salvo alla città di
Sichem, che è nella terra di Canaan, al ritorno da Paddan-Aram e si accampò di
fronte alla città. Acquistò dai figlî di Camor, padre di Sichem, per cento
pezzi d'argento, quella porzione di campagna dove aveva piantato la tenda. Qui
eresse un altare e lo chiamò "El, Dio d'Israele"»).
«Dammi da bere» (vv. 6b-9)
«Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il
pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad
attingere acqua. Le dice Gesù: "Dammi da bere". I suoi discepoli erano andati in città
a fare provvista di cibi. Allora
la donna samaritana gli dice: "Come mai tu, che sei Giudèo, chiedi da bere
a me, che sono una donna samaritana?". I Giudèi infatti non hanno rapporti
con i Samaritani» (4,6b-9).
Gesù ha la
necessità di dover sostare in questo luogo nei pressi del pozzo di Giacobbe per
riposare dalla stanchezza del viaggio, mentre i suoi discepoli sono andati in
cerca di cibo (cf. successivo v. 8).
Il dialogo
tra Gesù e una donna Samaritana si svolge attraverso più scambî di battute.
È proprio Gesù a dare avvio al dialogo. Si rivolge alla donna samaritana chiedendole da bere. La richiesta di Gesù desta meraviglia nella donna («Come mai tu, che sei Giudèo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?», 4,9). A dire la verità i motivi che nel gesto di Gesù di rivolgerle la parola potevano destare meraviglia era sostanzialmente due: il rivolgersi a una donna e il rivolgersi a una donna per giunta samaritana. La donna interpellata pone tuttavìa l’accento soprattutto su questo secondo aspetto (i discepoli, per contro, come si può vedere al successivo v. 27, saranno soprattutto sorpresi dal suo conversare con una donna).
La donna invece, come si è evidenziato, è colpita dall’irrituale gesto di Gesù di rivolgersi a lei quale esponente del gruppo dei Samaritàni. Attraverso la semplice richiesta di acqua da bere rivolta alla donna, Gesù entra in relazione con i Samaritàni. Questo gesto appare agli occhî della donna innovativo. Ella definisce Gesù un Giudèo, nonostante in realtà egli fosse un Galilèo. Pur in presenza di sentimenti discriminatori o esclusivisti nei rapporti tra Giudèi e Galilèi, dalla prospettiva di un osservatore samaritano, una prospettiva esterna alla sensibilità religiosa dello jawhismo giudaico, risultava con ogni probabilità difficile cogliere la distinzione tra un Giudèo e un Galilèo, comunemente considerati egualmente estranei alla sensibilità religiosa dell’jawhismo samaritano. Il narratore, preoccupato di rendere il contesto chiaramente comprensibile ai proprî lettori, immediatamente fornisce una spiegazione della meraviglia della donna, ricordando l’uso dei Giudèi di non intrattenere rapporti con i Samaritàni. È significativo tuttavìa che egli tralasci di porre in evidenza che Gesù in realtà fosse Galilèo.
È proprio Gesù a dare avvio al dialogo. Si rivolge alla donna samaritana chiedendole da bere. La richiesta di Gesù desta meraviglia nella donna («Come mai tu, che sei Giudèo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?», 4,9). A dire la verità i motivi che nel gesto di Gesù di rivolgerle la parola potevano destare meraviglia era sostanzialmente due: il rivolgersi a una donna e il rivolgersi a una donna per giunta samaritana. La donna interpellata pone tuttavìa l’accento soprattutto su questo secondo aspetto (i discepoli, per contro, come si può vedere al successivo v. 27, saranno soprattutto sorpresi dal suo conversare con una donna).
La donna invece, come si è evidenziato, è colpita dall’irrituale gesto di Gesù di rivolgersi a lei quale esponente del gruppo dei Samaritàni. Attraverso la semplice richiesta di acqua da bere rivolta alla donna, Gesù entra in relazione con i Samaritàni. Questo gesto appare agli occhî della donna innovativo. Ella definisce Gesù un Giudèo, nonostante in realtà egli fosse un Galilèo. Pur in presenza di sentimenti discriminatori o esclusivisti nei rapporti tra Giudèi e Galilèi, dalla prospettiva di un osservatore samaritano, una prospettiva esterna alla sensibilità religiosa dello jawhismo giudaico, risultava con ogni probabilità difficile cogliere la distinzione tra un Giudèo e un Galilèo, comunemente considerati egualmente estranei alla sensibilità religiosa dell’jawhismo samaritano. Il narratore, preoccupato di rendere il contesto chiaramente comprensibile ai proprî lettori, immediatamente fornisce una spiegazione della meraviglia della donna, ricordando l’uso dei Giudèi di non intrattenere rapporti con i Samaritàni. È significativo tuttavìa che egli tralasci di porre in evidenza che Gesù in realtà fosse Galilèo.
L’iniziativa
di Gesù desta dunque lo stupore della donna («Come mai tu, che sei Giudèo,
chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?», 4,9). Lo stupore è il
primo atteggiamento che l’incontro con Gesù determina in quanti si pongono nei
suoi confronti in maniera non prevenuta.
L’acqua viva (vv. 10-15):
«Gesù le risponde: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è
colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu avresti chiesto a lui ed egli
ti avrebbe dato acqua viva". Gli
dice la donna: "Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove
prendi dunque quest'acqua viva? Sei
tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve
lui con i suoi figlî e il suo bestiame?". Gesù le risponde: "Chiunque beve
di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma
chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi,
l'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla per
la vita eterna". "Signore
- gli dice la donna -, dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non
continui a venire qui ad attingere acqua"» (4,10-15).
Gesù
prosegue il dialogo rispondendo alla donna e chiarendo la differenza tra
l’acqua comune, come quella del pozzo, e l’acqua viva che solo egli può
dispensare. Ritorna qui il tema dell’acqua che abbiamo già incontrato nei
precedenti brani della testimonianza di Giovanni, del miracolo di Cana e del
colloquio con Nicodèmo. Qui tuttavìa si registra un’indubbia evoluzione del
contenuto del discorso, si definisce l’identità di chi può essere il dispensatore
di quest’acqua viva.
Nel primo
brano, quello della testimonianza di Giovanni (1,19-28), il tema dell’acqua
ricorre sulle labbra di Giovanni, che ci tiene a distinguere tra la sua
missione che quella di battezzare nell’acqua e quella di un personaggio confuso
nella folla degli ascoltatori, la cui dignità è decisamente superiore tanto che
lo stesso Giovanni non si ritiene degno di slegargli il laccio del sandalo (cf.
1,26-17: « Giovanni rispose loro: "Io battezzo nell'acqua. In mezzo a voi
sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono
degno di slegare il laccio del sandalo"»).
Nel secondo
brano, quello riguardante il miracolo di Cana (2,1-11), l’acqua costituisce l’oggetto
stesso del miracolo. Viene così posta in luce la speciale capacità di Gesù di
mutare la natura materiale dell’acqua, che da semplice materia dei riti e delle
pratiche di purificazione acquista una nuova natura capace di rispondere a
nuove esigenze più alte e autenticamente salvifiche (il vino derivante
dall’acqua rinvia al sangue che sarà lo strumento più autentico della salvezza
portata da Gesù), cf. 2,7-9: «E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le anfore";
e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: "Ora prendetene e
portatene a colui che dirige il banchetto". Ed essi gliene portarono. Come
ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto - il
quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso
l'acqua - chiamò lo sposo».
Nel terzo
brano, quello del colloquio con Nicodèmo (3,1-15: «Rispose Gesù: "In
verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può
entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è
nato dallo Spirito è spirito»), il riferimento all’acqua è posto in parallelo a
un riferimento allo Spirito (cf. 3,5-6). Gesù con un’affermazione solenne
individua nella rinascita dall’acqua e dallo Spirito la condizione per
l’ingresso nel regno di Dio, perché sussiste una radicale differenza tra ciò
che deriva dalla carne e ciò che deriva dallo Spirito. L’acqua da puro
strumento per riti, comunque significativi per la religiosità giudaica, di
penitenza (come in Giovanni il Battista) e di purificazione (cui si è fatto
riferimento nel miracolo di Cana), entra qui in un’autentica quanto misteriosa
relazione con lo Spirito, che la rende capace di aprire le porte del regno di
Dio, capacità implicitamente simboleggiata dalla trasformazione subìta dall’acqua
nel miracolo di Cana.
Nel colloquio con la Samaritana Gesù chiarisce di essere proprio lui il dispensatore di quest’acqua viva che, a differenza di quella comune, ha la capacità di dissetare in maniera permanente e definitiva.
Nel colloquio con la Samaritana Gesù chiarisce di essere proprio lui il dispensatore di quest’acqua viva che, a differenza di quella comune, ha la capacità di dissetare in maniera permanente e definitiva.
Il colloquio
si evolve in una maniera molto interessante: Gesù, di fronte allo stupore della
donna per il fatto che le fosse stata rivolta la parola, le fa notare che se
ella si stupisce per il solo essere interpellata, molto più grande potrà essere
il suo stupore se conoscesse la vera identità di colui che le sta parlando. In
tal caso la polarità della relazione sorta nel loro dialogo subirebbe una
radicale inversione di direzione. La donna assumerebbe il ruolo di colei che
chiede da bere. A questa affermazione, in effetti, la donna reagisce con ancora
maggiore stupore, combattuta a dire il vero tra una comprensione meramente
materiale del discorso e un nebuloso presentimento di qualcosa di più, che però
non riesce a comprendere. Di qui la sua reazione: «non hai un secchio e il pozzo
è profondo; da dove prendi dunque quest'acqua viva?», ma sùbito si insinua in
lei anche un dubbio, che ha una sua implicita componente religiosa «Sei tu
forse più grande del nostro padre Giacobbe?». In questa minuscola breccia Gesù
introduce un’ulteriore manifestazione della propria identità («Chiunque beve di
quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non
avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una
sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» - 4,13-14). L’acqua del pozzo
può dissetare solo temporaneamente, l’acqua dispensata da Gesù, invece, disseta
per l’eternità. Essa, inoltre, nella persona che la riceve si trasforma in una
sorgente di acqua zampillante per la vita eterna. Ne deriva, quindi, che
quest’acqua assume una valenza di natura salvifica.
Di fronte a
queste affermazioni di Gesù, la donna samaritana abbandona allora le sue difese,
non si nasconde più dietro ai dubbî sulla grandezza di Gesù («Sei forse più
grande del nostro padre Giacobbe» – 4,12) e si affida a Gesù dicendo «Signore,
dammi quest'acqua» (4,15), ma questa sua adesione a Gesù reca comunque ancora
una valutazione di ordine pratica materiale («non continui a venire qui ad
attingere acqua» – 4,15).
«Va' a chiamare tuo marito» (vv. 16-20)
«Le dice: "Va' a chiamare tuo marito e ritorna qui". Gli risponde la donna: "Io non ho
marito". Le dice Gesù: "Hai detto bene: "Io non ho marito".
Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo
hai detto il vero". Gli
replica la donna: "Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo
monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna
adorare"» (4,16-20).
Gesù sembra cambiare argomento, dicendo alla donna («Va' a
chiamare tuo marito e ritorna qui» – 4,16). Questo invito di Gesù colpisce
profondamente la donna, la quale non può che dire la verità («Io non ho marito»
– 4,17). Gesù dà atto alla donna di aver detto la verità («Hai detto bene:
"Io non ho marito". Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai
ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero» – 4,17b-18). La donna allora
riconosce a Gesù, suo interlocutore, di avere una dignità profetica («Signore,
vedo che tu sei un profeta» – 4,19b), ma reintroduce il tema religioso del
conflitto tra Giudèi e Samaritàni, richiamando il tema del luogo centrale del
culto, con quel («voi invece dite…» – 4,20) la donna individua nuovamente, sia
pur in maniera indiretta, Gesù come un Giudèo. Ciò induce a pensare che la
Samarìa, geograficamente passaggio obbligato per quanti dalla Giudèa
intendevano raggiungere la Galilèa e viceversa per quanti da questa volevano
recarsi in Giudèa. Doveva pertanto essere abbastanza consueto per i Samaritàni
l’incontro con Giudèi e Galilèi (intesi come identità etniche). Anzi, tenendo
conto dell’uso diffuso dei pellegrinaggî a Gerusalemme, doveva essere più
frequente il passaggio di Galilèi diretti a o provenienti da Gerusalemme,
piuttosto che quello di Giudèi intesi in senso etnico. E non doveva essere
difficile distinguere tra un Giudèo e un Galilèo. Ciò premesso l’individuazione
da parte della samaritana di Gesù come Giudèo e non come Galilèo, va pertanto
verosimilmente ricondotta a un riconoscimento non di natura etnica, quanto di
natura eminentemente religiosa. Il che dà chiaramente conto di quale fosse la
percezione comune della rilevanza del conflitto tra Giudèi e Samaritàni sulla
centralizzazione del culto a Gerusalemme.
Adoreranno il Padre in spirito e verità (vv. 21-24)
«Gesù le dice: "Credimi, donna, viene l'ora in cui né su questo
monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi
adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché
la salvezza viene dai Giudèi. Ma
viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in
spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano
devono adorare in spirito e verità"» (4,21-24).
Gesù
risponde portando il discorso sulle caratteristiche più autentiche che devono
contraddistinguere il culto a Dio. Il discorso di Gesù si dipana secondo uno
svolgimento molto interessante. Il punto di partenza del suo discorso è un
invito alla fede, rivolto alla donna («Credimi, donna…», v. 21). Il passaggio
successivo è dato dall’annuncio di un imminente e sostanziale mutamento nelle
caratteristiche del culto («viene l’ora», v. 21). Gesù annuncia alla donna che
è vicina l’ora in cui non saranno più sufficienti le tradizionali pratiche di culto,
né quelle in uso tra i Samaritàni, né quelle dei Giudèi («né su questo monte né
a Gerusalemme adorerete il Padre», v. 51). Nell’annunciare questo incipiente
mutamento delle caratteristiche del culto, Gesù opera tuttavìa un
riconoscimento del valore del culto praticato sia dai da Samaritàni che dai
Giudèi. Nei vv. 21-22 il culto samaritano e quello giudaico vengono paragonati
[per quanto riguarda i Samaritàni:(«su questo monte… voi adorate ciò che non
conoscete»), in riferimento ai Giudèi («a Gerusalemme… noi adoriamo ciò che
conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi »)], con un riconoscimento
della superiorità del culto giudaico, rispetto a quello samaritano, senza
tuttavìa operare una svalutazione di questo. Gesù, parlando del culto
samaritano dice «su questo monte… voi adorate ». L’uso del verbo «adorare»,
implica la considerazione di un atteggiamento, sia pur imperfetto, ma autenticamente
religioso e di fede.
Per quanto
riguarda il culto giudaico, qui entriamo nel pieno del nostro tema, Gesù si coinvolge
pienamente al suo interno («a Gerusalemme… noi adoriamo ciò che conosciamo, perché
la salvezza viene dai Giudèi»). Gesù si ritiene pienamente coinvolto nella
tradizione religiosa giudaica, sia per l’uso del pronome “noi”, sia per
l’esplicito riconoscimento che la salvezza perviene attraverso i Giudèi [È
questo uno dei pochissimi luoghi, se non l’unico, in cui il riferimento a “i
Giudèi” è posto esplicitamente sulla bocca di Gesù]. Ma anche questa forma di
culto è giudicata insufficiente perché «viene l'ora - ed è questa - in cui i
veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (v. 23). Gesù si mostra
profondamente esigente rispetto alle forme cultuali, richiede a ciascuna di
esse un processo di crescita e di maturazione in direzione di una profonda
autenticità. Non sono i luoghi, né gli oggetti, né le forme esteriori, ciò che
conta è l’autenticità dell’adesione a Dio, l’autenticità della fede. La fede
che chiede Gesù deve essere commisurata a Dio, l’atto di adorazione deve
pertanto essere confrontato con la realtà ultima di Dio: «Dio è spirito, e
quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (v. 24). Qui Gesù
richiama implicitamente la propria relazione unica con il Padre, che
manifesterà esplicitamente solo in 14,9-11(«Gli rispose Gesù: "Da tanto
tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha
visto il Padre. Come puoi tu dire: "Mostraci il Padre"? Non credi che
io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da
me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io
sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere
stesse»).Gesù risponde portando il discorso sulle caratteristiche più
autentiche che devono contraddistinguere il culto a Dio. Il discorso di Gesù si
dipana secondo uno svolgimento molto interessante. Il punto di partenza del suo
discorso è un invito alla fede, rivolto alla donna («Credimi, donna…», v. 21).
Il passaggio successivo è dato dall’annuncio di un imminente e sostanziale
mutamento nelle caratteristiche del culto («viene l’ora», v. 21). Gesù annuncia
alla donna che è vicina l’ora in cui non saranno più sufficienti le
tradizionali pratiche di culto, né quelle in uso tra i Samaritàni, né quelle
dei Giudèi («né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre», v. 51).
Nell’annunciare questo incipiente mutamento delle caratteristiche del culto,
Gesù opera tuttavìa un riconoscimento del valore del culto praticato sia dai da
Samaritàni che dai Giudèi. Nei vv. 21-22 il culto samaritano e quello giudaico
vengono paragonati [per quanto riguarda i Samaritàni:(«su questo monte… voi
adorate ciò che non conoscete»), in riferimento ai Giudèi («a Gerusalemme… noi
adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudèi »)], con un
riconoscimento della superiorità del culto giudaico, rispetto a quello
samaritano, senza tuttavìa operare una svalutazione di questo. Gesù, parlando
del culto samaritano dice «su questo monte… voi adorate ». L’uso del verbo
«adorare», implica la considerazione di un atteggiamento, sia pur imperfetto,
ma autenticamente religioso e di fede.
Per quanto
riguarda il culto giudaico, qui entriamo nel pieno del nostro tema, Gesù si coinvolge
pienamente al suo interno («a Gerusalemme… noi adoriamo ciò che conosciamo, perché
la salvezza viene dai Giudèi»). Gesù si ritiene pienamente coinvolto nella
tradizione religiosa giudaica, sia per l’uso del pronome “noi”, sia per
l’esplicito riconoscimento che la salvezza perviene attraverso i Giudèi [È
questo uno dei pochissimi luoghi, se non l’unico, in cui il riferimento a “i
Giudèi” è posto esplicitamente sulla bocca di Gesù]. Ma anche questa forma di
culto è giudicata insufficiente perché «viene l'ora - ed è questa - in cui i
veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (v. 23). Gesù si mostra
profondamente esigente rispetto alle forme cultuali, richiede a ciascuna di
esse un processo di crescita e di maturazione in direzione di una profonda
autenticità. Non sono i luoghi, né gli oggetti, né le forme esteriori, ciò che
conta è l’autenticità dell’adesione a Dio, l’autenticità della fede. La fede
che chiede Gesù deve essere commisurata a Dio, l’atto di adorazione deve
pertanto essere confrontato con la realtà ultima di Dio: «Dio è spirito, e
quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (v. 24). Qui Gesù
richiama implicitamente la propria relazione unica con il Padre, che
manifesterà esplicitamente solo in 14,9-11(«Gli rispose Gesù: "Da tanto
tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha
visto il Padre. Come puoi tu dire: "Mostraci il Padre"? Non credi che
io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da
me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io
sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere
stesse»).
«Sono io» (vv. 25-26)
«Gli rispose la donna: "So che deve venire il Messia, chiamato
Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa". Le dice Gesù: "Sono io, che parlo
con te"» (4,25-26).
All’esigenza
posta da Gesù di un salto di qualità nella pratica cultuale, la donna risponde
richiamando la propria tradizione religiosa e l’attesa messianica che la
caratterizza, esplicitando allo stesso tempo come ella si aspetti il pieno
disvelamento della realtà divina alla venuta del Messìa. A questa affermazione
della donna Gesù rivela, per la prima volta nel “Vangelo di Giovanni», la
propria dignità messianica: «Sono io, che parlo con te» (v. 26).
Qui il dialogo, in senso proprio, tra Gesù e la donna samaritana ha termine. I successivi vv. 27-45 descrivono in realtà eventi a esso posteriori.
Qui il dialogo, in senso proprio, tra Gesù e la donna samaritana ha termine. I successivi vv. 27-45 descrivono in realtà eventi a esso posteriori.
I discepoli, la donna e i Samaritani (vv. 27-38)
«In
quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una
donna. Nessuno tuttavìa disse: "Che cosa cerchi?", o: "Di che
cosa parli con lei?". La
donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente:
"Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che
sia lui il Cristo?". Uscirono
dalla città e andavano da lui.
Intanto
i discepoli lo pregavano: "Rabbì, mangia". Ma egli rispose loro: "Io ho da
mangiare un cibo che voi non conoscete". E
i discepoli si domandavano l'un l'altro: "Qualcuno gli ha forse portato da
mangiare?". Gesù disse loro:
"Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la
sua opera. Voi non dite forse:
"Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura"? Ecco, io vi dico: alzate
i vostri occhî e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e
raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi
miete. In questo infatti si
dimostra vero il proverbio: uno semina e l'altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui
non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro
fatica"» (4,27-38).
Il dialogo è
terminato, ma in questi vv. vediamo una stupenda applicazione della tecnica narrativa
dell’embricatura dove racconti vicini vengono parzialmente sovrapposti. Si
intrecciano infatti il racconto del nuovo dialogo tra Gesù e i suoi discepoli,
nel frattempo sopraggiunti sulla scena, e quello del ritorno della donna alla
propria città e del suo riferire quanto avvenuto ai suoi concittadini. Qui si
fondono una dimensione episodica del racconto e una dimensione configurante
della narrazione, l’attenzione del lettore è contemporaneamente attratta, da un
lato, sul versante della rappresentazione lineare degli episodî e, dall’altro,
dallo sforzo di comprendere nella successione degli eventi la loro totalità
significante[1].
L’evangelista passa a dar conto dell’arrivo dei discepoli sulla scena del dialogo tra Gesù e la Samaritana e pone in evidenza la loro meraviglia per averlo trovato a discorrere con una donna, il che mostra come i discepoli fossero pienamente partecipi della concezione dei rapporti uomo-donna dominante nel mondo giudaico, concezione che Gesù, con il suo comportamento in varî racconti evangelici, ha più volte dimostrato di aver ampiamente superato (v. 27: «In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: "Che cosa cerchi?", o: "Di che cosa parli con lei?"»). Dopo aver riferito del sopraggiungere dei discepoli, l’evangelista riporta la propria attenzione sulla donna, che, conquistata dall’incontro con Gesù non può evitare di rendere partecipi dell’evento i suoi concittadini, i quali, sulla parola della donna, lasciano tutto e si pongono in camminano per incontrare Gesù (vv. 28-30: «La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?". Uscirono dalla città e andavano da lui»). Ma l’attenzione dell’evangelista narrante ritorna nuovamente al luogo dove Gesù è restato con i suoi discepoli, che pone in evidenza come, sull’invito banale e ordinario dei discepoli a mangiare qualcosa, sia pur dettato da un sentimento di umana sollecitudine, Gesù colga l’occasione per segnare un ulteriore progresso nella sua opera rivelatrice. Un’azione rivelatrice che si realizza attraverso la forma di un breve dialogo con i discepoli (vv. 31-38). All’invito a magiare qualcosa, Gesù risponde di aver da mangiare un altro cibo (vv. 31-32: « Intanto i discepoli lo pregavano: "Rabbì, mangia". Ma egli rispose loro: "Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete"»). I discepoli, che non percepiscono il doppio livello del discorso di Gesù, restano sul mero terreno materiale e si chiedono se, durante la loro assenza, Gesù abbia ricevuto del cibo da qualcun altro (v. 33: « E i discepoli si domandavano l'un l'altro: "Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?"»). Gesù allora precisa che il suo vero cibo consiste nel compiere la volontà di colui che lo ha mandato e nel realizzare la sua opera (v. 34: « Gesù disse loro: "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»), ma sùbito opera una breve digressione inerente lo stile di vita che egli richiede ai suoi discepoli e a quanti liberamente decidono di seguirlo (vv.35-38: «Voi non dite forse: "Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura"? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhî e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l'altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica"»). Il riferimento implicito, sotteso a questi vv., può essere rintracciato in 20,21 («Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi"»). Difatti il parallelo che Gesù istituisce tra la missione che egli ha ricevuto dal Padre e quella che egli conferisce a quanti scelgono di seguirlo, costituisce il presupposto di un altro parallelo: se il suo cibo autentico è fare la volontà del Padre, che lo ha mandato, e compiere la sua opera, l’autentico nutrimento dei suoi discepoli sarà allora fare la sua volontà e realizzare la sua opera (raccogliere ciò che da lui è stato seminato – cf. vv. 36-37). Ma per fare ciò, Gesù richiede ai suoi discepoli l’assunzione di un atteggiamento particolare, connotato da una disposizione strutturale alla comprensione dell’autentica volontà di Dio. Per facilitare la comprensione di questo aspetto da parte dei discepoli, Gesù ricorre a un concetto caratteristico del mondo agricolo che distingue il buon agricoltore dal cattivo. L’attività agricola è infatti profondamente influenzata dalle condizioni meteorologiche, che nell’alternarsi delle stagioni non si ripetono mai in maniera uniforme e perfettamente ripetibile. Per esempio, una delle attività più delicate dell’agricoltore sta nel decidere il momento giusto del raccolto. Scegliere di anticiparlo, può per un verso consentire di evitare i danni di un possibile maltempo, ma di converso può implicare il doversi contentare di un prodotto non ancora giunto a piena maturazione. Scegliere, al contrario, di procrastinarlo con l’intento di portare il prodotto a piena maturazione, aumenta di conseguenza il rischio di incorrere in improvvisi temporali con la conseguente perdita di parte del raccolto. All’agricoltore è quindi richiesta una particolare sensibilità, che non è stabilita in alcun manuale, che consiste nel saper leggere i segni delle condizioni atmosferiche e nel saper programmare l’attività giusta al momento giusto. Una sensibilità analoga viene richiesta da Gesù ai suoi discepoli, saper discernere in ogni situazione qual è l’autentica volontà di Dio (v. 35). Ai discepoli di Gesù non è chiesto di applicare un manuale di norme comportamentali, ma di assumere un atteggiamento di apertura spirituale nei confronti di Gesù, il Maestro, inteso a comprendere momento per momento quale sia l’autentica volontà del Signore. Un atteggiamento che non è di pedissequa applicazione di norme astratte precostituite, ma di matura capacità interpretante, dettata dall’adesione personale a Gesù, che permette di capire e scegliere di volta in volta il comportamento gradito al Signore. Un riferimento in proposito può essere rappresentato dal comportamento di Gesù nell’episodio dell’adultera (8,3-11: « Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei". E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". Ed ella rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più"»). In quel caso la pedissequa applicazione delle norme etiche statuite dava senz’altro ragione ai suoi interlocutori scribi e farisei, ma Gesù opera uno stravolgimento della situazione dettato dalla ricerca della più autentica volontà del Padre, che predilige l’esercizio della misericordia alla formale osservanza delle norme. È questa la condizione, riprendendo la metafora desunta dal mondo agricolo, che chi miete, su mandato di chi ha seminato, possa ricevere il suo salario e gioire insieme a chi ha seminato (vv. 36-38).
L’evangelista passa a dar conto dell’arrivo dei discepoli sulla scena del dialogo tra Gesù e la Samaritana e pone in evidenza la loro meraviglia per averlo trovato a discorrere con una donna, il che mostra come i discepoli fossero pienamente partecipi della concezione dei rapporti uomo-donna dominante nel mondo giudaico, concezione che Gesù, con il suo comportamento in varî racconti evangelici, ha più volte dimostrato di aver ampiamente superato (v. 27: «In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: "Che cosa cerchi?", o: "Di che cosa parli con lei?"»). Dopo aver riferito del sopraggiungere dei discepoli, l’evangelista riporta la propria attenzione sulla donna, che, conquistata dall’incontro con Gesù non può evitare di rendere partecipi dell’evento i suoi concittadini, i quali, sulla parola della donna, lasciano tutto e si pongono in camminano per incontrare Gesù (vv. 28-30: «La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?". Uscirono dalla città e andavano da lui»). Ma l’attenzione dell’evangelista narrante ritorna nuovamente al luogo dove Gesù è restato con i suoi discepoli, che pone in evidenza come, sull’invito banale e ordinario dei discepoli a mangiare qualcosa, sia pur dettato da un sentimento di umana sollecitudine, Gesù colga l’occasione per segnare un ulteriore progresso nella sua opera rivelatrice. Un’azione rivelatrice che si realizza attraverso la forma di un breve dialogo con i discepoli (vv. 31-38). All’invito a magiare qualcosa, Gesù risponde di aver da mangiare un altro cibo (vv. 31-32: « Intanto i discepoli lo pregavano: "Rabbì, mangia". Ma egli rispose loro: "Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete"»). I discepoli, che non percepiscono il doppio livello del discorso di Gesù, restano sul mero terreno materiale e si chiedono se, durante la loro assenza, Gesù abbia ricevuto del cibo da qualcun altro (v. 33: « E i discepoli si domandavano l'un l'altro: "Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?"»). Gesù allora precisa che il suo vero cibo consiste nel compiere la volontà di colui che lo ha mandato e nel realizzare la sua opera (v. 34: « Gesù disse loro: "Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera»), ma sùbito opera una breve digressione inerente lo stile di vita che egli richiede ai suoi discepoli e a quanti liberamente decidono di seguirlo (vv.35-38: «Voi non dite forse: "Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura"? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhî e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l'altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica"»). Il riferimento implicito, sotteso a questi vv., può essere rintracciato in 20,21 («Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi"»). Difatti il parallelo che Gesù istituisce tra la missione che egli ha ricevuto dal Padre e quella che egli conferisce a quanti scelgono di seguirlo, costituisce il presupposto di un altro parallelo: se il suo cibo autentico è fare la volontà del Padre, che lo ha mandato, e compiere la sua opera, l’autentico nutrimento dei suoi discepoli sarà allora fare la sua volontà e realizzare la sua opera (raccogliere ciò che da lui è stato seminato – cf. vv. 36-37). Ma per fare ciò, Gesù richiede ai suoi discepoli l’assunzione di un atteggiamento particolare, connotato da una disposizione strutturale alla comprensione dell’autentica volontà di Dio. Per facilitare la comprensione di questo aspetto da parte dei discepoli, Gesù ricorre a un concetto caratteristico del mondo agricolo che distingue il buon agricoltore dal cattivo. L’attività agricola è infatti profondamente influenzata dalle condizioni meteorologiche, che nell’alternarsi delle stagioni non si ripetono mai in maniera uniforme e perfettamente ripetibile. Per esempio, una delle attività più delicate dell’agricoltore sta nel decidere il momento giusto del raccolto. Scegliere di anticiparlo, può per un verso consentire di evitare i danni di un possibile maltempo, ma di converso può implicare il doversi contentare di un prodotto non ancora giunto a piena maturazione. Scegliere, al contrario, di procrastinarlo con l’intento di portare il prodotto a piena maturazione, aumenta di conseguenza il rischio di incorrere in improvvisi temporali con la conseguente perdita di parte del raccolto. All’agricoltore è quindi richiesta una particolare sensibilità, che non è stabilita in alcun manuale, che consiste nel saper leggere i segni delle condizioni atmosferiche e nel saper programmare l’attività giusta al momento giusto. Una sensibilità analoga viene richiesta da Gesù ai suoi discepoli, saper discernere in ogni situazione qual è l’autentica volontà di Dio (v. 35). Ai discepoli di Gesù non è chiesto di applicare un manuale di norme comportamentali, ma di assumere un atteggiamento di apertura spirituale nei confronti di Gesù, il Maestro, inteso a comprendere momento per momento quale sia l’autentica volontà del Signore. Un atteggiamento che non è di pedissequa applicazione di norme astratte precostituite, ma di matura capacità interpretante, dettata dall’adesione personale a Gesù, che permette di capire e scegliere di volta in volta il comportamento gradito al Signore. Un riferimento in proposito può essere rappresentato dal comportamento di Gesù nell’episodio dell’adultera (8,3-11: « Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei". E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". Ed ella rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più"»). In quel caso la pedissequa applicazione delle norme etiche statuite dava senz’altro ragione ai suoi interlocutori scribi e farisei, ma Gesù opera uno stravolgimento della situazione dettato dalla ricerca della più autentica volontà del Padre, che predilige l’esercizio della misericordia alla formale osservanza delle norme. È questa la condizione, riprendendo la metafora desunta dal mondo agricolo, che chi miete, su mandato di chi ha seminato, possa ricevere il suo salario e gioire insieme a chi ha seminato (vv. 36-38).
La fede dei Samaritani (vv. 39-42):
«Molti
Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che
testimoniava: "Mi ha detto tutto quello che ho fatto". E quando i Samaritani giunsero da lui,
lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: "Non è più
per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udìto e sappiamo
che questi è veramente il salvatore del mondo"» (4,39-42).
L’attenzione del narratore si sposta ora sui Samaritàni, che hanno
ascoltato la testimonianza della donna sul carattere del tutto eccezionale
della persona che ha incontrato. Un primo gruppo di Samaritàni sceglie di credere
in Gesù sulla sola parola della donna (v. 39: «Molti Samaritàni di quella città
credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: "Mi ha
detto tutto quello che ho fatto"»). È questa, agli occhî di Gesù, è una particolare
condizione di beatitudine (cf. 20,29: «Gesù gli disse: "Perché mi hai
veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!"»).
Un secondo di Samaritàni dichiara invece la propria fede in Gesù dopo averlo
materialmente incontrato e aver personalmente constatato la verità della testimonianza
della donna sul suo eccezionale carisma: «Non è più per i tuoi discorsi che noi
crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente
il salvatore del mondo» (4,42).
La fede dei Galilèi (vv. 43-45):
«Trascorsi
due giorni, partì di là per la Galilèa. Gesù stesso infatti aveva dichiarato
che un profeta non riceve onore nella propria patria. Quando dunque giunse in Galilèa, i Galilèi
lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme,
durante la festa; anch'essi infatti erano andati alla festa» (4,43-45).
Dopo aver
lasciato la Samarìa, Gesù fa ritorno nella propria Galilèa, dove viene accolto
dagli altri Galilèi che, essendo andati anch’essi a Gerusalemme in occasione
della festa, avevano potuto vedere la potenza dei suoi gesti e questo
nonostante Gesù stesso avesse detto che «che un profeta non riceve onore nella
propria patria» (v. 44; cf. anche Mt.13,57; Mc. 6,4; Lc. 4,24).
Alcune considerazioni
Appare
opportuno operare alcune brevi considerazioni provvisorie provando raffrontare
il colloquio tra Gesù e la donna Samaritana e il colloquio tra Gesù e Nicodèmo
(3,1-15). È opportuno notare come sia diverso la progressiva evoluzione che nel
corso del dialogo subisce l’atteggiamento di questi due personaggî nei
confronti di Gesù. Nicodèmo parte da una condizione iniziale di attenzione e
curiosità nei confronti di Gesù, ma di fronte alle sue parole rivelatorie non
riesce a varcare la soglia dell’aspetto meramente fattuale del discorso e, nonostante
un atteggiamento umanamente comprensivo, non riesce a compiere un atto di fede
verso Gesù. Ciò non impedisce tuttavìa a Nicodèmo, nel prosieguo della missione
pubblica di Gesù, di comportarsi come un suo discreto ammiratore di Gesù sia in
occasione di una discussione con i farisei sull’origine del Cristo (7,50-52: «
Allora Nicodèmo, che era andato precedentemente da Gesù, ed era uno di loro,
disse: "La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e
di sapere ciò che fa?". Gli risposero: "Sei forse anche tu della Galilea?
Studia, e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta!"»), quando si
preoccupa di garantire a Gesù una copertura di natura giuridica nell’àmbito del
giudaismo ufficiale, e sia all’epilogo della passione, quando interviene attivamente
per garantire a Gesù una decorosa sepoltura (19,38-42: «Dopo questi fatti
Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei
Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse.
Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo - quello che
in precedenza era andato da lui di notte - e portò circa trenta chili di una
mistura di mirra e di àloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero
con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la
sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel
giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là
dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro
era vicino, posero Gesù»). La donna samaritana, per contro, parte da una
condizione iniziale di assoluta diffidenza, stanti le ordinarie condizioni
delle relazioni tra Samaritàni e Giudèi, ma man mano che il dialogo si dipana,
dopo le prime obiezioni, le sue resistenze si sciolgono e la donna riconosce il
carattere eccezionale di chi le sta dinanzi e manifesta la propria fede in
Gesù. Non solo, si fa anche annunciatrice presso i suoi concittadini del
carattere messianico di Gesù. A precederla in questa missione di annuncio
messianico nel “Vangelo di Giovanni», abbiamo sinora incontrato Giovanni il
Battista (1,32-34), Andrea (1,40-41) e Filippo (1,45).
Un’ulteriore considerazione va operata intorno a due personaggî collettivi che appaiono in questo brano: i Samaritàni, concittadini della donna, e i Galilèi. Entrambi questi personaggî hanno in questo contesto una connotazione positiva. I primi sono disponibili, alcuni a credere in Gesù sulla sola parola della donna (si tenga presente la considerazione che delle donne si aveva nelle società dell’epoca), altri riconoscono la straordinarietà del carisma messianico di Gesù nell’incontro diretto. I secondi manifestano un atteggiamento di gioiosa accoglienza di Gesù al suo ritorno nella terra d’origine, anche se in altri luoghi del Vangelo, i Galilèi saranno presentati sotto una luce diversa.
Un’ulteriore considerazione va operata intorno a due personaggî collettivi che appaiono in questo brano: i Samaritàni, concittadini della donna, e i Galilèi. Entrambi questi personaggî hanno in questo contesto una connotazione positiva. I primi sono disponibili, alcuni a credere in Gesù sulla sola parola della donna (si tenga presente la considerazione che delle donne si aveva nelle società dell’epoca), altri riconoscono la straordinarietà del carisma messianico di Gesù nell’incontro diretto. I secondi manifestano un atteggiamento di gioiosa accoglienza di Gesù al suo ritorno nella terra d’origine, anche se in altri luoghi del Vangelo, i Galilèi saranno presentati sotto una luce diversa.
Nel nostro
itinerario inteso a ricostruire i lineamenti del personaggio collettivo de «i
Giudèi», mantenere sempre presenti i caratteri che via via assumono questi
altri due personaggî collettivi (Samaritàni e Galilèi), che sono forse quelli
più direttamente comparabili. Il personaggio de «i Samaritàni» è connotato,
come «i Giudèi» da una dimensione etnica e da una religiosa (sia pur di segno
diverso). Il personaggio de «i Galilèi», possiede come «i Giudèi», una
connotazione etnica. Altri personaggî collettivi, che pur ricorrono nel quarto
Vangelo (farisei, sacerdoti, capi, discepoli, ecc.), presentano connotazioni
del tutto diverse, il che rende meno alto il grado di comparabilità.
[1] – Cf. P. Ricoeur, Tempo e racconto, v.
I, Milano : Jaca Book, 1986, 108-117; F. G.
Brambilla, La narrazione evangelica nelle cristologie
recenti, <http://www.jesuschrist.it/Pages/it_gesu_dati_scientifici_sulla_vita_di_gesu.aspx?arg=-112&rec=926> ; sito consultato il 2
agosto 2011.
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