martedì 14 maggio 2013

La proprietà privata: una riflessione



Recensione al libro Note sulla Proprietà Privata di don Beniamino Di Martino

Non posso negare di aver provato un certo disagio nella lettura del volume Note sulla Proprietà Privata di don Beniamino Di Martino (Castellammare di Stabia : Nicola Longobardi, 2009). Un disagio di metodo e un disagio di contenuto.

1.       Un problema di metodo.
Per chiarezza espositiva e correttezza nei confronti di chi legge, voglio precisare che personalmente ho una formazione che posso definire di “cattolicesimo democratico”, mentre l’opera di don Beniamino Di Martino si pone con decisione all’interno di un’ottica di “cattolicesimo liberale”[1].
Un primo aspetto che mi sembra importante porre in evidenza è il tipo di relazione che don Beniamino istituisce tra il proprio orientamento e le opzioni di pensiero diverse o contrastanti. Sono infatti sorpreso dal leggere espressioni di scarsa considerazione per chi è portatore di visioni alternative. Già a p. 5 nella prefazione del prof. Lottieri si può leggere testualmente: «Uno dei più dichiarati e autorevoli avversari del cristianesimo, il filosofo contemporaneo Emanuele Severino…». È abbastanza naturale che nella società odierna siano presenti una varietà di posizioni e vengano operate opzioni di ordine etico, religioso e metafisico, che possono approdare a sponde diverse, o addirittura, contrapposte al Cristianesimo. Faccio, tuttavìa, molta fatica ad accettare l’accentuazione della categorìa dell’”avversario”, che mi sembra sostanzialmente estranea alla visione cristiana dell’umanità. Noi cristiani dovremmo evidenziare l’insegnamento autentico di Gesù, praticando e proponendo agli uomini il suo invito ad amare i nemici (cf. Mt. 5,44; Lc. 6,27.35)[2] e sarebbe pertanto consigliabile rifuggìre dal praticare la cultura del “nemico” e di seguìre l’autorevole l’insegnamento di Giovanni 23. che amava ripetere che la Chiesa non è nemica di nessuno.
Solo qualche rigo più avanti, riferendosi al pensiero esemplato da Emanuele Severino, sempre nella prefazione del prof. Lottieri si legge «il testo di don Beniamino Di Martino contrasta in modo molto netto questo pensiero egemone che punta essenzialmente a banalizzare sia il messaggio evangelico che l’organizzazione sociale fondata sul diritto e sulla libertà economica». Sinceramente non posso non esprimere la sensazione di fastidio che avverto quando nel dibattito culturale incontro posizioni in cui si accusano gli altri di essere portatori di un “pensiero egemone” e si ostenta, in via preliminare e prima di entrare nel merito delle questioni in campo, una sorta di vittimismo narcisistico che attribuisce alle scuole di pensiero contrapposte (o solo diverse) una posizione dominante o un atteggiamento discriminatorio. In questo caso quest’espressione risulta poi alquanto paradossale se si tien conto che, nel corso del libro, don Beniamino ripetutamente si riallaccia, condividendole, a posizioni di pensiero politico ed economico di autorevoli esponenti dello schieramento conservatore statunitense. È il caso, per esempio, del Senatore Barry Goldwater e del Presidente Ronald Reagan. Si tratta di due autorevolissimi uomini politici nordamericani, portatori di posizioni di liberismo radicale, che hanno profondamente influenzato negli ultimi trent’anni la vita politica ed economica non solo negli Stati uniti d’America, ma anche a livello mondiale. Sono posizioni che, pur non condividendole, rispetto pienamente. Si tratta di punti di vista che sono ampiamente rappresentati nel dibattito politico ed economico, sono costantemente presenti negli strumenti di comunicazione sociale, sono oggetto di pubblicazioni editoriali di livello sia pubblicistico che scientifico. Numerose case editrici, tante reti televisive, numerosi network e una miriade di siti internet dichiarano in forma esplicita, e legittimamente, di ispirarsi alle loro posizioni. Si tratta pertanto di una corrente di pensiero ampiamente diffusa e riconosciuta. Sostenere che si tratti di posizioni minoritarie o, peggio, discriminate e dominate, significa in realtà fare un’affermazione del tutto destituita di fondamento.
Il prof. Lottieri, sempre in riferimento al testo di don Beniamino, prosegue evidenziando che «esso offre quindi un’interessante introduzione alla riflessione sulla proprietà proprio perché rigetta i più ricorrenti luoghi comuni e coglie perfettamente alcuni elementi che sembrano sfuggire alla maggior parte degli studiosi (cattolici e no) e degli uomini di Chiesa». Di nuovo un’esplicita svalutazione preventiva delle opinioni altrui, che qui vengono sbrigativamente squalificate a “luoghi comuni”.
Passando poi al testo vero ‘e  proprio del volume di don Beniamino, anche qui è possibile riscontrare ricorrentemente un atteggiamento polemicamente prevenuto nei confronti delle scuole di pensiero di diversa impostazione. In particolare, a p. 68, dove a proposito del modello economico di regime di libero scambio, si legge l’affermazione sconcertante «solo un’ostinazione pregiudizialmente prevenuta può rigettarne i presupposti». Affermare che le posizioni diverse dalla propria possono essere solo il frutto di un’ostinazione pregiudiziale, significa proporre la propria impostazione come una linea di pensiero che si propone, ancor prima di entrare nel merito delle questioni, come obbligatoria per tutti gli interlocutori. E ciò viene puntualmente confermato solo qualche pagina più avanti (a p. 73), dove si può leggere: «Davvero la prima necessità per l’uomo è “pensare bene”: se non si pensa bene, la soluzione ad ogni problema è sempre lontana. Se non si pensa bene, si agisce peggio». Anche qui ricorre la pretesa di detenere l’esclusiva di un pensiero unico e obbligatorio, che, senza porre a disposizione dei lettori una presentazione preliminare dei presupposti epistemologici del proprio metodo di ricerca, e in via pregiudiziale, definisce le posizioni degli altri come capziose e surrettizie, ma senza averle adeguatamente analizzate.
Questo modo di affrontare le questioni, può forse essere apparentemente utile nel quadro di un inconcludente talk show televisivo, ma si rivela non solo poco attento ai contributi altrui, ma anche del tutto inefficace sul piano strettamente attinente al progresso della conoscenza. Ogni confronto culturale, soprattutto entro un àmbito accademico e di ricerca, per essere foriero di crescita e di maturazione sarebbe preferibile prendesse le mosse col porsi sullo stesso piano delle posizioni con le quali si vuol entrare in polemica. È una raccomandazione metodologica che viene da lontano, quella dell’argomentazione iuxta propria principia che ereditiamo dall’autorevolissimo insegnamento di Tommaso d’Aquino[3] e di Bernardino Telesio[4]. Fin dalla prefazione di Carlo Lottieri, nel testo di don Beniamino emerge, invece, un atteggiamento poco attento a uno stile di approfondimento culturale che faccia tesoro del confronto tra differenti scuole di pensiero, approfondendo i contributi e gli apporti di ciascuna, valutandone con rigorosità i presupposti epistemologici e metodologici, operandone una sintesi quanto più possibile fedele, per addivenire infine, se necessario, a evidenziare motivatamente e con puntualità i limiti, di ciascuna scuola e gli aspetti che ognuna di esse non ha preso in considerazione. A questo proposito appare doveroso ricordare il metodo del Dottore Angelico, che esordiva proprio con la fedele, puntuale e analitica descrizione dei punti di vista non condivisi (Ad primum…, ad secundum…, ad tertium…, ecc.), cui seguiva la loro confutazione sul piano della logica e del contenuto (Sed contra…), per addivenire infine alla presentazione della propria soluzione (Respondeo dicendum quod…).

2.       … ma anche di contenuto.
Già in esordio (a p. 5), il prof. Lottieri  sottolinea che «nel nostro tempo, il rapporto tra cultura cattolica e libertà economica non è sempre facile. Il più delle volte quanti si collocano all’interno della Chiesa esprimono un’aperta ostilità ideologica verso il mercato e, di conseguenza, verso la stessa proprietà privata. Nei discorsi di molti esponenti cristiani alla libertà vengono attribuiti connotati immorali (egoismo, chiusura verso il prossimo, materialismo, e via dicendo) che finiscono per puntellare le iniziative di quanti sono schierati a difesa del potere politico e delle sue pretese».
Dalla constatazione di una certa difficoltà incontrata in varie circostanze dalla cultura cattolica nell’analizzare i temi inerenti la libertà economica, si passa ad affermare la notevole frequenza («il più delle volte») all’interno della Chiesa («quanti si collocano all’interno della Chiesa») si registrano prese di posizione ostili alle realtà del mercato, della concorrenza e della proprietà privata. Su quest’affermazione nasce una mia prima difficoltà. L’espressione «quanti si collocano all’interno della Chiesa» non ha il pregio della chiarezza, non si comprende infatti se il prefatore voglia riferirsi a documenti di insegnamento di livello magisteriale o intenda polemizzare con specifici autori o scuole di pensiero d’ispirazione cristiana. In questo secondo caso sarebbe stata utile qualche citazione o quanto meno dei rapidi riferimenti bibliografici. Confesso di non essere riuscito a rintracciare autori che abbiano preso nette posizioni in tema di riflessione sociale cristiana ostili ai valori richiamati da Lottieri. Se invece ci si riferisce al corpus dell’insegnamento sociale della Chiesa l’affermazione appare del tutto priva di fondamento, sono infatti numerosissimi i testi e i riferimenti di esplicito riconoscimento del valore dei temi richiamati dall’autore.
In merito al tema della libertà economica basterà richiamare il testo del paragrafo 42 della Sollicitudo rei socialis, che evidenzia l’importanza dell’impegno per affermare il diritto all’iniziativa economica, che viene posto pressoché sullo stesso piano del diritto alla libertà religiosa[5]. Non solo, il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, a sua volta, al n. 326, riconosce una grande rilevanza all’iniziativa economica, qualificandola come «come risposta riconoscente alla vocazione che Dio riserva a ciascun uomo».[6]
Quanto al libero mercato può essere sufficiente richiamare l’insegnamento della Centesimus annus che, al paragrafo 34 lo individua come «lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni»[7], e al successivo n. 40 pone in evidenza come «i meccanismi di mercato offrono sicuri vantaggî: aiutano, tra l'altro, a utilizzare meglio le risorse; favoriscono lo scambio dei prodotti e, soprattutto, pongono al centro la volontà e le preferenze della persona che nel contratto si incontrano con quelle di un'altra persona»[8]. Papa Giovanni Paolo 2., in questi due testi opera un riconoscimento del valore del mercato, riconoscimento per altro non nuovo nell’insegnamento sociale della Chiesa. Un riconoscimento non di maniera, ma contestualizzato, e, per questo, di grande rilevanza, proprio perché viene a evidenziare con chiarezza i vantaggî offerti dal mercato alla vita sociale, all’efficienza economica e al soddisfacimento di importanti bisogni umani. La contestuale individuazione di precisi limiti alla realtà del libero mercato, chiaramente indicati nei medesimi paragrafi della Centesimus annus, lungi dal configurare un misconoscimento del valore del mercato, porta invece a una sua indubitabile valorizzazione nell’àmbito specifico entro cui può svolgere la sua più efficace funzione sociale.
Quanto al principio della concorrenza può essere utile richiamare il paragrafo 347 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa, che tiene a sottolineare quanto un vero mercato concorrenziale sia uno strumento efficace per conseguire importanti obiettivi di giustizia, tra cui quello di far circolare l'informazione, in modo che sia davvero possibile confrontare e acquistare i prodotti in un contesto di sana concorrenza[9].
In rifermento alla “proprietà privata” sempre il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, al paragrafo 176, ricorda come «La proprietà privata e le altre forme di possesso privato dei beni assicurano ad ognuno lo spazio effettivamente necessario per l'autonomia personale e familiare, e devono essere considerati come un prolungamento della libertà umana. Costituiscono in definitiva una delle condizioni delle libertà civili, in quanto producono stimoli ad osservare il dovere e la responsabilità» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 176). È questo in realtà un chiaro richiamo all’insegnamento autorevolissimo della Costituzione pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano 2., Gaudium et Spes, n. 71[10].
Tuttavìa nell’affermazione del prof. Lottieri che sto commentando, è nella seconda parte che s’incontra il contenuto decisamente più paradossale. Mentre si sta argomentando in termini di libertà economica, di mercato e di concorrenza, in forma non motivata e dimenticando l’insegnamento della logica aristotelica sulla definizione per genere prossimo e per differenza specifica, si passa a parlare di “libertà” in termini assoluti, senz’aggettivi: «Nei discorsi di molti esponenti cristiani alla libertà vengono attribuiti connotati immorali (egoismo, chiusura verso il prossimo, materialismo, e via dicendo)». Si tratta di un’accusa a dir poco fantasiosa. In realtà nessun autore di quella che comunemente intendiamo come tradizione della riflessione sociale cristiana dei secoli 19.-21. si è nemmeno lontanamente sognato di bollare il valore della libertà con i connotati richiamati dal prof. Lottieri. E questo è ancor più vero per i documenti del magistero ufficiale della Chiesa. Per trovare un accenno negativo al valore della libertà nei documenti ufficiali della Chiesa, e comunque non nei termini aberranti proposti dal prof. Lottieri, sono stato costretto a risalire all’enciclica Quanta cura di papa Pio 9. e all’allegato Sillabo dei principali errori dell’età nostra, che son notati nelle allocuzioni concistoriali, nelle encicliche e in altre lettere apostoliche del SS. Signor nostro papa Pio 9. A dire il vero, anche nel caso di quest’enciclica, la preoccupazione polemica, quanto pastorale, è piuttosto quella di scongiurare la «la libertà di perdizione» che non quella di etichettare in termini negativi il valore umano della libertà[11].
In conclusione non mi sembra una buona premessa avvviare un lavoro di approfondimento senza delimitare con chiarezza e rigorosità metodologica l’àmbito tematico che si vuole affrontare e risulta decisamente poco utile, se non addirittura controproducente, formulare affermazioni poco verificate nei loro contenuti.

3.       Il valore della proprietà privata.
Il testo di don Beniamino si presenta come una monografìa intesa a porre in evidenza la centralità di assicurare il dovuto riconoscimento al valore della proprietà privata. Dalla lettura complessiva del testo devo tuttavìa rilevare una sorta di considerazione esclusiva per la realtà della proprietà privata, che in definitiva viene proposta come l’unico valore fondamentale intorno al quale organizzare la vita sociale. Personalmente sono convinto che la proprietà privata sia un valore fondamentale e costituisca una profonda motivazione all’impegno, al protagonismo e alla realizzazione di sé. Sono tuttavìa altrettanto convinto che, accanto alla proprietà, la persona umana faccia riferimento anche ad altri valori e dimensioni di analoga rilevanza, quali il lavoro, la cultura, la sfera affettiva, il gioco, la ricerca della felicità, ecc.. A mio avviso i valori elencati non possono essere posti in un rapporto subordinato rispetto alla proprietà, ma vanno declinati su un piano di pari dignità, pena la realizzazione di un’antropologia monodimensionale, non adeguatamente rappresentativa della realtà dell’uomo e tendenzialmente materialistica.
Il lavoro, cioè l’impegno con cui l’uomo pone mano alla trasformazione della realtà circostante con la finalità di renderla meglio rispondente alle esigenze della vita o si colloca al servizio degli altri uomini per garantire a essi attività o beni di cui hanno necessità, è una dimensione essenziale dell’esperienza umana, altrettanto naturale quanto l’aspirazione al possesso. Il lavoro, per altro, costituisce lo strumento con cui l’uomo, attraverso l’impegno, l’inventiva e il risparmio, può accedere alla proprietà. Misconoscerne il valore, significa implicitamente anche attentare al diritto di accesso alla proprietà.
La cultura e la conoscenza, a loro volta, sono una dimensione innata nella natura umana. La curiosità d’indagare l’ambiente circostante è probabilmente il primo istinto che l’uomo ha sperimentato nella storia ed è lo stimolo vitale che permette a ogni bambino, quando viene alla luce, di apprendere quanto è necessario per sopravvivere.
La sfera affettiva (cioè l’esigenza di stabilire relazioni profonde con altri esseri umani con i quali condividere l’orizzonte primario dell’esistenza, la famiglia), come il gioco (cioè l’esigenza di sperimentare momenti di distensione, di appagamento, di sorriso e di gioia di vivere), la ricerca della felicità (cioè l’aspirazione a trascendere la realtà immediata, a realizzare se stessi, a comprendere la realtà più autentica del mondo circostante e della vita, non ultimo la relazione con l’assoluto e con Dio) sono a loro volta dimensioni ineliminabili della natura umana e, per altro, rappresentano motivazioni e stimoli di fondo del protagonismo dell’uomo rispetto al lavoro, alla conoscenza e alla proprietà.
Analizzare uno di questi aspetti prescindendo dagli altri significa operare una riduzione e una banalizzazione. A mio parere sono aspetti da declinare in maniera strettamente connessa. E questo è vero su una molteplicità di piani.
In primo luogo sul piano antropologico. A noi tutti appare di fatto monca l’esistenza di una persona dèdita esclusivamente al lavoro, che non abbia sufficiente cura delle relazioni familiari e affettive, che non abbia mai tempo per il coniuge o per i figlî, che alla fine della propria esperienza di lavoro, da pensionato, incontra anche difficoltà a ritagliarsi un nuovo ruolo sociale. Altrettanto monca appare l’esperienza umana di chi si dedica esclusivamente agli studî, passando notti insonni sui libri, relazionandosi con l’esperienza di uomini lontani nel tempo e nello spazio, ma privandosi di fatto delle relazioni con gli esseri umani a lui più vicini. È monca certamente la vita di chi si dedica esclusivamente al tempo libero, alle relazioni familiari e agli interrogativi esistenziali senza prendere in considerazione le esigenze concrete e materiali della vita. Ma altrettanto limitata è la dimensione umana di chi s’impegna esclusivamente nell’acquisizione di proprietà e nell’accumulazione di ricchezze.
Sul piano economico. Anche sullo stretto terreno economico la proprietà e il capitale non sono gli unici elementi da tenere in considerazione. Qualunque impresa economica per svolgere la propria funzione non può avvalersi solo della risorsa finanziaria, degli immobili e delle attrezzature necessarie all’attività, ma ha anche necessità del lavoro di persone concrete (anche una sola, ma sempre lavoro di una persona umana, con il suo tesoro di relazioni, idee, aspirazioni, ecc.), nonché di conoscenza (conoscenza tecnica, cultura, inventiva, capacità di relazione). Un’impresa, per essere efficiente, deve saper essere un mix adeguato di capitale-proprietà, lavoro e conoscenza. E per costruire un buon mix non si possono ignorare gli aspetti della sfera affettiva, del gioco e della ricerca della felicità, per le persone che in quell’impresa in qualche modo sono direttamente o indirettamente coinvolti.
Sul piano storico. Don Beniamino ha posto in evidenza come la storia abbia dimostrato i nefandi effetti prodotti dal misconoscimento del valore della proprietà. Ma altrettanto può dirsi del misconoscimento delle dimensioni essenziali dell’essere umano. Basti solo pensare alle numerose esperienze delle dittature degli ultimi secoli, dalla Germania nazista all’Italia fascista, dal Salazarismo in Portogallo al Franchismo in Spagna, dalla Grecia dei Colonelli al Cile di Pinochet, ai regimi dell’Argentina, del Paraguay, di altri paesi centro e sudamericani, per finire ai regimi recentemente caduti in nord-Africa e in Myanmar. In tutti questi casi non si sono avute misure eversive della proprietà privata. Ebbene ciò non ha scongiurato la realizzazione di efferate violenze nei confronti degli esseri umani e di gravissime offese alla libertà. In tutti questi casi si è dimostrato la non fondatezza dell’espressione di Barry Goldwater «la proprietà e la libertà sono inseparabili», più volte citata dal don Beniamino Di Martino (per es. a p. 129) ma senza adeguate argomentazioni fondative. L’esperienza storica concreta, in realtà, ha mostrato come in casi come quelli citati sia stato ampiamente possibile, pur riconoscendo la legittimità della proprietà privata, offendere gravemente la libertà. Anzi in tali contesti il riconoscimento della proprietà ha finito per assicurare un consenso di fatto alle dittature (“Se mi viene consentito di fare i miei affari, cosa mi importa di ciò che viene fatto a danno di altri”). Non solo anche in contesti culturali di riconoscimento ampio dei valori della proprietà la storia ha dimostrato come sia possibile realizzare orrendi crimini contro la stessa proprietà e contro l’umanità, che purtroppo hanno poco da invidiare a quelli posti in essere nei paesi del socialismo reale, basti pensare al genocidio delle popolazioni native americane (che legittimamente detenevano il possesso dei territorî dell’ovest americano), oppure alle appropriazioni di terre e risorse poste in essere con l’espansione coloniale delle potenze europee, oppure alla tratta degli schiavi dall’Africa alle Americhe.
L’assolutizzazione del principio della proprietà privata (sia ben chiaro “assolutizzazione”, non “giusto riconoscimento” nel quadro di una declinazione complementare con altri principî di pari dignità), per altro, contrasta con un principio metodologico affermato dallo stesso don Beniamino, che dichiara di preferire la logica dell’«et - et» a quella dell’«aut - aut» (p. 81, nota n. 86)[12].

4.       La sottovalutazione della dimensione sociale.
Nella sua appassionata difesa del valore della proprietà privata, don Beniamino traccia una contrapposizione netta tra questa e la dimensione sociale. In questo caso va evidenziato che proprietà privata e socialità, lungi dall’essere realtà contrapposte, sono a dire il vero realtà complementari. Sono l’una e l’altra manifestazioni originali della natura umana. Anzi, per certi versi, la socialità precede la proprietà, dato che nella vicenda storica dell’umanità la struttura sociale era presente anche in quelle popolazioni (raccoglitori e cacciatori) che ancora non conoscevano la proprietà. Non solo, la proprietà per poter essere affermata e difesa necessita di un riconoscimento sociale e di una struttura necessariamente coercitiva che la difenda da appropriazioni e abusi. L’esperienza storica dimostra come strutture sociali semplici (tribù e villaggî antichi) si siano date una struttura più complessa per affrontare e risolvere problemi che in singoli da soli non avrebbero mai potuto risolvere (per esempio, un villaggio di pescatori insediato sulle rive di un fiume, di fronte all’esigenza di costruire un ponte, ha la necessità di mettere in comune energie, capacità e risorse per costruirlo e difenderlo; ciò è avvenuto in alcuni casi in forma consensuale, in altri casi per iniziativa di un signore che si è imposto alla volontà comunitaria). Ma anche nei casi in cui la proprietà privata (nei termini in cui la intendiamo oggi) si è realizzata senza una pre-esistente struttura sociale, proprio per garantirne la salvaguardia, si è posta la necessità di costruire una confacente struttura sociale (è il caso, per esempio, dell’ovest americano).

5.       Un’incomprensibile posizione anti-statale.
Dalla sottovalutazione della dimensione sociale deriva una ripetuta e per certi versi ossessiva posizione antistatale. Lo stato viene presentato indistintamente come il nemico giurato dei cittadini, della libera attività economica e del libero mercato. Nessuna distinzione viene fatta tra gli stati imperiali antichi, lo stato assoluto moderno e gli odierni stati democratici.
Un certo riconoscimento viene dato ai monasteri medievali, per i quali non si usa il termine “stato”, dimenticando per altro che nella disarticolazione dell’impero romano, proprio ai monasteri va riconosciuta una grande capacità di supplenza, cioè di svolgere significativi servizî di natura statuale (ai monasteri don Beniamino riconosce di aver affermato il principio della proprietà privata, ma dimentica che promossero egregiamente anche il lavoro [Ora et labora] e la cultura [si ricordino gli scriptoria]).
Un altro riconoscimento viene attribuito ai comuni dell’Italia medievale, per i quali lo stesso si evita di parlare di stato. Ma i Comuni medievali furono, in realtà, dei veri ‘e proprî stati, con un proprio esercito e con una propria politica doganale, con misure protezionistiche delle risorse e delle tecnologie. Basti pensare ai conflitti tra le città toscane per il controllo della risorsa del sale, che ha finito per diffondere in Toscana l’abitudine inveterata di produrre il pane privo di sale. Oppure è sufficiente tener presenti le legislazioni cittadine che vietavano con pesanti sanzioni chi si rendesse colpevole di diffondere la conoscenza di specifiche tecniche di produzione oltre il dominio cittadino.
Un certo riconoscimento viene infine conferito agli Stati Uniti d’America, ai quali si attribuisce un carattere di stato leggero, dimenticando che al di là delle dichiarazioni propagandistiche la Federazione statunitense è tutt’altro che uno stato debole. Nella realtà nordamericana si ha addirittura una doppia realtà statale (quella dei singoli stati e quella federale), la stessa tassazione se valutata in termini globali (stati + federazione) non è inferiore alla media degli stati europei e non è molto lontana da quella italiana (quanto poi all’evasione fiscale, basta provare a chiedere a qualche cittadino statunitense cosa significhi nel loro paese provare a evadere le tasse). Quanto poi all’unica funzione che il pensiero liberista riconosce allo stato, cioè la prevenzione contro la criminalità, di fatto niente autorizza a dire che negli USA la “pratica criminalità organizzata” possa dirsi risolta, basta dare uno sguardo alle periferie urbane delle città statunitensi. Di sicuro negli Stati Uniti la criminalità purtroppo non è un problema di minore entità di quanto lo sia in Italia.
La posizione di sostanziale rifiuto della funzione dello stato, ripetutamente espressa da don Beniamino, può essere sostanzialmente ricondotta alla mancata comprensione del ruolo di essenziale complementarietà tracciabile tra la dimensione individuale e quella sociale che sono in definitiva ambedue originarie nella persona umana. L’esperienza umana è inevitabilmente un’esperienza sociale. Lo stesso istituto della proprietà presuppone di fatto l’esistenza di un contesto sociale che lo riconosca come tale. La stessa iniziativa economica, per realizzarsi, ha la necessità di una comunità sociale in cui svolgersi, quantomeno la presenza di potenziali consumatori dei beni o dei servizî offerti. L’esperienza di Robinson Crusoe è in definitiva una finzione letteraria o la disgraziata esperienza di qualche singolo, ma è essenziale essere consapevoli che può essere solo un’astrazione didattica utile, al più, a render chiaro qualche concetto base della scienza economica. Nel concreto l’attività economica non si realizza in laboratorio quanto nella vita effettiva delle persone, là dove di fatto queste sono chiamate a esistere, nel pieno dei conflitti e dei condizionamenti storici in cui sono coinvolti.
Per fare un esempio, faccio riferimento a un contesto un po’ lontano  da noi. Nell’odierno Israele, per esempio, gli operatori di mercato operano con l’incubo di un attacco militare convenzionale, o finanche nucleare, da parte dei paesi circostanti, e devono fare i conti con il clima d’instabilità prodotto dal terrorismo di matrice jihadista. Per altro verso nei territorî arabi, per esempio nella striscia di Gaza, gli operatori economici di tale contesto, a loro volta, devono confrontarsi con le disposizioni delle autorità israeliane, con le operazioni militari di rappresaglia e con le condizioni demografiche di sovraffollamento. In tutti ‘e due i casi le decisioni d’investimento e le connesse valutazioni di rischio sono ampiamente influenzate dalle condizioni di contesto. L’economìa tuttavìa va avanti, mostra lì come altrove grandi capacità di adattamento e, spesso, mette in moto processi creativi.
Lo schema di scuola presupposto dalla scienza economica classica che pone in relazione figure idealizzate di imprenditori e consumatori, posti nel foglio bianco del mercato dove s’incrociano curve batteriologicamente sterili della domanda e dell’offerta, è di fatto un’astrazione, che nella realtà non incontriamo in nessun caso. E di questo i primi a esserne consapevoli sono proprio gli economisti. Le condizioni di concorrenza perfetta nella realtà non si sono mai realizzate, ed è del tutto presumibile, che mai si potranno determinare. Possono, invece essere un utile obiettivo cui avvicinarsi magari per asindoto. Risulta pertanto fuorviante confrontare ipotesi di scuola con specifici contesti storici, questi sono dati concreti della realtà con le loro luci e con le loro ombre, quelle sono ipotesi di laboratorio, rispettabili elementi di orientamento, che però devono essere tradotti in comportamenti di politica economica, per dirla con Plinio il vecchio, cum grano salis.
Ho operato questa digressione per evidenziare che lungo tutta la vicenda storica dell’umanità l’iniziativa economica si è sempre svolta nell’àmbito di specifici contesti sociali e ha fatto i conti con molteplici realtà statuali, dalle libere città della Grecia classica agli antichi imperi, ai regni romano-barbarici, alla polverizzazione altomedievale (che non ha significato assenza dello stato, ma sperimentazione di molteplici e diversificate forme statuali locali minori: monasteri, curtes, villae, poteri signorili bannali, ecc.), ai comuni medievali, alle signorie rinascimentali, agli stati assoluti di epoca moderna, agli odierni stati democratici.
Si tratta di realtà molto diverse tra di loro, che hanno tuttavìa in comune la detenzione del potere d’imposizione delle norme della vita associata, la vocazione a garantire la sicurezza delle persone (in molti casi sudditi, in pochi casi cittadini), il monopolio degli strumenti di coercizione, la facoltà di raccogliere le risorse necessarie allo svolgimento delle prime tre funzioni. Cambiano, e molto, ovviamente i meccanismi di legittimazione dell’autorità e la concretizzazione delle modalità operative. In genere le fattispecie di minori dimensioni (come le libere città della Grecia antica e i Comuni del medioevo) hanno registrato un maggiore allargamento del ceto dominante e una maggiore partecipazione alle decisioni, ma di converso hanno anche assicurato, nella media, una minore protezione pratica alle popolazioni.
Un autentico cambio paradigmatico della natura dello stato si è realizzato con l’affermazione degli stati democratici contemporanei. Con la democrazia si è infatti capovolto il concetto di sovranità. Se negli stati assoluti d’epoca moderna la titolarità della sovranità era attribuita al re (appunto il “sovrano”) per diritto proprio o per un preteso “diritto divino”, nelle odierne democrazie la sovranità è attribuita al popolo. Certamente tale attribuzione ha una venatura utopica, e le realizzazioni concrete sono certamente parziali e molto diverse tra di loro, ciò nondimeno risultano conseguiti risultati pratici di grande significato e, quel che più conta, senza precedenti storici. Ludwig von Mises, nel suo Politica economica[13], tracciando un paragone tra gli imprenditori e gli antichi sovrani, evidenzia come, a differenza di questi ultimi, gli imprenditori son in realtà dei servitori. Ebbene, con la democrazia, qualcosa di analogo avviene per gli uomini di stato, che non sono più titolari della sovranità e sono di fatto servitori dei cittadini. Il loro potere è di fatto subordinato al consenso del popolo. Quando questo consenso viene meno, cessa anche il loro potere.  
Nel complesso la trattazione di don Beniamino appare un sostanziale misconoscimento della democrazia e un chiaro rimpianto dello stato assoluto dell’ancien régime, un rimpianto espresso in nome dell’affermazione del diritto di proprietà. Ebbene, valutando il concreto svolgimento storico, occorre riconoscere senz’ombra di dubbio  che, negli stati democratici europei e, generalmente, occidentali, nell’arco degli ultimi tre secoli (in forme e tempi diversi) si è realizzato il più ampio accesso alla proprietà di tutta la storia umana. Milioni di uomini e donne hanno avuto accesso alla proprietà, mentre nei secoli precedenti il ceto dei proprietarî era un ceto ristrettissimo, la grande maggioranza degli uomini e delle donne, invece, erano poveri privi di ogni diritto, beninteso anche quello della proprietà. E questo è stato vero tanto nell’antichità, quanto nel medioevo, che in epoca moderna.
Non solo, è con lo stato democratico che alla proprietà viene anche assicurata una tutela giuridica effettiva. In precedenza non si può parlare di una difesa giuridica effettiva. Anzi prima del 16. sec. non si può parlare nemmeno dell’istituto giuridico della proprietà privata  nel senso odierno del termine (e quindi nemmeno della sua difesa giuridica) quanto solo di possesso socialmente riconosciuto, che è cosa ben diversa. Certo la tutela giuridica della proprietà vigente negli attuali stati democratici, a seconda dei casi e dei punti di vista, può essere da alcuni ritenuta insufficiente, appare però decisamente difficile poter argomentatamente sostenere che le odierne democrazie segnino, sul terreno della tutela della proprietà, un passo indietro rispetto a quanto realizzato dalle concrezioni statuali che le hanno precedute.
Negli odierni stati democratici si è posta e si pone un’opportunità storicamente inedita per declinare al meglio la relazione persona/comunità, operando sulla promozione degli aspetti della complementarietà piuttosto che su quelli dell’opposizione.
Certamente c’è una relazione ancillare tra la dimensione sociale (e dello stato in essa) e la dimensione personale. Lo stato democratico è tale solo se opera per essere sempre più e sempre meglio al servizio dei cittadini, di ogni cittadino e di tutti i cittadini (la distinzione “di ogni” e “di tutti” non è un’inutile e ridondante ripetizione, quanto una doverosa sottolineatura della necessità di perseguire il progressivo conseguimento di concreti obiettivi di giustizia commutativa e distributiva). Ma lo stato democratico è tale anche a condizione che i cittadini assumano in proprio la responsabilità della cittadinanza. Si apre quindi un ampio spazio di educazione alla cittadinanza, una cittadinanza declinata tanto sul terreno del diritto (o dei diritti), quanto su quello della responsabilità (della sollecitudine per il bene comune e per gli altri). Uno spazio cui come credenti possiamo dare un ampio contributo, facendo tesoro delle numerosissime indicazioni in merito che l’insegnamento sociale della Chiesa ha ampiamente dispensato.
In una tale ottica appare quanto meno ingiustificata la forte polemica innescata da don Beniamino sul tema dell’imposizione fiscale. Sul piano generale il pagamento delle imposte costituisce la partecipazione dei cittadini alle spese comuni della società, quindi il loro mancato pagamento costituisce una grave mancanza rispetto a un preciso dovere di cittadinanza. Detto questo, risulta altrettanto essenziale stabilire che le spese comuni vanno determinate con la massima saggezza tenendo conto delle esigenze generali del corpo sociale, il loro ammontare deve essere monitorato con cura e con frequenza, le modalità della loro realizzazione deve essere sempre tenuta sotto il dèbito controllo, È un compito che spetta a tutti i cittadini per dovere di cittadinanza, ma dev’essere il compito primario degli organismi democratici.
Questi, sotto la vigilanza dei cittadini, devono determinare, valutare e monitorare con costanza e con grande saggezza politica i seguenti aspetti:
-          stabilire il set di servizî pubblici da finanziare con le entrate fiscali;
-          definire la distinzione delle attività e dei servizî da realizzare in forma pubblica da quelle da lasciare all’autonomia del mercato;
-          definire lo specifico livello di responsabilità cui attribuire lo svolgimento delle attività e dei servizî da realizzare in forma pubblica;
Questi tre aspetti non possono essere definiti una volta per tutte in forma astratta, in quanto le comunità vivono nella storia e si confrontano con le esigenze poste, di volta in volta, dalle contingenze storiche, dal progresso tecnico o da altro. In questo può essere di grande aiuto un principio che è oggetto di grande attenzione da parte dell’insegnamento sociale della Chiesa e cioè il principio di sussidiarietà, da declinare in forma complementare con i principî di adeguatezza e di economicità.
Il principio di sussidiarietà prevede di non assegnare mai una funzione a un livello superiore se tale funzione può essere svolta in forma più adeguata ed economica a un livello più basso. In questo quadro, per esempio, non avrebbe senso affidare allo stato nazionale la responsabilità in ordine all’organizzazione dei trasporti pubblici locali, quando ciò può essere fatto più adeguatamente a livello dello amministrazioni locali, più vicine ai problemi e alle esigenze dei territorî. Sul piano poi della vita civile appare poco consigliabile espropriare le famiglie delle responsabilità decisionali relative alla qualità di vita delle persone.

6.       Uno stato minimo, uno stato eccessivo o uno stato semplicemente … adeguato?
In contrapposizione a posizioni che nel secolo scorso si sono fatte promotrici di un ruolo esageratamente invasivo dello stato sulla detenzione della proprietà e sul controllo della produzione che nei casi estremi ha portato ai drammatici e tremendi esiti del socialismo reale, nelle variegate forme sovietiche, cinesi, coreane, cambogiane e cubane, don Beniamino, sulla scìa della teoria del laissez-faire, risalente a seconda dei punti di vista al protoliberista  J.C.M. Vincent de Gournay (1712-1759), al ministro di Luigi 15. René Louis de Voyer de Paulmy d'Argenson (1684-1757), o alla leggendaria figura del mercante Le Gendre in una sua famosa risposta a  Jean Baptiste Colbert (1619-1683), propone una visione definita dello stato minimo. Con ciò intende una posizione che tiene a riconoscere allo stato il solo svolgimento di pochissime funzioni, quali, per esempio, la difesa esterna e la cura dell’ordine pubblico.
Si tratta, a mio avviso, di una visione riduttiva, che nell’intento di scongiurare derive autoritarie finisce con lo sposare una visione che presenta analoghi connotati di autoritarismo, in quanto finisce per espropriare i cittadini, gli autentici detentori del diritto di sovranità, di decidere, ove ne ricorrano le condizioni, il grado di impegno nei servizî pubblici da attribuire alla funzione statale.
È qui che va giocata in tutte le sue potenzialità la corretta declinazione del principio di sussidiarietà, che richiede l’assunzione da parte dei cittadini di un grande senso di responsabilità civica, che permetta di concorrere alla saggia lettura, per ciascun servizio pubblico, delle condizioni di adeguatezza ed economicità che possono consigliare, di volta in volta, il livello di aggregazione sociale a cui collocare lo svolgimento e la responsabiltà di determinate attività. Ci sono di certo tante attività che è saggio lasciare alla responsabilità e alla libera attività delle persone, ci sono però altri àmbiti che è decisamente più adeguato ed economico svolgere in forma associata, talora a livello locale, in altri casi a livello nazionale, in altri casi ancora a livello europeo, in alcuni casi a livello mondiale[14].
Un pericolo nascosto nelle astratte teorizzazioni sullo stato minimo, risiede nella mancata analisi degli effetti nefasti che la recente prevalenza delle teorie neoliberiste, portavoci autorevolissime di istanze politiche intese a ridurre fortemente l’influenza delle politiche statali sull’economìa e a ridimensionare la dimensione dei servizî pubblici grazie all’agitazione dello slogan demagogico e deresponsabilizzante della riduzione della pressione fiscale. Dagli anni ’80, a partire dagli Stati Uniti, e successivamente in Europa, hanno preso sempre più consistenza linee di politica economica d’ispirazione liberista, che hanno finito per abbandonare al proprio destino le piccole e le medie attività economiche, lasciare privi di difese sociali i lavoratori dipendenti, rallentare pesantemente l’impegno pubblico nella ricerca scientifica e tecnologica, e operare un ripiegamento della vita economica in direzione della pratica finanziaria separata dalla produzione e dal lavoro. Il tutto in atmosfera da aurea mediocritas, dove la preoccupazione principale del ceto politico, liberato dall’onere di rendere conto ai cittadini dell’efficienza dei servizî pubblici, è stata quella di vivere di rendita sui livelli conseguiti con sacrificio e impegno dalle generazioni di statisti dei decennî precedenti. Di fatto la riduzione della spesa che le teorie dello stato minimo hanno generato, con i pesantissimi taglî ai servizî pubblici (compresi quelli di maggiore essenzialità), non si è tradotta in una riduzione dell’imposizione fiscale (che, anzi, è addirittura cresciuta), ma ha determinato una crescita della spesa pubblica per finalità estranee all’erogazione di servizî pubblici, come un’attenta analisi dei bilancî delle pubbliche amministrazioni consente con facilità di verificare (e questo non solo in Italia). Ciò ha altresì liberato il  ceto politico dall’onere di ricercare il consenso dei cittadini attraverso un impegno sulla qualità dei servizî pubblici assicurati alla cittadinanza. Questo ceto, liberato di fatto dalle sue funzioni istituzionali, ha trovato libero spazio finalizzato alla costruzione del consenso attraverso una pratica spettacolarizzata della visibilità sociale sugli strumenti di comunicazione sociale, sugli spalti degli stadî, nella pratica del clientelismo e di tutte quelle attività che la pubblicistica odierna definisce come caratteristiche della “casta”. Il tutto, come è ovvio, finanziato con i soldi dei contribuenti, usati sempre meno per erogare servizî pubblici e sempre più per improprî interventi sul mercato (questi, per altro, formalmente vietati dalla normativa europea, ma pacificamente praticati da tutti i 27 paesi aderenti e tranquillamente tollerati dalle stesse istituzioni europee), o per usi apertamente clientelari e illegali.


7.       Una corretta analisi dei pregiudizî.
Don Beniamino dedica un intero capitolo all’analisi dei pregiudizî contro la proprietà privata (p. 58-66), individuati innanzitutto nel comunismo e poi in tutte le forme di solidarismo (queste ultime considerate come “modalità parziali di realizzazione” del primo (cf. p. 61).

Il marxismo e le realizzazioni del socialismo reale.
Premetto che non sono un sostenitore del marxismo. Non lo sono stato nemmeno in anni in cui esercitava un certo fascino, perché non condivido i presupposti filosofici e culturali, che stanno alla base della concezione materialistica dell’uomo e della storia che Marx ha proposto. Devo tuttavìa evidenziare che il contributo di pensiero proposto Marx è il frutto di un poderoso sforzo speculativo, che prende le mosse da profonde istanze etiche di fronte alle misere condizioni umane di migliaia di lavoratori della prima rivoluzione industriale. Tale complesso di pensiero avrebbe meritato non una sbrigativa liquidazione, quanto un’adeguata presentazione, preliminare magari a una sua successiva confutazione argomentata. In ogni caso sarebbe stato necessario distinguere tra i limiti intrinseci agli schemi di pensiero proposti da Marx e le drammatiche realizzazioni successive, ispirate al suo pensiero, ma che in effetti non hanno visto la partecipazione concreta dello stesso Marx[15].Trovo poi alquanto fantasiosa la definizione del pensiero marxista come una sorta di spiritualismo di derivazione gnostica.
Pur essendo vero che nelle opere di Marx non si trova un'esposizione completa e a sé stante del problema antropologico, è tuttavìa possibile ricostruire la visione marxiana dell’uomo attraverso i varî testi. Il generale interesse per l'uomo che muove le opere di Marx, specialmente nel periodo giovanile, è alla base di successive interpretazioni (Sartre, Althusser, scuola di Francoforte, ecc.) che vedono nel pensiero marxiano una nuova filosofia dell'uomo; d'altra parte la frammentarietà dei riferimenti e l'assenza di una loro esposizione organica non impediscono di comprendere che, quando Marx dice che l'uomo è l'insieme dei suoi rapporti sociali vuole, tra l'altro, affermare l'impossibilità di una comprensione del problema dell'uomo al di fuori delle concrete condizioni storico-sociali nelle quali si trova a vivere ed operare; è stato poi fatto osservare come i concetti stessi, usati da Marx per descrivere la realtà storica nella quale si vive, rinviino a una sfera antropologica: così per esempio “sfruttamento”, “alienazione”, “reificazione”, “falsa coscienza”, sono in definitiva termini che descrivono modi di essere dell'uomo. Tutto ciò, nel pensiero di Marx, evidenzia come il fattore decisivo per la comprensione dell’uomo è rappresentato dalle basi materiali della sua condizione e Marx ripetutamente pone in risalto il fatto che le forme di coscienza, le idee, le relazioni con gli altri, sono di fatto strettamente legate alle caratteristiche di una determinata società.
Un’attenta lettura delle opere di Marx è dunque sufficiente a comprendere il carattere decisamente ancorato alle condizioni materiali di vita della sua comprensione dell’uomo e l’individuazione nella modifica di tali condizioni materiali il presupposto per la realizzazione di un nuovo paradigma storico. In tale complesso di pensiero, nonostante la sua poderosità e complessità, non c’è spazio per l’elemento spirituale, né Marx pretendeva che vi fosse, anzi. Applicare a tale complesso di pensiero un’etichetta spiritualistica, si rivela alla fine come un’operazione del tutto arbitraria.

Il solidarismo nelle sue varie forme.
Il variegato complesso di idee e movimenti storici, molto diversificato al proprio interno, comprendente il solidarismo (cristiano e non), il pacifismo, i movimenti no-global, la socialdemocrazia, il socialismo occidentale non rivoluzionario, i movimenti ambientalisti ed ecologisti, è inteso da don Beniamino come una modalità parziale di comunismo, che se da un lato rifiuta la caratteristica rivoluzionaria e violenta del programma comunista, ne condivide il nucleo culturale di fondo costituito dal rifiuto ideologico della proprietà privata e dal programma di superarla, sia pur gradualmente, nel contesto sociale e nei rapporti umani.
Ebbene, fatta la dèbita eccezione di alcune frange numericamente minoritarie, e tenuto conto che per ciascuno degli orientamenti in precedenza richiamati sarebbe necessaria un’analisi specifica, quando si etichetta il solidarismo (in tutte le sue varie forme) come contraddistinto da un pregiudizio in forma moderata contro la proprietà privata, si fa in effetti una violenza alla realtà delle cose, in quanto si attribuiscono a queste correnti di pensiero e movimenti d’opinione posizioni che in gran parte non hanno.
Alcune componenti (penso, per esempio, al pacifismo, all’ecologismo, ai movimenti solidaristici d’ispirazione cristiana) non hanno, e non hanno mai avuto, posizioni contrarie alla proprietà privata. Attribuire tali posizioni a movimenti che non si sono mai sognati di averle costituisce una falsificazione della realtà. Particolarmente grave è poi, in riferimento ai movimenti solidaristici d’ispirazione cristiana, quanto si legge a p. 62: «ciò per dire che anche la posizione moderata – quale ad esempio certo [corsivo mio] solidarismo religioso – condividendo il pregiudizio di fondo finisce con l’essere sostanzialmente [corsivo nel testo] più vicina al bolscevismo più estremo che non alla posizione che si rifà al diritto naturale».
Sorvolando sull’uso dell’aggettivo “certo”, per indicare in senso spregiativo una pluralità indeterminata di movimenti solidaristici d’ispirazione cristiana (che appare una pratica poco consona non solo a un clima di confronto culturale e scientifico, ma a maggior ragione a una fraterna riflessione intra-ecclesiale, alla luce della fede e della Parola rivelata), occorre porre in evidenza come in tali movimenti non vi sia alcuna condivisione di posizioni pregiudiziali contrarie al principio della proprietà privata e, dunque, non può essere individuata alcuna loro vicinanza “sostanziale” al bolscevismo. Allo stesso tempo è alquanto dubbia fondatezza dell’espressione, con cui si conclude la frase citata e con la quale don Beniamino rivendica alle proprie posizioni una sostanziale consonanza con la legge naturale. Se è vero, infatti, che è nella natura umana l’aspirazione al possesso (e dunque alla proprietà), è altrettanto vero (e forse addirittura preliminarmente vero) che nella natura umana risiede anche la vocazione alla socialità. Don Beniamino nella sua opera, di fatto, assolutizza il primo aspetto e svaluta il secondo, di conseguenza lo sforzo di ancorare le proprie posizioni al piano del diritto naturale, appare a mio avviso alquanto parziale. In ogni caso sarebbe da approfondire il significato e il ruolo della presenza cristiana nel mondo in rapporto all’esigenza di annunciare la novità di Cristo circa i rischî che ambedue le aspirazioni umane (quella alla proprietà e quella alla socialità) corrono concretamente e ricorrentemente nella storia. Parlo della concupiscenza del “possedere”, nel primo caso, e della concupiscenza del “potere”, nel secondo. Su entrambi i fronti si apre uno scenario di testimonianza, per un verso, sull’uso dei beni materiali (ivi compresa la funzione proprietaria), e, per altro verso, sul servizio agli altri (incluso l’esercizio temperato dell’autorità civile). Si tratta di campi aperti alla pratica della perizia laicale nel trattare le materie temporali, che richiede una grande capacità di leggere i segni dei tempi per poter comprendere la concreta volontà di Dio “qui” e “ora”, grazie a un confronto quotidiano con la pagina della Scrittura, con la tradizione delle Chiesa e con le acquisizioni del suo insegnamento sociale, ma anche attraverso una pratica di preghiera, meditazione e personalizzazione dell’invito alla sequela che Gesù ci ha rivolto, nonché con una profonda e radicata competenza nell’àmbito profano in cui ciascuno di noi si trova a operare.
Credo, infine, che coltivare una ragionevole complementarietà tra la dimensione personale e quella sociale sia un’opportunità di cui valersi con saggezza, onde scongiurare gli eccessi contrapposti del liberismo radicale, che finisce per produrre la concentrazione della ricchezza (e della proprietà) in pochissime mani, e del collettivismo di stampo sovietico che porta agli eccessi che la storia purtroppo ci ha mostrato.
Tornando poi più direttamente all’analisi della posizione espressa da don Beniamino sulle altre correnti di pensiero di natura solidaristica, ritengo sia necessario fare comunque una distinzione anche in riferimento a quelle componenti che, pur provenendo dalla matrice marxista (comune alle tradizioni comuniste affermatesi in Russia, Cina, Cambogia, Cuba, Corea, ecc.), hanno in tempi, modi e luoghi diversi maturato prima un rifiuto della prospettiva rivoluzionaria e poi una progressiva riconsiderazione e valorizzazione della proprietà privata. È il caso delle diverse esperienze della socialdemocrazia europea, del socialismo occidentale e, in epoca molto più recente, dello stesso movimento comunista europeo (ivi compreso quello italiano). Credo che nei confronti dei movimenti storici sia necessario saper applicare una strategìa dell’attenzione che comporti una valutazione positiva delle evoluzioni verso posizioni di messa in discussione di presupposti, prima ritenuti irrinunciabili, ma successivamente rivelatisi non affidabili, con la conseguente ricerca e individuazione di valori alternativi (magari prima combattuti od osteggiati). Ricordiamoci che in cielo si fa più festa per un peccatore pentito che per cento giusti (cf. Lc. 15,7)[16]. Questo principio evangelico credo vada applicato anche in riferimento a movimenti storici e di pensiero che nel corso del tempo maturano posizioni di maggiore rispondenza rispetto alla considerazione della dignità e dei diritti umani. Avrei invece una certa diffidenza per posizioni che, di fronte all’evoluzione della storia e al dipanarsi di grandi trasformazioni sociali, fanno fatìca ad aggiornare la propria visione e permangono arroccate su linee di pensiero e d’azione che potevano essere giustificate in contesti pregressi. C’è, in questo caso, una notevole somiglianza con il servo al quale il padrone affidò un solo talento e che, anziché impiegarlo e renderlo proficuo, per timore di perderlo, evitò di usarlo e lo nascose (cf. Mt. 25,14-30)[17].
 Occorre, infine, operare una considerazione storica. Dove e quando queste forze politiche e culturali d’ispirazione solidaristica (considerate nel loro complesso) hanno goduto di una consistente consenso popolare (per esempio nei paesi occidentali dagli anni ’50 agli anni ’80-’90) in concomitanza si è verificato un movimento massiccio di accesso alla proprietà da parte di ceti sociali che in precedenza ne erano esclusi. Quando, invece, dagli anni ’80, negli Stati Uniti d’America, e successivamente anche in Europa, con il coagularsi del consenso sociale intorno a proposte politiche d’ispirazione liberista, si è innescato un’inversione di tendenza che sta portando, ed è purtroppo drammatica attualità, a un processo sempre più pervasivo di concentrazione della ricchezza in pochissime mani.

8.       Il caso Italia.
Una posizione del tutto ingenerosa viene poi sostenuta lungo tutto il libro nei confronti dell’esperienza italiana. Certamente essendo immersi nella realtà del nostro paese non possiamo non accorgerci delle tante ombre che gravano su di essa. Ma, allo stesso tempo, occorre essere consapevoli della fondatezza del famoso proverbio popolare, secondo il quale «il giardino del vicino è sempre più verde» e quindi è essenziale condurre un’analisi obiettiva dell’esperienza storica dell’Italia democratica. Dalla trattazione di don Beniamino emerge una critica molto forte al processo di democratizzazione in Italia e un sostanziale rifiuto della Costituzione repubblicana. Ciò emerge in modo evidente in due punti. In primo luogo a p. 33 (nota n. 35), dove si legge «La Costituzione italiana fu elaborata da un’Assemblea parlamentare…» (corsivo mio); in secondo luogo a p. 65 (nota 74), dove si rinviene la seguente espressione: «La Costituzione repubblicana italiana era stata elaborata dalla cosiddetta Assemblea Costituente…» (anche qui il corsivo è mio). In questo modo di utilizzare l’articolo indeterminativo una e di etichettare l’Assemblea Costituente come cosiddetta, emerge un chiaro atteggiamento dispregiativo di un processo di aggregazione sociale che si è svolto in una condizione di grande difficoltà per le condizioni di vita del popolo italiano, appena uscito dalla guerra. Un processo che si è svolto nel quadro di un itinerario democratico, dove il popolo italiano ha trovato indubbî di solidarietà e di coesione interna per superare la grave situazione che aveva davanti ai proprî occhî.
La Costituzione, frutto dei lavori dell’Assemblea Costituente, è certamente un documento storico, a mio parere, di grandissima rilevanza, ma come tale e come tutti i prodotti storici presenta anche dei limiti. Ciò non deve impedire, però, di riconoscere il grande significato del processo costituente. Un processo che ha permesso a un paese, distrutto dall’esperienza della dittatura e dalla tragedia di una guerra devastante, di trovare le ragioni e la strada per una pacificazione interna e per un ancoraggio solido al mondo occidentale, ma anche di porre le premesse di uno sviluppo economico che in pochi decennî ha poi portato l’Italia tra i paesi maggiormente sviluppati. Uno sviluppo economico e culturale che, per aspetti quantitativi e qualitativi, non trova possibilità alcuna di raffronto con altre epoche storiche precedenti[18]. Ciò fu possibile in quanto nei lavori assembleari i padri costituenti seppero tracciare un compromesso alto tra le principali componenti politico-culturali del paese. In quelle circostanze ciascuna di queste componenti, ognuna a proprio modo, seppe porre al centro gli interessi del paese, rispetto a quelli di parte. Quella fu una lezione altissima di attenzione al bene comune del paese, da cui forse oggi abbiamo non poco da imparare.
In un altro punto del volume di don Beniamino (a p. 66, nota 76) la Costituzione viene si considerata un compromesso, ma un compromesso non alto, ma sostanzialmente negativo, dove la parte del leone sarebbe stata svolta dalle componenti social-comuniste. Si legge, infatti, testualmente: «Si è sempre convenuto su come la Costituzione italiana sia nata dal compromesso delle tre prevalenti culture politiche: il personalismo cattolico, il progressismo delle sinistre e l’iniziativa liberale. Si è parlato a volte di fusione delle tre visioni politiche; a volte di tre anime della Costituzione. Ad ogni modo se anche tutto ciò fosse nato da un inevitabile compromesso, la parte del leone evidentemente l’ha fatta l’influenza socialista. Un’egemonia così forte, tanto da avere il sospetto che la Costituzione nasca, sì, dall’incontro di tre anime, ma che esse siano quella della sinistra cattolica dossettiana, quella della sinistra azionista gobettiana e quella comunista gramsciana». Secondo l’opinione di don Beniamino, per la parte cattolica, ricadrebbe sulla componente dossettiana la responsabilità di aver accettato una piattaforma di accordo sostenuta da comunisti, socialisti e azionisti, che ha poi prodotto la carta costituzionale, che, fatte salve alcune modifiche successive, è, nella sostanza, quella che oggi noi conosciamo.
Orbene, prescindendo dal fatto che la carta costituzionale, lungi dall’inaugurare una sorta di via italiana ai Gulag, è stata di fatto la premessa per un’esperienza di governo del partito d’ispirazione cristiana durata alcuni decennî[19], mi sembra alquanto ingenerosa la valutazione negativa della figura di Giuseppe Dossetti. Questi in realtà è stato una delle figure più autorevoli dell’Assemblea Costituente. Da cattolico ha animato con impegno sia i lavori assembleari guadagnandosi la stima e l’apprezzamento di tutte le componenti, sia l’attività politica dei primi anni della Democrazia Cristiana. Esaurita, poi, la sua esperienza politica, lungi da ritagliarsi un, pur possibile, spazio privato di vita agiata, ha operato la scelta della vita monastica, ritirandosi nella comunità di Montesole (nei pressi di Bologna). Successivamente ha servito la comunità ecclesiale come apprezzato esperto dell’assemblea conciliare. Dopo il Concilio, e fino alla morte, non ha mai cessato la sua attività di insegnamento etico-sociale. Dossetti, a mio personale parere, è un esempio luminoso da proporre alle giovani generazioni, come alternativa di servizio alla pratica consueta di politici tanto inamovibili, quanto gelosi custodi del proprio status di uomini di potere.

9.       Giorgio La Pira, un complice delle atrocità dei Gulag?
Personalmente mi considero, sia pur inadeguatamente, un allievo spirituale di Giorgio La Pira, figura luminosa di laico cristiano che non ha avuto remore a impegnarsi totalmente nel trattare la materia temporale, guadagnandosi grande rispetto da interlocutori cristiani e non cristiani. Si può quindi comprendere la mia personale sorpresa e il conseguente imbarazzo che ho avvertito nel leggere le considerazioni condotte da don Beniamino a p. 56: «anche alcuni esperimenti di ingenua filantropia hanno considerato la proprietà come un istituto da sradicare – anche se in questo caso solo con la forza dei buoni propositi. Ma i risultati hanno solo accelerato lo squilibrio di partenza. Così come i discepoli di Giorgio La Pira (1904-1977), l’idealista sindaco di Firenze, che avevano deciso di eliminare le porte dalle loro case. Senza nulla togliere alle buone intenzioni di costoro, bisogna ricordare che la carità non è mai visionaria e chi l’ha praticata costruttivamente per secoli e millenni non ha mai considerato l’uscio un elemento di discriminazione o di avidità. Non c’è monastero in cui non ci si sia attivati per la carità, ma è anche vero che non c’è monastero che non abbia solide porte e possenti mura (spesso la carità veniva esercitata nel consentire la sicurezza all’interno delle mura del monastero che, per l’occorrenza, doveva anche fungere da fortezza e rifugio). La bizzarria dei discepoli di La Pira sembra essere più vicina all’utopia, che ha condotto ai bagni senza porte dei Gulag, che alla carità, che ha generato la sapienza dei monaci, robusta come le porte dei loro monasteri».
Nell’analizzare l’esperienza di Giorgio La Pira e del gruppo dei suoi amici e collaboratori, don Beniamino traccia una sorta d’analogia tra l’invito (invito, si badi bene, e non obbligo imposto dall’alto) a superare la logica dell’uscio chiuso e le tragiche e drammatiche condizioni di vita dei Gulag. Una tale analogia appare del tutto impropria in primo luogo perché non fondata su un’attenta ricostruzione storica dell’esperienza dei cristiani fiorentini negli anni ’50. In effetti l’idea guida (o slogan) dei cattolici fiorentini dell’uscio aperto era una proprosta politico-culturale che nasceva di fronte ai rischî di anonimato, isolamento e disgregazione sociale che il gruppo leggeva nei processi d’inurbamento nei nuovi rioni di edilizia economico-popolare che in quegli anni venivano nascendo nella città toscana. Un’idea non astratta né peregrina, né tantomeno calata dall’alto, ma strettamente legata a una consuetudine ampiamente diffusa, forse da secoli, nelle campagne toscane anche a poca distanza da Firenze. Una realtà quella delle campagne toscane, da cui provenivano gran parte delle famiglie che via via andavano a popolare i nuovi rioni fiorentini.
Grazie al fatto di aver avuto un genitore toscano e uno napoletano ho avuto la fortuna, nella seconda metà degli anni ’50 di trascorrere parte delle vacanze in un paesino agricolo in provincia di Lucca, enclave “bianca” nella “rossa” toscana. Ebbene nel paese di mio padre nessuno chiudeva l’uscio di casa. In casa di mia nonna i vicini entravano senza bussare e senza chiedere permesso. Ricordo che mia madre (napoletana) tentava di chiudere la porta e che mia nonna (toscana) le faceva notare che la cosa avrebbe rischiato di offendere i vicini e che comunque nessuno avrebbe mai rubato nulla. Il vicino di casa era percepito come un componente di una cerchia familiare allargata. Ho visto con i miei occhî il vicino di casa, in occasione di un improvviso temporale estivo, porre al riparo le pannocchie poste al sole sull’aia di mia nonna contemporaneamente alle proprie. Eppure si trattava di un contesto dove nessuno si sognava nemmeno per burla di porre in dubbio il diritto di proprietà. Ho avuto infatti più di un’opportunità di assistere, all’epoca, ad accese discussioni tra i compaesani di mio padre su questioni riguardanti il rispetto dei confini dei campi.
È a questo tipo di realtà che il gruppo di La Pira guardava con la propria  proposta e con lo sforzo di creare nei rioni popolari forme di aggregazione sociale e di partecipazione e di condivisione. Proponendo qualcosa di ben conosciuto, e spesso apprezzato, dai destinatarî della proposta, che ne verificavano l’assenza nella pratica di vita e ne provavano una sorta di nostalgìa. E in ciò manifestavano una disponibilità alla sperimentazione e alla pratica dell’iniziativa.
Era invece lontana mille miglia dalle intenzioni e dagli obiettivi politici del gruppo porre in discussione il principio della proprietà privata, profondamente condiviso dai promotori. D’altronde la cosa non sarebbe stata condivisa dai destinatarî, culturalmente partecipi della sana visione contadina della piccola proprietà. E, oggi, se a oltre mezzo secolo di distanza possiamo valutare che se la periferìa urbana di Firenze (quella costruita tra gli anni ’50 e i primi anni ’60) è stata meno interessata da fenomeni di degrado sociale rispetto ad altre realtà comparabili (penso, per esempio, alla non distante e dimensionalmente paragonabile Bologna), un qualche merito è forse da ricondurre anche a quell’esperienza.
Sul piano dell’attenzione alla proprietà non va infine dimenticato che l’amministrazione La Pira si distinse in modo particolare per l’azione intesa a garantire l’accesso dei lavoratori alla proprietà della casa. Nulla di più distante, dunque, dalla pratica culturale e politica di La Pira e dei suoi collaboratori delle prospettive sovietiche di eversione della proprietà privata e tantomeno della spietata logica lageristica dei gulag.
In secondo luogo, l’analogìa impropria tracciata da don Beniamino dovrebbe porre in guardia da un uso acritico della comparazione sincronica. Raffrontare, senza le preventive precauzioni (operando una preliminare, prudente, larga e necessaria tara degli inevitabili elementi di differenziazione), realtà molto distanti geograficamente e culturalmente (come è proprio il caso della nostra città toscana e della Russia sovietica), espone al rischio reale e molto alto d’incorrere in deduzioni inesatte[20].
In terzo luogo ritengo che la giustificata preoccupazione di prevenire sempre possibili derive dittatoriali di stampo sovietico non debba tradursi in una sorta di atteggiamento ossessivo che, se portato all’estremo, rischia di far perdere di vista la necessità di analizzare realisticamente i fatti e di collocarli nel proprio specifico contesto. Oggi nel secondo decennio del 21. sec. l’anticomunismo può facilmente correre il rischio d’essere una pratica scontata (a dire il vero un po’ rétro), ma negli anni ’50, per uomini come Giorgio La Pira, il confronto con i comunisti costituiva un impegno quotidiano (ed erano i comunisti togliattiani, ancóra ampiamente influenzati e condizionati, sul piano del pensiero e dall’azione, dalle ipoteche staliniane). E questo in un’epoca in cui il confronto est-ovest era ancora in corso e il suo esito era tutt’altro che scontato. L’esigente e intelligente confronto, condotto su un alto profilo etico, da La Pira e dai suoi con gli ambienti d’ispirazione comunista, ha contribuito non poco a far emergere in essi personalità significative e di alto profilo umano. Tutto questo si è poi tradotto in concreti beneficî per la comunità cittadina e, in quota-parte, ritengo abbia anche contribuìto alla successiva evoluzione in senso democratico del movimento comunista italiano.

10.   Una civiltà cristiana?
A p. 123, nell’àmbito di un capitolo dedicato all’analisi del rapporto tra “Proprietà e civiltà”, incontro un ripetuto riferimento al concetto di “Civiltà cristiana”. In un primo punto, in riferimento a posizioni definite unilateralmente “pseudo-cristiane” e a posizioni socialisteggianti, si legge «ciò vale sia per il giudizio verso la Civiltà cristiana, sia verso la libertà economica, sia verso la ricchezza, la prosperità e, di riflesso, verso la stessa economìa». Il discorso prosegue con l’affermazione: «potremmo dire che il pregiudizio per la Civiltà cristiana è in buona misura parallela al preconcetto verso la proprietà privata». Qualche rigo dopo il concetto ritorna nuovamente allorché si dice: «Analogamente a ciò che avviene con il pregiudizio verso la ricchezza e la prosperità che viene coltivato parallelamente alla critica alla Civiltà cristiana» [i corsivi sono miei].
Rispetto a queste affermazioni devo dire che faccio una certa fatica a pensare al Cristianesimo come a una civiltà. Il Cristianesimo è la fede in Gesù Cristo, figlio di Dio, incarnatosi nella storia, morto e risorto per la salvezza di tutti gli uomini. Ed è questa fede che noi siamo chiamati ad annunciare a tutti gli uomini, di ogni epoca, di ogni luogo, di ogni cultura e di ogni civiltà (cf. Mc. 16,15 e Mt. 28,19)[21]. In Cristo, infatti, non c’è giudeo né greco (cf. Col. 3,11)[22]. La fede cristiana dunque non può essere una prerogativa esclusiva di una singola civiltà umana, per quanto prestigiosa (ma non esente da limiti), qual è quella occidentale[23].
La fede cristiana deve poter entrare in relazione feconda con tutte le culture umane, parlare tutte le lingue del mondo, per interpellare gli uomini di ogni luogo e di ogni epoca, attraverso i percorsi dell’inculturazione. È l’evento della Pentecoste.
Questo non significa negare che la civiltà occidentale sia stata e sia profondamente segnata dal cristianesimo. Anzi proprio questo dato è il segno di un’inculturazione realizzata, con tante, tantissime luci, ma anche con ombre, che non vanno né esorcizzate, né sottaciute, ma analizzate in autentico spirito di verità. Proprio l’esperienza occidentale dimostra, invece, una cosa: l’inculturazione, per la fede cristiana, è un processo obbligato e possibile, che altri uomini di altra cultura possono portare avanti (e che i cristiani di Africa, America Latina e Oceania, con i tempi lunghi della storia, stanno in effetti realizzando), seguendo sentieri proprî, con il vantaggio, prefigurato da Bernardo di Chartes, di poter vedere più lontano perché posti dalla storia sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto, la cui lezione la tradizione cristiana pone a loro e a nostra disposizione.
L’errore che si deve evitare è invece quello di etichettare come cristiane le realizzazioni umane. Non dobbiamo convertire Dio alla realtà umana (i nazisti, per esempio, usavano lo slogan “Gott mit uns”, che vuol dire “Dio con noi”), ma siamo noi uomini a essere chiamati alla conversione a Dio. Ed è in forza della conversione che assumiamo il compito di animare cristianamente le realtà temporali, impegnandoci in progetti storici fianco a fianco con altri uomini, magari di altra fede, ma con la luce che deriva dalla nostra speranza in Cristo Gesù.

11.   L’attuale crisi economica.
A questo punto avverto l’esigenza di spendere alcune parole sul tema della lezione del 14 maggio scorso, che don Beniamino ha dedicato all’analisi della grave crisi che stanno attraversando le economie del mondo occidentale.
Nella sua esposizione don Beniamino[24] ha analizzato tre aspetti che, a suo avviso, pongono in evidenza come l’eccessivo peso della spesa pubblica, coartando le possibilità di sviluppo dell’economìa, costituirebbe la vera e autentica causa della crisi economica. I tre aspetti, posti in evidenza, sono stati sostanzialmente individuati: a) nell'alto dèbito pubblico prodotto da un’eccessiva statalizzazione dell’economìa; b) in una politica monetaria poco attenta a salvaguardare il valore della moneta stessa, che è divenuta fattore stimolante dell’inflazione; c) nell’eccessivo peso dell’imposizione fiscale. Sarebbe dunque necessario un drastico taglio della spesa pubblica, che, liberando risorse, porrebbe l’economìa nelle condizioni di recuperare competitività e di superare l’attuale crisi.
Con un’analisi più accurata le cose, tuttavìa, si dimostrano molto più complesse di quanto possano apparire da una mera sovrapposizione di schemi teorici alla realtà dei fatti. Di certo gli elementi posti in luce rivestono una loro rilevanza e il contenimento della spesa pubblica, ma più ancora il controllo della sua finalizzazione, presenta un indubbio riflesso sulla vitalità dell’economìa, anche se in termini molto diversi da quelli proposti da don Beniamino[25].
L’aspetto che, invece, mi preme di non trascurare è che l’analisi tracciata nella lezione da don Beniamino si colloca per lo più sul piano delle singole economìe nazionali, ponendo in evidenza aspetti che è giusto tenere in dèbita considerazione perché significativi interventi nel loro àmbito (di natura molto diversa da quelle ventilate da don Beniamino, se non si vogliono aggravare ulteriormente i fattori di crisi) possono contribuire senz’altro alla fuoriuscita dalla crisi. Ma senza l’individuazione delle sue reali cause, non è possibile indicare i rimedî reali e veramente efficaci, e si può finire nel rendere inutili, inefficaci e, per giunta, dannosi le misure meramente restrittive che la trattazione di don Beniamino propone, pur prescindendo da accenni non tematizzati a nostalgìe neoborboniche e ad auspicati scenarî di fallimento.
L’analisi meramente ancorata al piano delle economìe nazionali non può pervenìre alla comprensione delle più autentiche ragioni della crisi che è più propriamente sovranazionale e coinvolge pressoché tutte le economìe del mondo occidentale, compresi i paesi considerati economicamente più virtuosi[26]. Soffermarsi solo sugli aspetti afferenti al piano nazionale somiglia molto al comportamento di chi, di fronte all’inondazione di una vallata, si preoccupa solo dell’aspetto, pur necessario, della difesa delle singole abitazioni, senza preoccuparsi delle cause effettive dell’inondazione.
Ciò precisato, mi sembra che non sia stato investigato adeguatamente il ruolo giocato nella crisi dal fattore dell’innovazione tecnologica, né quello della relazione di quest’ultima con il progressivo esaurirsi delle risorse energetiche non rinnovabili e con i problemi generali della sostenibilità planetaria dello sviluppo economico.
Se facciamo un’analisi rapidissima delle caratteristiche dello sviluppo economico in occidente negli ultimi 80 anni, possiamo verificare come il mondo occidentale, e gli Stati Uniti d’America in primis, ha operato due grandi sforzi di crescita tecnologica che hanno determinato l’acquisizione di un notevole vantaggio competitivo di cui ha beneficiato l'economìa negli anni successivi.
Il primo e grande sforzo è avvenuto prima e durante la seconda guerra mondiale. In tale periodo soprattutto gli Stati Uniti d’America hanno operato una grandissima mobilitazione di energìe, di risorse, di capitali (in gran parte pubblici) che ha permesso di avvantaggiarsi in settori strategici, per l’epoca, della ricerca scientifica e sul piano della capacità produttiva industriale, surclassando quella delle potenze contrapposte. Ciò ha permesso agli Stati Uniti di conseguìre la vittoria nel confronto bellico, ma anche di poter orientare la ricostruzione in Europa e in Asia. Grazie a questo sforzo essi hanno ottenuto una posizione dominate sul piano mondiale, che oltre a esprimersi in una capacità produttiva superiore in termini quantitativi e qualitativi, si è tradotta anche in una riconosciuta supremazìa culturale.
Negli anni ’50 e ’60 gli Stati Uniti e, con essi, il mondo occidentale hanno, poi, dovuto sostenere il duro confronto est-ovest. Un confronto davvero epocale, il cui èsito era in quegli anni tutt’altro che scontato, basti pensare che sul piano della ricerca e su quella spaziale in modo particolare, nel passaggio dagli anni ’50 ai ’60 l’Unione Sovietica appariva decisamente in vantaggio. Anche in quest’occasione, grazie a una nuova mobilitazione di risorse, energìe e capacità, con un grande rilievo del contributo pubblico, in particolare nel breve triennio della presidenza Kennedy è stato operato un nuovo grande sforzo di ricerca che, con l’impulso al programma spaziale, ha permesso agli Stati Uniti e all’occidente di recuperare il ritardo e di sopravanzare sul piano tecnologico l’Unione Sovietica. La Nuova frontiera kennediana fu tuttavìa non solo un progetto tecnologico, ma anche una vera ‘e propria alternativa culturale, che rese, pur nella comprensibile, varietà degli orientamenti (anzi proprio grazie alla garanzìa democratica evidenziata da questa differenziazione interna), l’America di Kennedy, Martin Luther King e Joan Baez un autentico faro di libertà e di democrazìa per il mondo intero.
Il vantaggio tecnologico conseguìto in quegli anni ha posto le premesse decisive per vincere nei decennî successivi il confronto est-ovest, ma ha anche garantito al sistema occidentale di poter godere di condizioni di particolare favore sul piano economico. Basti pensare che tutte le acquisizioni tecnologiche sul terreno della comunicazione satellitare, delle reti di comunicazione, della miniaturizzazione e della computerizzazione hanno le loro radici in quegli anni.
Successivamente, quando si è compreso che il confronto della guerra fredda era stato vinto e sostanzialmente superato, e con il prevalere degli orientamenti liberisti è apparsa non più necessaria una mobilitazione consistente sul piano tecnologico, di qui il progressivo disimpegno dai programmi spaziali, dall’impegno pubblico nei servizî alle persone e alla società civile, e la proposizione di modelli di stato minimo, si è data libera mano ai processi di concentrazione della ricchezza, di misconoscimento della funzione del lavoro e della cultura/conoscenza, lasciando senza orientamento il complesso delle imprese di media e di piccola dimensione, alle quali, alla fine, non è restata altra scelta per difendere o recuperare competitività che imboccare la strada (per altro senz’uscita) della compressione dei costi relativi al lavoro e alla qualità della produzione.
A sèguito di questa sintetica analisi dovrebbe apparìre sufficientemente chiaro che per uscìre dalla crisi attuale sarebbe necessario, in particolare per l’Unione Europea, anziché proporre ulteriore compressione del lavoro, nuovi taglî alla cultura e alla ricerca, o minacciare punizioni o espulsioni per paesi ritenuti, a torto, poco affidabili, trovare nelle proprie ragioni costitutive i motivi e gli ideali per proporre ai popoli di tutta Europa una credibile e generale mobilitazione di energìe, risorse e capacità, per costruire finalmente l’unione politica, col superamento di quella attuale meramente finanziaria, e per, innescare, grandi programmi di ricerca scientifica di altissimo livello intesi a determinare un nuovo salto di paradigma sul piano dell’innovazione tecnologica, magari nei campi della ricerca finalizzata a un’attività economica autenticamente sostenibile, capace di contribuìre alla salvaguardia della creazione, alla valorizzazione del patrimonio culturale del continente e dei tesori di competenza presenti nei paesi dell’Unione, offrendo in questi stessi paesi alti servizî alla dignità delle persone.

12.   L’insegnamento sociale: coscienza critica dell’impegno laico.
A conclusione di queste mie riflessioni vorrei sottolineare come sia normale che nella comunità ecclesiale si diano credenti laici che possono essere impegnati su progetti storici diversi e persino contrapposti, su cui essi rischiano in piena autonomìa il proprio impegno, ma nei quali scelgono di far rifulgere la speranza cristiana che li anima. Il magistero sociale della Chiesa costituisce allora il punto intorno al quale le diversificate esperienze di impegno sociale dei cristiani si confrontano e s’interpellano per rafforzare e far costantemente maturare le ragioni e la qualità della testimonianza. La presenza dei cristiani negli schieramenti politici e sociali (anche contrapposti) è infatti una garanzia fondamentale per l’esercizio e la pratica, in ogni possibile contesto (anche quelli più estremi), delle virtù della misericordia e dell’attenzione agli esseri umani.
Di qui l’esigenza di operare una riflessione sui drammatici e inèditi problemi che l’umanità del 21. sec. si trova di fronte e con i quali deve fare i conti, nella convinzione, sulla scìa della Gaudium et spes, che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini (…), sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (GS. 1). Oggi l’umanità è chiamata a sostenere la sfida per garantire la conservazione del creato e per assicurare a tutti gli esseri condizioni dignitose di vita. Noi credenti, siamo a nostra volta sfidati a essere fedeli amministratori della creazione e solleciti rispetto alle necessità dei fratelli, e quindi chiamati a impegnarci, fianco a fianco con altri uomini, in progetti concreti che si propongono, magari in concorrenza e in alternativa, di dare risposte positive e concrete alle due sfide innanzi richiamate, ricercando, semmai fino allo spasimo della volontà e dell’intelletto, le vie e le ragioni per declinare le categorie bibliche dell’alleanza e della promessa nell’àmbito della concreta realtà dei nostri giorni.

(Sergio Sbragia)
Vico Equense, domenica 3 giugno 2012



[1] – Le definizioni di “cattolicesimo democratico” e di “cattolicesimo liberale” hanno la funzione di identificare due grossi schieramenti (molto variegati al proprio interno), di persone, di movimenti, di gruppi, di scuole di pensiero. Per cattolicesimo democratico s’intende quindi uno schieramento che pone prevalentemente l’accento sulla dignità della persona umana, il riconoscimento dei diritti umani e la promozione della solidarietà sociale. Per cattolicesimo liberale s’intende invece uno schieramento che accentua i valori del regolare funzionamento del mercato e dell’efficienza economica, come effettiva premessa al soddisfacimento del maggior numero di bisogni umani. Naturalmente l’uso degli aggettivi “democratico” e “liberale” non riveste un carattere di esclusività, ma solo la denotazione di un’attenzione prevalente. Fatta eccezione di opposte posizioni di gruppi radicali, per quanto minoritarî, dire “cattolicesimo democratico” non implica il misconoscimento del valore dell’economia liberale, e, per contro, parlare, di “cattolicesimo libera–le” non equivale alla negazione dei principî base delle società democratiche.
[2] – «Ma io vi dico: amate i vostri nemici pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,44).
«Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano […] Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figlî dell’Altissimo» (Lc. 6,27.35a).
[3]Tommaso : d’Aquino <santo>, Summa theologiae, p. 1., q. 1., a. 9.
[4]Bernardino Telesio, De rerum natura iuxta propria principia, 1565.
[5] – Joannes Paulus <papa ; 2.>, Lettera enciclica Sollicitudo rei socialis, n. 42, in «Il Regno – Documenti», , 43. (1988) 05, p. 144.
Né sarà da trascurare, in questo impegno per i poveri, quella speciale forma di povertà che è la privazione dei diritti fondamentali della persona, in particolare del diritto alla libertà religiosa e del diritto, altresì, all'iniziativa economica (SRS. 42).
[6] – Pontificio Consiglio della giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 326, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 2004, p. 179-180.
Alla luce della Rivelazione, l'attività economica va considerata e svolta come risposta riconoscente alla vocazione che Dio riserva a ciascun uomo. Questi è posto nel giardino per coltivarlo e custodirlo, usandone secondo limiti ben precisi (cfr. Gen 2,16-17), nell'impegno di perfezionarlo (cfr. Gen 1,26-30; 2,15-16; Sap 9,2-3). Facendosi testimone della grandezza e della bontà del Creatore, l'uomo cammina verso la pienezza della libertà a cui Dio lo chiama. Una buona amministrazione dei doni ricevuti, anche dei doni materiali, è opera di giustizia verso se stessi e verso gli altri uomini: ciò che si riceve va ben usato, conservato, accresciuto, come insegna la parabola dei talenti (cfr. Mt 25,14-30; Lc 19,12-27).
L'attività economica e il progresso materiale devono essere posti a servizio dell'uomo e delle società; se ci si dedica ad essi con la fede, la speranza e la carità dei discepoli di Cristo, anche l'economia e il progresso possono essere trasformati in luoghi di salvezza e di santificazione; anche in questi ambiti è possibile dare espressione ad un amore e ad una solidarietà più che umani e contribuire alla crescita di una umanità nuova, che prefiguri il mondo dei tempi ultimi. Gesù sintetizza tutta la Rivelazione chiedendo al credente di arricchire davanti a Dio (cfr. Lc 12,21): anche l'economia è utile a questo scopo, quando non tradisce la sua funzione di strumento per la crescita globale dell'uomo e delle società, della qualità umana della vita (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 326).
[7] – Joannes Paulus <papa ; 2.>, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 34, in «Il Regno – Documenti», 36. (1991) 11, p. 341.
Sembra che, tanto a livello delle singole Nazioni quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavìa, vale solo per quei bisogni che sono «solvibili», che dispongono di un potere d'acquisto, e per quelle risorse che sono «vendibili», in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. È stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi periscano. È, inoltre, necessario che questi uomini bisognosi siano aiutati ad acquisire le conoscenze, ad entrare nel circolo delle interconnessioni, a sviluppare le loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse. Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia, che le son proprie, esiste un qualcosa che è dovuto all'uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità. Questo qualcosa dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo al bene comune dell'umanità.
Nei contesti di Terzo Mondo conservano la loro validità (in certi casi è ancora un traguardo da raggiungere) proprio quegli obiettivi indicati dalla Rerum novarum, per evitare la riduzione del lavoro dell'uomo e dell'uomo stesso al livello di una semplice merce: il salario sufficiente per la vita della famiglia; le assicurazioni sociali per la vecchiaia e la disoccupazione; la tutela adeguata delle condizioni di lavoro (CA. 34).
[8] – Joannes Paulus <papa ; 2.>, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 34, in «Il Regno – Documenti», 36. (1991) 11, p. 343.
È compito dello Stato provvedere alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l'ambiente naturale e l'ambiente umano, la cui salvaguardia non può essere assicurata dai semplici meccanismi di mercato. Come ai tempi del vecchio capitalismo lo Stato aveva il dovere di difendere i diritti fondamentali del lavoro, così ora col nuovo capitalismo esso e l'intera società hanno il dovere di difendere i beni collettivi che, tra l'altro, costituiscono la cornice al cui interno soltanto è possibile per ciascuno conseguire legittimamente i suoi fini individuali.
Si ritrova qui un nuovo limite del mercato: ci sono bisogni collettivi e qualitativi che non possono essere soddisfatti mediante i suoi meccanismi; ci sono esigenze umane importanti che sfuggono alla sua logica; ci sono dei beni che, in base alla loro natura, non si possono e non si debbono vendere e comprare. Certo, i meccanismi di mercato offrono sicuri vantaggî: aiutano, tra l'altro, ad utilizzare meglio le risorse; favoriscono lo scambio dei prodotti e, soprattutto, pongono al centro la volontà e le preferenze della persona che nel contratto si incontrano con quelle di un'altra persona. Tuttavìa, essi comportano il rischio di un'«idolatria» del mercato, che ignora l'esistenza dei beni che, per loro natura, non sono né possono essere semplici merci (CA. 40).
[9] – Pontificio Consiglio della giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 347, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 2004, p. 190-191.
Il libero mercato è un'istituzione socialmente importante per la sua capacità di garantire risultati efficienti nella produzione di beni e servizi. Storicamente, il mercato ha dato prova di saper avviare e sostenere, nel lungo periodo, lo sviluppo economico. Vi sono buone ragioni per ritenere che, in molte circostanze, «il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni». La dottrina sociale della Chiesa apprezza i sicuri vantaggî che i meccanismi del libero mercato offrono, sia per una migliore utilizzazione delle risorse, sia per l'agevolazione dello scambio dei prodotti; questi meccanismi, «soprattutto, pongono al centro la volontà e le preferenze della persona che nel contratto si incontrano con quelle di un'altra persona».
Un vero mercato concorrenziale è uno strumento efficace per conseguire importanti obiettivi di giustizia: moderare gli eccessi di profitto delle singole imprese; rispondere alle esigenze dei consumatori; realizzare un migliore utilizzo e un risparmio delle risorse; premiare gli sforzi imprenditoriali e l'abilità di innovazione; far circolare l'informazione, in modo che sia davvero possibile confrontare e acquistare i prodotti in un contesto di sana concorrenza (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 347).
[10]Concilio Ecumenico Vaticano <2. ; 1962-1965>, Tutti i documenti del Concilio : testo italiano dei 16 documenti promulgati dal Concilio Ecumenico Vaticano 2. conforme all'edizione tipica vaticana, 3. Ed., Unione cattolica insegnanti medi, Roma; Massimo editrice, Milano, 1969, p. 216.
La proprietà e le altre forme di potere privato sui beni esteriori contribuiscono alla espressione della persona e danno occasione all'uomo di esercitare il suo responsabile apporto nella società e nella economia, è di grande interesse favorire l'accesso degli individui o dei gruppi ad un certo potere sui beni esterni (GS, 71).
[11] – Pius <papa ; 9>, Lettera enciclica Quanta cura e Sillabo dei principali errori dell’età nostra, che son notati nelle allocuzioni concistoriali, nelle encicliche e in altre lettere apostoliche del SS. Signor nostro papa Pio 9., 1864.
E mentre ciò temerariamente affermano, non pensano e non considerano che essi predicano la libertà della perdizione, e che «se alla umana persuasione sempre sia libero il disputare, non mai potranno mancar quelli che ardiscono resistere alla verità, e confidare nella loquacità dell’umana sapienza, mentre quanto la cristiana fede e sapienza debba evitare questa nocevolissima vanità, lo conosce dalla stessa instituzione del Signor Nostro Gesù Cristo» (Quanta cura). [corsivo mio].
[12] – Don Beniamino formula questa indicazione metodologica nel delineare la propria visione della relazione tra proprietà privata e bene comune. Personalmente condivido questa impostazione, fondata sul riconoscimento della complessità del reale. Anche se la complessità del reale è una caratteristica che è necessario avere in dèbito conto anche quando si affrontano altri problemi (rapporti proprietà-lavoro, proprietà-diritti umani, proprietà-cultura, proprietà-socialità, proprietà pubblica e proprietà privata, lavoro privato e lavoro pubblico, ecc.). A mio parere, tuttavìa, si tratta di un’acquisizione di sapienza umana, ampiamente condivisa dalla speculazione teologica cristiana. Un po’ fantasioso mi appare invece lo sforzo di targare cristianamente quest’indicazione. Sia perché la chiamata che Gesù fa a ciascuno di noi è un autentico «aut - aut» (“Se vuoi, lascia tutto e sèguimi” – Mt. 19,21; oppure “Non potete servire Dio e la ricchezza” – Mt. 6,24), sia perché la presenza delle nature umana e divina in Gesù Cristo non è interpretabile con un semplicistico “et – et”, come insegna il Concilio di Calcedonia (“Insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio: il Signore nostro Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, uno e medesimo Cristo Signore unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, essendo stata salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, Verbo e Signore Gesù Cristo). Più ispirata all’”et – et” sembrerebbe la posizione nestoriana.
[13] – L. von Mises, Politica economica : Riflessioni per oggi e per domani, LiberiLibri, Macerata, 2007, p. 7 (titolo originale: Economic Policy : Thoughts for Today and Tomorrow).
[14] – Penso, per esempio, a un’inedita funzione che si rivela sempre più necessario che venga declinata sul piano mondiale, accanto al controllo della sostenibilità climatico-ambientale e della proliferazione degli armamenti atomici, batteriologici e chimici. È il caso della regolamentazione mondiale dell’attività finanziaria, come autorevolmente proposto dal documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di un’autorità pubblica a competenza universale, Città del Vaticano, 2011.
[15] – A dire il vero non il solo Marx è vittima dello zelo eccessivo di epigoni di spessore etico e culturale decisamente mediocre. Qualcosa di analogo, fatte del dèbite proporzioni, è toccato nel nostro paese al prof. Marco Biagi, studioso di problematiche di sociologia del lavoro e in particolare autore di proposte per la valorizzazione delle potenzialità produttive del lavoro. Ebbene, dopo la sua morte, epigoni di discutibile levatura politica hanno preteso di ancorare alla sua figura proposte e azioni politiche (finanche una legge, che con una buona dose di scorrettezza è stata etichettata col suo nome) che, se esaminate a fondo, si dimostrano molto lontane dalla lezione del defunto prof. Biagi.
[16] – «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (Lc. 15,7).
[17] – «Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Sùbito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: "Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo". Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti"» (Mt. 25,14-30).
[18] – A questo proposito non sembra fondata l’obiezione che talora vien fatta da sponda liberista, con il ricorso all’argomentazione del “nonostante”. È questa una posizione che punta a sostenere che l’economia per propria intrinseca vitalità, nell’Italia del dopoguerra, si è sviluppata nonostante i limiti e i condizionamenti posti dal processo costituente e da una supposta invadenza statalista. Anzi, secondo i sostenitori, di tale linea di pensiero lo sviluppo economico italiano sarebbe stato senz’altro maggiore se il paese non avesse dovuto soffrire i limiti di tali condizionamenti. Questa posizione tuttavìa è una pura ipotesi teorica, che non può essere corroborata da una verifica storica. La storia testimonia, invece, che l’Italia del dopoguerra ha sperimentato un serio processo costituente, un proprio itinerario di democratizzazione, un protagonismo dello stato nel delineare un quadro di servizî pubblici e nel dispiegare un certo protagonismo in campo economico. Tutto ciò ha convissuto, in forma complementare, con uno sviluppo senza precedenti della proprietà privata, dell’economia nazionale e della ricchezza diffusa tra i cittadini. Con tutta probabilità ne è stato anche significativo fattore di stimolo. Ipotesi su eventuali caratteristiche di scenarî alternativi sono un mero esercizio di fantasia, che non può essere ragionevolmente provato.
[19] – Un’esperienza di governo che negli anni ’50 e ’60 ha avuto indubbî connotati di positività e che, invece, ha subìto un processo di involuzione e decadimento negli anni ’70 e ’80, per una grave scissione tra la piattaforma ideale e valoriale di riferimento e la concreta pratica della gestione politica.
[20] – Ovviamente ciò non implica che un confronto sincronico non possa essere condotto. Può essere operato, e come! Occorre però molta prudenza considerando analiticamente gli elementi di differenziazione, i contesti culturali, i punti di partenza, le vocazioni produttive e operative delle comunità interessate, i processi storici che le hanno interessate e innervate (certo anche queste dimensioni potrebbero essere oggetto d’intervento, ma ciò porrebbe la necessità di massicce dosi di dirigismo, che mi sembra – e qui lo condivido – proprio l’elemento che don Beniamino tiene maggiormente a scongiurare). D’altronde anch’io solo qualche rigo fa ho tracciato un confronto sincronico (quello tra le aree urbane di Firenze e Bologna). Nel delinearlo ho, tuttavìa, accuratamente evitato il raffronto sia con le metropoli del nord (penso, per esempio, a realtà come quelle di Milano e Torino), sia con quelle del centro, del sud e delle isole (come sarebbe il caso di Roma, Napoli, Palermo). Troppo diversi i contesti, come anche la storia, le condizioni di partenza e le stesse dimensioni. Il confronto sarebbe stato privo di ragionevoli premesse metodologiche. Molto più affidabile, a mio parere, il confronto diacronico. La comparazione tra diverse fasi storiche vissute permette in forma molto più affidabile di valutare elementi di progresso o di regresso. Analizzando la storia di una comunità, una città, una regione, un paese è possibile con una maggiore attendibilità stabilire quando si è registrata un’acquisizione o quando si è subìta una perdita.
[21] – «E disse loro: "Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”» (Mc. 16,15).
«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt. 28,19).
[22] – « Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col. 3,11).
[23] – Né mi sembra percorribile la strada di definire come non afferenti alla civiltà occidentale, i fenomeni degenerativi più biechi quali il nazismo. Quanto leggo a p. 117 [“Il nazionalsocialismo (o «nazismo») quindi – ecco l’esempio – pur essendosi sviluppato in Europa, ne ha radicalmente rinnegato le radici, tanto che si presenta non come il figlio, ma l’assassino dell’Occidente”], mi dà l’impressione di una sorta di autoassoluzione. In effetti, l’esperienza nazista si è verificata proprio in Europa, non certo in Papuasia, e in Europa ha trovato le radici politiche e culturali, nonché l’ampio consenso di fatto dei ceti proprietarî tedeschi. Così come i ceti proprietarî italiani, portoghesi, greci, spagnoli, cileni, argentini, hanno fornìto consenso effettivo alle dittature che nel secolo scorso si sono imposte in questi paesi. Il tutto a testimonianza che la proprietà è, sì, un valore, ma non deve assumere un ruolo esclusivo, va sempre declinato in forma complementare con altri valori altrettanto significativi, quali il lavoro, la cultura, la libertà. Di tremende realtà quali il nazismo, noi europei purtroppo portiamo la responsabilità rispetto alle altre civiltà e alle altre culture, una responsabilità di carattere storico che non possiamo esorcizzare con scorciatoie intellettualistiche.
[24] – Spero di essere fedele nella mia sintesi della lezione, che naturalmente non fa riferimento a un testo scritto, ma solo a miei appunti e ricordi e presuppone che io abbia fedelmente compreso il senso del pensiero esposto nel corso della lezione. Mi scuso ovviamente per eventuali mie errate interpretazioni, che sono naturalmente da ricondurre a un’involontaria non immediata comprensione di quanto detto in quell’occasione.
[25] – Limiti di tempo e di spazio mi impediscono di affrontare in dettaglio temi, pur trattati da don Beniamino, quali il rapporto tra proprietà pubblica e proprietà privata, tassazione, produttività del lavoro pubblico, valore dell’edilizia economico-popolare, corretta tenuta e manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili in affitto, presentazione idealizzata e poco realistica dell’impresa privata (che non necessariamente e sempre è sinonimo scontato di efficienza e produttività), composizione e significato del dèbito pubblico, funzione dei servizî pubblici.
[26] – L’attuale crisi economica non è una prerogativa esclusiva della Grecia, del Portogallo, dell’Irlanda, della Spagna, o della nostra stessa Italia (e mi sembra del tutto impropria la dispregiativa utilizzazione dell’acronimo PIGS per additare al pubblico discredito alcuni dei paesi europei, che di certo risultano più vulnerabili ai venti della crisi, ma che, pur avendo delle indiscutibili responsabilità in proposito, non sono gli unici né i principali responsabili della crisi in atto).  

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