Recensione al libro Note
sulla Proprietà Privata di don Beniamino Di Martino
Non posso negare di aver provato un
certo disagio nella lettura del volume Note
sulla Proprietà Privata di don Beniamino Di Martino (Castellammare di Stabia : Nicola Longobardi, 2009). Un disagio di metodo e
un disagio di contenuto.
1. Un
problema di metodo.
Per chiarezza espositiva e correttezza
nei confronti di chi legge, voglio precisare che personalmente ho una
formazione che posso definire di “cattolicesimo democratico”, mentre l’opera di
don Beniamino Di Martino si pone con decisione all’interno di un’ottica di
“cattolicesimo liberale”[1].
Un primo aspetto che mi sembra
importante porre in evidenza è il tipo di relazione che don Beniamino
istituisce tra il proprio orientamento e le opzioni di pensiero diverse o
contrastanti. Sono infatti sorpreso dal leggere espressioni di scarsa
considerazione per chi è portatore di visioni alternative. Già a p. 5 nella prefazione
del prof. Lottieri si può leggere testualmente: «Uno dei più dichiarati e
autorevoli avversari del cristianesimo, il filosofo contemporaneo Emanuele Severino…».
È abbastanza naturale che nella società odierna siano presenti una varietà di
posizioni e vengano operate opzioni di ordine etico, religioso e metafisico,
che possono approdare a sponde diverse, o addirittura, contrapposte al
Cristianesimo. Faccio, tuttavìa, molta fatica ad accettare l’accentuazione
della categorìa dell’”avversario”, che mi sembra sostanzialmente estranea alla
visione cristiana dell’umanità. Noi cristiani dovremmo evidenziare
l’insegnamento autentico di Gesù, praticando e proponendo agli uomini il suo
invito ad amare i nemici (cf. Mt. 5,44; Lc. 6,27.35)[2]
e sarebbe pertanto consigliabile rifuggìre dal praticare la cultura del
“nemico” e di seguìre l’autorevole l’insegnamento di Giovanni 23. che amava
ripetere che la Chiesa non è nemica di nessuno.
Solo qualche rigo più avanti, riferendosi
al pensiero esemplato da Emanuele Severino, sempre nella prefazione del prof.
Lottieri si legge «il testo di don Beniamino Di Martino contrasta in modo molto
netto questo pensiero egemone che punta essenzialmente a banalizzare sia il
messaggio evangelico che l’organizzazione sociale fondata sul diritto e sulla
libertà economica». Sinceramente non posso non esprimere la sensazione di
fastidio che avverto quando nel dibattito culturale incontro posizioni in cui
si accusano gli altri di essere portatori di un “pensiero egemone” e si ostenta,
in via preliminare e prima di entrare nel merito delle questioni in campo, una
sorta di vittimismo narcisistico che attribuisce alle scuole di pensiero
contrapposte (o solo diverse) una posizione dominante o un atteggiamento
discriminatorio. In questo caso quest’espressione risulta poi alquanto
paradossale se si tien conto che, nel corso del libro, don Beniamino ripetutamente
si riallaccia, condividendole, a posizioni di pensiero politico ed economico di
autorevoli esponenti dello schieramento conservatore statunitense. È il caso,
per esempio, del Senatore Barry Goldwater e del Presidente Ronald Reagan. Si
tratta di due autorevolissimi uomini politici nordamericani, portatori di
posizioni di liberismo radicale, che hanno profondamente influenzato negli
ultimi trent’anni la vita politica ed economica non solo negli Stati uniti
d’America, ma anche a livello mondiale. Sono posizioni che, pur non
condividendole, rispetto pienamente. Si tratta di punti di vista che sono
ampiamente rappresentati nel dibattito politico ed economico, sono
costantemente presenti negli strumenti di comunicazione sociale, sono oggetto
di pubblicazioni editoriali di livello sia pubblicistico che scientifico.
Numerose case editrici, tante reti televisive, numerosi network e una miriade
di siti internet dichiarano in forma esplicita, e legittimamente, di ispirarsi
alle loro posizioni. Si tratta pertanto di una corrente di pensiero ampiamente
diffusa e riconosciuta. Sostenere che si tratti di posizioni minoritarie o,
peggio, discriminate e dominate, significa in realtà fare un’affermazione del
tutto destituita di fondamento.
Il prof. Lottieri, sempre in
riferimento al testo di don Beniamino, prosegue evidenziando che «esso offre
quindi un’interessante introduzione alla riflessione sulla proprietà proprio
perché rigetta i più ricorrenti luoghi comuni e coglie perfettamente alcuni
elementi che sembrano sfuggire alla maggior parte degli studiosi (cattolici e
no) e degli uomini di Chiesa». Di nuovo un’esplicita svalutazione preventiva
delle opinioni altrui, che qui vengono sbrigativamente squalificate a “luoghi
comuni”.
Passando poi al testo vero ‘e proprio del volume di don Beniamino, anche
qui è possibile riscontrare ricorrentemente un atteggiamento polemicamente
prevenuto nei confronti delle scuole di pensiero di diversa impostazione. In
particolare, a p. 68, dove a proposito del modello economico di regime di
libero scambio, si legge l’affermazione sconcertante «solo un’ostinazione
pregiudizialmente prevenuta può rigettarne i presupposti». Affermare che le
posizioni diverse dalla propria possono essere solo il frutto di un’ostinazione
pregiudiziale, significa proporre la propria impostazione come una linea di
pensiero che si propone, ancor prima di entrare nel merito delle questioni,
come obbligatoria per tutti gli interlocutori. E ciò viene puntualmente
confermato solo qualche pagina più avanti (a p. 73), dove si può leggere: «Davvero
la prima necessità per l’uomo è “pensare bene”: se non si pensa bene, la
soluzione ad ogni problema è sempre lontana. Se non si pensa bene, si agisce
peggio». Anche qui ricorre la pretesa di detenere l’esclusiva di un pensiero
unico e obbligatorio, che, senza porre a disposizione dei lettori una
presentazione preliminare dei presupposti epistemologici del proprio metodo di
ricerca, e in via pregiudiziale, definisce le posizioni degli altri come
capziose e surrettizie, ma senza averle adeguatamente analizzate.
Questo modo di affrontare le
questioni, può forse essere apparentemente utile nel quadro di un inconcludente
talk show televisivo, ma si rivela non solo poco attento ai contributi altrui,
ma anche del tutto inefficace sul piano strettamente attinente al progresso
della conoscenza. Ogni confronto culturale, soprattutto entro un àmbito
accademico e di ricerca, per essere foriero di crescita e di maturazione sarebbe
preferibile prendesse le mosse col porsi sullo stesso piano delle posizioni con
le quali si vuol entrare in polemica. È una raccomandazione metodologica che
viene da lontano, quella dell’argomentazione iuxta propria principia che ereditiamo dall’autorevolissimo insegnamento
di Tommaso d’Aquino[3] e di
Bernardino Telesio[4]. Fin
dalla prefazione di Carlo Lottieri, nel testo di don Beniamino emerge, invece,
un atteggiamento poco attento a uno stile di approfondimento culturale che
faccia tesoro del confronto tra differenti scuole di pensiero, approfondendo i
contributi e gli apporti di ciascuna, valutandone con rigorosità i presupposti
epistemologici e metodologici, operandone una sintesi quanto più possibile
fedele, per addivenire infine, se necessario, a evidenziare motivatamente e con
puntualità i limiti, di ciascuna scuola e gli aspetti che ognuna di esse non ha
preso in considerazione. A questo proposito appare doveroso ricordare il metodo
del Dottore Angelico, che esordiva proprio con la fedele, puntuale e analitica
descrizione dei punti di vista non condivisi (Ad primum…, ad secundum…,
ad tertium…, ecc.), cui seguiva la
loro confutazione sul piano della logica e del contenuto (Sed contra…), per addivenire infine alla presentazione della
propria soluzione (Respondeo dicendum
quod…).
2. … ma anche
di contenuto.
Già in esordio (a p. 5), il prof.
Lottieri sottolinea che «nel nostro
tempo, il rapporto tra cultura cattolica e libertà economica non è sempre
facile. Il più delle volte quanti si collocano all’interno della Chiesa
esprimono un’aperta ostilità ideologica verso il mercato e, di conseguenza,
verso la stessa proprietà privata. Nei discorsi di molti esponenti cristiani
alla libertà vengono attribuiti connotati immorali (egoismo, chiusura verso il
prossimo, materialismo, e via dicendo) che finiscono per puntellare le
iniziative di quanti sono schierati a difesa del potere politico e delle sue
pretese».
Dalla constatazione di una certa difficoltà
incontrata in varie circostanze dalla cultura cattolica nell’analizzare i temi
inerenti la libertà economica, si passa ad affermare la notevole frequenza («il
più delle volte») all’interno della Chiesa («quanti si collocano all’interno
della Chiesa») si registrano prese di posizione ostili alle realtà del mercato,
della concorrenza e della proprietà privata. Su quest’affermazione nasce una
mia prima difficoltà. L’espressione «quanti si collocano all’interno della
Chiesa» non ha il pregio della chiarezza, non si comprende infatti se il
prefatore voglia riferirsi a documenti di insegnamento di livello magisteriale
o intenda polemizzare con specifici autori o scuole di pensiero d’ispirazione
cristiana. In questo secondo caso sarebbe stata utile qualche citazione o
quanto meno dei rapidi riferimenti bibliografici. Confesso di non essere
riuscito a rintracciare autori che abbiano preso nette posizioni in tema di
riflessione sociale cristiana ostili ai valori richiamati da Lottieri. Se
invece ci si riferisce al corpus
dell’insegnamento sociale della Chiesa l’affermazione appare del tutto priva di
fondamento, sono infatti numerosissimi i testi e i riferimenti di esplicito
riconoscimento del valore dei temi richiamati dall’autore.
In merito al tema della libertà economica basterà richiamare il
testo del paragrafo 42 della Sollicitudo
rei socialis, che evidenzia l’importanza dell’impegno per affermare il
diritto all’iniziativa economica, che viene posto pressoché sullo stesso piano
del diritto alla libertà religiosa[5].
Non solo, il Compendio della dottrina
sociale della Chiesa, a sua volta, al n. 326, riconosce una grande
rilevanza all’iniziativa economica, qualificandola come «come risposta
riconoscente alla vocazione che Dio riserva a ciascun uomo».[6]
Quanto al libero mercato può essere sufficiente richiamare l’insegnamento
della Centesimus annus che, al
paragrafo 34 lo individua come «lo strumento più efficace per collocare le
risorse e rispondere efficacemente ai bisogni»[7],
e al successivo n. 40 pone in evidenza come «i meccanismi di mercato offrono
sicuri vantaggî: aiutano, tra
l'altro, a utilizzare meglio le risorse; favoriscono lo scambio dei prodotti e,
soprattutto, pongono al centro la volontà e le preferenze della persona che nel
contratto si incontrano con quelle di un'altra persona»[8].
Papa Giovanni Paolo 2., in questi due testi opera un riconoscimento del valore
del mercato, riconoscimento per altro non nuovo nell’insegnamento sociale della
Chiesa. Un riconoscimento non di maniera, ma contestualizzato, e, per questo,
di grande rilevanza, proprio perché viene a evidenziare con chiarezza i
vantaggî offerti dal mercato alla vita sociale, all’efficienza economica e al
soddisfacimento di importanti bisogni umani. La contestuale individuazione di
precisi limiti alla realtà del libero mercato, chiaramente indicati nei
medesimi paragrafi della Centesimus annus, lungi
dal configurare un misconoscimento del valore del mercato, porta invece a una
sua indubitabile valorizzazione nell’àmbito specifico entro cui può svolgere la
sua più efficace funzione sociale.
Quanto al principio della concorrenza può essere utile richiamare
il paragrafo 347 del Compendio
della dottrina sociale della Chiesa, che tiene a sottolineare quanto un vero mercato concorrenziale sia uno strumento efficace per conseguire
importanti obiettivi di giustizia, tra cui quello di far
circolare l'informazione, in modo che sia davvero possibile confrontare e
acquistare i prodotti in un contesto di sana concorrenza[9].
In rifermento alla “proprietà privata”
sempre il Compendio della dottrina
sociale della Chiesa, al paragrafo 176, ricorda come «La proprietà privata
e le altre forme di possesso privato dei beni assicurano ad ognuno lo spazio
effettivamente necessario per l'autonomia personale e familiare, e devono
essere considerati come un prolungamento della libertà umana. Costituiscono in
definitiva una delle condizioni delle libertà civili, in quanto producono
stimoli ad osservare il dovere e la responsabilità» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 176). È questo in
realtà un chiaro richiamo all’insegnamento autorevolissimo della Costituzione
pastorale del Concilio Ecumenico Vaticano 2., Gaudium et Spes, n. 71[10].
Tuttavìa
nell’affermazione del prof. Lottieri che sto commentando, è nella seconda parte
che s’incontra il contenuto decisamente più paradossale. Mentre si sta
argomentando in termini di libertà economica, di mercato e di concorrenza, in
forma non motivata e dimenticando l’insegnamento della logica aristotelica
sulla definizione per genere prossimo e per differenza specifica, si passa a
parlare di “libertà” in termini assoluti, senz’aggettivi: «Nei discorsi di
molti esponenti cristiani alla libertà vengono attribuiti connotati immorali
(egoismo, chiusura verso il prossimo, materialismo, e via dicendo)». Si tratta
di un’accusa a dir poco fantasiosa. In realtà nessun autore di quella che
comunemente intendiamo come tradizione della riflessione sociale cristiana dei
secoli 19.-21. si è nemmeno lontanamente sognato di bollare il valore della
libertà con i connotati richiamati dal prof. Lottieri. E questo è ancor più
vero per i documenti del magistero ufficiale della Chiesa. Per trovare un
accenno negativo al valore della libertà nei
documenti ufficiali della Chiesa, e comunque non nei termini aberranti proposti
dal prof. Lottieri, sono stato costretto a risalire all’enciclica Quanta cura di papa Pio 9. e
all’allegato Sillabo dei principali errori dell’età nostra, che son notati nelle
allocuzioni concistoriali, nelle encicliche e in altre lettere apostoliche del
SS. Signor nostro papa Pio 9. A dire il vero, anche nel caso di quest’enciclica, la
preoccupazione polemica, quanto pastorale, è piuttosto quella di scongiurare la
«la libertà di perdizione» che non quella di etichettare in termini negativi il
valore umano della libertà[11].
In conclusione non mi sembra una buona
premessa avvviare un lavoro di approfondimento senza delimitare con chiarezza e
rigorosità metodologica l’àmbito tematico che si vuole affrontare e risulta
decisamente poco utile, se non addirittura controproducente, formulare
affermazioni poco verificate nei loro contenuti.
3. Il valore
della proprietà privata.
Il testo di don Beniamino si presenta
come una monografìa intesa a porre in evidenza la centralità di assicurare il
dovuto riconoscimento al valore della proprietà privata. Dalla lettura
complessiva del testo devo tuttavìa rilevare una sorta di considerazione
esclusiva per la realtà della proprietà privata, che in definitiva viene
proposta come l’unico valore fondamentale intorno al quale organizzare la vita
sociale. Personalmente sono convinto che la proprietà privata sia un valore
fondamentale e costituisca una profonda motivazione all’impegno, al
protagonismo e alla realizzazione di sé. Sono tuttavìa altrettanto convinto che,
accanto alla proprietà, la persona umana faccia riferimento anche ad altri
valori e dimensioni di analoga rilevanza, quali il lavoro, la cultura, la sfera
affettiva, il gioco, la ricerca della felicità, ecc.. A mio avviso i valori
elencati non possono essere posti in un rapporto subordinato rispetto alla
proprietà, ma vanno declinati su un piano di pari dignità, pena la
realizzazione di un’antropologia monodimensionale, non adeguatamente
rappresentativa della realtà dell’uomo e tendenzialmente materialistica.
Il lavoro, cioè l’impegno con cui
l’uomo pone mano alla trasformazione della realtà circostante con la finalità
di renderla meglio rispondente alle esigenze della vita o si colloca al
servizio degli altri uomini per garantire a essi attività o beni di cui hanno
necessità, è una dimensione essenziale dell’esperienza umana, altrettanto
naturale quanto l’aspirazione al possesso. Il lavoro, per altro, costituisce lo
strumento con cui l’uomo, attraverso l’impegno, l’inventiva e il risparmio, può
accedere alla proprietà. Misconoscerne il valore, significa implicitamente
anche attentare al diritto di accesso alla proprietà.
La cultura e la conoscenza, a loro
volta, sono una dimensione innata nella natura umana. La curiosità d’indagare
l’ambiente circostante è probabilmente il primo istinto che l’uomo ha
sperimentato nella storia ed è lo stimolo vitale che permette a ogni bambino,
quando viene alla luce, di apprendere quanto è necessario per sopravvivere.
La sfera affettiva (cioè l’esigenza di
stabilire relazioni profonde con altri esseri umani con i quali condividere
l’orizzonte primario dell’esistenza, la famiglia), come il gioco (cioè
l’esigenza di sperimentare momenti di distensione, di appagamento, di sorriso e
di gioia di vivere), la ricerca della felicità (cioè l’aspirazione a
trascendere la realtà immediata, a realizzare se stessi, a comprendere la
realtà più autentica del mondo circostante e della vita, non ultimo la
relazione con l’assoluto e con Dio) sono a loro volta dimensioni ineliminabili
della natura umana e, per altro, rappresentano motivazioni e stimoli di fondo
del protagonismo dell’uomo rispetto al lavoro, alla conoscenza e alla
proprietà.
Analizzare uno di questi aspetti
prescindendo dagli altri significa operare una riduzione e una banalizzazione. A
mio parere sono aspetti da declinare in maniera strettamente connessa. E questo
è vero su una molteplicità di piani.
In primo luogo sul piano
antropologico. A noi tutti appare di fatto monca l’esistenza di una persona
dèdita esclusivamente al lavoro, che non abbia sufficiente cura delle relazioni
familiari e affettive, che non abbia mai tempo per il coniuge o per i figlî,
che alla fine della propria esperienza di lavoro, da pensionato, incontra anche
difficoltà a ritagliarsi un nuovo ruolo sociale. Altrettanto monca appare
l’esperienza umana di chi si dedica esclusivamente agli studî, passando notti
insonni sui libri, relazionandosi con l’esperienza di uomini lontani nel tempo
e nello spazio, ma privandosi di fatto delle relazioni con gli esseri umani a
lui più vicini. È monca certamente la vita di chi si dedica esclusivamente al
tempo libero, alle relazioni familiari e agli interrogativi esistenziali senza
prendere in considerazione le esigenze concrete e materiali della vita. Ma
altrettanto limitata è la dimensione umana di chi s’impegna esclusivamente
nell’acquisizione di proprietà e nell’accumulazione di ricchezze.
Sul piano economico. Anche
sullo stretto terreno economico la proprietà e il capitale non sono gli unici
elementi da tenere in considerazione. Qualunque impresa economica per svolgere
la propria funzione non può avvalersi solo della risorsa finanziaria, degli
immobili e delle attrezzature necessarie all’attività, ma ha anche necessità
del lavoro di persone concrete (anche una sola, ma sempre lavoro di una persona
umana, con il suo tesoro di relazioni, idee, aspirazioni, ecc.), nonché di
conoscenza (conoscenza tecnica, cultura, inventiva, capacità di relazione).
Un’impresa, per essere efficiente, deve saper essere un mix adeguato di
capitale-proprietà, lavoro e conoscenza. E per costruire un buon mix non si
possono ignorare gli aspetti della sfera affettiva, del gioco e della ricerca
della felicità, per le persone che in quell’impresa in qualche modo sono
direttamente o indirettamente coinvolti.
Sul piano storico. Don
Beniamino ha posto in evidenza come la storia abbia dimostrato i nefandi
effetti prodotti dal misconoscimento del valore della proprietà. Ma altrettanto
può dirsi del misconoscimento delle dimensioni essenziali dell’essere umano.
Basti solo pensare alle numerose esperienze delle dittature degli ultimi
secoli, dalla Germania nazista all’Italia fascista, dal Salazarismo in
Portogallo al Franchismo in Spagna, dalla Grecia dei Colonelli al Cile di
Pinochet, ai regimi dell’Argentina, del Paraguay, di altri paesi centro e
sudamericani, per finire ai regimi recentemente caduti in nord-Africa e in
Myanmar. In tutti questi casi non si sono avute misure eversive della proprietà
privata. Ebbene ciò non ha scongiurato la realizzazione di efferate violenze
nei confronti degli esseri umani e di gravissime offese alla libertà. In tutti
questi casi si è dimostrato la non fondatezza dell’espressione di Barry
Goldwater «la proprietà e la libertà sono inseparabili», più volte citata dal
don Beniamino Di Martino (per es. a p. 129) ma senza adeguate argomentazioni
fondative. L’esperienza storica concreta, in realtà, ha mostrato come in casi
come quelli citati sia stato ampiamente possibile, pur riconoscendo la
legittimità della proprietà privata, offendere gravemente la libertà. Anzi in
tali contesti il riconoscimento della proprietà ha finito per assicurare un
consenso di fatto alle dittature (“Se mi viene consentito di fare i miei
affari, cosa mi importa di ciò che viene fatto a danno di altri”). Non solo
anche in contesti culturali di riconoscimento ampio dei valori della proprietà
la storia ha dimostrato come sia possibile realizzare orrendi crimini contro la
stessa proprietà e contro l’umanità, che purtroppo hanno poco da invidiare a
quelli posti in essere nei paesi del socialismo reale, basti pensare al
genocidio delle popolazioni native americane (che legittimamente detenevano il
possesso dei territorî dell’ovest americano), oppure alle appropriazioni di
terre e risorse poste in essere con l’espansione coloniale delle potenze
europee, oppure alla tratta degli schiavi dall’Africa alle Americhe.
L’assolutizzazione del principio della
proprietà privata (sia ben chiaro “assolutizzazione”, non “giusto
riconoscimento” nel quadro di una declinazione complementare con altri principî
di pari dignità), per altro, contrasta con un principio metodologico affermato
dallo stesso don Beniamino, che dichiara di preferire la logica dell’«et - et»
a quella dell’«aut - aut» (p. 81, nota n. 86)[12].
4. La
sottovalutazione della dimensione sociale.
Nella sua appassionata difesa del
valore della proprietà privata, don Beniamino traccia una contrapposizione
netta tra questa e la dimensione sociale. In questo caso va evidenziato che
proprietà privata e socialità, lungi dall’essere realtà contrapposte, sono a
dire il vero realtà complementari. Sono l’una e l’altra manifestazioni
originali della natura umana. Anzi, per certi versi, la socialità precede la
proprietà, dato che nella vicenda storica dell’umanità la struttura sociale era
presente anche in quelle popolazioni (raccoglitori e cacciatori) che ancora non
conoscevano la proprietà. Non solo, la proprietà per poter essere affermata e difesa
necessita di un riconoscimento sociale e di una struttura necessariamente
coercitiva che la difenda da appropriazioni e abusi. L’esperienza storica
dimostra come strutture sociali semplici (tribù e villaggî antichi) si siano
date una struttura più complessa per affrontare e risolvere problemi che in
singoli da soli non avrebbero mai potuto risolvere (per esempio, un villaggio
di pescatori insediato sulle rive di un fiume, di fronte all’esigenza di
costruire un ponte, ha la necessità di mettere in comune energie, capacità e
risorse per costruirlo e difenderlo; ciò è avvenuto in alcuni casi in forma
consensuale, in altri casi per iniziativa di un signore che si è imposto alla
volontà comunitaria). Ma anche nei casi in cui la proprietà privata (nei
termini in cui la intendiamo oggi) si è realizzata senza una pre-esistente
struttura sociale, proprio per garantirne la salvaguardia, si è posta la
necessità di costruire una confacente struttura sociale (è il caso, per
esempio, dell’ovest americano).
5. Un’incomprensibile
posizione anti-statale.
Dalla sottovalutazione della
dimensione sociale deriva una ripetuta e per certi versi ossessiva posizione
antistatale. Lo stato viene presentato indistintamente come il nemico giurato
dei cittadini, della libera attività economica e del libero mercato. Nessuna
distinzione viene fatta tra gli stati imperiali antichi, lo stato assoluto moderno
e gli odierni stati democratici.
Un certo riconoscimento viene dato ai
monasteri medievali, per i quali non si usa il termine “stato”, dimenticando
per altro che nella disarticolazione dell’impero romano, proprio ai monasteri
va riconosciuta una grande capacità di supplenza, cioè di svolgere
significativi servizî di natura statuale (ai monasteri don Beniamino riconosce
di aver affermato il principio della proprietà privata, ma dimentica che promossero
egregiamente anche il lavoro [Ora et
labora] e la cultura [si ricordino gli scriptoria]).
Un altro riconoscimento viene
attribuito ai comuni dell’Italia medievale, per i quali lo stesso si evita di
parlare di stato. Ma i Comuni medievali furono, in realtà, dei veri ‘e proprî
stati, con un proprio esercito e con una propria politica doganale, con misure
protezionistiche delle risorse e delle tecnologie. Basti pensare ai conflitti
tra le città toscane per il controllo della risorsa del sale, che ha finito per
diffondere in Toscana l’abitudine inveterata di produrre il pane privo di sale.
Oppure è sufficiente tener presenti le legislazioni cittadine che vietavano con
pesanti sanzioni chi si rendesse colpevole di diffondere la conoscenza di
specifiche tecniche di produzione oltre il dominio cittadino.
Un certo riconoscimento viene infine
conferito agli Stati Uniti d’America, ai quali si attribuisce un carattere di stato leggero, dimenticando che al di là
delle dichiarazioni propagandistiche la Federazione statunitense è tutt’altro
che uno stato debole. Nella realtà nordamericana si ha addirittura una doppia
realtà statale (quella dei singoli stati e quella federale), la stessa
tassazione se valutata in termini globali (stati + federazione) non è inferiore
alla media degli stati europei e non è molto lontana da quella italiana (quanto
poi all’evasione fiscale, basta provare a chiedere a qualche cittadino
statunitense cosa significhi nel loro paese provare a evadere le tasse). Quanto
poi all’unica funzione che il pensiero liberista riconosce allo stato, cioè la
prevenzione contro la criminalità, di fatto niente autorizza a dire che negli
USA la “pratica criminalità organizzata” possa dirsi risolta, basta dare uno
sguardo alle periferie urbane delle città statunitensi. Di sicuro negli Stati
Uniti la criminalità purtroppo non è un problema di minore entità di quanto lo
sia in Italia.
La posizione di sostanziale rifiuto
della funzione dello stato, ripetutamente espressa da don Beniamino, può essere
sostanzialmente ricondotta alla mancata comprensione del ruolo di essenziale complementarietà
tracciabile tra la dimensione individuale e quella sociale che sono in
definitiva ambedue originarie nella persona umana. L’esperienza umana è
inevitabilmente un’esperienza sociale. Lo stesso istituto della proprietà
presuppone di fatto l’esistenza di un contesto sociale che lo riconosca come
tale. La stessa iniziativa economica, per realizzarsi, ha la necessità di una
comunità sociale in cui svolgersi, quantomeno la presenza di potenziali
consumatori dei beni o dei servizî offerti. L’esperienza di Robinson Crusoe è
in definitiva una finzione letteraria o la disgraziata esperienza di qualche
singolo, ma è essenziale essere consapevoli che può essere solo un’astrazione
didattica utile, al più, a render chiaro qualche concetto base della scienza
economica. Nel concreto l’attività economica non si realizza in laboratorio
quanto nella vita effettiva delle persone, là dove di fatto queste sono
chiamate a esistere, nel pieno dei conflitti e dei condizionamenti storici in
cui sono coinvolti.
Per fare un esempio, faccio
riferimento a un contesto un po’ lontano
da noi. Nell’odierno Israele, per esempio, gli operatori di mercato
operano con l’incubo di un attacco militare convenzionale, o finanche nucleare,
da parte dei paesi circostanti, e devono fare i conti con il clima
d’instabilità prodotto dal terrorismo di matrice jihadista. Per altro verso nei territorî arabi, per esempio nella
striscia di Gaza, gli operatori economici di tale contesto, a loro volta,
devono confrontarsi con le disposizioni delle autorità israeliane, con le
operazioni militari di rappresaglia e con le condizioni demografiche di
sovraffollamento. In tutti ‘e due i casi le decisioni d’investimento e le
connesse valutazioni di rischio sono ampiamente influenzate dalle condizioni di
contesto. L’economìa tuttavìa va avanti, mostra lì come altrove grandi capacità
di adattamento e, spesso, mette in moto processi creativi.
Lo schema di scuola presupposto dalla
scienza economica classica che pone in relazione figure idealizzate di
imprenditori e consumatori, posti nel foglio bianco del mercato dove
s’incrociano curve batteriologicamente sterili della domanda e dell’offerta, è
di fatto un’astrazione, che nella realtà non incontriamo in nessun caso. E di
questo i primi a esserne consapevoli sono proprio gli economisti. Le condizioni
di concorrenza perfetta nella realtà non si sono mai realizzate, ed è del tutto
presumibile, che mai si potranno determinare. Possono, invece essere un utile
obiettivo cui avvicinarsi magari per asindoto. Risulta pertanto fuorviante
confrontare ipotesi di scuola con specifici contesti storici, questi sono dati
concreti della realtà con le loro luci e con le loro ombre, quelle sono ipotesi
di laboratorio, rispettabili elementi di orientamento, che però devono essere
tradotti in comportamenti di politica economica, per dirla con Plinio il
vecchio, cum grano salis.
Ho operato questa digressione per
evidenziare che lungo tutta la vicenda storica dell’umanità l’iniziativa
economica si è sempre svolta nell’àmbito di specifici contesti sociali e ha
fatto i conti con molteplici realtà statuali, dalle libere città della Grecia
classica agli antichi imperi, ai regni romano-barbarici, alla polverizzazione
altomedievale (che non ha significato assenza dello stato, ma sperimentazione
di molteplici e diversificate forme statuali locali minori: monasteri, curtes, villae, poteri signorili bannali, ecc.), ai comuni medievali, alle
signorie rinascimentali, agli stati assoluti di epoca moderna, agli odierni stati
democratici.
Si tratta di realtà molto diverse tra
di loro, che hanno tuttavìa in comune la detenzione del potere d’imposizione
delle norme della vita associata, la vocazione a garantire la sicurezza delle
persone (in molti casi sudditi, in pochi casi cittadini), il monopolio degli
strumenti di coercizione, la facoltà di raccogliere le risorse necessarie allo
svolgimento delle prime tre funzioni. Cambiano, e molto, ovviamente i
meccanismi di legittimazione dell’autorità e la concretizzazione delle modalità
operative. In genere le fattispecie di minori dimensioni (come le libere città
della Grecia antica e i Comuni del medioevo) hanno registrato un maggiore
allargamento del ceto dominante e una maggiore partecipazione alle decisioni,
ma di converso hanno anche assicurato, nella media, una minore protezione
pratica alle popolazioni.
Un autentico cambio paradigmatico
della natura dello stato si è realizzato con l’affermazione degli stati
democratici contemporanei. Con la democrazia si è infatti capovolto il concetto
di sovranità. Se negli stati assoluti d’epoca moderna la titolarità della
sovranità era attribuita al re (appunto il “sovrano”) per diritto proprio o per
un preteso “diritto divino”, nelle odierne democrazie la sovranità è attribuita
al popolo. Certamente tale attribuzione ha una venatura utopica, e le
realizzazioni concrete sono certamente parziali e molto diverse tra di loro,
ciò nondimeno risultano conseguiti risultati pratici di grande significato e,
quel che più conta, senza precedenti storici. Ludwig von Mises, nel suo Politica economica[13],
tracciando un paragone tra gli imprenditori e gli antichi sovrani, evidenzia
come, a differenza di questi ultimi, gli imprenditori son in realtà dei servitori. Ebbene, con la democrazia,
qualcosa di analogo avviene per gli uomini di stato, che non sono più titolari
della sovranità e sono di fatto servitori
dei cittadini. Il loro potere è di fatto subordinato al consenso del popolo.
Quando questo consenso viene meno, cessa anche il loro potere.
Nel complesso la trattazione di don
Beniamino appare un sostanziale misconoscimento della democrazia e un chiaro
rimpianto dello stato assoluto dell’ancien
régime, un rimpianto espresso in nome dell’affermazione del diritto di
proprietà. Ebbene, valutando il concreto svolgimento storico, occorre riconoscere
senz’ombra di dubbio che, negli stati
democratici europei e, generalmente, occidentali, nell’arco degli ultimi tre
secoli (in forme e tempi diversi) si è realizzato il più ampio accesso alla
proprietà di tutta la storia umana. Milioni di uomini e donne hanno avuto accesso
alla proprietà, mentre nei secoli precedenti il ceto dei proprietarî era un
ceto ristrettissimo, la grande maggioranza degli uomini e delle donne, invece,
erano poveri privi di ogni diritto, beninteso anche quello della proprietà. E
questo è stato vero tanto nell’antichità, quanto nel medioevo, che in epoca
moderna.
Non solo, è con lo stato democratico
che alla proprietà viene anche assicurata una tutela giuridica effettiva. In
precedenza non si può parlare di una difesa giuridica effettiva. Anzi prima del
16. sec. non si può parlare nemmeno dell’istituto giuridico della proprietà
privata nel senso odierno del termine (e
quindi nemmeno della sua difesa giuridica) quanto solo di possesso socialmente
riconosciuto, che è cosa ben diversa. Certo la tutela giuridica della proprietà
vigente negli attuali stati democratici, a seconda dei casi e dei punti di
vista, può essere da alcuni ritenuta insufficiente, appare però decisamente
difficile poter argomentatamente sostenere che le odierne democrazie segnino,
sul terreno della tutela della proprietà, un passo indietro rispetto a quanto
realizzato dalle concrezioni statuali che le hanno precedute.
Negli odierni stati democratici si è
posta e si pone un’opportunità storicamente inedita per declinare al meglio la
relazione persona/comunità, operando sulla promozione degli aspetti della complementarietà
piuttosto che su quelli dell’opposizione.
Certamente c’è una relazione ancillare
tra la dimensione sociale (e dello stato in essa) e la dimensione personale. Lo
stato democratico è tale solo se opera per essere sempre più e sempre meglio al
servizio dei cittadini, di ogni cittadino e di tutti i cittadini (la
distinzione “di ogni” e “di tutti” non è un’inutile e ridondante ripetizione,
quanto una doverosa sottolineatura della necessità di perseguire il progressivo
conseguimento di concreti obiettivi di giustizia commutativa e distributiva).
Ma lo stato democratico è tale anche a condizione che i cittadini assumano in
proprio la responsabilità della cittadinanza. Si apre quindi un ampio spazio di
educazione alla cittadinanza, una cittadinanza declinata tanto sul terreno del
diritto (o dei diritti), quanto su quello della responsabilità (della
sollecitudine per il bene comune e per gli altri). Uno spazio cui come credenti
possiamo dare un ampio contributo, facendo tesoro delle numerosissime
indicazioni in merito che l’insegnamento sociale della Chiesa ha ampiamente
dispensato.
In una tale ottica appare quanto meno
ingiustificata la forte polemica innescata da don Beniamino sul tema
dell’imposizione fiscale. Sul piano generale il pagamento delle imposte
costituisce la partecipazione dei cittadini alle spese comuni della società,
quindi il loro mancato pagamento costituisce una grave mancanza rispetto a un
preciso dovere di cittadinanza. Detto questo, risulta altrettanto essenziale
stabilire che le spese comuni vanno determinate con la massima saggezza tenendo
conto delle esigenze generali del corpo sociale, il loro ammontare deve essere
monitorato con cura e con frequenza, le modalità della loro realizzazione deve
essere sempre tenuta sotto il dèbito controllo, È un compito che spetta a tutti
i cittadini per dovere di cittadinanza, ma dev’essere il compito primario degli
organismi democratici.
Questi, sotto la vigilanza dei
cittadini, devono determinare, valutare e monitorare con costanza e con grande
saggezza politica i seguenti aspetti:
-
stabilire il set di servizî pubblici da
finanziare con le entrate fiscali;
-
definire la distinzione delle attività e dei
servizî da realizzare in forma pubblica da quelle da lasciare all’autonomia del
mercato;
-
definire lo specifico livello di
responsabilità cui attribuire lo svolgimento delle attività e dei servizî da
realizzare in forma pubblica;
Questi tre aspetti non possono essere
definiti una volta per tutte in forma astratta, in quanto le comunità vivono
nella storia e si confrontano con le esigenze poste, di volta in volta, dalle
contingenze storiche, dal progresso tecnico o da altro. In questo può essere di
grande aiuto un principio che è oggetto di grande attenzione da parte
dell’insegnamento sociale della Chiesa e cioè il principio di sussidiarietà, da
declinare in forma complementare con i principî di adeguatezza e di economicità.
Il principio di sussidiarietà prevede
di non assegnare mai una funzione a un livello superiore se tale funzione può
essere svolta in forma più adeguata ed economica a un livello più basso. In
questo quadro, per esempio, non avrebbe senso affidare allo stato nazionale la
responsabilità in ordine all’organizzazione dei trasporti pubblici locali,
quando ciò può essere fatto più adeguatamente a livello dello amministrazioni
locali, più vicine ai problemi e alle esigenze dei territorî. Sul piano poi
della vita civile appare poco consigliabile espropriare le famiglie delle
responsabilità decisionali relative alla qualità di vita delle persone.
6. Uno stato minimo, uno stato eccessivo o uno stato semplicemente … adeguato?
In contrapposizione a posizioni che
nel secolo scorso si sono fatte promotrici di un ruolo esageratamente invasivo
dello stato sulla detenzione della proprietà e sul controllo della produzione
che nei casi estremi ha portato ai drammatici e tremendi esiti del socialismo
reale, nelle variegate forme sovietiche, cinesi, coreane, cambogiane e cubane,
don Beniamino, sulla scìa della teoria del laissez-faire, risalente a seconda dei punti di vista
al protoliberista J.C.M. Vincent de Gournay (1712-1759), al ministro di
Luigi 15. René Louis de Voyer de Paulmy d'Argenson (1684-1757), o alla
leggendaria figura del mercante Le Gendre in una sua famosa risposta a
Jean Baptiste Colbert (1619-1683), propone una visione definita dello stato
minimo. Con ciò intende una posizione
che tiene a riconoscere allo stato il solo svolgimento di pochissime funzioni,
quali, per esempio, la difesa esterna e la cura dell’ordine pubblico.
Si tratta, a mio avviso, di una
visione riduttiva, che nell’intento di scongiurare derive autoritarie finisce
con lo sposare una visione che presenta analoghi connotati di autoritarismo, in
quanto finisce per espropriare i cittadini, gli autentici detentori del diritto
di sovranità, di decidere, ove ne ricorrano le condizioni, il grado di impegno
nei servizî pubblici da attribuire alla funzione statale.
È qui che va giocata in tutte le sue
potenzialità la corretta declinazione del principio di sussidiarietà, che
richiede l’assunzione da parte dei cittadini di un grande senso di
responsabilità civica, che permetta di concorrere alla saggia lettura, per ciascun
servizio pubblico, delle condizioni di adeguatezza ed economicità che possono
consigliare, di volta in volta, il livello di aggregazione sociale a cui
collocare lo svolgimento e la responsabiltà di determinate attività. Ci sono di
certo tante attività che è saggio lasciare alla responsabilità e alla libera
attività delle persone, ci sono però altri àmbiti che è decisamente più adeguato
ed economico svolgere in forma associata, talora a livello locale, in altri
casi a livello nazionale, in altri casi ancora a livello europeo, in alcuni
casi a livello mondiale[14].
Un pericolo nascosto nelle astratte
teorizzazioni sullo stato minimo, risiede nella mancata analisi degli effetti
nefasti che la recente prevalenza delle teorie neoliberiste, portavoci
autorevolissime di istanze politiche intese a ridurre fortemente l’influenza
delle politiche statali sull’economìa e a ridimensionare la dimensione dei
servizî pubblici grazie all’agitazione dello slogan demagogico e
deresponsabilizzante della riduzione della pressione fiscale. Dagli anni ’80, a
partire dagli Stati Uniti, e successivamente in Europa, hanno preso sempre più
consistenza linee di politica economica d’ispirazione liberista, che hanno
finito per abbandonare al proprio destino le piccole e le medie attività
economiche, lasciare privi di difese sociali i lavoratori dipendenti,
rallentare pesantemente l’impegno pubblico nella ricerca scientifica e
tecnologica, e operare un ripiegamento della vita economica in direzione della
pratica finanziaria separata dalla produzione e dal lavoro. Il tutto in
atmosfera da aurea mediocritas, dove
la preoccupazione principale del ceto politico, liberato dall’onere di rendere
conto ai cittadini dell’efficienza dei servizî pubblici, è stata quella di vivere
di rendita sui livelli conseguiti con sacrificio e impegno dalle generazioni di
statisti dei decennî precedenti. Di fatto la riduzione della spesa che le
teorie dello stato minimo hanno
generato, con i pesantissimi taglî ai servizî pubblici (compresi quelli di maggiore
essenzialità), non si è tradotta in una riduzione dell’imposizione fiscale
(che, anzi, è addirittura cresciuta), ma ha determinato una crescita della
spesa pubblica per finalità estranee all’erogazione di servizî pubblici, come
un’attenta analisi dei bilancî delle pubbliche amministrazioni consente con
facilità di verificare (e questo non solo in Italia). Ciò ha altresì liberato
il ceto politico dall’onere di ricercare
il consenso dei cittadini attraverso un impegno sulla qualità dei servizî
pubblici assicurati alla cittadinanza. Questo ceto, liberato di fatto dalle sue
funzioni istituzionali, ha trovato libero spazio finalizzato alla costruzione
del consenso attraverso una pratica spettacolarizzata della visibilità sociale
sugli strumenti di comunicazione sociale, sugli spalti degli stadî, nella
pratica del clientelismo e di tutte quelle attività che la pubblicistica
odierna definisce come caratteristiche della “casta”. Il tutto, come è ovvio,
finanziato con i soldi dei contribuenti, usati sempre meno per erogare servizî
pubblici e sempre più per improprî interventi sul mercato (questi, per altro,
formalmente vietati dalla normativa europea, ma pacificamente praticati da
tutti i 27 paesi aderenti e tranquillamente tollerati dalle stesse istituzioni
europee), o per usi apertamente clientelari e illegali.
7. Una
corretta analisi dei pregiudizî.
Don Beniamino dedica un intero
capitolo all’analisi dei pregiudizî contro la proprietà privata (p. 58-66),
individuati innanzitutto nel comunismo e poi in tutte le forme di solidarismo
(queste ultime considerate come “modalità parziali di realizzazione” del primo
(cf. p. 61).
Il
marxismo e le realizzazioni del socialismo reale.
Premetto che non sono un sostenitore
del marxismo. Non lo sono stato nemmeno in anni in cui esercitava un certo
fascino, perché non condivido i presupposti filosofici e culturali, che stanno
alla base della concezione materialistica dell’uomo e della storia che Marx ha
proposto. Devo tuttavìa evidenziare che il contributo di pensiero proposto Marx
è il frutto di un poderoso sforzo speculativo, che prende le mosse da profonde
istanze etiche di fronte alle misere condizioni umane di migliaia di lavoratori
della prima rivoluzione industriale. Tale complesso di pensiero avrebbe
meritato non una sbrigativa liquidazione, quanto un’adeguata presentazione,
preliminare magari a una sua successiva confutazione argomentata. In ogni caso
sarebbe stato necessario distinguere tra i limiti intrinseci agli schemi di
pensiero proposti da Marx e le drammatiche realizzazioni successive, ispirate
al suo pensiero, ma che in effetti non hanno visto la partecipazione concreta
dello stesso Marx[15].Trovo
poi alquanto fantasiosa la definizione del pensiero marxista come una sorta di
spiritualismo di derivazione gnostica.
Pur essendo vero che nelle opere di
Marx non si trova un'esposizione completa e a sé stante del problema
antropologico, è tuttavìa possibile ricostruire la visione marxiana dell’uomo attraverso
i varî testi. Il generale interesse per l'uomo che muove le opere di Marx,
specialmente nel periodo giovanile, è alla base di successive interpretazioni (Sartre,
Althusser, scuola di Francoforte, ecc.) che vedono nel pensiero marxiano una
nuova filosofia dell'uomo; d'altra parte la frammentarietà dei riferimenti e
l'assenza di una loro esposizione organica non impediscono di comprendere che,
quando Marx dice che l'uomo è l'insieme dei suoi rapporti sociali vuole, tra
l'altro, affermare l'impossibilità di una comprensione del problema dell'uomo
al di fuori delle concrete condizioni storico-sociali nelle quali si trova a
vivere ed operare; è stato poi fatto osservare come i concetti stessi, usati da
Marx per descrivere la realtà storica nella quale si vive, rinviino a una sfera
antropologica: così per esempio “sfruttamento”, “alienazione”, “reificazione”, “falsa
coscienza”, sono in definitiva termini che descrivono modi di essere dell'uomo.
Tutto ciò, nel pensiero di Marx, evidenzia come il fattore decisivo per la
comprensione dell’uomo è rappresentato dalle basi materiali della sua
condizione e Marx ripetutamente pone in risalto il fatto che le forme di
coscienza, le idee, le relazioni con gli altri, sono di fatto strettamente
legate alle caratteristiche di una determinata società.
Un’attenta lettura delle opere di Marx
è dunque sufficiente a comprendere il carattere decisamente ancorato alle
condizioni materiali di vita della sua comprensione dell’uomo e
l’individuazione nella modifica di tali condizioni materiali il presupposto per
la realizzazione di un nuovo paradigma storico. In tale complesso di pensiero,
nonostante la sua poderosità e complessità, non c’è spazio per l’elemento
spirituale, né Marx pretendeva che vi fosse, anzi. Applicare a tale complesso
di pensiero un’etichetta spiritualistica, si rivela alla fine come
un’operazione del tutto arbitraria.
Il
solidarismo nelle sue varie forme.
Il variegato complesso di idee e
movimenti storici, molto diversificato al proprio interno, comprendente il
solidarismo (cristiano e non), il pacifismo, i movimenti no-global, la socialdemocrazia,
il socialismo occidentale non rivoluzionario, i movimenti ambientalisti ed
ecologisti, è inteso da don Beniamino come una modalità parziale di comunismo,
che se da un lato rifiuta la caratteristica rivoluzionaria e violenta del
programma comunista, ne condivide il nucleo culturale di fondo costituito dal
rifiuto ideologico della proprietà privata e dal programma di superarla, sia
pur gradualmente, nel contesto sociale e nei rapporti umani.
Ebbene, fatta la dèbita eccezione di
alcune frange numericamente minoritarie, e tenuto conto che per ciascuno degli
orientamenti in precedenza richiamati sarebbe necessaria un’analisi specifica,
quando si etichetta il solidarismo (in tutte le sue varie forme) come
contraddistinto da un pregiudizio in forma moderata contro la proprietà
privata, si fa in effetti una violenza alla realtà delle cose, in quanto si
attribuiscono a queste correnti di pensiero e movimenti d’opinione posizioni
che in gran parte non hanno.
Alcune componenti (penso, per esempio,
al pacifismo, all’ecologismo, ai movimenti solidaristici d’ispirazione
cristiana) non hanno, e non hanno mai avuto, posizioni contrarie alla proprietà
privata. Attribuire tali posizioni a movimenti che non si sono mai sognati di
averle costituisce una falsificazione della realtà. Particolarmente grave è
poi, in riferimento ai movimenti solidaristici d’ispirazione cristiana, quanto
si legge a p. 62: «ciò per dire che anche la posizione moderata – quale ad
esempio certo [corsivo mio] solidarismo religioso – condividendo il pregiudizio di
fondo finisce con l’essere sostanzialmente
[corsivo nel testo] più vicina al
bolscevismo più estremo che non alla posizione che si rifà al diritto naturale».
Sorvolando sull’uso dell’aggettivo
“certo”, per indicare in senso spregiativo una pluralità indeterminata di
movimenti solidaristici d’ispirazione cristiana (che appare una pratica poco
consona non solo a un clima di confronto culturale e scientifico, ma a maggior
ragione a una fraterna riflessione intra-ecclesiale, alla luce della fede e
della Parola rivelata), occorre porre in evidenza come in tali movimenti non vi
sia alcuna condivisione di posizioni pregiudiziali contrarie al principio della
proprietà privata e, dunque, non può essere individuata alcuna loro vicinanza
“sostanziale” al bolscevismo. Allo stesso tempo è alquanto dubbia fondatezza
dell’espressione, con cui si conclude la frase citata e con la quale don
Beniamino rivendica alle proprie posizioni una sostanziale consonanza con la
legge naturale. Se è vero, infatti, che è nella natura umana l’aspirazione al
possesso (e dunque alla proprietà), è altrettanto vero (e forse addirittura preliminarmente vero) che nella natura
umana risiede anche la vocazione alla socialità. Don Beniamino nella sua opera,
di fatto, assolutizza il primo aspetto e svaluta il secondo, di conseguenza lo
sforzo di ancorare le proprie posizioni al piano del diritto naturale, appare a
mio avviso alquanto parziale. In ogni caso sarebbe da approfondire il
significato e il ruolo della presenza cristiana nel mondo in rapporto
all’esigenza di annunciare la novità di Cristo circa i rischî che ambedue le
aspirazioni umane (quella alla proprietà e quella alla socialità) corrono
concretamente e ricorrentemente nella storia. Parlo della concupiscenza del
“possedere”, nel primo caso, e della concupiscenza del “potere”, nel secondo.
Su entrambi i fronti si apre uno scenario di testimonianza, per un verso,
sull’uso dei beni materiali (ivi compresa la funzione proprietaria), e, per
altro verso, sul servizio agli altri (incluso l’esercizio temperato
dell’autorità civile). Si tratta di campi aperti alla pratica della perizia
laicale nel trattare le materie temporali, che richiede una grande capacità di
leggere i segni dei tempi per poter comprendere la concreta volontà di Dio
“qui” e “ora”, grazie a un confronto quotidiano con la pagina della Scrittura,
con la tradizione delle Chiesa e con le acquisizioni del suo insegnamento
sociale, ma anche attraverso una pratica di preghiera, meditazione e
personalizzazione dell’invito alla sequela che Gesù ci ha rivolto, nonché con
una profonda e radicata competenza nell’àmbito profano in cui ciascuno di noi
si trova a operare.
Credo, infine, che coltivare una
ragionevole complementarietà tra la dimensione personale e quella sociale sia
un’opportunità di cui valersi con saggezza, onde scongiurare gli eccessi
contrapposti del liberismo radicale, che finisce per produrre la concentrazione
della ricchezza (e della proprietà) in pochissime mani, e del collettivismo di
stampo sovietico che porta agli eccessi che la storia purtroppo ci ha mostrato.
Tornando poi più direttamente
all’analisi della posizione espressa da don Beniamino sulle altre correnti di
pensiero di natura solidaristica, ritengo sia necessario fare comunque una distinzione
anche in riferimento a quelle componenti che, pur provenendo dalla matrice
marxista (comune alle tradizioni comuniste affermatesi in Russia, Cina,
Cambogia, Cuba, Corea, ecc.), hanno in tempi, modi e luoghi diversi maturato
prima un rifiuto della prospettiva rivoluzionaria e poi una progressiva
riconsiderazione e valorizzazione della proprietà privata. È il caso delle
diverse esperienze della socialdemocrazia europea, del socialismo occidentale
e, in epoca molto più recente, dello stesso movimento comunista europeo (ivi
compreso quello italiano). Credo che nei confronti dei movimenti storici sia
necessario saper applicare una strategìa dell’attenzione che comporti una
valutazione positiva delle evoluzioni verso posizioni di messa in discussione
di presupposti, prima ritenuti irrinunciabili, ma successivamente rivelatisi
non affidabili, con la conseguente ricerca e individuazione di valori
alternativi (magari prima combattuti od osteggiati). Ricordiamoci che in cielo
si fa più festa per un peccatore pentito che per cento giusti (cf. Lc. 15,7)[16].
Questo principio evangelico credo vada applicato anche in riferimento a
movimenti storici e di pensiero che nel corso del tempo maturano posizioni di
maggiore rispondenza rispetto alla considerazione della dignità e dei diritti
umani. Avrei invece una certa diffidenza per posizioni che, di fronte
all’evoluzione della storia e al dipanarsi di grandi trasformazioni sociali,
fanno fatìca ad aggiornare la propria visione e permangono arroccate su linee
di pensiero e d’azione che potevano essere giustificate in contesti pregressi.
C’è, in questo caso, una notevole somiglianza con il servo al quale il padrone
affidò un solo talento e che, anziché impiegarlo e renderlo proficuo, per
timore di perderlo, evitò di usarlo e lo nascose (cf. Mt. 25,14-30)[17].
Occorre, infine, operare una considerazione
storica. Dove e quando queste forze politiche e culturali d’ispirazione
solidaristica (considerate nel loro complesso) hanno goduto di una consistente
consenso popolare (per esempio nei paesi occidentali dagli anni ’50 agli anni
’80-’90) in concomitanza si è verificato un movimento massiccio di accesso alla
proprietà da parte di ceti sociali che in precedenza ne erano esclusi. Quando,
invece, dagli anni ’80, negli Stati Uniti d’America, e successivamente anche in
Europa, con il coagularsi del consenso sociale intorno a proposte politiche
d’ispirazione liberista, si è innescato un’inversione di tendenza che sta
portando, ed è purtroppo drammatica attualità, a un processo sempre più pervasivo
di concentrazione della ricchezza in pochissime mani.
8. Il caso
Italia.
Una posizione del tutto ingenerosa
viene poi sostenuta lungo tutto il libro nei confronti dell’esperienza
italiana. Certamente essendo immersi nella realtà del nostro paese non possiamo
non accorgerci delle tante ombre che gravano su di essa. Ma, allo stesso tempo,
occorre essere consapevoli della fondatezza del famoso proverbio popolare,
secondo il quale «il giardino del vicino è sempre più verde» e quindi è
essenziale condurre un’analisi obiettiva dell’esperienza storica dell’Italia
democratica. Dalla trattazione di don Beniamino emerge una critica molto forte
al processo di democratizzazione in Italia e un sostanziale rifiuto della
Costituzione repubblicana. Ciò emerge in modo evidente in due punti. In primo
luogo a p. 33 (nota n. 35), dove si legge «La Costituzione italiana fu
elaborata da un’Assemblea
parlamentare…» (corsivo mio); in
secondo luogo a p. 65 (nota 74), dove si rinviene la seguente espressione: «La
Costituzione repubblicana italiana era stata elaborata dalla cosiddetta Assemblea Costituente…» (anche qui il corsivo è mio). In questo
modo di utilizzare l’articolo indeterminativo una e di etichettare l’Assemblea Costituente come cosiddetta, emerge un chiaro
atteggiamento dispregiativo di un processo di aggregazione sociale che si è
svolto in una condizione di grande difficoltà per le condizioni di vita del
popolo italiano, appena uscito dalla guerra. Un processo che si è svolto nel
quadro di un itinerario democratico, dove il popolo italiano ha trovato indubbî
di solidarietà e di coesione interna per superare la grave situazione che aveva
davanti ai proprî occhî.
La Costituzione, frutto dei lavori
dell’Assemblea Costituente, è certamente un documento storico, a mio parere, di
grandissima rilevanza, ma come tale e come tutti i prodotti storici presenta
anche dei limiti. Ciò non deve impedire, però, di riconoscere il grande
significato del processo costituente. Un processo che ha permesso a un paese,
distrutto dall’esperienza della dittatura e dalla tragedia di una guerra
devastante, di trovare le ragioni e la strada per una pacificazione interna e
per un ancoraggio solido al mondo occidentale, ma anche di porre le premesse di
uno sviluppo economico che in pochi decennî ha poi portato l’Italia tra i paesi
maggiormente sviluppati. Uno sviluppo economico e culturale che, per aspetti
quantitativi e qualitativi, non trova possibilità alcuna di raffronto con altre
epoche storiche precedenti[18].
Ciò fu possibile in quanto nei lavori assembleari i padri costituenti seppero
tracciare un compromesso alto tra le principali componenti politico-culturali
del paese. In quelle circostanze ciascuna di queste componenti, ognuna a
proprio modo, seppe porre al centro gli interessi del paese, rispetto a quelli
di parte. Quella fu una lezione altissima di attenzione al bene comune del
paese, da cui forse oggi abbiamo non poco da imparare.
In un altro punto del volume di don
Beniamino (a p. 66, nota 76) la Costituzione viene si considerata un
compromesso, ma un compromesso non alto, ma sostanzialmente negativo, dove la
parte del leone sarebbe stata svolta dalle componenti social-comuniste. Si
legge, infatti, testualmente: «Si è sempre convenuto su come la Costituzione
italiana sia nata dal compromesso delle tre prevalenti culture politiche: il
personalismo cattolico, il progressismo delle sinistre e l’iniziativa liberale.
Si è parlato a volte di fusione delle tre visioni politiche; a volte di tre
anime della Costituzione. Ad ogni modo se anche tutto ciò fosse nato da un
inevitabile compromesso, la parte del leone evidentemente l’ha fatta
l’influenza socialista. Un’egemonia così forte, tanto da avere il sospetto che
la Costituzione nasca, sì, dall’incontro di tre anime, ma che esse siano quella
della sinistra cattolica dossettiana, quella della sinistra azionista
gobettiana e quella comunista gramsciana». Secondo l’opinione di don Beniamino,
per la parte cattolica, ricadrebbe sulla componente dossettiana la
responsabilità di aver accettato una piattaforma di accordo sostenuta da comunisti,
socialisti e azionisti, che ha poi prodotto la carta costituzionale, che, fatte
salve alcune modifiche successive, è, nella sostanza, quella che oggi noi
conosciamo.
Orbene, prescindendo dal fatto che la
carta costituzionale, lungi dall’inaugurare una sorta di via italiana ai Gulag,
è stata di fatto la premessa per un’esperienza di governo del partito
d’ispirazione cristiana durata alcuni decennî[19],
mi sembra alquanto ingenerosa la valutazione negativa della figura di Giuseppe
Dossetti. Questi in realtà è stato una delle figure più autorevoli
dell’Assemblea Costituente. Da cattolico ha animato con impegno sia i lavori
assembleari guadagnandosi la stima e l’apprezzamento di tutte le componenti, sia
l’attività politica dei primi anni della Democrazia Cristiana. Esaurita, poi,
la sua esperienza politica, lungi da ritagliarsi un, pur possibile, spazio
privato di vita agiata, ha operato la scelta della vita monastica, ritirandosi
nella comunità di Montesole (nei pressi di Bologna). Successivamente ha servito
la comunità ecclesiale come apprezzato esperto dell’assemblea conciliare. Dopo
il Concilio, e fino alla morte, non ha mai cessato la sua attività di
insegnamento etico-sociale. Dossetti, a mio personale parere, è un esempio
luminoso da proporre alle giovani generazioni, come alternativa di servizio
alla pratica consueta di politici tanto inamovibili, quanto gelosi custodi del
proprio status di uomini di potere.
9. Giorgio La
Pira, un complice delle atrocità dei Gulag?
Personalmente mi considero, sia pur
inadeguatamente, un allievo spirituale di Giorgio La Pira, figura luminosa di
laico cristiano che non ha avuto remore a impegnarsi totalmente nel trattare la
materia temporale, guadagnandosi grande rispetto da interlocutori cristiani e
non cristiani. Si può quindi comprendere la mia personale sorpresa e il
conseguente imbarazzo che ho avvertito nel leggere le considerazioni condotte
da don Beniamino a p. 56: «anche alcuni esperimenti di ingenua filantropia
hanno considerato la proprietà come un istituto da sradicare – anche se in
questo caso solo con la forza dei buoni propositi. Ma i risultati hanno solo
accelerato lo squilibrio di partenza. Così come i discepoli di Giorgio La Pira
(1904-1977), l’idealista sindaco di Firenze, che avevano deciso di eliminare le
porte dalle loro case. Senza nulla togliere alle buone intenzioni di costoro,
bisogna ricordare che la carità non è mai visionaria e chi l’ha praticata
costruttivamente per secoli e millenni non ha mai considerato l’uscio un
elemento di discriminazione o di avidità. Non c’è monastero in cui non ci si
sia attivati per la carità, ma è anche vero che non c’è monastero che non abbia
solide porte e possenti mura (spesso la carità veniva esercitata nel consentire
la sicurezza all’interno delle mura del monastero che, per l’occorrenza, doveva
anche fungere da fortezza e rifugio). La bizzarria dei discepoli di La Pira
sembra essere più vicina all’utopia, che ha condotto ai bagni senza porte dei
Gulag, che alla carità, che ha generato la sapienza dei monaci, robusta come le
porte dei loro monasteri».
Nell’analizzare l’esperienza di
Giorgio La Pira e del gruppo dei suoi amici e collaboratori, don Beniamino
traccia una sorta d’analogia tra l’invito (invito, si badi bene, e non obbligo
imposto dall’alto) a superare la logica dell’uscio chiuso e le tragiche e
drammatiche condizioni di vita dei Gulag. Una tale analogia appare del tutto
impropria in primo luogo perché non fondata su un’attenta ricostruzione storica
dell’esperienza dei cristiani fiorentini negli anni ’50. In effetti l’idea
guida (o slogan) dei cattolici fiorentini dell’uscio aperto era una proprosta politico-culturale che nasceva di
fronte ai rischî di anonimato, isolamento e disgregazione sociale che il gruppo
leggeva nei processi d’inurbamento nei nuovi rioni di edilizia economico-popolare
che in quegli anni venivano nascendo nella città toscana. Un’idea non astratta
né peregrina, né tantomeno calata dall’alto, ma strettamente legata a una consuetudine
ampiamente diffusa, forse da secoli, nelle campagne toscane anche a poca
distanza da Firenze. Una realtà quella delle campagne toscane, da cui
provenivano gran parte delle famiglie che via via andavano a popolare i nuovi
rioni fiorentini.
Grazie al fatto di aver avuto un
genitore toscano e uno napoletano ho avuto la fortuna, nella seconda metà degli
anni ’50 di trascorrere parte delle vacanze in un paesino agricolo in provincia
di Lucca, enclave “bianca” nella
“rossa” toscana. Ebbene nel paese di mio padre nessuno chiudeva l’uscio di
casa. In casa di mia nonna i vicini entravano senza bussare e senza chiedere
permesso. Ricordo che mia madre (napoletana) tentava di chiudere la porta e che
mia nonna (toscana) le faceva notare che la cosa avrebbe rischiato di offendere
i vicini e che comunque nessuno avrebbe mai rubato nulla. Il vicino di casa era
percepito come un componente di una cerchia familiare allargata. Ho visto con i
miei occhî il vicino di casa, in occasione di un improvviso temporale estivo,
porre al riparo le pannocchie poste al sole sull’aia di mia nonna
contemporaneamente alle proprie. Eppure si trattava di un contesto dove nessuno
si sognava nemmeno per burla di porre in dubbio il diritto di proprietà. Ho
avuto infatti più di un’opportunità di assistere, all’epoca, ad accese
discussioni tra i compaesani di mio padre su questioni riguardanti il rispetto
dei confini dei campi.
È a questo tipo di realtà che il
gruppo di La Pira guardava con la propria
proposta e con lo sforzo di creare nei rioni popolari forme di
aggregazione sociale e di partecipazione e di condivisione. Proponendo qualcosa
di ben conosciuto, e spesso apprezzato, dai destinatarî della proposta, che ne
verificavano l’assenza nella pratica di vita e ne provavano una sorta di nostalgìa.
E in ciò manifestavano una disponibilità alla sperimentazione e alla pratica
dell’iniziativa.
Era invece lontana mille miglia dalle
intenzioni e dagli obiettivi politici del gruppo porre in discussione il
principio della proprietà privata, profondamente condiviso dai promotori.
D’altronde la cosa non sarebbe stata condivisa dai destinatarî, culturalmente
partecipi della sana visione contadina della piccola proprietà. E, oggi, se a
oltre mezzo secolo di distanza possiamo valutare che se la periferìa urbana di
Firenze (quella costruita tra gli anni ’50 e i primi anni ’60) è stata meno
interessata da fenomeni di degrado sociale rispetto ad altre realtà comparabili
(penso, per esempio, alla non distante e dimensionalmente paragonabile
Bologna), un qualche merito è forse da ricondurre anche a quell’esperienza.
Sul piano dell’attenzione alla
proprietà non va infine dimenticato che l’amministrazione La Pira si distinse
in modo particolare per l’azione intesa a garantire l’accesso dei lavoratori
alla proprietà della casa. Nulla di più distante, dunque, dalla pratica
culturale e politica di La Pira e dei suoi collaboratori delle prospettive
sovietiche di eversione della proprietà privata e tantomeno della spietata
logica lageristica dei gulag.
In secondo luogo, l’analogìa impropria
tracciata da don Beniamino dovrebbe porre in guardia da un uso acritico della
comparazione sincronica. Raffrontare, senza le preventive precauzioni (operando
una preliminare, prudente, larga e necessaria tara degli inevitabili elementi
di differenziazione), realtà molto distanti geograficamente e culturalmente
(come è proprio il caso della nostra città toscana e della Russia sovietica),
espone al rischio reale e molto alto d’incorrere in deduzioni inesatte[20].
In terzo luogo ritengo che la
giustificata preoccupazione di prevenire sempre possibili derive dittatoriali
di stampo sovietico non debba tradursi in una sorta di atteggiamento ossessivo
che, se portato all’estremo, rischia di far perdere di vista la necessità di
analizzare realisticamente i fatti e di collocarli nel proprio specifico
contesto. Oggi nel secondo decennio del 21. sec. l’anticomunismo può facilmente
correre il rischio d’essere una pratica scontata (a dire il vero un po’ rétro), ma negli anni ’50, per uomini
come Giorgio La Pira, il confronto con i comunisti costituiva un impegno
quotidiano (ed erano i comunisti togliattiani, ancóra ampiamente influenzati e
condizionati, sul piano del pensiero e dall’azione, dalle ipoteche staliniane).
E questo in un’epoca in cui il confronto est-ovest era ancora in corso e il suo
esito era tutt’altro che scontato. L’esigente e intelligente confronto,
condotto su un alto profilo etico, da La Pira e dai suoi con gli ambienti
d’ispirazione comunista, ha contribuito non poco a far emergere in essi
personalità significative e di alto profilo umano. Tutto questo si è poi
tradotto in concreti beneficî per la comunità cittadina e, in quota-parte,
ritengo abbia anche contribuìto alla successiva evoluzione in senso democratico
del movimento comunista italiano.
10. Una
civiltà cristiana?
A p. 123, nell’àmbito di un capitolo
dedicato all’analisi del rapporto tra “Proprietà e civiltà”, incontro un
ripetuto riferimento al concetto di “Civiltà cristiana”. In un primo punto, in
riferimento a posizioni definite unilateralmente “pseudo-cristiane” e a
posizioni socialisteggianti, si legge «ciò vale sia per il giudizio verso la Civiltà cristiana, sia verso la libertà
economica, sia verso la ricchezza, la prosperità e, di riflesso, verso la
stessa economìa». Il discorso prosegue con l’affermazione: «potremmo dire che
il pregiudizio per la Civiltà cristiana
è in buona misura parallela al preconcetto verso la proprietà privata». Qualche
rigo dopo il concetto ritorna nuovamente allorché si dice: «Analogamente a ciò
che avviene con il pregiudizio verso la ricchezza e la prosperità che viene
coltivato parallelamente alla critica alla Civiltà
cristiana» [i corsivi sono miei].
Rispetto a queste affermazioni devo
dire che faccio una certa fatica a pensare al Cristianesimo come a una civiltà.
Il Cristianesimo è la fede in Gesù Cristo, figlio di Dio, incarnatosi nella
storia, morto e risorto per la salvezza di tutti gli uomini. Ed è questa fede che
noi siamo chiamati ad annunciare a tutti gli uomini, di ogni epoca, di ogni
luogo, di ogni cultura e di ogni civiltà
(cf. Mc. 16,15 e Mt. 28,19)[21]. In
Cristo, infatti, non c’è giudeo né greco (cf. Col. 3,11)[22].
La fede cristiana dunque non può essere una prerogativa esclusiva di una
singola civiltà umana, per quanto prestigiosa (ma non esente da limiti), qual è
quella occidentale[23].
La fede cristiana deve poter entrare
in relazione feconda con tutte le culture umane, parlare tutte le lingue del
mondo, per interpellare gli uomini di ogni luogo e di ogni epoca, attraverso i
percorsi dell’inculturazione. È l’evento della Pentecoste.
Questo non significa negare che la
civiltà occidentale sia stata e sia profondamente segnata dal cristianesimo.
Anzi proprio questo dato è il segno di un’inculturazione realizzata, con tante,
tantissime luci, ma anche con ombre, che non vanno né esorcizzate, né
sottaciute, ma analizzate in autentico spirito di verità. Proprio l’esperienza
occidentale dimostra, invece, una cosa: l’inculturazione, per la fede
cristiana, è un processo obbligato e possibile, che altri uomini di altra
cultura possono portare avanti (e che i cristiani di Africa, America Latina e
Oceania, con i tempi lunghi della storia, stanno in effetti realizzando),
seguendo sentieri proprî, con il vantaggio, prefigurato da Bernardo di Chartes,
di poter vedere più lontano perché posti dalla storia sulle spalle dei giganti
che ci hanno preceduto, la cui lezione la tradizione cristiana pone a loro e a
nostra disposizione.
L’errore che si deve evitare è invece
quello di etichettare come cristiane le realizzazioni umane. Non dobbiamo
convertire Dio alla realtà umana (i nazisti, per esempio, usavano lo slogan
“Gott mit uns”, che vuol dire “Dio con noi”), ma siamo noi uomini a essere
chiamati alla conversione a Dio. Ed è in forza della conversione che assumiamo
il compito di animare cristianamente le realtà temporali, impegnandoci in
progetti storici fianco a fianco con altri uomini, magari di altra fede, ma con
la luce che deriva dalla nostra speranza in Cristo Gesù.
11. L’attuale
crisi economica.
A questo punto avverto l’esigenza di
spendere alcune parole sul tema della lezione del 14 maggio scorso, che don
Beniamino ha dedicato all’analisi della grave crisi che stanno attraversando le
economie del mondo occidentale.
Nella sua esposizione don Beniamino[24]
ha analizzato tre aspetti che, a suo avviso, pongono in evidenza come
l’eccessivo peso della spesa pubblica, coartando le possibilità di sviluppo
dell’economìa, costituirebbe la vera e autentica causa della crisi economica. I
tre aspetti, posti in evidenza, sono stati sostanzialmente individuati: a)
nell'alto dèbito pubblico prodotto da un’eccessiva statalizzazione
dell’economìa; b) in una politica monetaria poco attenta a salvaguardare il
valore della moneta stessa, che è divenuta fattore stimolante dell’inflazione;
c) nell’eccessivo peso dell’imposizione fiscale. Sarebbe dunque necessario un
drastico taglio della spesa pubblica, che, liberando risorse, porrebbe
l’economìa nelle condizioni di recuperare competitività e di superare l’attuale
crisi.
Con un’analisi più accurata le cose,
tuttavìa, si dimostrano molto più complesse di quanto possano apparire da una
mera sovrapposizione di schemi teorici alla realtà dei fatti. Di certo gli
elementi posti in luce rivestono una loro rilevanza e il contenimento della
spesa pubblica, ma più ancora il controllo della sua finalizzazione, presenta
un indubbio riflesso sulla vitalità dell’economìa, anche se in termini molto
diversi da quelli proposti da don Beniamino[25].
L’aspetto che, invece, mi preme di non
trascurare è che l’analisi tracciata nella lezione da don Beniamino si colloca
per lo più sul piano delle singole economìe nazionali, ponendo in evidenza
aspetti che è giusto tenere in dèbita considerazione perché significativi
interventi nel loro àmbito (di natura molto diversa da quelle ventilate da don
Beniamino, se non si vogliono aggravare ulteriormente i fattori di crisi)
possono contribuire senz’altro alla fuoriuscita dalla crisi. Ma senza
l’individuazione delle sue reali cause, non è possibile indicare i rimedî reali
e veramente efficaci, e si può finire nel rendere inutili, inefficaci e, per
giunta, dannosi le misure meramente restrittive che la trattazione di don
Beniamino propone, pur prescindendo da accenni non tematizzati a nostalgìe
neoborboniche e ad auspicati scenarî di fallimento.
L’analisi meramente ancorata al piano
delle economìe nazionali non può pervenìre alla comprensione delle più
autentiche ragioni della crisi che è più propriamente sovranazionale e
coinvolge pressoché tutte le economìe del mondo occidentale, compresi i paesi
considerati economicamente più virtuosi[26].
Soffermarsi solo sugli aspetti afferenti al piano nazionale somiglia molto al
comportamento di chi, di fronte all’inondazione di una vallata, si preoccupa
solo dell’aspetto, pur necessario, della difesa delle singole abitazioni, senza
preoccuparsi delle cause effettive dell’inondazione.
Ciò precisato, mi sembra che non sia
stato investigato adeguatamente il ruolo giocato nella crisi dal fattore
dell’innovazione tecnologica, né quello della relazione di quest’ultima con il
progressivo esaurirsi delle risorse energetiche non rinnovabili e con i
problemi generali della sostenibilità planetaria dello sviluppo economico.
Se facciamo un’analisi rapidissima
delle caratteristiche dello sviluppo economico in occidente negli ultimi 80
anni, possiamo verificare come il mondo occidentale, e gli Stati Uniti
d’America in primis, ha operato due
grandi sforzi di crescita tecnologica che hanno determinato l’acquisizione di
un notevole vantaggio competitivo di cui ha beneficiato l'economìa negli anni
successivi.
Il primo e grande sforzo è avvenuto
prima e durante la seconda guerra mondiale. In tale periodo soprattutto gli
Stati Uniti d’America hanno operato una grandissima mobilitazione di energìe,
di risorse, di capitali (in gran parte pubblici) che ha permesso di
avvantaggiarsi in settori strategici, per l’epoca, della ricerca scientifica e
sul piano della capacità produttiva industriale, surclassando quella delle
potenze contrapposte. Ciò ha permesso agli Stati Uniti di conseguìre la
vittoria nel confronto bellico, ma anche di poter orientare la ricostruzione in
Europa e in Asia. Grazie a questo sforzo essi hanno ottenuto una posizione dominate
sul piano mondiale, che oltre a esprimersi in una capacità produttiva superiore
in termini quantitativi e qualitativi, si è tradotta anche in una riconosciuta
supremazìa culturale.
Negli anni ’50 e ’60 gli Stati Uniti
e, con essi, il mondo occidentale hanno, poi, dovuto sostenere il duro
confronto est-ovest. Un confronto davvero epocale, il cui èsito era in quegli
anni tutt’altro che scontato, basti pensare che sul piano della ricerca e su
quella spaziale in modo particolare, nel passaggio dagli anni ’50 ai ’60
l’Unione Sovietica appariva decisamente in vantaggio. Anche in quest’occasione,
grazie a una nuova mobilitazione di risorse, energìe e capacità, con un grande
rilievo del contributo pubblico, in particolare nel breve triennio della
presidenza Kennedy è stato operato un nuovo grande sforzo di ricerca che, con
l’impulso al programma spaziale, ha permesso agli Stati Uniti e all’occidente
di recuperare il ritardo e di sopravanzare sul piano tecnologico l’Unione
Sovietica. La Nuova frontiera
kennediana fu tuttavìa non solo un progetto tecnologico, ma anche una vera ‘e
propria alternativa culturale, che rese, pur nella comprensibile, varietà degli
orientamenti (anzi proprio grazie alla garanzìa democratica evidenziata da questa
differenziazione interna), l’America di Kennedy, Martin Luther King e Joan Baez un autentico faro di libertà
e di democrazìa per il mondo intero.
Il vantaggio tecnologico conseguìto in
quegli anni ha posto le premesse decisive per vincere nei decennî successivi il
confronto est-ovest, ma ha anche garantito al sistema occidentale di poter
godere di condizioni di particolare favore sul piano economico. Basti pensare
che tutte le acquisizioni tecnologiche sul terreno della comunicazione
satellitare, delle reti di comunicazione, della miniaturizzazione e della
computerizzazione hanno le loro radici in quegli anni.
Successivamente, quando si è compreso
che il confronto della guerra fredda era stato vinto e sostanzialmente
superato, e con il prevalere degli orientamenti liberisti è apparsa non più
necessaria una mobilitazione consistente sul piano tecnologico, di qui il
progressivo disimpegno dai programmi spaziali, dall’impegno pubblico nei
servizî alle persone e alla società civile, e la proposizione di modelli di
stato minimo, si è data libera mano ai processi di concentrazione della
ricchezza, di misconoscimento della funzione del lavoro e della cultura/conoscenza,
lasciando senza orientamento il complesso delle imprese di media e di piccola
dimensione, alle quali, alla fine, non è restata altra scelta per difendere o
recuperare competitività che imboccare la strada (per altro senz’uscita) della
compressione dei costi relativi al lavoro e alla qualità della produzione.
A sèguito di questa sintetica analisi
dovrebbe apparìre sufficientemente chiaro che per uscìre dalla crisi attuale
sarebbe necessario, in particolare per l’Unione Europea, anziché proporre
ulteriore compressione del lavoro, nuovi taglî alla cultura e alla ricerca, o
minacciare punizioni o espulsioni per paesi ritenuti, a torto, poco affidabili,
trovare nelle proprie ragioni costitutive i motivi e gli ideali per proporre ai
popoli di tutta Europa una credibile e generale mobilitazione di energìe,
risorse e capacità, per costruire finalmente l’unione politica, col superamento
di quella attuale meramente finanziaria, e per, innescare, grandi programmi di
ricerca scientifica di altissimo livello intesi a determinare un nuovo salto di
paradigma sul piano dell’innovazione tecnologica, magari nei campi della
ricerca finalizzata a un’attività economica autenticamente sostenibile, capace
di contribuìre alla salvaguardia della creazione, alla valorizzazione del patrimonio
culturale del continente e dei tesori di competenza presenti nei paesi
dell’Unione, offrendo in questi stessi paesi alti servizî alla dignità delle
persone.
12. L’insegnamento
sociale: coscienza critica dell’impegno laico.
A conclusione di queste mie
riflessioni vorrei sottolineare come sia normale che nella comunità ecclesiale si
diano credenti laici che possono essere impegnati su progetti storici diversi e
persino contrapposti, su cui essi rischiano in piena autonomìa il proprio
impegno, ma nei quali scelgono di far rifulgere la speranza cristiana che li
anima. Il magistero sociale della Chiesa costituisce allora il punto intorno al
quale le diversificate esperienze di impegno sociale dei cristiani si
confrontano e s’interpellano per rafforzare e far costantemente maturare le
ragioni e la qualità della testimonianza. La presenza dei cristiani negli
schieramenti politici e sociali (anche contrapposti) è infatti una garanzia
fondamentale per l’esercizio e la pratica, in ogni possibile contesto (anche
quelli più estremi), delle virtù della misericordia e dell’attenzione agli
esseri umani.
Di qui l’esigenza di operare una
riflessione sui drammatici e inèditi problemi che l’umanità del 21. sec. si
trova di fronte e con i quali deve fare i conti, nella convinzione, sulla scìa
della Gaudium et spes, che «le gioie
e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini (…), sono pure le gioie e
le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (GS. 1). Oggi
l’umanità è chiamata a sostenere la sfida per garantire la conservazione del
creato e per assicurare a tutti gli esseri condizioni dignitose di vita. Noi credenti,
siamo a nostra volta sfidati a essere fedeli amministratori della creazione e
solleciti rispetto alle necessità dei fratelli, e quindi chiamati a impegnarci,
fianco a fianco con altri uomini, in progetti concreti che si propongono,
magari in concorrenza e in alternativa, di dare risposte positive e concrete alle
due sfide innanzi richiamate, ricercando, semmai fino allo spasimo della
volontà e dell’intelletto, le vie e le ragioni per declinare le categorie
bibliche dell’alleanza e della promessa nell’àmbito della concreta realtà dei
nostri giorni.
(Sergio Sbragia)
Vico
Equense, domenica 3 giugno 2012
[1] – Le
definizioni di “cattolicesimo democratico” e di “cattolicesimo liberale” hanno
la funzione di identificare due grossi schieramenti (molto variegati al proprio
interno), di persone, di movimenti, di gruppi, di scuole di pensiero. Per
cattolicesimo democratico s’intende quindi uno schieramento che pone
prevalentemente l’accento sulla dignità della persona umana, il riconoscimento
dei diritti umani e la promozione della solidarietà sociale. Per cattolicesimo
liberale s’intende invece uno schieramento che accentua i valori del regolare
funzionamento del mercato e dell’efficienza economica, come effettiva premessa
al soddisfacimento del maggior numero di bisogni umani. Naturalmente l’uso
degli aggettivi “democratico” e “liberale” non riveste un carattere di
esclusività, ma solo la denotazione di un’attenzione prevalente. Fatta
eccezione di opposte posizioni di gruppi radicali, per quanto minoritarî, dire
“cattolicesimo democratico” non implica il misconoscimento del valore
dell’economia liberale, e, per contro, parlare, di “cattolicesimo libera–le”
non equivale alla negazione dei principî base delle società democratiche.
[2]
– «Ma io vi dico: amate i vostri nemici pregate per quelli che
vi perseguitano» (Mt 5,44).
«Ma a voi che ascoltate, io dico:
amate i vostri nemici, fate del bene a quelli
che vi odiano […] Amate invece i vostri nemici,
fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà
grande e sarete figlî dell’Altissimo» (Lc. 6,27.35a).
[3] – Tommaso : d’Aquino <santo>, Summa theologiae,
p. 1., q. 1., a. 9.
[4] – Bernardino Telesio, De rerum natura iuxta propria principia, 1565.
[5] – Joannes
Paulus <papa ; 2.>, Lettera enciclica Sollicitudo
rei socialis, n. 42, in «Il Regno – Documenti», , 43. (1988) 05, p. 144.
Né sarà da trascurare, in questo impegno per i
poveri, quella speciale forma di povertà che è la privazione dei diritti
fondamentali della persona, in particolare del diritto alla libertà religiosa e
del diritto, altresì, all'iniziativa economica (SRS. 42).
[6] –
Pontificio Consiglio della giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 326, Libreria
editrice vaticana, Città del Vaticano, 2004, p. 179-180.
Alla
luce della Rivelazione, l'attività economica va considerata e svolta come
risposta riconoscente alla vocazione che Dio riserva a ciascun uomo. Questi è posto nel giardino per coltivarlo e
custodirlo, usandone secondo limiti ben precisi (cfr. Gen 2,16-17),
nell'impegno di perfezionarlo (cfr. Gen 1,26-30; 2,15-16; Sap
9,2-3). Facendosi testimone della grandezza e della bontà del Creatore, l'uomo
cammina verso la pienezza della libertà a cui Dio lo chiama. Una buona
amministrazione dei doni ricevuti, anche dei doni materiali, è opera di
giustizia verso se stessi e verso gli altri uomini: ciò che si riceve va ben
usato, conservato, accresciuto, come insegna la parabola dei talenti (cfr. Mt
25,14-30; Lc 19,12-27).
L'attività
economica e il progresso materiale devono essere posti a servizio dell'uomo e
delle società; se ci si dedica ad essi con la fede, la speranza e la carità dei
discepoli di Cristo, anche l'economia e il progresso possono essere trasformati
in luoghi di salvezza e di santificazione; anche in questi ambiti è possibile
dare espressione ad un amore e ad una solidarietà più che umani e contribuire
alla crescita di una umanità nuova, che prefiguri il mondo dei tempi ultimi.
Gesù sintetizza tutta la Rivelazione chiedendo al credente di arricchire
davanti a Dio (cfr. Lc 12,21): anche l'economia è utile a questo
scopo, quando non tradisce la sua funzione di strumento per la crescita globale
dell'uomo e delle società, della qualità umana della vita (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 326).
[7] – Joannes
Paulus <papa ; 2.>, Lettera enciclica Centesimus
annus, n. 34, in «Il Regno – Documenti», 36. (1991) 11, p. 341.
Sembra che, tanto a livello delle singole
Nazioni quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le
risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavìa, vale solo per
quei bisogni che sono «solvibili», che dispongono di un potere d'acquisto, e
per quelle risorse che sono «vendibili», in grado di ottenere un prezzo
adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato.
È stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani
fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi
periscano. È, inoltre, necessario che questi uomini bisognosi siano aiutati ad acquisire
le conoscenze, ad entrare nel circolo delle interconnessioni, a sviluppare le
loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse. Prima ancora
della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia, che le
son proprie, esiste un qualcosa che è
dovuto all'uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità.
Questo qualcosa dovuto comporta
inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo
al bene comune dell'umanità.
Nei contesti di Terzo Mondo conservano la loro
validità (in certi casi è ancora un traguardo da raggiungere) proprio quegli
obiettivi indicati dalla Rerum
novarum, per evitare la riduzione del lavoro dell'uomo e dell'uomo
stesso al livello di una semplice merce: il salario sufficiente per la vita
della famiglia; le assicurazioni sociali per la vecchiaia e la disoccupazione;
la tutela adeguata delle condizioni di lavoro (CA. 34).
[8] – Joannes
Paulus <papa ; 2.>, Lettera enciclica Centesimus
annus, n. 34, in «Il Regno – Documenti», 36. (1991) 11, p. 343.
È compito dello Stato provvedere alla
difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l'ambiente naturale e
l'ambiente umano, la cui salvaguardia non può essere assicurata dai semplici
meccanismi di mercato. Come ai tempi del vecchio capitalismo lo Stato aveva il
dovere di difendere i diritti fondamentali del lavoro, così ora col nuovo
capitalismo esso e l'intera società hanno il dovere di difendere i beni collettivi che, tra l'altro, costituiscono la
cornice al cui interno soltanto è possibile per ciascuno conseguire legittimamente
i suoi fini individuali.
Si ritrova qui un nuovo limite del mercato: ci sono
bisogni collettivi e qualitativi che non possono essere soddisfatti mediante i
suoi meccanismi; ci sono esigenze umane importanti che sfuggono alla sua
logica; ci sono dei beni che, in base alla loro natura, non si possono e non si
debbono vendere e comprare. Certo, i meccanismi di mercato offrono sicuri
vantaggî: aiutano, tra l'altro, ad utilizzare meglio le risorse; favoriscono lo
scambio dei prodotti e, soprattutto, pongono al centro la volontà e le
preferenze della persona che nel contratto si incontrano con quelle di un'altra
persona. Tuttavìa, essi comportano il rischio di un'«idolatria» del mercato,
che ignora l'esistenza dei beni che, per loro natura, non sono né possono essere
semplici merci (CA. 40).
[9] –
Pontificio Consiglio della giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 347, Libreria
editrice vaticana, Città del Vaticano, 2004, p. 190-191.
Il libero mercato è un'istituzione
socialmente importante per la sua capacità di garantire risultati efficienti
nella produzione di beni e servizi. Storicamente,
il mercato ha dato prova di saper avviare e sostenere, nel lungo periodo, lo
sviluppo economico. Vi sono buone ragioni per ritenere che, in molte circostanze,
«il libero mercato sia lo strumento
più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni».
La dottrina sociale della Chiesa apprezza i sicuri vantaggî che i meccanismi del libero mercato offrono, sia per una
migliore utilizzazione delle risorse, sia per l'agevolazione dello scambio dei
prodotti; questi meccanismi, «soprattutto, pongono al centro la volontà e le
preferenze della persona che nel contratto si incontrano con quelle di un'altra
persona».
Un vero mercato concorrenziale è uno strumento
efficace per conseguire importanti obiettivi di giustizia: moderare
gli eccessi di profitto delle singole imprese; rispondere alle esigenze dei
consumatori; realizzare un migliore utilizzo e un risparmio delle risorse;
premiare gli sforzi imprenditoriali e l'abilità di innovazione; far circolare
l'informazione, in modo che sia davvero possibile confrontare e acquistare i
prodotti in un contesto di sana concorrenza (Compendio
della dottrina sociale della Chiesa, n. 347).
[10] – Concilio Ecumenico Vaticano <2. ; 1962-1965>, Tutti i documenti del Concilio : testo
italiano dei 16 documenti promulgati dal Concilio Ecumenico Vaticano 2.
conforme all'edizione tipica vaticana, 3. Ed., Unione cattolica insegnanti
medi, Roma; Massimo editrice, Milano, 1969, p. 216.
La proprietà e le altre forme di potere privato sui beni esteriori
contribuiscono alla espressione della persona e danno occasione all'uomo di
esercitare il suo responsabile apporto nella società e nella economia, è di
grande interesse favorire l'accesso degli individui o dei gruppi ad un certo
potere sui beni esterni (GS, 71).
[11] – Pius
<papa ; 9>, Lettera enciclica Quanta
cura e Sillabo dei principali errori
dell’età nostra, che son notati nelle allocuzioni concistoriali, nelle
encicliche e in altre lettere apostoliche del SS. Signor nostro papa Pio 9., 1864.
E mentre
ciò temerariamente affermano, non pensano e non considerano che essi predicano la
libertà della perdizione, e che «se alla umana persuasione sempre sia
libero il disputare, non mai potranno mancar quelli che ardiscono resistere
alla verità, e confidare nella loquacità dell’umana sapienza, mentre quanto la
cristiana fede e sapienza debba evitare questa nocevolissima vanità, lo conosce
dalla stessa instituzione del Signor Nostro Gesù Cristo» (Quanta cura). [corsivo mio].
[12] – Don
Beniamino formula questa indicazione metodologica nel delineare la propria
visione della relazione tra proprietà privata e bene comune. Personalmente
condivido questa impostazione, fondata sul riconoscimento della complessità del
reale. Anche se la complessità del reale è una caratteristica che è necessario
avere in dèbito conto anche quando si affrontano altri problemi (rapporti proprietà-lavoro,
proprietà-diritti umani, proprietà-cultura, proprietà-socialità, proprietà
pubblica e proprietà privata, lavoro privato e lavoro pubblico, ecc.). A mio
parere, tuttavìa, si tratta di un’acquisizione di sapienza umana, ampiamente
condivisa dalla speculazione teologica cristiana. Un po’ fantasioso mi appare
invece lo sforzo di targare cristianamente quest’indicazione. Sia perché la
chiamata che Gesù fa a ciascuno di noi è un autentico «aut - aut» (“Se vuoi,
lascia tutto e sèguimi” – Mt. 19,21; oppure “Non potete servire Dio e la ricchezza”
– Mt. 6,24), sia perché la presenza delle nature umana e divina in Gesù Cristo
non è interpretabile con un semplicistico “et – et”, come insegna il Concilio
di Calcedonia (“Insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio: il
Signore nostro Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, uno e medesimo Cristo Signore
unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili,
indivise, inseparabili, essendo stata salvaguardata la proprietà
di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; Egli
non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, Verbo
e Signore Gesù Cristo). Più ispirata all’”et – et” sembrerebbe la posizione
nestoriana.
[13] – L. von
Mises, Politica economica : Riflessioni
per oggi e per domani, LiberiLibri, Macerata, 2007, p. 7 (titolo originale:
Economic Policy : Thoughts for Today and
Tomorrow).
[14] – Penso,
per esempio, a un’inedita funzione che si rivela sempre più necessario che
venga declinata sul piano mondiale, accanto al controllo della sostenibilità
climatico-ambientale e della proliferazione degli armamenti atomici, batteriologici
e chimici. È il caso della regolamentazione mondiale dell’attività finanziaria,
come autorevolmente proposto dal documento del Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Per una riforma
del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di
un’autorità pubblica a competenza universale, Città del Vaticano, 2011.
[15] – A dire
il vero non il solo Marx è vittima dello zelo eccessivo di epigoni di spessore
etico e culturale decisamente mediocre. Qualcosa di analogo, fatte del dèbite
proporzioni, è toccato nel nostro paese al prof. Marco Biagi, studioso di
problematiche di sociologia del lavoro e in particolare autore di proposte per
la valorizzazione delle potenzialità produttive del lavoro. Ebbene, dopo la sua
morte, epigoni di discutibile levatura politica hanno preteso di ancorare alla
sua figura proposte e azioni politiche (finanche una legge, che con una buona
dose di scorrettezza è stata etichettata col suo nome) che, se esaminate a
fondo, si dimostrano molto lontane dalla lezione del defunto prof. Biagi.
[16] – «Io vi
dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più
che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (Lc.
15,7).
[17]
– «Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi
servi e consegnò loro i suoi beni. Avverrà infatti come a
un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i
suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo
le capacità di ciascuno; poi partì. Sùbito colui che aveva ricevuto cinque
talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne
aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un
solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo
padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i
conti con loro. Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò
altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco,
ne ho guadagnati altri cinque". "Bene, servo buono e fedele - gli
disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto;
prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò poi colui che aveva
ricevuto due talenti e disse: "Signore, mi hai consegnato due talenti;
ecco, ne ho guadagnati altri due". "Bene, servo buono e fedele - gli
disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto;
prendi parte alla gioia del tuo padrone". Si presentò infine anche colui
che aveva ricevuto un solo talento e disse: "Signore, so che sei un uomo
duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto
paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è
tuo". Il padrone gli rispose: "Servo malvagio e pigro, tu sapevi che
mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare
il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse.
Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a
chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto
anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà
pianto e stridore di denti"» (Mt. 25,14-30).
[18] – A
questo proposito non sembra fondata l’obiezione che talora vien fatta da sponda
liberista, con il ricorso all’argomentazione del “nonostante”. È questa una
posizione che punta a sostenere che l’economia per propria intrinseca vitalità,
nell’Italia del dopoguerra, si è sviluppata nonostante i limiti e i
condizionamenti posti dal processo costituente e da una supposta invadenza
statalista. Anzi, secondo i sostenitori, di tale linea di pensiero lo sviluppo
economico italiano sarebbe stato senz’altro maggiore se il paese non avesse
dovuto soffrire i limiti di tali condizionamenti. Questa posizione tuttavìa è
una pura ipotesi teorica, che non può essere corroborata da una verifica
storica. La storia testimonia, invece, che l’Italia del dopoguerra ha
sperimentato un serio processo costituente, un proprio itinerario di
democratizzazione, un protagonismo dello stato nel delineare un quadro di
servizî pubblici e nel dispiegare un certo protagonismo in campo economico.
Tutto ciò ha convissuto, in forma complementare, con uno sviluppo senza precedenti
della proprietà privata, dell’economia nazionale e della ricchezza diffusa tra
i cittadini. Con tutta probabilità ne è stato anche significativo fattore di
stimolo. Ipotesi su eventuali caratteristiche di scenarî alternativi sono un
mero esercizio di fantasia, che non può essere ragionevolmente provato.
[19] –
Un’esperienza di governo che negli anni ’50 e ’60 ha avuto indubbî connotati di
positività e che, invece, ha subìto un processo di involuzione e decadimento
negli anni ’70 e ’80, per una grave scissione tra la piattaforma ideale e valoriale
di riferimento e la concreta pratica della gestione politica.
[20]
– Ovviamente ciò non implica che un confronto sincronico non possa essere
condotto. Può essere operato, e come! Occorre però molta prudenza considerando
analiticamente gli elementi di differenziazione, i contesti culturali, i punti
di partenza, le vocazioni produttive e operative delle comunità interessate, i
processi storici che le hanno interessate e innervate (certo anche queste
dimensioni potrebbero essere oggetto d’intervento, ma ciò porrebbe la necessità
di massicce dosi di dirigismo, che mi sembra – e qui lo condivido – proprio
l’elemento che don Beniamino tiene maggiormente a scongiurare). D’altronde
anch’io solo qualche rigo fa ho tracciato un confronto sincronico (quello tra
le aree urbane di Firenze e Bologna). Nel delinearlo ho, tuttavìa,
accuratamente evitato il raffronto sia con le metropoli del nord (penso, per
esempio, a realtà come quelle di Milano e Torino), sia con quelle del centro,
del sud e delle isole (come sarebbe il caso di Roma, Napoli, Palermo). Troppo
diversi i contesti, come anche la storia, le condizioni di partenza e le stesse
dimensioni. Il confronto sarebbe stato privo di ragionevoli premesse
metodologiche. Molto più affidabile, a mio parere, il confronto diacronico. La
comparazione tra diverse fasi storiche vissute permette in forma molto più
affidabile di valutare elementi di progresso o di regresso. Analizzando la
storia di una comunità, una città, una regione, un paese è possibile con una
maggiore attendibilità stabilire quando si è registrata un’acquisizione o
quando si è subìta una perdita.
[21]
– «E disse loro: "Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni
creatura”» (Mc. 16,15).
«Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli,
battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt.
28,19).
[22] – « Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita,
schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col. 3,11).
[23] – Né mi
sembra percorribile la strada di definire come non afferenti alla civiltà
occidentale, i fenomeni degenerativi più biechi quali il nazismo. Quanto leggo a p. 117 [“Il
nazionalsocialismo (o «nazismo») quindi – ecco l’esempio – pur essendosi
sviluppato in Europa, ne ha radicalmente rinnegato le radici, tanto che si
presenta non come il figlio, ma l’assassino dell’Occidente”], mi dà
l’impressione di una sorta di autoassoluzione. In effetti, l’esperienza nazista
si è verificata proprio in Europa, non certo in Papuasia, e in Europa ha
trovato le radici politiche e culturali, nonché l’ampio consenso di fatto dei
ceti proprietarî tedeschi. Così come i ceti proprietarî italiani, portoghesi,
greci, spagnoli, cileni, argentini, hanno fornìto consenso effettivo alle
dittature che nel secolo scorso si sono imposte in questi paesi. Il tutto a
testimonianza che la proprietà è, sì, un valore, ma non deve assumere un ruolo
esclusivo, va sempre declinato in forma complementare con altri valori
altrettanto significativi, quali il lavoro, la cultura, la libertà. Di tremende
realtà quali il nazismo, noi europei purtroppo portiamo la responsabilità
rispetto alle altre civiltà e alle altre culture, una responsabilità di
carattere storico che non possiamo esorcizzare con scorciatoie
intellettualistiche.
[24] – Spero
di essere fedele nella mia sintesi della lezione, che naturalmente non fa
riferimento a un testo scritto, ma solo a miei appunti e ricordi e presuppone
che io abbia fedelmente compreso il senso del pensiero esposto nel corso della
lezione. Mi scuso ovviamente per eventuali mie errate interpretazioni, che sono
naturalmente da ricondurre a un’involontaria non immediata comprensione di quanto
detto in quell’occasione.
[25]
– Limiti di tempo e di spazio mi impediscono di affrontare in dettaglio temi,
pur trattati da don Beniamino, quali il rapporto tra proprietà pubblica e
proprietà privata, tassazione, produttività del lavoro pubblico, valore
dell’edilizia economico-popolare, corretta tenuta e manutenzione ordinaria e
straordinaria degli immobili in affitto, presentazione idealizzata e poco
realistica dell’impresa privata (che non necessariamente e sempre è sinonimo
scontato di efficienza e produttività), composizione e significato del dèbito
pubblico, funzione dei servizî pubblici.
[26]
– L’attuale crisi economica non è una prerogativa esclusiva della Grecia, del
Portogallo, dell’Irlanda, della Spagna, o della nostra stessa Italia (e mi
sembra del tutto impropria la dispregiativa utilizzazione dell’acronimo PIGS per additare al pubblico discredito
alcuni dei paesi europei, che di certo risultano più vulnerabili ai venti della
crisi, ma che, pur avendo delle indiscutibili responsabilità in proposito, non
sono gli unici né i principali responsabili della crisi in atto).
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